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Dalma Frascarelli – L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento [Giulio Einaudi Editore, Torino 2016]

Antispecismo, femminismo, ecologia, intelligenze artificiali, alimentazione e moda, sono fra le tematiche più discusse dei nostri giorni; e se fossero state, fra le altre, anche le più dibattute nei salotti libertini del Seicento? Nello straordinario volume di Dalma Frascarelli, edito da Giulio Einaudi Editori, un animato, sorprendente ed inedito Seicento riemerge dalle pagine e dalle numerose immagini a colori. Un viaggio variegato tra dipinti e letteratura nel secolo di Galileo, dell’atomismo e del meccanicismo. In questa recensione, procedendo per capitoli, si ripercorreranno non solo le avvincenti tematiche da essi emerse, ma anche i loro collegamenti con l’Evo contemporaneo.

 

Capitolo primo – «Quadri come libri aperti»

Nel primo paragrafo del capitolo del volume, Dalma Frascarelli affronta uno dei dilemmi più complessi della critica letteraria, filosofica e sociale italiana: è possibile parlare di libertinismo in Italia? La risposta è sì, ed è proprio tramite il metodo induttivo galileiano che l’autrice corroborerà, in queste dense pagine, la sua tesi.

Le «note condizioni di ambiente e tradizione» che condussero Benedetto Croce, nel 1951, a negare la possibile presenza di un libertinage italiano, in realtà, come ampiamente dimostrato dagli studi, non ostacolarono l’esistenza di questo fenomeno, ma semplicemente gli imposero forme e modalità di affermazione peculiari e assai complesse. Analizzando la radice semantica del termine libertino, la studiosa, individua «un’ansia di libertà individuale e collettiva che rivendica l’affrancamento dal dogma dalla ragione di stato dal principio di autorità e, più in generale, dai modelli precostituiti, convenzionali ed estranei alle leggi naturali, che impediscono sia un’analisi critica, sia la formulazione di nuove teorie nei diversi campi del pensiero e dell’agire umano» (p. 5).

Lo studio e la diffusione delle idee libertine avvengono nelle biblioteche, mentre le accademie, raccolte sotto la massima dell’aristotelico averroista Cesare Cremonini intus ut libet, foris ut moris, si occupavano della trasmissione in forma protetta e criptata delle stesse.

Gli argomenti dibattuti all’interno di queste accademie non erano solo letterari, filosofici ed antiquari, ma si concentravano anche sullo studio delle scienze, prendendo avvio da vere e proprie dimostrazioni sperimentali.

La ricerca della verità avvenuta tramite l’esperienza e la rivendicazione di una libertas philosophandi, si andavano alimentando nelle accademie italiane, nutrite dai versi lucreziani che tanta fortuna avevano avuto nel pensiero umanistico, e che altrettanta ne avrebbero avuto nel Seicento «troverai che […] i sensi non possono essere contraddetti». Proprio il De Rerum Natura, nel corso del XVII secolo, vedeva un’ampia diffusione anche in ambito scientifico, grazie all’affermazione dell’atomismo.

Nel Seicento, un’Italia libertina, operava negli studi privati, nelle accademie e nelle biblioteche, coesistendo con la più nota Italia delle liturgie e dei rituali pubblici che officiavano il trionfo del cattolicesimo. Ed è proprio l’analisi e lo studio di questa netta separazione tra pubblico e privato, che condizionava ogni aspetto della vita intellettuale e sociale, che spinge la Frascarelli ad ipotizzare «che nicodemismo e dissimulazione potessero trovare una confortevole accoglienza non solo nel campo delle parole ma anche in quello delle immagini» (p.13).

A seguito di un’efficace e quanto mai puntuale analisi dei libri andati all’indice, l’autrice ipotizza che gli argomenti banditi da questi, potessero rientrare nel circuito delle idee attraverso le immagini, come avvenne ad esempio per il tema della fortuna. Nel corso del Seicento furono i pittori stessi a definirsi filosofi e a porsi come obiettivo, la realizzazione di opere cariche di eruditi e celati significati.

Alcuni artisti considerarono imprescindibile per la loro produzione, una vasta conoscenza letteraria e scientifica «in una parola esser filosofo», come sostenne il pittore Pietro Testa.

È nel terzo paragrafo, del primo capitolo del volume, che la Frascarelli ribadisce programmaticamente il suo intento, ovvero quello di rintracciare, nella «pittura del dissenso» uno spazio al di fuori delle ormai troppo limitanti e faziose definizioni di barocco e classicismo. A questa declinazione della produzione artistica del Seicento è dedicato il volume, definito dall’autrice come un sasso nello stagno, «che intende formulare una prima iniziale risposta alla necessità (finalmente! corsivo mio) avvertita dalla critica» di congiungere artista, contesto ed intellettuali, «auspicando futuri e più completi risultati che potranno nascere solo da un da un dialogo profondo e da un confronto aperto degli storici dell’arte, spesso purtroppo imbrigliati dai lacci dell’autoreferenzialità formalista, con gli studiosi delle altre discipline storiche» (p. 25).

 

Capitolo secondo – L’amore, il sesso e il piacere

Il secondo capitolo del libro è dedicato all’amore, al sesso e al piacere. Si pone l’attenzione su quegli orientamenti del pensiero tipici del libertinage, «ispirati dall’epicureismo, dallo scetticismo e dal cinismo, l’uomo immerso nell’universo di cui è parte, privato di prospettive finalistiche e di rifermenti gerarchici è chiamato a vivere intra naturae fines» (p. 27).

L’autrice evidenzia la modernità di quelle congetture antiche, che avevano alla base il ricondurre l’amore alla materia, escludendo così il concetto di peccato in quanto estraneo alla sfera naturale; lecito il conseguimento del piacere, unico precetto da seguire, secondo il monito epicureo, ripreso da Torquato Tasso, s’ei piace, ei lice. La carnalità si manifesta, così, in luoghi e forme non convenzionali, non solo in caste alcove, ma anche in bordelli, conventi e seminari che si trasformano in teatri dei più variegati rapporti.

Seppur la produzione di pittura lasciva, legata alle tematiche promosse da tali ambienti fu piuttosto marginale, è appassionante notare come la presenza di opere sensuali contraddistinse i luoghi più disparati (non solo collezioni di laici, ma anche quelle di cardinali come Flavio Chigi). Nudi femminili ricollegabili a temi classici e mitologici erano inoltre presenti in diverse case di prostitute, come testimoniato fra gli altri, dai dipinti di Angelo Caroselli.

Le intricate problematiche «riguardanti il diritto al piacere e alla libertà sessuale (ieri come oggi, corsivo mio) erano avvertite e vissute a diversi livelli di pensiero non tutti riconducibili ad un’espressione ideologica accostabile al libertinismo» (p. 35)

Il libellista Ferrante Pallavicino, legittimò adulterio, concubinaggio e poligamia sulla base del principio di natura che contrastava con i dogmi religiosi e le regole della convivenza civile.

Tra i pittori che maggiormente declinarono queste tematiche vi fu il francese Nicolas Poussin, per mezzo delle sue Veneri, acquistate da personaggi del calibro di Cassiano del Pozzo. Ciò che l’artista propone, nella reinterpretazione del tema, è un vero e proprio inno epicureo al piacere, ispirato non solo dai testi lucreziani ma anche da componimenti coevi che evocano, rimpiangendola, una perduta età dell’oro, un’Arcadia nella quale non c’è vergogna né pentimento nei dolci atti lascivi.

 

Capitolo terzo – Libertas philosophandi, libertas pingendi

Se i temi legati all’amore, affrontati nel capitolo precedente, ebbero un’influenza marginale in pittura, «piuttosto considerevole e specifica, sembra essere stata quella esercitata dalla libertas philosophandi» (p. 49).

Dopo una breve disamina del rapporto tra religione e filosofia dall’antichità fino al Seicento, dove la scienza diventa uno dei maggiori bersagli di censura e inquisizione, Dalma Frascarelli analizza specificatamente il rapporto tra filosofia artisti, committenti e pensatori.

Mentre il potere religioso stigmatizzava i filosofi come «paladini della miscredenza» e censurava il loro pensiero, «nei palazzi essi campeggiavano in modo singolare nei quadri che decoravano le stanze di prelati e cardinali, aristocratici ed eruditi, esponenti di quella stessa gerarchia politica ed ecclesiastica che ufficialmente biasimava la speculazione filosofica» (p. 51).

Si osservi ora come, non solo i filosofi antichi conquistino le quadrerie con i loro ritratti e le loro storie, ma pittori tra cui Nicolas Poussin, Pietro Testa, Giovanni Benedetto Castiglione detto il Grechetto e Salvator Rosa, inizino a definirsi essi stessi come pittori filosofi.

Ma chi erano questi filosofi e come venivano rappresentati nei dipinti? Spesso era difficile individuare il filosofo rappresentato poiché erano assenti elementi quali attribuiti o iscrizioni che ne provavano l’identificazione, la sola trascuratezza di modi, la povertà dell’abbigliamento indicavano all’osservatore l’attività svolta.

Nel corso del Seicento vestire abiti logori o semplici significava, sovente, assumere un atteggiamento schiettamente polemico verso le istituzioni. Quanto mai suggestivo, risulta il richiamo alla cultura punk rievocato dai versi con i quali il pittore Salvator Rosa deride i ‘capelloni’ del suo tempo «che per parer filosofi e saputi| se ne van per le strade unti e bisunti | stracciati, sciatti, sudici e barbuti | con chiome rabbuffate| ed occhi smunti».

Atteggiamenti sovversivi, si manifestano mediante la critica del vestiario; questo è alla base dell’operetta poetica redatta da Galileo Galileo intorno al 1590, Contro il portar la toga, in cui lo scienziato rifiuta l’uso dell’indumento distintivo della società universitaria e dell’élite del potere.

Tra i filosofi maggiormente dipinti e studiati nel Seicento troviamo non più Aristotele e Platone, bensì Democrito ed Eraclito, spesso in coppia secondo l’iconografia del filosofo che piange e di quello che ride. «Democrito malinconico diventa il simbolo dell’uomo che assurgendo il dubbio a principio, rifiuta la trascendenza giudicata una pura chimera inventata per gestire i bisogni di una collettività dove il saggio non può che isolarsi» (p. 64), il riso democriteo al contrario «è l’incarnazione di uno scetticismo integrale che non solo irride la vanità delle cose mondane, ma rifiuta l’esistenza di ogni verità assoluta» (p. 65).

Tra le nuove speculazioni che ripartono dall’atomismo, troviamo l’antispecismo promosso in un passo dell’Anfiteatro dell’eterna provvidenza pubblicato a Lione nel 1615 dove, evocando un passo dell’Ecclesiaste, si attesta che «la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono quelli, muoiono queste, e il soffio vitale è uno per tutti e la superiorità dell’uomo sulla bestia è zero, perché tutte e due sono vanità, tutte e due vanno a finire nella medesima dimora, tutte e due sono uscite dalla polvere e tutte e due ritornano nella polvere» (p. 68).

Tra le storie dei filosofi maggiormente rappresentate vi sono quelle che riguardano il loro trapasso, spesso deliberato, come quello di Seneca, Socrate e Catone.

Fra gli splendidi esemplari che rispondono a questo clima culturale vi è La morte di Seneca dipinta da Pieter Paul Rubens, intorno al 1611, dove le contaminazioni iconografiche di matrice cristologica rispondono alla volontà di suggerire, attraverso il filosofo, un esempio di virtù laica. Nei secoli dei lumi, quando «l’unica fede ormai ammissibile è quella della ragione, Denis Diderot indirizzerà le sue preghiere proprio al santo Seneca» (p.77).

La fine dei saggi è esibita come edificante non solo nel suicidio, ma anche quando è inflitta dall’abuso dei potenti, fra questi l’omicidio di Cicerone e quello di Archimede dipinti da François Perrier o Pier Francesco Mola.

I dipinti investigati dalla Frascarelli, come vere e proprie fonti testuali, ci parlano di un legame diretto «che unisce la rivendicazione della libertas philosophandi, l’antidogmatismo e l’anticonformismo della speculazione libertina alla cultura illuminista» (p. 81). Il libertinage grazie anche ai suoi profondi legami con la cultura umanistica, rappresentò, un punto nodale tra tradizione rinascimentale e l’Illuminismo, esercitando un ruolo fondamentale nello sviluppo della moderna cultura europea.

 

Capitolo quarto – «Senza pietà, senza legge o ragione»: la fortuna come allegoria del dissenso

Tra i temi iconografici attraverso i quali pittori e collezionisti secenteschi intesero criticare le credenze del proprio tempo, spicca la rappresentazione allegorica della fortuna. La teoria atomista, formulata da Democrito, diffusa da Epicuro e Lucrezio e ripresentata in ambito scientifico e libertino, attribuiva proprio al caso la nascita dell’universo, generato da incontri assolutamente fortuiti tra atomi liberi nel vuoto. Questo pensiero, schierandosi contro la creazione divina, affidava al destino centralità nelle vicende cosmologiche e «rendeva ancora più esecrabile l’antica dea contro la quale, d’altro canto, l’ortodossia cattolica era tornata recentemente a scagliarsi, in difesa del libero arbitrio contestato e recusato dai protestanti» (p. 85).

 

Capitolo quinto – Il filosofo naturale, la strega, il diavolo e la maga

A partire dal Seicento, l’acquisizione della conoscenza venne assicurata dall’applicazione del metodo sperimentale che previde «l’osservazione dei dati naturali, ma anche la verifica delle ipotesi formulate attraverso gli esperimenti e, soprattutto, il confronto e la discussione pubblica sulle teorie elaborate» (p. 99).

L’autrice evidenzia come, la condanna della magia, divenga una tema molto delicato sul quale, per tutto il secolo, si scatenerà un acceso dibattito, che vedrà disposti da una parte coloro che contestavano «ogni ricorso a cause metafisiche per spiegare fenomeni che alla luce dei nuovi metodi di indagine si dimostravano essere naturali, e dall’altra esorcisti e demonologi che attraverso la condanna dell’azione di maghi e streghe, ma anche dei filosofi che negavano l’attendibilità di presenze diaboliche, erano chiamati a difendere l’ortodossia e l’esistenza della stessa Chiesa» (p. 103)

«Le cosiddette ‘sensate esperienze’, ovvero quelle pratiche sperimentali attraverso le quali lo studio dei fenomeni naturali passa al vaglio delle facoltà sensoriali, furono oggetto di un eccezionale interesse da parte dei filosofi per tutto il Seicento, da Hobbes a Galilei, da Locke a Hume» (p.104). Questo tipo di studi, si collocarono nelle arti visivi in nuove forme e in nuove iconografie e secondo la Frascarelli, proprio il sottogenere artistico della rappresentazione dei cinque sensi, molto spesso in forma di nature morte, ne fu diretta conseguenza.

Intorno al 1615 il pittore spagnolo Jusepe de Ribera realizzò una serie di tele dedicate ai cinque sensi. La lettura filosofico-naturalista del soggetto è particolarmente evidente nel dipinto raffigurante la Vista dove il pittore spagnolo introdusse una precoce rappresentazione del cannocchiale; i trasandati personaggi dalle unghie sporche e dalle mani nodose potevano inoltre ricollegarsi all’esercizio della prassi ed essere identificabili proprio come filosofi naturali.

Le immagini divengono così, lo strumento conoscitivo favorito, non solo per testimoniare lo svolgimento degli studi, ma anche per comunicare e trasmettere le nuove conquiste del sapere, tanto che Erwin Panofsky nel 1977, poté affermare a proposito che in questo periodo, «l’arte è stata in certa misura propedeutica alla scienza».

L’uso delle immagini come veicolo di conoscenza trova riscontro nel gran numero di testi a stampa commissionati dagli intellettuali dell’Accademia dei Lincei, tra questi, solo per citarne alcuni, il Museum Chartaceum e l’Uccelliera o ancora la Melissographia e l’Apiarium realizzati per omaggiare l’elezione di Urbano VII, che aveva scelto l’ape come sinonimo di operosità, di dedizione e di eloquenza, che avevano accompagnato il suo pontificato.

Spesso le opere pubbliche e sacre, divengono promotrici e precoce veicolo di idee e scoperte scientifiche; fra queste l’affresco eseguito tra il 1610 e il 1612 nella Capella Paolina in Santa Maria Maggiore realizzato dal pittore Ludovico Cardi detto il Cigoli, dove la luna su cui poggia l’Immacolata Concezione è «perfettamente galileiana» (p. 110).

Intorno anni Sessanta del Seicento, un usciere del tribunale di Delft, Antoni Van Leeuwenhoeck, attratto fortemente dalle «sensate esperienze» si fabbricò un microscopio potenziato, rispetto a quello ideato da Giovanni Faber, con il quale studiò lo sperma e il sangue osservando dal vero spermatozoi e globuli rossi. Queste scoperte sembrarono cancellare la linea che separava la materia vivente da quella non vivente. Si apriva così il dibattito sulla generazione spontanea che per due secoli, vide numerosi studiosi impegnati in discussioni spinose poiché inevitabilmente legate al problema dell’origine della vita.

Dalma Frascarelli, nota acutamente, quanto dalla lettura dei testi dell’epoca, redatti sia dai controversisti che dai novatori, emerga che l’interesse per il demoniaco «si acuì e divampò proprio in coincidenza con l’irrompere sulla scena intellettuale dei nuovi metodi di ricerca, spesso condannati dalla Chiesa come frutto dell’azione del demonio, poiché basati sul rifiuto dei vincoli imposti dal principio di autorità del dogma di fede» (p. 115).

Le meditazione sulla magia, sulle forze demoniache e sulla stregoneria divenne centrale non solo nella vita religiosa, ma anche in quella culturale, politica e sociale, alimentando un acceso dibattito  “tra gli esponenti dell’ala più conservatrice della Chiesa cattolica e riformata e tra gli intellettuali indaffarati sia nel formulare nuovi metodi di indagine (fondati su orientamenti razionalisti), sia a riproporre nella polemica antimetafisica atteggiamenti in gran parte desunti dallo scetticismo antico.” (p.116). Questo provocò inevitabilmente un riverbero nelle arti visive, dove vengono rappresentate sempre più spesso, scene con maghe e streghe che già abbondantemente presenti in nord Europa, cominciano a diffondersi anche in Italia. Ma a fronte del successo goduto da queste rappresentazioni risulta difficile interpretare correttamente il loro significato.

Possedere o dipingere immagini raffiguranti tematiche legate al demonio poteva costituire un atto di trasgressione, come difeso dal cardinale Gabriele Paleotti nel suo Discorso intorno alle immagini sacre e profane. La studiosa rammenta come nel complesso dibattito sulla magia, teologi e demonologi considerassero la negazione dell’essenza diabolica e più in generale il rifiuto del sovrannaturale come il maggior pericolo a cui il maligno stesso stava esponendo l’umanità.

«Dare un volto e un corpo al male attraverso l’arte, poteva costituire un incentivo a credere nell’esistenza di satana e, nello stesso tempo, un monito a tenersene lontani, obiettivi entrambi reputati imprescindibili e urgenti da cattolici e protestanti per la sopravvivenza stessa delle reciproche istituzioni ecclesiastiche minacciate dal prevalere degli orientamenti razionalisti, scettici ed epicurei di cui si alimentava il libertinismo» (p. 119).

La magia, nella doppia facies con la quale veniva avvertita nel Seicento, ovvero arte diabolica ma anche come scienza che indaga le leggi dell’universo, trova un’emblematica rappresentazione nella figura di Circe.

Circe, nell’Odissea, non è mai definita maga, bensì dea, poiché figlia del Sole, ma anche ‘signora degli animali’, celebre è la sua ambiguità: temibile ingannatrice nella prima parte del racconto e amante prodiga nella seconda. La figura di Circe fu essa stessa oggetto di diverse trasformazioni e riletture nel corso dei secoli, da dea meretrice ad allegoria del potere esercitato dai sensi e dal piacere.

Di particolare rilevanza, soprattutto nel Cinquecento, è una versione del mito che traeva origine da un volume di Plutarco di Cheronea scritto tra il I e il II secolo d.C., noto con il titolo di Bruta animalia ratione uti o Gryllus, dal nome del suo protagonista. Secondo Plutarco, alla richiesta di Ulisse di trasformare nuovamente gli animali in uomini, Circe concesse ad uno di loro, un maiale chiamato con il nome parlante di Gryllus, la facoltà di pronunciare il giudizio delle bestie a riguardo: Gryllus dichiarò, che nessuno di loro aveva intenzione di tornare alla condizione umana poiché la più misera tra gli esseri viventi, per la prima volta la trasformazione di Circe veniva interpretata positivamente.

Questa variante del racconto ebbe ampio successo nel corso del XVI e fu riproposta da Machiavelli nell’Asino e da Giovan Battista Gelli nel dialogo Circe.

L’influenza di tale interpretazione nelle arti fu notevole nel Cinquecento e soprattutto nel Seicento. È nella produzione del pittore genovese Giovanni Benedetto Castiglione, che questa Circe trova la sua più evidente rappresentazione, con ben otto dipinti che la ritraggono come assoluta protagonista. Se più volte gli studiosi hanno richiamato l’attenzione sul dialogo del Gelli come fonte iconografica del pittore, inedito risulta il riferimento istituito dall’autrice, con l’opera di Giordano Bruno che pose la dea Circe al centro non solo del Cantus ma della sua intera produzione considerandola come materia vivente che tutto genera; tra le due Circi del Grechetto e del nolano, un «ruolo centrale [è] affidato alla natura e alla magia intesa come lume naturale e non sovrannaturale, all’interno di una speculazione che nega l’antropocentrismo, rifiuta le convenzioni e contesta le religioni rivelate» (p. 136).

 

Capitolo sesto – Contro l’antropocentrismo: gli animali nella pittura del Seicento

Nel Seicento le rappresentazioni di animali invadono letteralmente il mercato dell’arte, seguendo le declinazioni più varie; per la prima volta il mondo animale viene osservato nella sua individualità, al pari di quello umano.

Innumerevoli gli artisti che si specializzarono nel ritrarre soggetti zoologici da Filippo Napoletano al Grechetto, passando da Pier Francesco Mola ad Angelo Caroselli fino a Salvator Rosa.

La pittura di animali, pur soddisfacendo il gusto tutto barocco «per la varietà e la stravaganza delle forme, per il virtuosismo e la verosimiglianza della rappresentazione» (p. 143), rispondeva «anche alle nascenti curiosità intellettuali di committenti e artisti spesso aggiornati sul contemporaneo dibattito filosofico e scientifico, che poneva il regno animale al centro dell’interesse, mettendo in crisi quel sistema antropocentrico già provato dalla fine del sistema aristotelico-tolemaico e dalle nuove scoperte astronomiche» (p. 143).

Se Plutarco nel Gryllus e nel De sollertia animalium, affermava che le bestie non sono inferiori all’uomo per sensibilità e intelligenza, è con la riscoperta, a partire dal tardo Cinquecento, del De rerum natura di Lucrezio, che assistiamo ad una vera e propria rivalutazione degli animali in campo figurativo.

«Messa in crisi dalla nuova cosmologia, l’autorità delle sacre scritture veniva dibattuta anche sul fronte dell’antropocentrismo dalle dissertazioni libertine che facevano proprie le teorie animaliste per negare la superiorità umana e con essa l’esistenza di una vita ultraterrena» (p.148-149)

Nell’Amphitheatrum aeternae providentiae Giulio Cesare Vanini afferma che «gli uomini e gli animali sono concepiti, formati, nascono, si alimentano, crescono, invecchiano e infine muoiono allo stesso modo, sono costituiti di organi interni ed esterni simili e ciascuno di tali organi ha funzioni analoghe negli uni e negli altri. Perciò se l’anima si dilegua in un animale che sta morendo, altrettanto dovrà accadere nell’uomo». Lo stesso Vanini, come molti altri libertini, annullando ogni distanza gerarchica tra uomini a animali arriva ad ipotizzare, per primo, una derivazione del genere umano dalla scimmia, anticipando di circa due secoli, le teorie evoluzionistiche darwiniane.

Pierre Charron nel suo De la sagesse, pubblicato nel 1601, riprende, sviluppandole, le teorie sostenute da Michel de Montaigne, riconoscendo agli animali facoltà spirituali e una superiorità rispetto all’uomo in fatto di virtù e di religione, poiché è più nobile e meritevole operare per natura che per arte e istruzione.

Spesso oggetto di aspre critiche, fu il pensiero di René Descartes, che ipotizzava una rappresentazione meccanica dell’organismo, generalizzando il concetto di macchina e concependo la visione del corpo umano costituito al pari di questa.

La critica all’antropocentrismo è molto presente anche in François La Mothe le Vayer, il quale mette in ridicolo in quanti sono persuasi che il mondo è fatto per loro e che «in particolare sono padroni della vita di tutti gli altri animali dei quali si nutrono, come forse i gatti sono persuasi che Dio ha creato sorci e topolini solo per ingrassarli». Se il mondo non è creato per i soli uomini, occorre prendersene cura e preservarlo per le future generazioni umane e animali.

Jean de La Fontaine si schiera a favore dell’esistenza dell’anima nelle bestie, sostenendo nelle sue Favole, l’assoluta uguaglianza della natura e delle sorti tra uomo e animale.

In questo acceso dibattito lo scrittore inglese Thomas Tryon decide di intraprendere una dieta vegetariana, denunciando nei suoi scritti il comportamento dell’europeo cristiano definendolo un oppressore intollerante il cui lusso e i cui sprechi, non possono (e non devono) essere mantenuti se non principalmente grazie alla grande oppressione di uomini e degli animali.

Nel campo delle scienze si moltiplicano gli studi sul mondo animale. L’automatismo cartesiano favorisce e alimenta la nascita della iatromeccanica ad opera di Giovanni Alfonso Borelli, galileiano e membro dell’Accademia del Cimento, dalle cui fila proviene anche Francesco Redi, autore di numerosi studi sugli animali tra i quali il celebre Le esperienze intorno alla generazione degli insetti (Firenze 1668), che suscitò enorme clamore, poiché, grazie all’applicazione del metodo sperimentale, respinse, deridendola, la teoria relativa alla generazione spontanea di mosche, vermi e rettili, provando l’uguaglianza dei meccanismi che regolano la vita animale e quella umana.

Il dibattito tra uomo e animale, coinvolge anche i controversisti cristiani, ovviamente contrari alla riduzione o addirittura all’abolizione delle distanze tra mondo animale ed umano, Dalma Frascarelli a questo proposito, ricorda quanto questa separazione fosse così radicale da aver condizionato anche ben oltre il Seicento aspetti della quotidianità; fino al XIX secolo si limita, infatti, l’uso della pellicce all’interno delle vesti per «mantenere chiare ed evidenti le distanze, o forse sarebbe meglio dire la gerarchia, fra gli uomini e gli animali» (p. 152). L’antispecismo, così formulato, sarà alla base delle speculazioni femministe elaborate a partire dal secolo scorso, individuando nell’oppressione animale analogie con quella patriarcale.

Diversi committenti scelgono di ornare le loro abitazioni di città e di campagna con tele a tema animale, operando questa scelta, non in base ad una semplice questione estetica, quanto anche alla loro conoscenza del dibattito culturale in corso. Tra i collezionisti e committenti maggiormente rappresentativi, vi è Cassiano dal Pozzo, principale referente romano della Repubblica delle Lettere durante il pontificato di Urbano VIII e Alessandro VII, amico sodale di Francis Bacon, Galileo Galilei, Tommaso Campanella e stimato da numerosi esponenti del libertinismo erudito. La sua collezione di dipinti, collocata fra l’altro nei locali attigui al museo e alla biblioteca, forniva materiali di studio al pari della sua biblioteca e del museo di curiosità naturali. Tra i testi documentati nella sua ricca collezione, numerosissimi quelli rivolti al dibattito sull’anima ma anche opere di Plutarco e la Circe di Giovan Battista Gelli, a cui si aggiungeva anche il De rerum natura di Lucrezio.

Similmente a quanto osservato per Cassiano, la scrittrice, individua negli oltre quaranta dipinti collezionati da Flavio Chigi rappresentanti pecore, cavalli, coccodrilli, tartarughe, pavoni, falchi, lepri, uccelli e pesci richiami alla sua raccolta libraria.

Ma la quadreria che si rivela più significativa, ai sensi della nostra narrazione, è quella allestita nella dimora di Montegiordano da Pietro Gabrielli. Attraverso il rinvenimento delle carte del Sant’Uffizio, relative al processo avvenuto tra il 1690 e il 1692, è stato possibile ricostruire il complesso pensiero alla base di questa Accademia detta dei Bianchi, un cenacolo che comprendeva al suo interno, medici, letterati e nobildonne (sempre più presenti all’interno dei salotti e delle accademie). Gli incontri dell’Accademia avvenivano nella prima anticamera del palazzo già Orsini, acquistato dai Gabrielli nel 1688 e fatto decorare con dipinti che raffigurano animali, protagonisti di scene di caccia o di visioni bucoliche o pastorali, in gran parte eseguiti dal pittore Philipp Peter Roos, detto Rosa da Tivoli. Tra i temi, cardine, dei dibattiti all’interno dell’Accademia, quelli relativi al paragone uomo-animale che voleva provare l’uguaglianza del destino e le imposture delle religioni.

Nella vasta collezione di naturalia, artificialia e mirabilia di Manfredo Settala, intellettuale vicino alle speculazioni libertine, spicca un singolare automa demonio intagliato in legno, che sghignazzava, cacciava la lingua e sputava in faccia ai visitatori. La presenza dell’automa, acquista per la Frascarelli, un senso preciso, ricollegandosi a quelli androïdes, cioè automi, a cui Naudè aveva ridotto i demoni capaci di emettere oracoli attraverso le cosiddette statue parlanti.

 

Capitolo settimo – La storia senza eroi

«La nascita e l’affermazione della scena di genere fu uno degli eventi più peculiari della storia artistica e culturale italiana del Seicento» (p.165). Dai risultati emersi dai nuovi studi, promossi dalla stessa autrice, la fortuna di questo nuovo genere pittorico non fu favorita da contenute quotazioni economiche, né da gusti incolti, quanto invece da acquirenti che condividevano una cultura elitaria ed erudita, fra questi ancora una volta Cassiano del Pozzo, Vincenzo Giustiniani, Lorenzo Onofrio Colonna o il principe Ferdinando di Toscana, solo per citarne alcuni,

Iniziatore di questo nuovo e originale genere, fu l’olandese Pieter Van Laer, giunto a Roma agli inizi degli anni Venti del Seicento e detto il Bamboccio per il suo aspetto fisico, soprannome dal quale veniva desunta la definizione, usata anche in seguito, per indicare i seguaci della sua pittura: i bamboccianti. L’autrice sottolinea come «il rapporto tra realtà e scena di genere sembra essere accostabile a quello che numerosi intellettuali rivendicano in campo letterario, proponendo il poma eroicomico, la poesia satirica e soprattutto il romanzo, in alternativa alla poesia epica avvertita come ormai tramontata» (p. 170).

 

Capitolo ottavo – L’Arcadia tra evasione e ribellione

L’ultimo capitolo del nostro libro è dedicato all’Arcadia, il regno di Pan, paese di pastori e ninfe, invenzione poetica messa a punto intorno al 40 a.C. da Virgilio nelle Bucoliche. «Se la matrice epicurea, fin dal momento dell’invenzione virgiliana, sostanzia il mondo dell’Arcadia e rimane al fondo di ogni sua rinascita. L’affermazione epicurea, celebrata nel De rerum natura di Lucrezio tocca il suo apice, in età moderna, nel primo coro dell’Aminta in cui si afferma che l’unica legge che l’uomo è chiamato ad osservare è quella naturale tutta racchiusa nel celebre motto sei piace / ei lice» (p. 188). È proprio la forte componente epicurea che guida la formazione di quelle adunanze che scelsero l’Arcadia come proprio riferimento ideale prima dell’Accademia istituita a Roma nel 1690 «e in particolare nei Pastori Antellesi che presero a riunirsi nelle ville toscane dei primi decenni del Seicento» (p. 189).

Per quanto riguarda la produzione di dipinti, Dalma Frascarelli, ci ricorda come il mito dell’Arcadia rinasca in pittura nel XVII secolo con il dipinto eseguito da Guercino, intitolato, Et in Arcadia Ego e poi con le opere di Nicolas Poussin e del Grechetto.

A conclusione di questo avvincente volume, ancora una volta, Dalma Frascarelli rintraccia alla base della cultura contemporanea, i temi al centro dei dibattiti seicenteschi.

«Dopo poco più di un secolo dalla nascita dell’Arcadia, quando ormai i fondatori e i primi membri dell’accademia erano scomparsi la loro eredità ideologica fu accolta da intellettuali come Johan Wolfgang von Goethe. Poeta e letterato, filosofo e scienziato come molti arcadi della prima ora, Goethe, coniugando il mondo dell’Arcadia con il panteismo bruniano e il Deus sive natura di Spinoza, ma anche con i paesaggi pastorali di Poussin, Lorrain e Dughet, elaborò un nuovo modo di pensare l’uomo e la natura destinato a contribuire in maniera incisiva alla formazione della cultura europea e contemporanea» (p. 216).

Nonostante la scelta di un lessico settoriale e la complessità dei temi trattati, lo spiccato carattere divulgativo del volume consente la sua fruizione ad un pubblico vasto, fatto di specialisti e non.

 

Maria Gaia Redavid

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