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Morale e tecnica. Il caso del potenziamento umano

Autore


Francesco Paolo Adorno

Università degli Studi di Salerno

Professore ordinario di Filosofia morale presso l’Università degli studi di Salerno


  1. Introduzione
  2. Dalla mente estesa al corpo esteso
  3. La legittimità morale della manipolazione diretta sul corpo
  4. Il corpo e la macchina
  5. La moralità della tecnologia

 

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S&F_n. 31_2024

Abstract


Morality and technology. The case of human enhancement

The purpose of this paper is to probe the moral implications of human enhancements. According to a generally accepted thesis, enhancements are not only morally neutral, but a number of characteristics (naturalness, efficacy, improvement, etc.) make them acceptable and exempt them from any criticism or differentiation. Some philosophers of technology, on the other hand, have developed analyses that represent important insights to criticize their supposed moral neutrality. Building on their theses would make it possible to draw a dividing line between enhancements that are positive and acceptable and enhancements that are harmful and refutable.

  1. Introduzione

Lo scopo di questo breve saggio è sondare le implicazioni morali dei miglioramenti e dei potenziamenti (enhancements) del corpo umano. L’antropologia sottesa a queste pratiche si fonda su una concezione dell’umano per cui, paradossalmente, in virtù delle imperfezioni della nostra biologia, siamo anche dei «natural-born cyborg»[1].

Non si teorizza quindi solo la debolezza umana, né solo la possibilità di perfezionare l’essere umano, ma questi due elementi sono presentati contemporaneamente, pena il crollo di tutto un edificio giustificativo: se possiamo diventare più forti, più intelligenti, più abili, più longevi è perché siamo inadeguati e coscienti della debolezza, della fragilità e della inadeguatezza del corpo umano.

Centrale in questa rappresentazione è il presupposto implicito che il corpo sia uno strumento, anzi che il corpo sia «il primo vero strumento umano»[2]. Ma se è così, se il corpo è uno strumento al pari di altri, significa anche che la tesi secondo cui noi siamo dei «natural-born cyborg» catturerebbe adeguatamente la natura dell’essere umano. L’ibridazione sarebbe quindi una caratteristica naturale degli esseri umani: noi siamo apparsi sulla terra come esseri già ibridati con mezzi artificiali. Non esiste un corpo umano composto da organi naturali che poi integra strumenti esterni, perché il corpo è già da sempre parzialmente biologico e parzialmente artificiale.

Ne risulterebbe che, data la molteplicità delle sue forme, l’ibridazione non può essere considerata come un processo specifico della modernità, ma assurge a caratteristica fondamentale dell’umanità[3]. In altri termini, da questa prospettiva l’enhancement è una pratica naturale, e nella misura in cui è naturale tutte le sue modalità sono normali e ugualmente legittime moralmente.

Data per accettata l’ipotesi che l’enhancement sia una pratica costante dell’umanità, ci possiamo chiedere però se tutte le sue modalità producono gli stessi risultati e hanno globalmente gli stessi effetti. È possibile differenziare le diverse forme di enhancement? Per fare due esempi, un allenamento imperniato su esercizi fisici può essere considerato un enhancement allo stesso modo e con le stesse implicazioni dell’assunzione di EPO? Una cura psicanalitica che interviene indirettamente sulla struttura neuronale può essere considerata analoga all’assunzione di psicofarmaci tesi a migliorare l’umore? Il fatto che globalmente gli effetti di superficie di queste diverse tecniche siano analoghi ci permette di equipararle senza ulteriori analisi?

Non si tratta di fornire argomenti a favore o contro l’enhancement, ma di indagare le modalità del potenziamento per mostrarne le eventuali conseguenze morali, politiche e sociali[4]. La questione fondamentale non riguarda tanto la legittimità dell’alterazione del corpo, quanto i suoi limiti e i suoi strumenti, e ancora più profondamente l’esistenza di una possibile continuità tra le diverse modalità di modificazione e di miglioramento dell’umano che si sono succedute nel corso dell’evoluzione.

Pur accettando l’idea che siamo «natural-born cyborg», le forme del costante intervento, diretto o indiretto, implicito o esplicito, volontario o involontario, dell’uomo su sé stesso sono tutte dello stesso tipo? In altri termini, vorremmo cercare di capire se i tipi di tecnologia utilizzati dall’essere umano nel tentativo di tirare il meglio da sé permettano di stabilire una continuità nell’evoluzione della specie, oppure se siano stati talmente diversi che questa supposta continuità è solo un effetto di superficie che nasconde una sostanziale differenza tra le diverse ibridazioni tra essere umano e tecnologie.

La tesi che vogliamo proporre è che in realtà le tecnologie con cui il corpo umano entra in contatto hanno una forte valenza normativa: non solo non sono neutre, ma sono sostanzialmente differenti in funzione della diversa forza normativa che hanno sia sui loro utenti che sul contesto nel quale vengono utilizzate.

 

  1. Dalla mente estesa al corpo esteso

Se l’essere umano non è mai stato altro che un cyborg, ovvero un organismo ibridato con strumenti prostetici, allora sarebbe solo per una forma errata di riduzionismo biologico che pensiamo che l’identità delle persone sia il prodotto di organi interni al corpo. Siccome siamo da sempre degli esseri ibridi, non isolati e non isolabili dalle interazioni con l’ambiente che ci circonda con cui costituiamo una totalità, le identità definite e delimitate dal corpo biologico sarebbero solamente l’irrigidimento di un pregiudizio della cultura occidentale.

La conseguenza maggiore di questo pregiudizio non è solo la credenza nell’esistenza di un’anima, di una res cogitans, di un dualismo, ma la credenza che la “macchina” che produce atti immateriali e mentali sia un cervello, contenuto esclusivamente in un cranio o più precisamente in un corpo biologico[5]. In realtà, il cervello per quanto organo di produzione centrale di atti mentali, potrebbe non avere nessun privilegio, nessuna capacità cognitiva isolabile, potrebbe svolgere tutte le sue operazioni in collaborazione con elementi che sono esterni allo “skin-bag” che lo contiene. In questo senso, si sostiene che gli atti mentali sono la produzione di un dispositivo composto da elementi biologici ed artificiali, interni ed esterni al corpo.

Il mondo non sarebbe quindi disseminato semplicemente da cyborg, ma sarebbe composto da insiemi materiali, ibridi, i cui nodi centrali sono i corpi umani, che producono menti composte e diffuse[6].

Sarebbe quindi erroneo pensare che la mente sia il prodotto di una porzione di mondo situata all’interno della nostra scatola cranica. In realtà, i nostri processi mentali sono da sempre il frutto di una collaborazione tra il cervello, il resto del corpo che ospita il sistema nervoso nella sua totalità, e la tecnologia.

Secondo Clark e Chalmers, il rapporto tra mondo e mente è una fusione che si traduce in un “esternalismo attivo”, nel quale il ruolo produttivo giocato da elementi che appartengono all’ambiente nel quale si trova il soggetto è altrettanto fondamentale di quello giocato dal sistema nervoso[7]. Ai nostri autori è sembrato possibile esemplificare questa cooperazione, e quindi l’equivalenza tra organi biologici e strumenti artificiali, tra interno ed esterno, stabilendo una serie di analogie tra l’uso che due persone fanno di due tipi di supporto mnestico.

Da una parte, abbiamo Inga che, dovendosi recare al MOMA di New York cerca di ricordarsi con un atto mentale dove si trova. La sua memoria interna, avendo generato la credenza che si trovi sulla 53rd Street, la induce a percorrere la strada che la separa dal Museo. Secondo Clark e Chalmers, il ricordo del museo giace nella memoria, in attesa di essere attivato; una volta avutone accesso, tutta la distanza mentale e fisica che la separa dal Museo può essere percorsa.

Dall’altra parte, abbiamo Otto che, soffrendo della malattia di Alzheimer, non ha accesso immediato e diretto a tutti i ricordi, per cui per produrre la credenza che il Museo si trova sulla 53rd Street ha bisogno di consultare una sorta di memoria esterna costituita dal suo taccuino su cui ha scritto l’indirizzo esatto, che svolge una funzione analoga a quella della memoria biologica. Ne deriva la conseguenza che è possibile stabilire un’analogia tra la produzione della credenza sul luogo in cui è situato il Museo per Inga e per Otto. Siccome sia Otto che Inga hanno utilizzato allo stesso modo le informazioni contenute su due supporti diversi, il taccuino per il primo, la memoria per la seconda, è possibile affermare che c’è un’analogia funzionale tra taccuino e memoria. Clark e Chalmers arrivano alla conclusione che, dal punto di vista della produzione di atti cognitivi, la memoria biologica e la memoria esterna funzionano allo stesso modo e possono essere integrati nei processi cognitivi con le stesse esatte conseguenze e problematiche. Benché in realtà le cose siano più complesse di quanto le analisi di Clark e Chalmers lascino pensare, rimane il fatto che ambedue questi supporti cooperano alla produzione di processi cognitivi e che quindi, almeno da questo punto di vista, possono essere considerati come equivalenti.

Nella misura in cui l’accesso e l’affidabilità di questi due supporti mnestici sono analoghi, il loro posizionamento, all’interno o all’esterno del corpo, non sembra rilevante. Se l’accesso che se ne può avere è significativamente identico, se le risorse contenute in un supporto mnestico interno o esterno sono adeguatamente a disposizione, se contribuiscono in maniera analoga alla produzione di credenze, non si vede dove possa mai essere la differenza tra il portare con sé questi supporti e il portarli in[8]. A partire dal fatto che «se le capacità pertinenti sono generalmente presenti quando sono richieste», sembra che le condizioni per parlare di cooperazione equivalente tra organi interni e strumenti esterni siano soddisfatte e che «questo sia un accoppiamento sufficiente».

 

  1. La legittimità morale della manipolazione diretta del corpo

Per Neil Levy è assolutamente vero che la mente non è limitata alle produzioni del cervello, ma si riversa nel mondo, che si tratta di una mente estesa ed estendibile a qualsiasi elemento esterno capace di coadiuvarla nelle sue produzioni, come propongono Clark e Chalmers[9]. Tuttavia, le conseguenze che Levy tira da questa proposta di Clark e Chalmers vanno ben al di là del tipo di problemi che hanno portato alla definizione della tesi della mente estesa. In effetti, Levy utilizza la teoria della mente estesa non tanto per fornire un resoconto più adeguato della produzione degli atti mentali, ma per offrire degli argomenti a favore dell’enhancement, per legittimare moralmente qualunque tipo di modificazione e di manipolazione dei processi mentali in funzione di un loro miglioramento e/o potenziamento.

Levy parte da due constatazioni banali e condivisibili. In primo luogo, il progresso tecnologico non pone particolari problemi dal punto di vista morale: nessuno si sognerebbe di considerare immorale l’aumento della potenza di calcolo di un computer o il miglioramento tecnico di un qualunque strumento di una qualunque tecnologia. La scienza non fa altro che accrescere la conoscenza dei processi naturali proprio in vista di questo miglioramento e tutti ne sono ben contenti.

In secondo luogo, se un malato di Alzheimer che si serve di un taccuino per ricordarsi di cose che non riesce a tenere a mente, lo sostituisse con un notebook particolarmente potente, o se una persona a cui è stata amputata una gamba potesse utilizzare una protesi che gli permettesse non solo di camminare normalmente ma addirittura di correre, non solo nessuno lo considererebbe immorale, ma ci feliciteremmo dell’innegabile miglioramento della vita quotidiana di queste persone.

Come è abbastanza normale che sia, qualunque uso di strumenti o di tecnologie che ci aiuta nella quotidianità non solo è legittimo, ma è salutato con piacere ed entusiasmo. Fondandosi sulla teoria della mente estesa di Clark e Chalmers che ipotizza che la memoria esterna e quella interna cooperano alla produzione di atti cognitivi, Levy tira le dovute conseguenze da queste due considerazioni.

Se i miglioramenti della memoria interna o di qualsiasi altro organo o funzione che contribuisce alla produzione di atti cognitivi possono essere considerati alla stessa stregua dei miglioramenti della strumentazione esterna che collabora alla produzione di questi stessi atti cognitivi, ne deriva che sia gli uni che gli altri sono moralmente legittimi. In altri termini, se corpo e ambiente esterno contribuiscono, anche se in misura diversa, alla produzione di stati mentali, le alterazioni dell’uno dovrebbero essere valutate allo stesso modo delle alterazioni dell’altro.

Di questa tesi, definita come un “principio etico di parità” (EPP), Levy propone due versioni, una forte che afferma che «le alterazioni dei puntelli esterni usati per pensare sono (ceteris paribus) eticamente allo stesso livello delle alterazioni del cervello», e una debole che stipula invece che: «le alterazioni dei puntelli esterni usati per pensare sono (ceteris paribus) eticamente allo stesso livello delle alterazioni del cervello, nella precisa misura in cui i nostri motivi per ritenere problematiche le alterazioni del cervello possono essere trasferiti alle alterazioni dell’ambiente in cui sono incorporate»[10].

L’applicazione del principio etico di parità alla tesi della mente estesa permette di affermare che dato che la mente è composta da moduli interni ed esterni e siccome gli interventi che migliorano parti esterne delle menti non sono moralmente problematici, neanche gli interventi che modificano parti interne della mente devono essere considerati moralmente problematici.

Se gli atti cognitivi sono prodotti tanto da strumenti esterni quanto da strumenti interni al corpo e un intervento diretto sugli strumenti esterni, che può essere un loro semplice upgrade oppure una loro sostituzione, è del tutto legittimo, non si vede perché lo stesso tipo di intervento sugli organi interni dovrebbe risultare problematico.

Se l’uomo è un cyborg, e quindi ci sembra del tutto legittimo sostituire la protesi di un braccio amputato con una costruita con dei materiali più adeguati e, dunque, con una tecnologia che permette una maggiore libertà di azione, non si vede per quale ragione non si possa intervenire sulle fibre muscolari con le stesse finalità. Se posso sostituire una memoria esterna con una più potente e più grande, Levy considera del tutto giustificabile una manipolazione dei neuroni, per esempio una stimolazione magnetica transcranica, per migliorare le facoltà intellettuali di un individuo.

Il principio etico di parità proposto da Levy fornisce un importante elemento di giustificazione all’equivalenza tra le diverse pratiche di enhancement sviluppate dall’uomo nel corso della sua storia. Per Levy non solo esiste una continuità antropologica tra homo sapiens e cyborg, anzi, come detto, il cyborg è l’homo sapiens finalmente svelato nella sua vera natura, ma questa continuità antropologica si fonda su una continuità strumentale. Poco importano le tecniche sfruttate per migliorare gli individui: poiché si tratta sempre e comunque di artefatti tecnici non esiste nessun tipo di discontinuità.

 

  1. Il corpo e la macchina

Tra le tante obiezioni alle quali Levy cerca di rispondere, c’è l’idea che l’alterazione degli stati mentali – ottenibile grazie alla manipolazione del cervello e più in generale di tutta la materia che supporta questi stati – avrebbe come presupposto un rafforzamento della tendenza alla meccanizzazione. I sostenitori dei mezzi tradizionali di cambiamento delle nostre menti – psicoanalisti, fisioterapisti, teologi e quant’altri – sostengono che in fondo noi non siamo macchine, o almeno non solo e non principalmente, ma creature viventi che interagiscono in modi singolari alle sollecitazioni e agli stimoli esterni[11]. I critici dell’enhancement sostengono che utilizzare mezzi chimici o di altra natura per intervenire direttamente sul sistema nervoso centrale significhi invece esattamente trattare l’umano come una macchina.

Una trasformazione farmacologica del cervello si fonda sull’idea che l’individuo è una macchina di cui si devono correggere le disfunzioni, per esempio limitando l’impatto delle emozioni nelle sue risposte agli stimoli esterni. A queste tesi Levy obietta che anche mezzi tradizionali di cambiamento delle menti trattano il corpo come una macchina. Ci si potrebbe in effetti chiedere che differenza c’è tra due persone che cercano di curare la loro depressione, una attraverso l’assunzione di antidepressivi e l’altra facendo ginnastica.

Perché sospettiamo che la somministrazione di antidepressivi supponga una concezione meccanica del corpo mentre la ginnastica non si fondi su tale modello? Perché, si chiede Levy, mettiamo in discussione alcuni mezzi di modificazione delle menti e non altri[12]? A suo avviso tutti i mezzi sono legittimi poiché hanno lo stesso fine, ovvero la guarigione da uno stato depressivo e tutti agiscono sul corpo come se fosse una macchina di cui alterare e migliorare i meccanismi. Tenute ferme tutte le perplessità e le aporie che nascono da una concezione meccanicista del corpo, soffermiamoci sul ragionamento di Levy.

Levy osserva che, a ben vedere, c’è effettivamente una differenza tra questi due mezzi, ginnastica e antidepressivi, che però va trovata semplicemente nella loro diversa efficacia poiché la ginnastica è più lenta e il suo risultato più incerto rispetto alle conseguenze benefiche prodotte degli antidepressivi.

Inoltre, a vantaggio degli antidepressivi ci sarebbe il fatto che restituiscono al soggetto un controllo sul proprio comportamento che non riesce a cambiare in altro modo, pur riconoscendolo come patologico. Un soggetto che ha riconosciuto la propria patologia e anche l’incapacità di modificare le reazioni o i comportamenti, dimostra una identica concezione di sé, del proprio valore, della propria soggettività, una stessa forma di rispetto della propria personalità, sia se si propone di utilizzare mezzi di intervento diretto sulla propria biologia come possono essere degli psicofarmaci, sia se si propone di guarire da questa patologia tramite una psicoterapia che non è altro che un intervento indiretto su di sé.

Ma ancora una volta, le cose non sono così semplici. Affermare che l’unica differenza constatabile tra i mezzi utilizzati per produrre un certo tipo di risultato sta nella loro maggiore o minore efficacia, significa aderire acriticamente alla tesi della neutralità della tecnologia che, per quanto sia generalmente accettata dal senso comune, a uno sguardo più attento presenta degli aspetti problematici.

Quello che i sostenitori incondizionati dell’enhancement non prendono in considerazione, o lasciano volutamente da parte, è la possibilità che i mezzi tecnici in quanto tali abbiano un effetto normativo intrinseco. Alla luce di molte ricerche che mettono in luce lo status morale degli oggetti tecnici sembra difficile accettare passivamente la tesi dell’indifferenza tecnologica e della neutralità della tecnica. E se si dovesse abbandonare l’assunto di una neutralità assiologica e normativa degli artefatti tecnici diventerebbe difficile accettare l’idea di una continuità delle pratiche di enhancement fondata sulla sostanziale neutralità o indifferenza dei mezzi e degli strumenti utilizzati a tale scopo.

 

  1. La moralità della tecnologia

A questo punto diventa assolutamente necessario un ulteriore passaggio per capire se ci sono, e quali possono essere, le implicazioni morali dell’uso di diverse tecnologie. In particolare, due aspetti del dibattito sullo status morale degli artefatti tecnici sono particolarmente significativi per il nostro problema.

Il primo riguarda l’agentività morale della tecnologia, se cioè gli artefatti tecnici possono essere considerati agenti indipendenti nella produzione di norme morali dalle intenzioni dei loro inventori, designers o utilizzatori o se, invece, le norme morali sono prodotte da una collaborazione tra umani e artefatti. In questo caso, bisognerà chiedersi come sono distribuiti i ruoli all’interno di questa eventuale rete cooperativa.

Il secondo riguarda la possibilità che gli artefatti, a prescindere dal ruolo agentivo che si riconosce loro, indipendentemente o in collaborazione con le persone, si limitino a produrre effetti intenzionali, quindi voluti, o se la loro agentività morale oltrepassa forme volute e ricercate di produzioni normative per produrre effetti in modo non intenzionale.

Cominciamo dal primo punto che riguarda non tanto il riconoscimento agli artefatti di una capacità agentiva, ovvero la possibilità di incorporare valori e norme, quanto l’estensione dell’agentività morale umana agli artefatti tecnologici.

Il punto nodale è stabilire se gli artefatti sono veicoli di valori intriseci o se si limitano a essere utilizzati come semplici strumenti, quindi privi di qualsiasi agentività morale autonoma, per implementare comportamenti.

Per un primo gruppo di studiosi, gli oggetti tecnici sono dei puri strumenti che pur essendo sostanzialmente neutrali hanno però la capacità di incorporare i valori di coloro che li inventano, li disegnano e li utilizzano. Ciò non significa semplicemente attribuire neutralità alla tecnologia, ma considerare che gli oggetti sono vettori passivi di valori e norme e che quindi la loro funzione normativa non può essere semplicemente ignorata, ma non deve neanche essere sopravvalutata.

I sostenitori di questa tesi attribuiscono quindi una funzione normativa agli strumenti tecnici, che sarebbe in qualche modo limitata alle intenzioni dei suoi utilizzatori. Per esempio, la metropolitana di Parigi ha visto cambiare il suo arredamento nel corso degli anni: alle panchine lunghe costituite da una superficie piatta sono stati sovrapposti dei sedili individuali oppure sono state sostituite da sbarre di ferro a forma di “u” rovesciata parallele ma situate ad altezza differente che permettono alle persone di sedersi sulla sbarra più bassa e di appoggiare la schiena alla sbarra più alta. L’intenzione di questo cambiamento è rendere impossibile ai senzatetto di stendersi per dormire nella metropolitana: questa intenzione è stata realizzata grazie appunto a queste sbarre a forma di “u” rovesciata.

È evidente che la normatività che queste sbarre realizzano non è intrinseca alla loro forma né alla loro solidità, ma è prodotta dalle intenzioni di coloro i quali si sono posti un problema politico e sociale che hanno risolto con mezzi tecnici. Ma in sé e per sé, le sbarre di ferro a “u” non solo non sono destinate a produrre o a impedire un comportamento, ma sono moralmente neutre.

Si può quindi affermare che l’artefatto tecnico non è un agente morale, ma è uno strumento dell’agentività morale umana alla quale partecipa passivamente[13].

Una seconda posizione che rappresenta una versione forte della supposta normatività degli strumenti tecnici assegna loro una capacità intrinseca di produrre norme, al di là delle intenzioni dei loro inventori e utilizzatori.

La tecnica sarebbe moralmente autonoma e produttiva, anche se diversi autori che sostengono questa tesi sono in disaccordo sull’effettivo ruolo produttivo degli artefatti tecnici. È stato sostenuto che atti mentali specifici, come le intenzioni, possono essere indipendenti dagli individui e essere prodotti anche da oggetti inanimati. È quanto sostiene Bruno Latour secondo il quale gli artefatti si inseriscono a parità di funzioni in una rete di attanti composta anche da umani.

Infine Borgmann, pur riconoscendo agli artefatti la capacità di produrre norme e valori di diversi tipi, morali, politiche, economiche ed esistenziali, sembra cercare un compromesso tra le prime due posizioni, definendo una tesi particolarmente rilevante per il nostro problema. Per Borgmann, noi costruiamo degli artefatti tecnici che implementano dei valori che a loro volta modellano le nostre scelte riguardo ad altri artefatti, costruendo così una rete di influenze reciproche[14].

La posizione di Borgmann sembra rappresentare meglio il rapporto tra agenti umani e strumenti se non altro perché si concentra sulla definizione di un elemento differenziale delle tecnologie che consiste nell’effetto che producono sulle persone che le utilizzano. Da questa prospettiva anche le riflessioni di Philip Brey paiono particolarmente utili perché si concentrano sul diverso modo in cui gli artefatti veicolano valori, su una microfisica delle interazioni, sfuggendo a una presa in considerazione massiccia degli artefatti in quanto “categoria”.

Per Brey è rilevante il ruolo che le diverse entità hanno nelle strutture etiche. Queste entità, che possono essere sia agenti umani che non umani, sono tutte dei fattori morali nel senso che all’interno di queste strutture esercitano una “moral influence”. Al di là del fatto che questa influenza può essere di diverso tipo, positiva o negativa, accidentale o intenzionale, l’aspetto più proficuo della riflessione di Brey, ma in realtà dell’intero dibattito sull’agentività morale degli artefatti tecnici, sta nel fatto che si riconosce loro una capacità di agire sui comportamenti umani a prescindere dalla loro mera strumentalità. In altri termini, la tesi classica, secondo cui lo strumento tecnico in sé è neutro ma è sfruttato come propagatore e istanziatore di valori umani, è abbandonata a vantaggio di un’analisi più attenta delle forme di agentività autonoma degli artefatti[15].

In secondo luogo, in filigrana di tutte le teorie sullo status morale degli artefatti si manifesta l’idea che fra i loro effetti si debbano considerare anche delle conseguenze che vanno ben al di là di quelle immaginate da inventori e designers degli oggetti tecnici.

Gli artefatti veicolano in maniera inintenzionale valori e implementano comportamenti, sembrano cioè capaci di modificare in maniera incontrollabile e autonoma le vite delle persone, il mondo nel quale vivono e il rapporto tra gli uni e gli altri. Il tipo di tecnologia con cui si entra in contatto quando si agisce nel mondo produce di per sé un cambiamento della valutazione del mondo circostante, costituisce uno schermo che frapponiamo tra noi e il mondo, che in quanto tale produce una serie di cambiamenti nelle percezioni, nelle valutazioni e nei giudizi. La tecnologia rappresenta un medium tra il soggetto e il mondo e contribuisce al modo in cui il soggetto vede e entra in rapporto con il mondo, come sostiene Verbeek[16].

Da quanto detto si possono tirare almeno due conclusioni. In primo luogo, le tecnologie utilizzate non sono indifferenti né rispetto ai risultati né rispetto ai valori che implementano. È chiaro che i valori delle tecnologie di enhancement sono efficienza, performances e produttività, ma soprattutto fitness. I primi tre valori sono compatibili e coerenti con la configurazione neoliberale della società occidentale, ma il quarto ne sembra addirittura un elemento costitutivo. Le tecnologie di enhancement permettono un’eliminazione delle differenze travestita da ricerca della propria identità che nella maggior parte dei casi corrisponde a una maggiore capacità di uniformizzarsi socialmente, come è evidente soprattutto nell’uso di enhancements cognitivi e psicologici.

In secondo luogo, prende consistenza l’ipotesi secondo la quale la mediazione tecnologica che dovrebbe permettere di realizzare un aumento del controllo su di sé e un’estensione della propria libertà introduce un elemento di eteronomia, che non sembra interamente controllabile dagli individui: usare dei farmaci per migliorare il proprio umore, qualunque cosa si voglia intendere in questo modo, significa consentire al farmaco in questione di prendere il controllo del nostro umore, diventare dipendente dal farmaco in questione e soprattutto aver abdicato alla possibilità di aumentare la propria autonomia. E a poco vale l’obiezione secondo la quale la dipendenza da un farmaco sarebbe il frutto di una decisione che ribadirebbe la propria autonomia. Si tratterebbe di un’autonomia “debole”, rassegnata, di una persona che consapevole della sua incapacità di autocontrollarsi cederebbe parte delle sue prerogative e della propria libertà. Quello che verrebbe a mancare non è l’autonomia in sé, ma la capacità di usarla e di migliorarla, di aumentare il proprio spazio di autocontrollo e di libertà.

Come sembra evidente gli effetti della tecnologia sono largamente inintenzionali: sfuggono al controllo sia dei loro inventori sia dei loro utilizzatori e possono addirittura produrre degli effetti opposti a quelli sperati. In ragione di questa capacità della tecnologia, la tesi che tutti gli enhancements siano analoghi e non presentino differenze sostanziali né da un punto di vista strettamente tecnico né da un punto di vista morale, andrebbe rivista o comunque non accettata passivamente sulla base di una loro supposta naturalità. In fondo saremmo pure dei cyborgs, ma le loro forme aprono scenari completamente diversi che possono rivelarsi incubi a occhi aperti come teme Hayles oppure, come la stessa Hayles spera, prefigurazioni del migliore dei mondi possibili:

If my nightmare is a culture inhabited by posthumans who regard their bodies as fashion accessories rather than the ground of being, my dream is a version of the posthuman that embraces the possibilities of information technologies without being seduced by fantasies of unlimited power and disembodied immortality, that recognizes and celebrates finitude as a condition of human being, and that understands human life is embedded in a material world of great complexity, one on which we depend for our continued survival[17].

 


[1]  A. Clark, Natural-Born Cyborgs, Oxford University Press, Oxford 2004.

[2] C.H. Gray, Cyborg Citizen: Politics in the Posthuman Age, Routledge, New York/London 2000, p. 3.

[3] A. Clark, op. cit., p. 4.

[4] M. Coeckelbergh, Human Being @ Risk. Enhancement, Technology, and the Evaluation of Vulnerability Transformations, Springer, Dordrecht 2013.

[5] A. Clark, op. cit., p. 4.

[6] A. Clark, op. cit., p. 24

[7] A. Clark & D. Chalmers, The Extended Mind, in «Analysis», 581, 1998, pp. 7-19, p. 7.

[8] Ibid., p. 9.

[9] N. Levy, Neuroetica. Le basi neurologiche del senso morale (2007), tr. it. Apogeo, Milano 2009, p. 36.

[10] Ibid., pp. 68-69.

[11] Ibid., p. 83.

[12] Ibid., p. 119.

[13] L. Winner, The Whale and the Reactor. A Search for Limits in an Age of High Technology, The University of Chicago Press, Chicago 1989.

[14] A. Borgmann, Real American ethics. Taking responsibility for our country, University of Chicago Press, Chicago 2005. Cfr. C. Mitcham, Agency in Humans and in Artifacts: A Contested Discourse, in P. Kroes & P.-P. Verbeek, The Moral Status of Technical Artefacts, Springer, Dordrecht 2014, pp. 11-30.

[15] Ph. Brey, From Moral Agents to Moral Factors: The Structural Ethics Approach, in ibid., pp. 125-147, p. 137.

[16] P.-P. Verbeek, Moralizing Technology. Understanding and Designing the Morality of Things, University of Chicago Press, Chicago 2011.

[17] K.N. Hayles, How We Became Posthuman: Virtual Bodies in Cybernetics, Literature, and Informatics, University of Chicago Press, Chicago 1999, pp. 3-4.

 

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