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Ontologie problematiche: quali tipi di carne coltivata sarebbe moralmente scorretto produrre e mangiare?

Autore


Ludovica Lorusso

Università degli Studi di Sassari

Ludovica Lorusso è docente di Logica e Filosofia della Scienza presso il Dipartimento di Storia, scienze dell'uomo e della formazione, Università degli Studi di Sassari

Indice


  1. Introduzione
  2. Carne coltivata di animali domestici
  3. Carne coltivata umana
  4. Carne coltivata di animali estinti o in via d’estinzione
  5. Conclusioni

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S&F_n. 31_2024

Abstract


Problematic Ontologies: Which Types of Cultivated Meat Would Be Morally Wrong to Produce and Eat?

The technology of cultivating cells from a donor animal biopsy makes it possible to consume meat without any creature having been killed in the process. Assuming that there are no valid moral arguments against this type of food practice, in this paper I ask whether specific types of cultivated meat production and consumption may legitimately raise moral concerns of a particular nature. Three cases are focused on: 1) human cultivated meat; 2) cultivated meat of domestic animals and 3) cultivated meat of extinct or endangered animals. The result of the investigation is that, contrary to appearances, none of these three cases is capable of raising moral problems that are peculiar and additional to those that might possibly concern cultivated meat in general.

 

 

  1. Introduzione

La possibilità di produrre carne coltivata a partire da una semplice biopsia effettuata su un animale è già realtà, al di là della necessità di adeguare gli ordinamenti giuridici e gli impianti normativi (per i paesi che vorranno farlo) e di approvare le specifiche tecnologie, molte delle quali promettono di essere facilmente scalabili. Ciò significa che presto, in molti paesi del mondo, le persone potranno mangiare cibi a base di carne senza che vi sia stata la necessità di uccidere alcun animale.

Secondo alcuni, questo scenario – che comporta la separazione definitiva fra meat e flesh – libererà il consumo di carne da qualsiasi problema etico. Dopotutto, il principale problema etico legato al mangiar carne è sempre stato che qualche animale dovesse morire – e dovesse essere allevato allo scopo di morire per fornirci carne. Senza questa esigenza, assumendo che gli animali in questione vivranno un’esistenza caratterizzata da un sufficiente livello di benessere, quale residuo problema etico potrebbe esserci nel consumo di carne coltivata?

In questo paper, mi chiedo se sussistano problemi etici nella produzione e nel consumo scalabile di carne coltivata. Assumerò che la produzione di carne coltivata bovina, suina o ovina originata da una biopsia indolore effettuata su animali che vivono in condizioni di benessere più che minimale, e che non vengono uccisi ma terminano la propria esistenza naturalmente, non ponga problemi etici. Ma potrebbero sorgere perplessità etiche in conseguenza della diversificazione e della moltiplicazione della tipologia di carne coltivata producibile? Potrebbero esserci altre carni che sarebbe immorale produrre e consumare? Analizzerò tre tipi di carne coltivata, da quella apparentemente più problematica a quella apparentemente meno problematica dal punto di vista morale.

La prima tipologia di carne coltivata che esamino è la carne umana. Vi sarebbe qualcosa di male a produrne e a consumarne? Un primo punto etico sarebbe la produzione senza il consenso informato del soggetto su cui viene effettuato il prelievo. Un secondo punto etico sarebbe il consumo inconsapevole. Ma superati questi due problemi, cosa resta di eticamente problematico nel consumo di carne umana privo di vittime? Se una persona consumasse sistematicamente carne coltivata a partire da prelievi effettuati su sé stessa, vi sarebbe qualcosa di male, al netto dell’assenza di ricadute sulla salute? Se ne offrisse ai propri familiari, tutti debitamente informati?

Una seconda tipologia di casi è quella della produzione e del consumo di carne coltivata derivante da biopsie effettuate su animali domestici, come cani o gatti. Vi sarebbero gli estremi per opporsi a questa pratica? Se il padrone di un animale ribattesse che, tutto sommato, fra mangiare cellule del suo Fido e cellule di una pecora anonima, egli preferisce nutrirsi di cellule del suo animale da compagnia, cosa potremmo rispondergli? Dovremmo impedirgli di fare ciò che preferisce? Perché?

Una terza famiglia di problemi, infine, deriva dalla prospettiva di carni coltivate non tradizionali. Cosa dovremmo pensare nel caso di consumo di animali in via d’estinzione, come la tigre, o di animali estinti, come il mammut? Esisterebbero delle basi morali per criticare, e perfino per vietare, questi usi?

 

  1. Carne coltivata umana

La nuova tecnologia di coltivazione di carne apre la strada alla possibilità di coltivare bizzarri tipi di carne come quella umana, ponendoci di fronte ad eventuali problemi morali relativi ad una forma di cannibalismo senza vittime.[1] In un recente articolo di Marco Locarno sul consumo di carne umana coltivata,[2] l’autore immagina che sia servito un hamburger fatto di carne umana coltivata a un gruppo di commensali e sostiene che la maggior parte di loro proverebbe disgusto e si rifiuterebbe di consumare l’hamburger in questione. D’altra parte il cannibalismo è un tabù quasi universale nelle società contemporanee ed è pertanto abbastanza scontato che la maggior parte di noi proverebbe una certa repulsione all’idea di mangiare un hamburger fatto di carne umana. Partendo da questo sentimento di disgusto e repulsione, ci dice Locarno, dovremmo intuire che esiste una differenza moralmente rilevante fra consumo di carne coltivata non-umana e consumo di carne coltivata umana. Leon Kass, ad esempio, ha sostenuto quella che lui chiama la “saggezza della ripugnanza”:[3] seguendo tale saggezza innata e irrazionale noi umani (la maggior parte di noi, ovviamente) proviamo istintivamente una potente reazione di disgusto per alcune cose come l’incesto, il sesso con gli animali, lo stupro, l’omicidio e il cannibalismo, appunto, e non inchinarsi a tale saggezza sarebbe profondamente folle. Per Kass, in altre parole, la ripugnanza verso il consumo di carne umana, anche se non si tratta di un vero e proprio argomento contro il consumo di questo tipo di carne, dovrebbe metterci in guardia: la ripugnanza ci dovrebbe spingere a ‘non trasgredire qualcosa di indicibilmente profondo’.[4] Ma la domanda che va immediatamente posta è quanto sia effettivamente importante il disgusto nella valutazione della moralità di un’azione, ovvero se sia opportuno porre il disgusto come segnalatore fallibile o infallibile di immoralità. Da questo punto di vista, si può sostenere che è doveroso porre i disgusti, anche quelli comuni a molte persone, alla prova della ragione, poiché alcuni disgusti non resistono alla prova della ragione e non dovrebbero essere interpretati come segno indiscusso di immoralità. Alcune persone provano disgusti a cui ritengono doveroso ribellarsi - per esempio, disgusti che li portano ad essere contrari alle relazioni interrazziali o omosessuali. Quindi, anche dando per assunto il dato secondo cui la maggior parte di noi proverebbe disgusto di fronte all’hamburger evocato da Locarno, non siamo ancora in presenza di un argomento morale contro di esso.

Locarno sostiene che il consumo di carne umana coltivata non sia giustificabile da un punto di vista morale né in un’ottica deontologica né in un’ottica consequenzialista. Guardando alle differenze tra cannibalismo tradizionale e consumo di carne umana coltivata, vediamo che nel cannibalismo tradizionale è quasi sempre presente una modalità violenta di ottenere la carne umana, e quindi un atto sommamente dannoso e ingiusto verso una persona, mentre nel caso della carne umana coltivata ottenuta mediante una biopsia volontaria la modalità di procura non può essere ritenuta una violenza a pieno titolo, altrimenti anche le donazioni di midollo osseo e di sangue andrebbero ripensate da un punto di vista etico. Tuttavia, sostiene Locarno, l’azione di donare il midollo osseo o il sangue ha un valore etico indiscutibile che controbilancia e surclassa la seppur trascurabile quota di violenza dell’azione stessa; nel caso della biopsia finalizzata al consumo di carne umana, invece, siamo sicuri che possiamo giustificare la violazione dell’integrità corporea e la sofferenza inflitta dal prelievo? Secondo Locarno, no. Il consumo di carne umana non è un’azione “buona” come è invece la donazione. Anzi, adottando un approccio puramente deontologico, a suo giudizio non possiamo giustificare la biopsia nel caso del consumo di carne umana coltivata, perché mangiare carne umana è qualcosa di intrinsecamente sbagliato.

A parere di G. Owen Schaefer e Julian Savulescu,[5] il consumo di carne umana coltivata non andrebbe incontro ai problemi morali del cannibalismo tradizionale, perché non comporterebbe né un atto di violenza vera e propria verso il donatore né quella mancanza di rispetto implicata dalla profanazione di un cadavere umano. Secondo Locarno, invece, l’atto di cibarsi di carne umana è sempre sbagliato perché è un atto che di per sé va contro il nostro senso fondamentale di umanità, anche se non comporta violenza intensa o non consensuale e neanche profanazione del cadavere. Ma in questo modo torniamo all’idolatria del disgusto o del tabù come dispensatore incontrovertibile di immoralità - una posizione che risulta chiaramente fallace, come detto.

L’atto di nutrirsi di carne umana è percepito come qualcosa di moralmente sbagliato nella nostra cultura perché nella nostra cultura il cannibalismo è sempre stato un atto violento e profanatorio, senza considerare i motivi igienici che senza dubbio hanno contribuito a svilupparne il tabù.[6] Tuttavia, la cultura e in particolare i nostri valori morali evolvono anche in funzione delle nuove tecnologie che la scienza rende praticabili nella nostra società. La mera possibilità di separare sistematicamente consumo di carne umana da violenza, uccisione, assenza di consenso o danno postumo potrebbe spingere anche un sostenitore del deontologismo a rivedere l'inviolabilità della regola morale che condanna sempre il consumo di carne umana. È difficile sostenere che esistano valori etici immutabili e indipendenti dalla cultura, la società e la tecnologia in cui viviamo. Potrebbe certo permanere il problema di salute pubblica derivante da una risposta negativa o dubitativa alla domanda se sia o no sano nutrirsi di carne umana. In questo caso potremmo sostenere che ognuno è libero di mangiare ciò che vuole e di seguire una dieta non salutare purché non nuocia agli altri, oppure potremmo voler adottare, come suggerito da Michiel Korthals,[7] un approccio paternalistico e far sì che i governi raccomandino uno standard minimo di salute, rendendo più facile per le persone vivere in un modo sano e più difficile vivere in un modo non sano. Comunque, secondo Korthals, questa pratica di governo non andrebbe a distorcere l’autonomia nella scelta del cibo, poiché “prescrivere o raccomandare uno standard minimo è differente dal prescrivere un'intera dieta per un individuo”.[8]

Seguendo l’approccio deontologico, Locarno sostiene che nutrirsi di carne umana è in sé un atto contro la nostra umanità, contro la connessione con ciò che è umano. Usando le parole di Locarno, mangiando carne umana neghiamo l’individualità del donatore, infrangiamo la sua umanità ed essendo ogni individuo un simulacro dell’umanità, degradiamo con questo gesto tutta l’umanità. Non importa quanto sia piccola la parte che del donatore distruggiamo: infrangeremo comunque la sua umanità.[9] Riferendosi ad un argomento simile proposto da Frederick Ferré[10] sul cannibalismo tradizionale, che vede il cannibalismo come un atto che manca di rispetto all’essere umano e alla sua fondamentale umanità, Schaefer e Savulescu[11] sottolineano, diversamente da Locarno, che l’argomento non si può applicare alla carne umana coltivata, per il semplice fatto che in questo caso non c’è un essere umano coinvolto nel processo a cui mancare di rispetto. Nessun essere umano in questo caso viene utilizzato come carne e una volta che è stato dato il consenso, non c’è ragione di preoccuparsi che il donatore sia trattato irrispettosamente. Anche secondo Josh Milburn[12], sebbene ci siano delle ragioni morali per obiettare al cannibalismo tradizionale, queste non si estendono al consumo di carne coltivata.

Inoltre, possiamo vedere che questo tipo di approccio deontologico alla condanna morale del consumo di carne umana coltivata, se non è accompagnato anche da un’analoga posizione riguardo alla carne animale coltivata, si fonda implicitamente sulla dicotomia uomo-animale secondo cui l’essere umano avrebbe uno status morale del tutto diverso da quello dell’animale non umano. Ma è esattamente questa dicotomia uomo-animale propria dell’etica carnista che stanno cercando di contrastare coloro i quali promuovono il consumo di carne coltivata, equiparando gli animali non umani agli animali umani dal punto di vista del riconoscimento dell’individualità, della rilevanza della sofferenza che provano e del benessere a cui hanno diritto nel corso della vita. In quest’ottica, mettere sullo stesso piano morale il consumo di carne coltivata animale e umana diventa parte dell’accettazione dei valori etici che stanno alla base del movimento culturale che si oppone all’ideologia carnista, e pertanto non impedire il consumo di carne coltivata umana (laddove non venga impedito quello di carne coltivata non umana) ha un significato eticamente carico, quello secondo cui gli animali non umani hanno gli stessi diritti di quelli umani. Anzi, se prendiamo in considerazione la biopsia che è necessaria per poter effettuare la coltura, una differenza resta comunque: è possibile fissare per la biopsia su un essere umano il requisito del consenso informato, che per quella sull’animale non umano non è praticabile, per cui a parità di altre condizioni il consumo di carne umana coltivata avrebbe comunque una maggiore accettabilità dal punto di vista morale.

Anche utilizzando una cornice etica consequenzialista dovremmo, secondo Locarno, eliminare il consumo di carne umana coltivata, visto che esistono delle conseguenze possibili preoccupanti. Consumandola, ci dice Locarno, potremmo sviluppare la curiosità di assaggiare la carne umana “naturale” per sapere che sapore ha. Inoltre, la carne di personaggi famosi potrebbe essere venduta al mercato nero attraverso una circolazione illegale di cellule; si favorirebbe il furto di identità, poiché la carne di qualcuno potrebbe essere facilmente messa sul luogo di un crimine; ci sarebbe un aumento della discriminazione di genere, etnia, età dovuto alla percezione di una qualità diversa di certe carni piuttosto che altre; si instaurerebbe, infine, un nuovo tipo di discriminazione basata sulla preferibilità di certe carni coltivate che avrebbero sul mercato un prezzo più alto.

Sul primo punto, quello delle possibili degenerazioni a cascata, va detto che la disponibilità di carne coltivata potrebbe attenuarle anziché rafforzarle e moltiplicarle, così come è stato mostrato accadere per il consumo della marujiana dopo la sua legalizzazione negli USA.[13] Per quanto riguarda il furto di identità, questo è già possibile con frammenti di pelle o capelli, e non c’è bisogno della carne coltivata per effettuarlo. Anche l’argomento della discriminazione appare debole, poiché molte delle tecnologie oggi in uso possono avere l’effetto collaterale di causare problemi di discriminazione se utilizzate in alcuni modi, ma questo non è un motivo sufficiente per abolirle, ed è piuttosto una ragione per utilizzarle in modo non discriminatorio ed eventualmente per regolamentarle; il problema è che esiste la discriminazione e non che le persone che discriminano potrebbero trovare nuovi modi per farlo - sono i comportamenti discriminatori che vanno perseguti, non le tecnologie che questi comportamenti cavalcano.

Nel seguire l’approccio consequenzialista, Locarno fa uso dell’argomento dello slippery slope. Potremmo obiettare però che tale argomento è un’arma che può essere utilizzata per fermare qualsiasi innovazione tecnologica, compresa la produzione della carne coltivata, e in generale ogni nuova tecnologia che ci porterà nuove sfide etiche. Seguendo questo argomento, infatti, il timore di dover affrontare nuove sfide etiche ci porterebbe ad un immobilismo tecnologico, ad escludere pressoché ogni tipo di tecnologie nuove dalla nostra società (si pensi a OGM, editing genomico, IA) e questo non sarebbe un bene per l’umanità. Si può pertanto concludere che la produzione e il consumo di carne umana coltivata non apporti nuove problematiche etiche rispetto a quelle che già dobbiamo affrontare nel caso della carne animale coltivata. Anzi, grazie al consenso informato del donatore, come già detto, essa guadagnerebbe anche una maggiore accettabilità dal punto di vista morale. A fortiori dovrebbe essere consentito mangiare anche la propria carne, al netto dell’assenza di ricadute sulla salute.

Per concludere, in assenza di atti che comportano violenza e/o profanazione di un corpo umano, resta solo il disgusto che certe persone proverebbero nei confronti di chi ha deciso di gustare la carne umana; ma il disgusto o la disapprovazione (morale) non fondati su argomenti non dovrebbero mai essere ragioni per considerare immorale quell’azione nel contesto pubblico di un divieto legale. Il disgusto sulla carne umana coltivata deriva dal disgusto sulla carne umana tradizionale, ma mentre vi sono buone ragioni morali per opporsi alla seconda, non ve ne sono sulla prima, soprattutto quando la biopsia sia pienamente volontaria.

Molti provano disgusto verso tutta la carne coltivata, umana e non umana, e nessun disgusto verso la carne non umana tradizionale. Ma a ben vedere, tra il consumo di carne non umana tradizionale e quello di carne coltivata (non umana ma anche umana), andrebbe considerato immorale molto di più, e perfino definitivamente e soltanto, il primo. Se sono immorali, comunque, il consumo di carne non umana e umana tradizionale e la pratica della tauromachia sono immorali non perché eventualmente molta gente provi disgusto verso chi le pratica o ne trae piacere (di fatto questo non accade, anche se il disgusto su questi fronti è in aumento), ma perché causano una enorme sofferenza.

 

  1. Carne coltivata di animali domestici

Esistono problemi etici nel produrre e consumare delle bistecche che vengono dal proprio gatto Micio o il proprio cane Bau? I problemi etici potrebbero essere analoghi a quelli considerati riguardo al consumo di carne umana e in generale al consumo di carni che per motivi culturali non sono considerate come carni da mangiare. In questo caso ovviamente il tabù non sarebbe universale come per la carne umana, visto che in Asia orientale e in Oceania la carne di cane tradizionalmente prodotta viene consumata tranquillamente e lo stesso vale per la carne di gatto in alcuni paesi dell’estremo Oriente. Sarebbe corretto portare come argomento contro la coltivazione della carne di animali domestici un tabù che peraltro è solo occidentale?

Come abbiamo detto per la carne umana, il fatto che molte persone troverebbero strano o addirittura disgustoso mangiare carne di animali domestici non è sufficiente a rendere l’atto immorale, tanto più che questo particolare tabù si fonda sulla dicotomia tipica dell’ideologia carnista tra animali commestibili e animali non commestibili, ovvero animali domestici come cani e gatti. Un’ideologia vegana che si oppone all’ideologia carnista è contro ogni tipo di divisione su basi culturali, visto che ciò che conta per un vegano è la sofferenza e il benessere dell’animale, di ogni animale. Per un vegano, ogni animale dovrebbe avere gli stessi diritti, da quello domestico a quello considerato “mangiabile”. È chiaro che la suddivisione in animali allevabili e macellabili, da una parte, e animali domestici, dall’altra, è una suddivisione assolutamente arbitraria e ipocrita, che fa parte della propaganda carnista la quale cerca di persuadere il consumatore di carne che non sta facendo niente di male a mangiare una bella bistecca, perché è un atto assolutamente “naturale”, normale e condiviso; per contro, sarebbe strano e “innaturale” mangiare un gatto siamese in umido o delle cotolette fritte di alano. L’ideologia carnista ha sviluppato questa dicotomia proprio per farci percepire come pienamente giustificabile il consumo di carne allevata, esattamente così come nel linguaggio anglosassone esistono per alcuni animali due termini diversi per indicare l’animale come lo immaginiamo al pascolo felice e lo stesso animale quando lo troviamo sulla nostra tavola; anche questa dicotomia linguistica ha lo scopo di farci sentire meno responsabili mentre mangiamo la nostra bistecca. Il punto è che queste divisioni si fondano su distinzioni metafisiche o morali non rigorose e non ben fondate, che appaiono solo funzionali a un certo tipo di ideologia e di consumo alimentare; questo è vero a maggior ragione nel caso delle carni coltivate, dove non c’è sofferenza animale, e dove quindi accettare quella dicotomia significherebbe soltanto adottare il punto di vista ipocrita del carnista occidentale che attribuisce uno status più alto, quasi umano, al cane e al gatto rispetto alla mucca o al maiale.

Altri problemi etici potrebbero emergere in un’ottica consequenzialista. Primo, coltivando carne di animali domestici potremmo rafforzare l’idea che gli animali domestici si possono mangiare; secondo, il consumo di questa carne, come nel caso visto precedentemente, potrebbe aumentare il numero di persone che per curiosità vogliano provare a gustare anche la carne di animali domestici tradizionale. Il primo però sarebbe un problema soltanto se adottassimo la dicotomia carnista occidentale, per la quale è accettabile mangiare soltanto certi animali; ma se crediamo che tutti gli animali siano uguali e abbiano lo stesso diritto di vivere bene e di non soffrire, allora il problema si dissolve. Per quanto riguarda il secondo, invece, si può ribattere che se qualcuno cominciasse a consumare carne tradizionale di cane o gatto susciterebbe un disgusto tale nelle persone che appartengono alla classe dei mangiatori di carne e amanti dei gatti e cani, da stimolare una riflessione più approfondita sulla dignità e il benessere a cui ogni animale ha diritto, tale da causare un’incrinatura della dicotomia su cui si regge l’ideologia carnista. Quest’ultima considerazione porta semmai a sostenere che la produzione e il consumo di carne di animali domestici potrebbe avere una funzione critica ed etica importante, ovvero quella di far riflettere sulla correttezza morale di una dicotomia silenziosamente accettata da tutti coloro che si nutrono di carne tradizionale.

Un’altra perplessità potrebbe essere questa: consumare carne del proprio animale domestico (quindi non di un cane o un gatto qualsiasi) è perverso. Più analiticamente, farlo significa violare barriere naturali e fondamentali per ogni essere vivente. “Se ami una creatura individuale vivente, non la mangi”: ecco una norma non scritta che per molti, benché implicita, è inderogabile. Chi si nutre della carne del proprio animale domestico sta pericolosamente mescolando i rapporti affettivi con le creature vive e le relazioni di scambio materico con il mondo fisico esterno. Da questo punto di vista, si potrebbe configurare un argomento dello slippery slope: dal mangiare carne coltivata del proprio cane al mangiare carne coltivata del proprio coniuge, fino al mangiare i corpi di entrambi dopo una morte naturale, fino al mangiarli dopo aver loro procurato la morte. Il punto, però, non è che dovremmo bloccare il consumo di carne coltivata del proprio animale domestico a causa della preoccupazione soltanto per l’ultimo step dello slippery slope. Il punto è che anche questo primo step dello slippery slope, dal punto di vista concettuale, è già immorale perché contamina due sfere dell’esistenza o due ordini di relazione col mondo che dovrebbero restare distinte.

La risposta è che questo tipo di preoccupazione riposa su una visione del mondo e della vita che non è supportata esclusivamente da fatti, ma anche - e pesantemente - da valori. Tali valori non sono universali. Dunque, anche la preoccupazione è parziale, e non può essere imposta da chi abbraccia i valori che essa presuppone a tutti i membri della comunità, ossia anche a coloro che non adottano quei valori. Una domanda maggiormente value-free sarebbe: c’è qualcuno, umano o non umano, che viene danneggiato o subisce un torto se una persona mangia carne coltivata prodotta a partire da una biopsia effettuata sul proprio animale domestico? E a questa domanda è difficile riuscire a rispondere positivamente.

Si potrebbe rilevare che, quando un proprietario di cane accarezza il suo animale, potrebbe iniziare a concepirsi come un mangiatore momentaneamente privo di fame che accarezza la sua fonte di cibo. Lo sguardo d’amore fra essere umano e cane, o gatto, tramonterebbe per essere sostituito da quello prospettico della persona che con l’acquolina in bocca guarda il pacchetto del macellaio che contiene le scaloppine che saranno fritte nel burro a cena. Ma anche qui, se il mondo si trasforma rendendo possibili nuove pratiche mediante il progresso tecnologico o sociale, non possiamo bloccare le nuove libertà non dannose solo perché cambiano, forse, gli sguardi che le persone proiettano su altre persone o su animali e cose. La democrazia ha reso possibile a tutti di candidarsi alle posizioni di rappresentanza politica in uno stato, e ciò comporta che ognuno possa guardare alle persone che ha di fronte a sé o a cui parla come una mera fonte di voto di preferenza sulla scheda elettorale. Ma questo non sarebbe stato e non è un motivo per ostacolare il processo democratico e auspicare il ritorno delle monarchie assolute. La diffusione dei social come Facebook e Instagram può portare a guardare le persone come mere fonti di like o di visualizzazioni, e allo stesso modo le trasfusioni possono portare a vederle come fonti di sangue derivante da donazioni volontarie. Ma se le pratiche che vengono messe in atto grazie alle nuove possibilità offerte dalle tecnologie non hanno niente di intrinsecamente immorale - come non c’è, in effetti, nulla di intrinsecamente immorale nell’utilizzare Facebook e Instagram, e neanche nel donare il sangue - pensare di bloccare queste pratiche perché qualcuno potrebbe vedere le persone prevalentemente o integrativamente come strumenti per ottenere un beneficio non illecito connesso all’uso di quelle tecnologie non è difendibile. Allo stesso modo, non lo è relativamente al consumo di carne coltivata ricavata da un proprio animale domestico.

 

  1. Carne coltivata di animali estinti o in via d’estinzione

Secondo molti studi, il consumo di carne è una delle principali minacce alla biodiversità e alla preservazione degli ecosistemi terrestri.[14] La ragione, tuttavia, non è che le persone mangiano direttamente gli animali la cui sopravvivenza di specie sul pianeta è minacciata. La ragione è piuttosto che il consumo di carne rende economicamente vantaggiosa la conversione di sempre maggiori porzioni di suolo da foresta ad allevamento. Diminuendo le foreste, diminuisce la biodiversità. E le ragioni per cui la diminuzione della biodiversità ci allarma sono, ovviamente, molteplici. In primo luogo, è intrinsecamente un male per i singoli animali di una specie in via di estinzione non riuscire ad avere vite buone e morire prima del tempo. In secondo luogo - ma questa ragione è discutibile - è intrinsecamente un male per i discendenti di questi animali il non esistere, posto che le loro esistenze sarebbero state degne di essere vissute. In terzo luogo, la perdita di una specie animale o vegetale è la perdita non rimediabile di un'entità irripetibile sulla Terra, e da questo punto di vista costituisce un male morale di per sé, come la perdita di un’opera d’arte o di una scoperta matematica. In quarto luogo, un pianeta Terra con scarsa biodiversità è un pianeta i cui ecosistemi sono compromessi, e ciò costituisce una minaccia per la stessa esistenza umana.

Posto tutto questo, la possibilità di consumare carne coltivata, poichè libera l’umanità dalla necessità o dalla convenienza di convertire sempre maggiori quantità di suolo a terreni per allevamento, dovrebbe essere considerata come un toccasana per la biodiversità.[15]

Anche la prospettiva di consumare direttamente carne coltivata di animali in via di estinzione, tuttavia, potrebbe essere vista come moralmente inoffensiva. Prendiamo il caso dei pangolini. Si tratta degli unici mammiferi dotati di squame. Essi utilizzano queste squame cornee costituite di cheratina come arma da difesa e anche come protezione: le squame formano una corazza, e i pangolini minacciati si appallottolano e confidano che il predatore, frustrato, se ne vada. I pangolini sono fra gli animali del pianeta più braccati e commerciati in modo illegale. Molte popolazioni umane, infatti, non solo ne apprezzano la carne squisita, ma consumano la carne e le squame credendo che abbiano un effetto terapeutico su alcune malattie e risolutivo su alcuni disagi e difficoltà psicologico-comportamentali. Una buona domanda, dunque, è: sarebbe moralmente problematico permettere alle persone di consumare carne coltivata di pangolino?

Secondo alcuni, non ci sarebbe nulla di male. E anzi, ne avremmo un beneficio, dal momento che la disponibilità di carne coltivata di pangolino potrebbe ridurre il consumo illegale di carne tradizionale dello stesso animale. In altre parole, i pangolini sarebbero meno minacciati per effetto della disponibilità di carne coltivata di pangolino.

Secondo altri, però, l’effetto del consumo di carne coltivata di pangolino non sarebbe benefico. Un effetto che ne scaturirebbe sarebbe la conferma dell’idea che la carne di pangolino, genericamente intesa, possa essere consumata. Un’altra conseguenza sarebbe che ne risulterebbe confermata l’idea che, in generale, le carni degli animali in via di estinzione possano essere mangiate. L’allentamento del tabù morale sul consumo di carne di pangolino, alla lunga, potrebbe danneggiare tutti: i pangolini e, indirettamente, anche noi. L’idea qui è che per preservare il pianeta ci serve che passi l’idea che la carne di pangolino non va mangiata - non l’idea che essa possa esserlo. Poiché la disponibilità di carne coltivata di pangolino potrebbe estendere la classe degli esseri umani appassionati di consumo di carne di pangolino, potrebbe aumentare il numero di coloro che - per togliersi il capriccio - cercheranno anche carne di pangolino tradizionale.

Una considerazione ulteriore che si potrebbe fare è che i nostri dubbi dovrebbero cedere a fronte di quelle domande di carne di pangolino che non sono dovute al mero piacere per una carne prelibata, ma all’idea che mangiandola - o mangiandone le squame - si possa curare qualcuno. Questo sembra un motivo più nobile, e più degno di essere preso in considerazione (Robison-Greene 2023, 95). Ma è veramente così? È davvero moralmente preferibile, a parità di tipo di azione e delle sue conseguenze, una classe di occorrenze di quel tipo di azione le cui intenzioni sono migliori di quelle alla base delle altre? Secondo alcuni, le buone intenzioni, anche se edificate su fondamenta fattualmente incerte e vacillanti, possono nobilitare un’azione, a parità di tutto il resto. Secondo altri, invece, no: se avessimo di fronte due assassini, uno dei quali ha ucciso per mero sadismo e l’altro dei quali ha invece ucciso per mandare il prima possibile la vittima in paradiso per renderla così beata, non è detto che penseremmo che il secondo sia moralmente preferibile al primo. Si agitano poi qui altri problemi. Se siamo certi che la carne e/o le squame di pangolino non recano a chi se ne nutre i benefici che alcuni credono, permettere di consumare carne coltivata di pangolino nonostante la sua (ridotta) dannosità globale potrebbe essere visto come una conferma della bontà di quelle credenze. A questo punto, la questione è se sia moralmente sbagliato confermare implicitamente credenze false, e in particolare credenze mediche false. D’altra parte, come facciamo a essere certi che i presunti effetti terapeutici della carne di pangolino siano illusori? Non troviamo, qui, la solita manifestazione della superiorità culturale occidentale? Dovremmo essere tolleranti più ancora che essere prescrittivi dal punto di vista epistemico? Inoltre, non potremmo dover considerare anche gli effetti benefici derivanti dal mero effetto placebo del consumo di carne di pangolino? Questo potrebbe essere un motivo ulteriore a favore del consumo di carne coltivata di pangolino.

Si aggiunga che potrebbe essere moralmente corretto permettere di nutrirsi di carne tradizionale di animali in via di estinzione alle popolazioni aborigene che sono state sfruttate, vessate, scacciate o sterminate dai colonizzatori occidentali o dalla globalizzazione, come parziale riparazione e come riconoscimento della loro diversità e specificità culturale.[16] Da questo punto di vista, permettere a loro il consumo di carne coltivata di animali in via di estinzione sembra a maggior ragione un passo da fare. Ma è moralmente corretto pensare di riparare agli sbagli che i nostri antenati hanno fatto, e che noi continuiamo a fare, nei confronti di certe popolazioni rilasciando loro permessi di fare cose sbagliate a loro volta? E non sarebbe forse ancora più sbagliato, dal punto di vista morale, introdurre una discriminazione fra chi può fare una cosa sbagliata e chi non può farla? Rilasciare il permesso universale al consumo di carne coltivata di animali in via di estinzione, al netto della blanda dannosità che ciò potrebbe possedere, potrebbe essere una soluzione accettabile.

C’è qualcosa di male nel consumare carne coltivata di animali già estinti, come i mammut? Sembra che essi non vengano danneggiati, perché non può essere danneggiata una creatura che non esiste. Esiste il danno postumo, certo[17] - ma è difficile pensare che questo tipo di danno, che possiamo considerare quando si lede la reputazione o si calpestano le volontà di un essere umano deceduto, sia configurabile nei confronti di un mammut morto diecimila anni fa, e a causa del fatto che si usa una sua cellula per creare carne coltivata edibile. Se non è un problema morale usare le cellule somatiche di un animale vivente oggi per produrre carne coltivata, non è neanche un problema morale usare quelle di un mammut. Si deve considerare che il principale rilievo in base al quale è sospettabile che il processo di produzione della carne coltivata danneggi o rechi torto all’animale da cui provengono le cellule immesse in coltura è che la biopsia potrebbe essere lievemente dolorosa ed è comunque una violazione dell’integrità corporea. Ma già nel caso di animali viventi possiamo superare queste preoccupazioni, perché il danno o il torto si possono considerare ampiamente compensati dai benefici in termini di risparmio di sofferenza animale. Si può ipotizzare un consenso razionale presunto alla biopsia, da questo punto di vista.[18] In aggiunta, qui nessun animale vivente subisce una biopsia. In che modo potremmo danneggiare il mammut?

Un aspetto potrebbe essere che si conferma l’idea che qualunque animale non-umano è per sua stessa natura edibile - mentre attualmente ci allontana almeno un po’ da questa disgraziata equazione il fatto che finora non siamo portati a considerare edibili i tirannosauri e gli pterodattili. Ma, come asserisce Rachel Robison-Greene,[19] la produzione di carne di mammut coltivata potrebbe anche avere l’effetto opposto di promuovere la separazione concettuale fra il concetto di mangiare carne di un animale e il concetto di ucciderlo, fino a farci concepire il processo alla pari di una semplice tosatura o mungitura. Una tosatura postuma, effettuata diecimila o centomila anni dopo su un animale che rischiava ogni giorno scontri fisici e morte nel confronto con altri animali, non pare moralmente problematica.

 

  1. Conclusioni

Dopo aver esaminato quali specifiche problematiche di ordine morale potrebbero sorgere in seguito alla praticabilità del consumo di carne coltivata umana, di animali domestici, e di animali estinti o in via d’estinzione, si può concludere che non esistono argomenti cogenti contro queste pratiche. Le preoccupazioni nei confronti del consumo di carne coltivata umana si concentrano su un disgusto o una riprovazione per il cannibalismo, ma quando si esaminano le motivazioni razionali per biasimare moralmente il cannibalismo, si trova che esse si fondano su aspetti che vengono tutti depurati ed espunti quando si consuma carna umana coltivata. D’altra parte, il mero disgusto non dovrebbe mai diventare una ragione per condannare moralmente o peggio per vietare, e il disgusto può essere rilevante solo come spia di una motivazione argomentabile.

Alcuni griderebbero allo scandalo di fronte a persone che mangino carne coltivata di animali domestici, magari derivante da una biopsia effettuata sul proprio animale domestico individuale. Ma anche in questo caso gli argomenti non appaiono molto convincenti, e in parte poggiano proprio su quelli che, fra gli altri, si possono invocare contro la carne coltivata umana: c’è una frattura culturale, tradizionale e arbitraria fra gli esseri che non si possono mangiare, perchè sono posti all’interno dello stesso steccato di riconoscimento e di protezione dentro il quale siamo noi - i nostri simili, diciamo - e esseri che si possono mangiare perchè si possono uccidere, nel caso (anche se la coltivabilità della carne permette di separare l’uccidere dal mangiare). Ma se si contesta questa separazione fondamentale, si contesta anche uno status distinto, fra le carni coltivate edibili, fra carni coltivate che si può permettere alla gente di mangiare e carni coltivate che non si dovrebbero mai mangiare anche se, mangiandole, non si fa danno o torto a nessuno. Non solo, quindi, non ci sono buone ragioni per vietare di consumare la carne coltivata umana o di animali domestici; in aggiunta, l’esame delle cattive ragioni per farlo, e dei motivi per cui sono cattive ragioni, ci rivela qualcosa di importante sulle nostre divisioni ontologiche e morali di base. Il consumo di carne coltivata di animali in via di estinzione, infine, può suscitare preoccupazioni morali di vario tipo legate alla conservazione della biodiversità o alla conferma di credenze errate, ma tutti questi rilievi specifici appaiono superabili. Quando parliamo di consumo di carne coltivata di animali già estinti, poi, le ragioni per opporsi sono poche e tutte caduche.

La carne coltivata agisce quindi come disvelatore di alcuni bias che affliggono le nostre considerazioni morali sulla nostra stessa alimentazione. Da questo punto di vista, essa potrà svolgere una funzione di straniamento rispetto ai nostri stereotipi morali in fatto di consumo alimentare. Naturalmente vi sono anche coloro i quali si oppongono moralmente alla carne coltivata qua carne coltivata - e sono molti di più di coloro i quali si oppongono a certe sue specifiche forme o declinazioni, come quelle che abbiamo esaminato qui. Alcuni filosofi hanno sostenuto che non vi sono buone ragioni per opporsi in generale alla carne coltivata.[20] In ogni caso, tra queste eventuali ragioni non dovrebbero figurare specifiche ragioni per opporsi al consumo di carne coltivata umana, di animali domestici, e di animali estinti o in via d’estinzione.


1] J. Milburn, Chewing Over in Vitro Meat: Animal Ethics, Cannibalism and Social Progress, in «Res Publica», 22, 3, 2016, pp. 249-265; P.D. Hopkins and A. Dacey, Vegetarian Meat: Could Technology Save Animals and Satisfy Meat Eaters?, in «Journal of Agricultural and Environmental Ethics», 21, 6, 2008, pp. 579-596.

[2] M. Locarno, Cultured Human Meat Acceptability: From Inviolability of Human Body to Prevention of Induced Human Meat Craving, in «Food Ethics», 2023, 8, 1, pp. 1-13.

[3] L.R. Kass, The Wisdom of Repugnance: Why We Should Ban the Cloning of Humans, in «New Republic», 216, 22, 1997, pp. 17-26.

[4] Ibid., p. 20.

[5] G.O. Schaefer and J. Savulescu, The Ethics of Producing In Vitro Meat, in «Journal of applied philosophy», 2014, 31, 2, pp. 188-202

[6] J. Mathews, R. Glasse, S. Lindenbaum, Kuru and Cannibalism, in «The Lancet», 292, 7565, 1968, pp. 449-452.

[7] M. Korthals, Two Evils in Food Country: Hunger and Lack of Representation, In D.M. Kaplan (ed.), The Philosophy of Food, University of California Press, 2014, pp. 1-321.

[8] Ibid., pp. 112-113.

[9] M. Locarno, 2023, op. cit.., p. 8.

[10] F. Ferré, Moderation, Morals and Meat, in «Inquiry», 29, 1-4, 1986, pp. 391–406.

[11] G.O. Schaefer and J. Savulescu, op. cit., p. 199

[12] J. Milburn, op. cit., p. 251.

[13] D.M. Anderson, D.I. Rees, J.J. Sabia, and S. Safford, Association of Marijuana Legalization with Marijuana Use among US High School Students, 1993-2019, in «JAMA Network Open», 4, 9, 2021, pp. 1-4.

[14] B. Machovina, K.J. Feeley, and W.J. Ripple, Biodiversity Conservation: The Key Is Reducing Meat Consumption, in «Science of the Total Environment», 2015, 536, pp. 419-431.

[15] L. Lo Sapio, The Ethics of Cultivated Meat: Hypes and Hopes of a New Challenging Technology, in «International Journal of Applied Philosophy», 2022, 36, 1, pp. 27-39.

[16] R. Robison-Greene, Edibility and In Vitro Meat: Ethical Considerations, Lexington Books, Lanham, Maryland 2023, pp. 96-97.

[17] J. Feinberg, The Moral Limits of the Criminal Law. Volume 1: Harm to Others, Oxford, Oxford University Press, 1989; G. Pitcher, The Misfortunes of the Dead, in «American Philosophical Quarterly», 1984, 21, pp. 183-188.

  1. S. Taylor, The Myth of Posthumous Harm, in «American Philosophical Quarterly», 2005, 42, 4, pp. 311-322.

[18] L. Lo Sapio, Carne Coltivata. Etica dell’Agricoltura Cellulare, Carocci, Roma 2024, pp. 58-59.

[19] R. Robison-Greene, op. cit.

[20] L. Lo Sapio, The Ethics of Cultivated Meat: Hypes and Hopes of a New Challenging Technology, cit.; Id., Carne Coltivata. Etica dell’Agricoltura Cellulare, cit.

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