Autore
- Introduzione
- Il cosmoteandrismo: una visione non duale della realtà
- Un’alternativa alla visione tecnocratica della natura: l’ecosofia
- Ecosofia e interculturalità
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S&F_n. 31_2024
Abstract
Rethinking our Relationship with the Earth. Ecosophy and Cosmotheandrism in Raimon Panikkar
This paper analyses the perspective of Raimon Panikkar, an eminent 20th century philosopher and theologian known for his intercultural approach and his contribution to interreligious dialogue. Drawing on his experiences and training in different cultural contexts, the paper highlights how Panikkar created a fruitful understanding between Eastern and Western traditions. This cross-cultural background is crucial for understanding his concept of “cosmotheandrism”, which challenges conventional dualistic categorisations of reality by integrating divine, human and cosmic dimensions. Particular attention is given to his critique of technocratic worldviews and his proposal of “ecosophy”, which implies a holistic approach to nature, which sees unity in diversity and emphasises the importance of the relationship and interconnectedness between all aspects of life. The underlying aim of this paper is to bring out how non-duality and relationality in Panikkar's thought offer a revolutionary perspective on spirituality, religious practice and our relationship with the cosmos, emphasising the need for a change of mindset that accepts the complexity of reality and recognises the sacredness in every manifestation of life. Through an analysis of Panikkar's ideas, the article explores how a cosmotheandric approach can help solve the ecological, economic and political crises of the contemporary world, inviting a deeper understanding and care for nature.
- Introduzione
Il focus di questo contributo è l’interpretazione filosofico-spirituale della realtà di Raimon Panikkar, tra i maggiori esperti del Novecento nel campo del dialogo interreligioso e della filosofia comparativa delle religioni. Vissuto e formatosi tra Spagna, Germania, Italia e India, Panikkar ha il grande merito di aver gettato un ponte tra la cultura orientale e quella occidentale, promuovendo, con le sue opere, un dialogo costante tra tradizioni, ideologie e credenze differenti. Ha insegnato in prestigiosi atenei in Europa[1] e nel corso della sua vita è entrato in contatto con scienziati e pensatori come Hans Urs von Balthasar, Emmanuel Lèvinas, Paul Ricoeur, Jürgen Habermas e Rudolf Bultmann. Ebbe un ruolo significativo durante gli anni del Concilio Vaticano II insieme a teologi come Karl Rahner e Hans Küng. Panikkar ha avuto come principale obiettivo far interagire in modo fecondo le culture e le religioni, annullare le differenze, inserendole in una prospettiva più ampia. Da ciò, la visione olistica della realtà, che questo contributo si propone di indagare, mettendone in luce implicazioni e sfide poste alla nostra comprensione del e al nostro rapporto con il mondo che ci circonda. Si tratta di una prospettiva che si oppone alle convenzionali categorizzazioni dualistiche del reale e ci invita a una riflessione più profonda sulla nostra esistenza, con particolare riguardo alla collocazione e al ruolo del soggetto in un universo che si dà quale intreccio dinamico e indivisibile di dimensione divina, umana e cosmica. Questa comprensione olistica e complessa del mondo è ciò che Panikkar definisce “cosmoteandria”, una prospettiva che sfida la separazione convenzionale tra cielo e terra, sacro e secolare, invitandoci a fare nostra una visione più inclusiva del reale. L’invito è a sviluppare un rapporto simbiotico col cosmo, che sostituisca ad un atteggiamento di dominio sulla natura la disposizione a prendersi cura di essa. Non a caso bersaglio polemico di Panikkar è la visione tecnocratica della natura, alla quale egli contrappone la sua “ecosofia” e l’importanza del pluralismo culturale. Il suo è infatti un approccio che offre una visione profondamente inclusiva delle cose, che invita a cogliere l’unità nella diversità e fa della relazione il fulcro della nostra comprensione del mondo. In un’epoca in cui la frammentazione e la separazione sembrano prevalere, tale filosofia ci sfida ad abbracciare la complessità del reale e a riconoscere la bellezza dell’interconnessione tra tutti gli aspetti della vita e dell’universo.
- Il cosmoteandrismo: una visione non duale della realtà
Il pensiero di Panikkar offre una prospettiva profonda e complessa sulla natura del reale. Quest’ultimo, a suo giudizio, non può essere ridotto a un’unica dimensione, ma abbraccia un intreccio dinamico e indivisibile di aspetti divini, umani e cosmici. Tale visione trinitaria[2] che egli chiama “cosmoteandria” – l’unione di kòsmos, theòs e ànthropos - rappresenta un’interpretazione filosofica e spirituale che sfida le categorizzazioni convenzionali[3]. Panikkar rende bene questa idea con l’immagine del mandala:
un vecchio mandala potrebbe forse aiutarci a rappresentare simbolicamente l’intuizione cosmoteandrica: il cerchio. Non vi è cerchio senza un centro e una circonferenza. I tre non sono la stessa cosa, eppure non sono separabili. La circonferenza non è il centro, ma senza questo non esisterebbe. Il cerchio, in se stesso invisibile, non è né la circonferenza né il centro, tuttavia è circoscritto all’uno e implica l’altro. Il centro non dipende dagli altri perché è un punto senza dimensioni, eppure non sarebbe il centro (né nessuna altra cosa) senza gli altri due. Il cerchio, visibile solo dalla circonferenza, è la materia, l’energia, il mondo. E questo perché la circonferenza, l’uomo, la coscienza lo comprende. Ed entrambi sono ciò che sono perché vi è Dio, un centro che in se stesso (cioè in quanto Dio, parafrasando gli antichi) è una sfera il cui centro è dappertutto e la circonferenza in nessuna parte[4].
Siamo di fronte a un punto di vista sulle cose profondamente inclusivo, nell’ambito del quale, per esempio, non c’è una compartimentazione netta tra il cielo e la terra, il sacro e il secolare. Da ciò deriva che tale concezione invita a superare l’idea tradizionale di Dio come figura distante e trascendente e ci incoraggia a vedere la presenza divina in ogni aspetto della vita quotidiana. Non a caso Panikkar parla di un’inter-in-dipendenza[5] tra queste due dimensioni della realtà – trascendente e immanente - dove il temporale è anche religioso e il sacro anche secolare. A tal proposito, egli utilizza l’espressione “secolarità sacra”, che
accentua tanto il fatto che Dio si faccia uomo, quanto che l’uomo sia considerato un essere divino, non tanto per discesa o per ascensione, ma per il fatto che tra di loro vi è una relazione costitutiva. […] l’accento è messo non tanto sulla trascendenza divina quanto sulla sua immanenza, non tanto sulla trascendenza del divino quanto sulla trascendenza dell’umano.[6]
Stando a tali dichiarazioni, immanenza/trascendenza costituiscono una polarità relazionale dove l’uno non può sussistere senza l’altro; dunque l’uomo non deve far altro che scoprire nel proprio essere l’immanenza del trascendente. In questo universo cosmoteandrico, ciascuno di noi partecipa attivamente all’avventura della realtà, in cui le dimensioni divina, umana e materiale sono interconnesse e in costante relazione reciproca[7]. Questo approccio evita l’errore di ridurre la complessità del reale a un’unica entità e dunque a una sorta di monismo, così come a un mero dualismo. Non a caso uno dei pilastri fondamentali di questa visione è la “non-dualità”, un concetto che mette alla prova la nostra razionalità convenzionale e in particolare il nostro modo di pensare dualistico, che tende a categorizzare il mondo in opposizioni nette. Tutto ciò diventa ancora più urgente, secondo Panikkar, in un contesto storico in cui separando e frammentizzando abbiamo spalancato le porte a ogni sorta di orrore. La terra, abbandonata a se stessa, è diventata una materia arida, una fonte di sperimentazione in balia delle tentazioni di dominio dell’uomo; allo stesso tempo, l’uomo vive sempre più ritirato in sé stesso, si allontana dagli altri, si rinchiude nelle sue molteplici paure, circondato da sistemi sempre più sofisticati strutturati intorno a realtà fittizie, dispositivi tecnologici, strumenti virtuali. Anche Dio attraversa un momento di ripiegamento all’interno di una realtà frammentizzata, atomizzata: abbandonato e isolato, il dio consolatorio, il dio che colma il vuoto delle nostre responsabilità umane, vive una profonda crisi.
La visione cosmoteandrica è al contrario una nuova coscienza del mondo, che vede l’unità nella diversità e ci invita a riconoscere che le fratture tra le cose sono solo apparenti. Dunque, la non-dualità, nel momento in cui ci sfida a superare l’illusione della pura unità, ci induce a non cadere entro rigidi dualismi. In questa prospettiva, il mondo non è una semplice collezione di oggetti separati, ma un intreccio di relazioni in cui ogni elemento è dinamico, interconnesso - o stando alle parole di Panikkar - inter-in-dipendente agli altri. La relazione diventa quindi cruciale in questa comprensione non-duale della realtà. Panikkar ci invita a considerare la relazione stessa come elemento fondamentale del reale, prioritario rispetto alle singole entità coinvolte. La relazione, infatti, non è semplicemente un collegamento tra cose distinte, ma una forza dinamica che crea e modella la realtà stessa. Questo punto di vista ci spinge a considerare ogni interazione, ogni connessione, come parte essenziale dell’esperienza umana e dell’espressione della divinità nel mondo. Inoltre, la cosmoteandria e la non-dualità hanno implicazioni profonde per la nostra comprensione della spiritualità e della pratica religiosa. Panikkar sostiene che non dobbiamo cercare Dio solo all’interno dei confini delle istituzioni religiose, ma piuttosto riconoscere la sacralità in ogni manifestazione della vita. La spiritualità diventa un’esperienza quotidiana, una consapevolezza costante della presenza divina in ogni momento e luogo. Panikkar parte dal presupposto che «una delle ragioni della crisi apparentemente universale dell’umanità attuale è che non si è riusciti a operare una sintesi tra sacro e secolare»,[8] due universi che devono dialogare, entrare in relazione, pur senza confondersi.[9] La secolarità sacra rompe l’eteronomia tra le due dimensioni:
il cosiddetto regno religioso non può più dettare le linee politiche al cosiddetto regno profano. Il sacro non può più rifugiarsi in un mondo olimpico e tacere quando gli schiavi vengono sottomessi, gli zingari perseguitati, gli ebrei cacciati, i comunisti eliminati, i “nobili” condannati, i poveri sfruttati. Ma la voce del sacro non può più godere di un’autorità superiore. Forse possono esserci “due spade”, […] ma una non è superiore all’altra ed entrambe devono riporre le rispettive armi e passare dall’arena della guerra inumana all’agorà umana del dialogo.[10]
È in questo senso che il suo pensiero ci sfida a superare le divisioni e le separazioni concettuali tra divino, umano e cosmico e ad abbracciare la complessità del reale in una prospettiva cosmoteandrica. La non-dualità ci invita a vedere l’unità nella diversità, mentre la relazione diventa il fulcro della nostra comprensione del reale.
- Un’alternativa alla visione tecnocratica della natura: l’ecosofia
La terra è uno dei tre elementi costitutivi della realtà cosmoteandrica. Da ciò deriva che ogni discorso sulla terra non può essere scisso dal riferimento all’uomo e al divino: essa è innanzitutto “divina” nel senso di infinita, libera, viva, procreatrice: è un mistero mai del tutto penetrabile dall’intelletto umano, né tantomeno riducibile a un insieme di oggetti manipolabili; è poi “umana” nel senso del suo essere molto più del mero habitat dell’uomo. Essa è infatti il suo spazio vitale, la sua casa, ma anche una sorta di corpo esteriore, il suo “terzo corpo”[11]. Dunque, contro ogni prospettiva utilitaristica volta a considerare la natura come un set di oggetti a disposizione, da addomesticare e dominare, Panikkar sostiene che per risolvere la crisi attuale, nelle sue varie manifestazioni, dobbiamo relazionarci alla terra da una prospettiva né teocentrica né antropocentrica né cosmocentrica. Ecco perché a suo giudizio né il monoteismo, né l’umanesimo, né il materialismo hanno saputo fornire delle risposte definitive alla crisi in atto. Non si tratta semplicisticamente di interpretare la natura in qualche modo nuovo, bensì assumere una prospettiva globale su di essa che non trascuri alcuna delle sue tre dimensioni costitutive. Grazie a un’intuizione cosmoteandrica, infatti, l’universo si lascerà leggere come un testo in cui realtà cosmica, divina e umana si intrecciano inesorabilmente.
Panikkar arriverà a dire che le categorie proprie del pensiero oggi dominante - quello delle scienze naturali - risultano inadeguate a comprendere e rapportarsi alla natura. Esse, infatti, non fanno altro che concepirla come un quidoggettivo, misurabile e classificabile, presupponendo un’immagine meccanicistica del mondo[12]. Si tratta di un modo di operare e fare scienza che contiene al suo interno elementi di verità[13], ma che appartiene a una cultura specifica e, quindi, non può essere universalmente accettato. Inoltre, la prospettiva delle scienze naturali, secondo Panikkar, presenta un limite di fondo, ossia considera la natura come un immenso macchinario a nostra disposizione, del quale è possibile pre-vedere i comportamenti.
Per risolvere la crisi attuale non basta uscire fuori dai parametri delle scienze naturali, né ricorrere a nuovi principi, adottare nuove misure, per quanto importanti. In gioco vi è una questione di vita o di morte del nostro pianeta, per cui il problema non è né solo ecologico, né solo economico, né solo politico, ma include tutti questi aspetti. Secondo Pannikkar se andiamo alla radice del problema ci rendiamo conto che quella attuale è una crisi profonda che - mettendo a repentaglio la sopravvivenza dell’umanità stessa – si presenta a tutti gli effetti come una questione religiosa, metafisica. Basti pensare che lo stesso grido di allarme che oggi lancia il cosmo può essere concepito come una sorta di Rivelazione: a rivelarsi non è certo un nuovo dio, né tantomeno una nuova immagine dell’uomo, ma è il cosmo stesso a parlarci, lanciandoci il suo grido d’aiuto. Questa - dice Panikkar - è «la Rivelazione dei nostri tempi, ed è una rivelazione di precarietà. Non si tratta di far nascere una religione ecologica, ma è la religione che deve diventare ecologica»[14]. Dobbiamo tornare ad amare, a prenderci cura della Natura, anzi ad essere natura, anziché dominarla.
Tale arte del prendersi cura della natura è definita da Panikkar “ecosofia”. Così egli si esprime a tal proposito:
con il termine “ecosofia” non intendo una ecologia rivista e corretta, o più raffinata. La Rivoluzione industriale aveva un’idea (logos) molto chiara del mondo, […] al servizio dell’Uomo, “re del creato e signore della Terra”. E, a grandi linee, l’attuale ecologia non ha affatto rinunciato a questa idea. L’ha solo modificata un po’, sulla scia dell’amara scoperta che, se vogliamo continuare a beneficiare della Terra, dobbiamo trattarla meglio, con più gentilezza, in modo che possa continuare ancora a lungo a offrirci i suoi frutti. “Ecosofia”, viceversa, è una parola nuova per esprimere una antica saggezza. […] indica la saggezza di chi sa ascoltare la Terra e agire di conseguenza[15].
In altri termini l’ecosofia è l’arte di prendersi cura della natura, riconoscendosi parte di essa. Conoscere in maniera autentica la natura vuol dire infatti identificarsi con l’oggetto conosciuto, farlo proprio, entrando in simbiosi con esso. Solo la prospettiva cosmoteandrica, secondo Panikkar, garantisce tutto ciò[16], nella misura in cui lega uomo, cosmo e divino entro un unico destino e ci libera dal modello di pensiero soggetto/oggetto, in cui il primo ha a disposizione gli strumenti per dominare, mentre il secondo è il bersaglio dominato[17]. Di contro a tale prospettiva si pone quella dei tecnocrati che tentano di addomesticare la natura col pensiero, usando la ragione come un’arma per dimostrare di essere nel giusto, per dominare gli altri e la realtà che li circonda. Proprio questo uso della ragione è a giudizio di Panikkar assolutamente nocivo, in quanto sta a fondamento di tutto ciò che ci danneggia e affligge. Occorre dunque prendersi cura della natura anche nel senso di trovare il proprio ruolo nella relazione con essa, che non deve mai essere di dominio e di sopraffazione, di riduzione della natura a oggetto, ma di istaurazione di un rapporto simbiotico che renda possibile la vita di tutti noi. A tal proposito Panikkar precisa che non si tratta di vagheggiare un’idea romantica della Natura. Proprio no. E neppure di vedere noi stessi come esseri puramente naturali, indifferenziati, perché la natura umana è appunto cultura, il che implica “coltivazione”. Coltivare significa prendersi cura, rendere più bello, portare alla perfezione, non tramite il possesso e il dominio ma attraverso una amorosa plasmazione dell’opera del Creatore, e custodendola nell’atto stesso di plasmarla. Si tratta di un atteggiamento del tutto diverso[18]. Dunque, stando alle parole di Panikkar, l’ecosofia implica una conversione, una trasformazione della mentalità.
- Ecosofia e interculturalità
La cultura tecnocratica secondo Panikkar ha profondamente influenzato i nostri modi di pensare il reale: è diventata un semplice medium materiale necessario alla sopravvivenza. Dal canto suo, l’ecologia avrebbe fatto solo un piccolo passo in avanti rispetto a tale scenario - certo un passo significativo, ma non risolutivo - nella misura in cui ci ha indotti a considerare la terra come una risorsa da sfruttare razionalmente, che noi siamo in grado di controllare e dunque abbiamo in nostro potere[19]. Pertanto, il pensiero ecologico continuerebbe in questo senso a sottostare ai condizionamenti propri della cosmologia dominante, quella scientifica e tecnocratica:
l’ecologia ci ha svegliato, ci ha rivelato la nostra condizione. Ma la reazione normale del pensiero tecnologico al problema ecologico è di trovare una soluzione tecnologica, non di ricercarne le cause. E allora ci mettiamo i guanti per trattare la natura con un po’ più di diplomazia, perché sappiamo che altrimenti diventa folle e si vendica, ma non abbiamo cambiato la mentalità, perché ancora crediamo nel dualismo: l’uomo è una cosa; la natura, la terra, è un’altra cosa. E Dio anche, una terza cosa[20].
L’ecosofia può venirci incontro per cambiare questa percezione del nostro pianeta, aiutandoci a concepirlo innanzitutto non come nostra dimora esclusiva, bensì come la dimora di tutti gli esseri, un luogo in cui abita persino il divino. Da ciò deriva che «il mondo è anche una categoria di tipo religioso, a patto che non trasformiamo la religione in una setta»[21]. Tutto ruota intorno alla questione di cosa sia la vita (in un universo che è tutto vivo e animato), in particolare quella umana e questo è un problema religioso - o meglio - filosofico-religioso. Il senso della vita è da ricercarsi, stando alla visione cosmoteandrica, nella piena partecipazione alla vita dell’universo, essendo la terra né un oggetto di conoscenza né di cupidigia, ma una parte di noi stessi. Questa presa di consapevolezza richiede un atteggiamento di collaborazione, identificazione, cooperazione, dal momento che in ognuno di noi è racchiuso tutto l’universo e il destino della realtà. Ciò è ben espresso dalle parole stesse di Panikkar, il quale sostiene:
io non sono omocentrico. Non credo che possiamo parlare dell’uomo separato da Dio e separato dal cosmo: viviamo tutti la stessa avventura. […] il destino della realtà sta anche nelle nostre mani. Altrimenti abbiamo una nozione dell’uomo molto povera, un’idea di Dio grottesca, e una concezione infantile della materia. […] Ogni uomo può fare l’esperienza che nelle nostre mani sta, in un certo modo, il destino di tutta l’umanità, che la dignità umana è la dignità divina, che il destino della terra dipende dall’uomo, che il destino di Dio dipende dall’uomo, che il destino dell’uomo dipende da Dio: cioè che tutti e tre siamo coinvolti in una stessa avventura che è l’avventura dell’esistenza, l’avventura della vita[22].
Stando a tali dichiarazioni, emerge che finché continueremo a concepire la realtà come frammentata e continueremo a pensare in modo compartimentalizzato non riusciremo a cogliere l’uomo per quel che è[23]. Lo concepiremo come un individuo isolato, classificabile secondo le sue specificità in quanto teologo, filosofo, italiano, indiano o di una qualsivoglia cultura particolare. Questa tendenza a classificare - dice Panikkar - l’abbiamo ereditata da Aristotele, perdendo però di vista che, nell’ambito del processo di classificazione del reale, se c’è un soggetto che sfugge a tale meccanismo è proprio l’uomo. In ciò consiste la sua dignità, nell’essere unico, nel senso dell’essere parte di un’unica, intrinseca e costitutiva relazionalità di tutto il reale. Occorre pertanto operare una trasformazione[24]. Nello specifico una trasformazione del nostro modo di pensare e del nostro modo di rapportarci alla terra che abitiamo. Panikkar non si limita a sottolineare la necessità di trasformare questo mondo, ma si sofferma anche sui modi concreti in cui ciò può avvenire. In primo luogo, egli fa emergere che questa trasformazione deve partire da noi stessi, precisando che ciò non vuol dire che essa costituirà un atto individuale[25]. Anzi è fondamentale sviluppare un atteggiamento di solidarietà e non di chiusura: la trasformazione in questione - egli dice - parte da me stesso ma non finisce in me stesso, abbracciando gli altri[26]. Dunque non può venire da nessuno di noi, considerato monadisticamente, ma soltanto da un noi concepito relazionalmente. Dialogo, pluralismo, connessione sono i pilasti su cui si fonda il cambiamento di mentalità che ci farà vivere un rapporto più autentico col nostro pianeta. Si tratta di una forma di relazione in cui ciascuno prende consapevolezza di non potersi ergere a giudice della realtà, perché si trova in un rapporto di equilibrio e di armonica parità con ogni elemento di essa. Più che dominare la natura si tratta di «coltivare»[27] la natura, nel senso di ascoltarla, sentirla come propria, senza imporre ad essa uno schema, un progetto di salvezza, come farebbero - secondo Panikkar - gli scienziati attuali:
credo si possa dire che l’antropologia dell’uomo-progetto, che da almeno seimila anni domina su buona parte della storia, stia alla radice delle guerre: le guerre si fanno per portare avanti un progetto […]. Fare un progetto vuol dire pro-iettare, lanciare dinanzi qualcosa che ho nella mente, un modello, un ideale o, come gli scienziati attuali dicono, un paradigma[28]. Panikkar contrappone a questa logica del paradigma e dunque del progetto la sua intuizione cosmoteandrica che vede la relazione uomo-natura non duale, poiché il dualismo implicherebbe un rapporto di sudditanza: «se sono il padrone, catastrofe ecologica; se sono lo schiavo catastrofe umana»[29]. Nessuno di noi è infatti il centro dell’universo, sebbene ogni persona, come pure ogni cultura è un centro della realtà trifasica. Se perdiamo di vista ciò diventiamo atomi che lottano per la propria sopravvivenza a spese degli altri. Questo significa per Panikkar pluralismo culturale: che ogni cultura ha un suo centro, che noi siamo il centro dell’universo ma non «la circonferenza della realtà»[30]. Noi possiamo essere un centro dell’universo solo a patto che non ci attribuiamo una posizione esclusiva, ma restiamo aperti a una circonferenza sempre più ampia.
[1] Ha tenuto conferenze e corsi in più di cento università. È stato docente negli atenei di Montreal e Buenos Aires, e in vari atenei degli Stati Uniti: in un primo momento come visiting professor ad Harvard e poi all’università di Santa Barbara in California, come professore emerito. I suoi testi sono tradotti in diverse lingue e spaziano dalla filosofia della scienza alla metafisica, dalle religioni comparate alla teologia. Per un ulteriore approfondimento della figura di Panikkar si rimanda a M. Bielawski, Panikkar. Un uomo e il suo pensiero, Fazi, Roma 2013; Id., Panikkar. La vita e le opere, Fazi, Roma 2018; F. Comina, Il cerchio di Panikkar, La Meridiana, Bari 2020; A. Rossi, Pluralismo e armonia. Introduzione al pensiero di Raimon Panikkar, Cittadella, Assisi 2011; V.P. Prieto, Dios, Hombre, Mundo: la Trinidad en Raimon Panikkar, Herder, Barcelona 2008.
[2] Cfr. C.G. MacPherson, A critical Reading of the Development of Raimon Panikkar’s Thought on the Trinity, University Press of America, Lanham 1996.
[3] Nelle religioni tradizionali noi siamo parte di un cosmo, cioè di un ordo naturae, di un universo governato da un Dio trascendente, in cui tutto è gerarchizzato. Con l’affermarsi della secolarizzazione questa fiducia si è, in larga parte, dissolta. Il destino del mondo è ora in manu homisis e non più di un dio trascendente; l’ordine cosmico ha smesso di essere una sicurezza. La visione sacra, teocentrica e quella antropocentrica si sono confrontate e scontrate per secoli nel corso della storia occidentale. A tal proposito, può essere utile il riferimento al testo di Charles Taylor L’età secolare, da cui emerge, tra l’altro, come la morte di Dio non metta fine al discorso sulla religione: il religiosoinfatti continua a godere di un diritto di cittadinanza anche in un orizzonte antropocentrico e mondano. (Cfr. C. Taylor, L’età secolare (2007), tr. it. Feltrinelli, Milano 2009). Più nello specifico rispetto alla “teologia della morte di Dio” si veda la raccolta di testi di Bonhoeffer, Cox, Van Buren, Altizer, Hamilton in La teologia della morte di Dio, a cura di A. Lova, Zanichelli, Bologna 1979. Vanno poi ricordati, anche se con notevoli differenze: G. Vahanian, La morte di Dio (1961), tr. it. Ubaldini, Roma 1966; P.M. van Buren, Il significato secolare dell’evangelo (1963), tr. it. Gribaudi, Torino 1969; T.J.J. Altizer, Vangelo dell’ateismo cristiano (1966), tr. it. Ubaldini, Roma 1969; Altizer-W.Hamilton, La teologia radicale e la morte di Dio (1966), tr. it. Feltrinelli, Milano 1969; D. Sölle, Rappresentanza. Un capitolo di teologia dopo la “morte di Dio” (1965), tr. it. Quereniana, Brescia 1970. Panikkar prende le distanze da queste visioni tradizionali dell’umano e del divino: egli intende senz’altro superare lo iato tra creatura e creatore, senza tuttavia confonderli. Nessun tipo di incarnazione di Dio è per lui possibile, come non lo è alcun tipo di divinizzazione dell’umano. La realtà non è solo divina, né solo umana, né solo materiale. Indissolubilmente connessi, uomo e dio, insieme al cosmo, formano una relazione indivisibile, priva di fratture.
[4] R. Panikkar, La realtà cosmoteandrica. Dio-uomo-mondo (1993), tr. it. Jaca Book, Milano 2004, p. 118.
[5] «Non esistono più due regni indipendenti. Il temporale è anche religioso e il sacro è anche secolare. I due regni sono inter-in-dipendenti» (ibid., p. 156).
[6] Ibid., pp. 172-173.
[7] Cfr. AA.VV., Raimon Panikkar A Companion to his Life and Thought, a cura di P.C. Phan e R. Yung-Chan, James Clarke & Co Ltd, Cambridge 2018; L. Mercato, Le radici del dialogo. Filosofia e Teologia nel pensiero di Raimon Panikkar, Mimesis, Milano 2017; VV. AA., Gottesdenken in interreligiöser Perspektive. Raimon Panikkars Trinitätstheologie in der Diskussion, Lembeck-Paderborn Bonifatius-Verl., Frankfurt am Main 2005.
[8] R. Panikkar, La realtà cosmoteandrica. Dio-uomo-mondo, cit., p. 126.
[9] «La secolarità sacra […] sfida tutte le dicotomie tra il naturale e l’eterno, il sacro e il secolare, senza confondere queste dimensioni del reale in una sola unità generale monolitica: il “soprannaturale” non è una superstruttura dell’umano; il divino non è estraneo all’umano; l’eterno non è una specie di futuro perpetuo, il sacro non è in opposizione dialettica al secolare, ecc. Queste due categorie di concetti esprimono semplicemente due dimensioni della stessa realtà, in modo che il vero essere dell’uomo non risiede altrove (in un cielo posteriore o in un Dio trascendente) e non è empiricamente manifesto (in uno spazio fisico o in un momento storico)» (ibid., pp. 160-161).
[10] Ibid., p. 156.
[11] «Il mio primo corpo è quello che ho sotto gli occhi. Il secondo è l’umanità […]. È una intuizione potente di quasi tutti i popoli, quella secondo cui l’umanità è una famiglia, costituisce un solo corpo, e quel corpo è vivo. Il nostro terzo corpo è la Terra, la Natura. Noi siamo la Terra, non ci limitiamo a viverci sopra a nostro uso e consumo. Dobbiamo quindi trattare la Natura come facciamo con il nostro corpo: senza dominarla né farcene dominare. Con amicizia, fiducia reciproca, equilibrio» (Id., Ecosofia. La saggezza della Terra, Jaca Book, Milano 2023, pp. 23-24).
[12] «La mia tesi è che la scienza moderna non è conoscenza del senso tradizionale e che si deve al vuoto teologico e filosofico se le si è chiesto di ricoprire questo ruolo. Io non ne do la colpa agli scienziati, caso mai la darei alla filosofia e alla teologia. […] Ci sono altre dimensioni della realtà che non vengono colte nemmeno da questa scienza aperta, che ha sempre bisogno della quantificazione, della misura, della previsione, rinunciando così a conoscere il “che” e il “perché”. Penso che la cultura occidentale moderna abbia fatto una rinuncia troppo facile, o troppo difficile, ma senz’altro troppo rischiosa nel dire: siccome il “che” e il “perché” non lo possiamo sapere, accontentiamoci del “come” vanno le cose. […] sarebbe contro uno dei miei principi pensare che si possa prescindere dalla scienza. Ciononostante […] non ci rendiamo ancora conto dell’impoverimento di tutte le nozioni fondamentali che concernono la vita dell’uomo, quando queste nozioni diventano oggetto di ricerca scientifica. Si devitalizzano, diventano elementi di grande importanza per l’esistenza moderna, anzi indispensabili per sussistere (non voglio dire sopravvivere), ma non possono pretendere di darci una visione della realtà» (Id., Ecosofia: la nuova saggezza per una spiritualità della terra, Cittadella editrice, Assisi 1993, pp. 91-92).
[13] Panikkar si sente in dovere di precisare il carattere peculiare della sua critica alla scienza e a tal proposito sostiene: «dobbiamo sviluppare una critica molto più profonda, che tocchi le radici stesse dell’essenza del genere umano, e quindi dell’essenza del pensiero. E la mia critica alla scienza è rivolta alla forma di pensiero, non ai risultati che ottiene o alla metodologia» (ibid., pp. 94-95).
[14] Id., Ecosofia. La saggezza della Terra, cit., p. 16.
[15] Ibid., pp. 13-14.
[16] In realtà, sebbene all’interno di framework teorici differenti, e partendo da differenti nodi problematici, ci sono, nella storia recente del pensiero occidentale, autori e filoni di riflessione che hanno, da vari punti di vista, provato a evidenziare la necessità di strutturare un approccio olistico in cui l’essere umano, gli animali non umani e, in generale, gli elementi biotici e abiotici con i quali interagiamo sono collocati entro una rete complessa, fatta di nodi tra loro interdipendenti. A tal proposito, la deep ecology di Arne Naess è stata tra le prospettive più importanti nel Novecento (cfr. A. Naess, Siamo l’aria che respiriamo. Saggi di ecologia profonda, tr. it. Piano B, Prato 2021; Id., Ecologia profonda, tr. it. Red Edizioni, Milano 1994). Nell’ambito dell’etica applicata, merita attenzione poi la proposta di Paul Tylor, con il suo approccio ecocentrico (cfr. P. Tylor, Respect for Nature: A Theory of environmental ethics, Princeton University Press, Princeton 2011). Sebbene si situi entro una cornice temporale precedente allo sviluppo in senso stretto dell’etica ambientale, anche i lavori di Aldo Leopold con la sua Land Ethics, per alcuni aspetti, si muovono in una direzione simile (cfr. A. Leopold, Tutto ciò che è libero è selvaggio, Piano B editore, Prato 2021). Per un approfondimento di questi temi rimando a G. Pellegrino, M. Di Paola, Etica e politica delle piante, Luiss University Press, Roma 2019; A. Kallhoff et al. (a cura di), Plant Ethics. Concepts and applications, Routledge, London-New York 2019), A. Leopold, L'etica della terra, in Sergio Bartolommei, "Etica filosofia e coscienza ecologica: introduzione a Leopold", in «Critica marxista», n. 4, 1987, pp. 92–123.
[17] Questo è l’atteggiamento che Panikkar polemicamente ha definito «”epistemologia da caccia”: tu devi identificarti con il soggetto, e tutto il resto diventa oggetto. Devi condurre un’analisi il più accurata possibile, e poi metterti in caccia di un determinato bersaglio. Una volta trovatolo, puoi premere il grilletto, aprire il fuoco e fare centro. Dopodiché potrai trarre le tue conclusioni – e magari lamentarti della violenza diffusa» (R. Panikkar, Ecosofia. La saggezza della Terra, cit., p. 19).
[18] Ibid., p. 15.
[19] Cfr. N. Russo, Filosofia ed ecologia, Guida, Napoli 2000.
[20] R. Panikkar, Ecosofia: la nuova saggezza per una spiritualità della terra, cit., p. 115.
[21] Ibid., p. 31.
[22] Ibid., p. 45.
[23] Cfr. R. Panikkar, M. Cacciari, J.L. Touadi, Il problema dell’altro. Dallo scontro al dialogo tra le culture, L’altrapagina, Città di Castello 2007; V.P. Prieto, Raimon Panikkar. Oltre la frammentazione del sapere e della vita, Mimesis, Milano 2011; P. Calabrò, Le cose si toccano, Raimon Panikkar e le scienze moderne, Diabasis, Parma 2010; F. Dallmayr, Il dialogo tra le culture. Metodi e protagonisti (2002), tr. it. Marsilio, Venezia 2010.
[24] Rispetto a tale trasformazione Panikkar sostiene: «qualche piccola modifica dei parametri attuali non ci condurrà certo fuori dal vicolo cieco; né una semplice riforma, che non farebbe altro che prolungare l’agonia di un sistema condannato a morte. E neppure una rivoluzione, perché distorsioni e violenze producono solo reazioni uguali e contrarie. Serve piuttosto una metamorfosi, una trasformazione. Il che implica sperimentare il proprio sé e la Natura in maniera trasformata, non semplicemente interpretare la Natura in qualche modo nuovo. Il problema non è ecologico né economico né politico. Il problema include tutti questi aspetti, ma la nostra crisi è ben più profonda di una crisi risolvibile soltanto con le nuove tecnologie, o adottando nuove misure, per quanto importanti. […]. Solo una metamorfosi potrà salvarci» (Id., Ecosofia. La saggezza della Terra, cit., p. 16).
[25] A tal proposito va precisato che quando Panikkar dice “sé” a proposito del partire da se stessi, non intende l’ego dell’individuo, ma ciò che lui chiama “atman”, appunto il se stesso, che è per lui sempre legame io-tu: «l’io e il tu si richiamano a vicenda: non c’è un io senza un tu, non c’è un tu senza un io; l’altro non è il totalmente altro» (ibid., p. 102).
[26] Cfr. AA.VV., Le pratiche del dialogo dialogale. Scritti su Raimon Panikkar, a cura di M. Ghilardi e S. La Mendola, Mimesis, Milano 2020; G. Cognetti, Per un nuovo umanesimo. Itinerari, Mimesis, Milano 2016; Id., Fra Panikkar e Jung. Un nuovo umanesimo interculturale, Mimesis, Milano 2019; A. Calabrese, Il paradigma accogliente. La filosofia interculturale in Raimon Panikkar, Mimesis, Milano 2012.
[27] Ibid., p. 22.
[28] Ibid., p. 93.
[29] Ibid., p. 135.
[30] Ibid., p. 144.