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Lezioni dall’Antartide. Per un’ecologia del sistema solare

Autore


Lorenzo De Piccoli

Università di Firenze

ha conseguito la Laurea Magistrale in Filosofia della Scienza

Indice


1. Introduzione. Terre di nessuno, terre comuni

2. L’ultimo continente

3. La provincia di tutta l’umanità

4. Conclusione. Abitare un paese alieno

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S&F_n. 30_2023

Abstract


Lessons from Antarctica. For an ecology of the Solar System

It seems plausible that the near future will see an ever greater expansion of human presence in several environments of the Solar System, such as the Moon and the planet Mars. This expansion will have multiple goals, of a scientific, exploitative-commercial, and perhaps military nature. This raises a series of ethical question, made even more pressing by the possibility that some of the extraterrestrial environments affected by human activities may host indigenous life forms. This article is meant to underline parallels and divergences of a future, hypothetical expansion of humanity in space with a process in many ways similar: human expansion in Antarctica. We intend to schematically describe the “Antarctic model”, i.e. the approach adopted so far by mankind as a whole towards the continent, highlighting its collective ethical, ecological and socio-political commitments and implications. Finally, on the basis of ideas taken from the literature on the philosophy of ecology, we will attempt to outline an “ecological mentality” that can be applied to the ethical problems relating to interaction with an extraterrestrial environment, be it entirely devoid of life or hosting a native biosphere.

The human race, my intuition tells me, is not outside the cosmic process and is not an accident. It is as much a part of the universe as the trees, the mountains, the aurora, and the stars.

Richard E. Byrd, Alone, Ace Books Inc., New York 1938, p. 108

 

 

1. Introduzione. Terre di nessuno, terre comuni

L’Antartide è il continente più meridionale del pianeta Terra; isolato dal resto delle terre emerse dall’Oceano Antartico, che circonda completamente il continente, esso si compone di una massa continentale principale e di un gran numero di isole che circondano quest’ultima. A differenza di tutti gli altri continenti, l’Antartide non ospita e non ha mai ospitato nella sua storia una popolazione umana stabilmente insediata: non esistono popolazioni di “nativi antartici”. Per sopravvivere per lunghi periodi alle proibitive condizioni climatiche in Antartide, un continente perlopiù desertico dove durante l’inverno le temperature medie scendono regolarmente sotto i -45C° e i venti possono eccedere i 185 km/h di velocità[1], gli esseri umani devono impiegare una serie imponente di mezzi tecnologici: tali mezzi tecnologici sono diventati sempre più sofisticati e il loro impiego si è fatto sempre più esteso nel corso dei secoli in cui, a partire dalle prime esplorazioni nel 19esimo secolo, le attività umane nel continente si sono progressivamente espanse.

Questi due fattori (l’assenza di una popolazione umana nativa e le condizioni abitative proibitive) accomunano – in modo piuttosto ovvio – l’Antartide ad altri ambienti che stanno attualmente venendo interessati da un’espansione delle attività umane: gli ambienti spaziali, come le superfici della Luna o di Marte. Così come è avvenuto (e avviene tuttora) nel caso dell’Antartide, l’espansione umana verso lo spazio è un processo complesso, dotato di diversi obiettivi in tensione tra di loro: l’interesse nei confronti dello spazio ha finora avuto obiettivi principalmente scientifici, ma è innegabile che esso abbia risvolti politici e militari[2], e sembra plausibile che in futuro l’attività umana nello spazio avrà anche scopi economici ed estrattivi[3]. Necessariamente, questo implicherà delle modifiche, anche invasive, degli ambienti extraterrestri[4]. Così come nel caso dell’Antartide, l’espansione nello spazio è condotta da una complessa rete di attori (sia pubblici, come le agenzie spaziali nazionali e internazionali, sia privati), alcuni interdipendenti, altri tra loro indipendenti e almeno potenzialmente in conflitto; esistono inoltre una serie di cornici, stabilite dal diritto internazionale, entro le quali tali attori devono operare. Tali cornici sono state prodotte sulla base di una serie di impegni collettivi che l’umanità, mediante un processo storicamente situato, ha deciso di assumere su di sé; in altre parole, i trattati sullo spazio sono un’espressione (non l’unica, anche se forse la più evidente) del “modo di porsi” adottato dall’umanità nei confronti dello spazio. Anche qui esiste una linea di collegamento diretta con l’Antartide: il Trattato sullo spazio extra-atmosferico del 1967 (vale a dire l’impianto fondamentale di tutto il diritto internazionale che concerne lo spazio) è stato modellato sulla base del Trattato Antartico del 1959[5]. Queste concrete analogie fanno sì che molte delle problematiche di natura etica e socio-politica concernenti l’attività umana in Antartide siano presenti anche nel caso dell’attività umana nello spazio: principalmente, esse riguardano gli impegni presi nei confronti degli ambienti stessi e quelli nei confronti degli esseri umani che operano in tali ambienti. Per spiegare quanto appena affermato, è necessario in primo luogo descrivere schematicamente il “modello Antartide”, ovvero l’insieme di convenzioni che governano e regolano l’attività umana nel continente, e i processi storici che hanno portato alla formazione di quest’ultimo.

 

2. L’ultimo continente

Nel corso del Settecento, esploratori e navigatori iniziarono con sempre maggiore frequenza ad avventurarsi alla volta dei mari subantartici e del circolo polare antartico[6]. Da tempi molto remoti, esistevano speculazioni su un supposto e favoleggiato continente meridionale, la cui effettiva esistenza non era mai stata confermata. Un fattore motivante più concreto era la caccia alle foche, settore economico che nel XVIII secolo aveva conosciuto una forte espansione: il pellame veniva sempre più usato per la produzione di capi d’abbigliamento, mentre l’olio di foca era destinato alla produzione di lubrificanti, saponi, e altri utilizzi. A partire dalla metà del Settecento, le terre emerse subantartiche diventarono basi operative per le navi dei cacciatori di foche, che si spingevano sempre più a sud. Nel giro di pochi decenni, le navi europee iniziarono a rientrare regolarmente in porto cariche di migliaia di pelli di foca e di tonnellate di olio. Numerosi arcipelaghi nella fascia subantartica, tra cui le isole Auckland, a sud della Nuova Zelanda, e le isole Shetland Meridionali, a sud della Terra del Fuoco, vennero scoperte proprio da navi di cacciatori di foche tra fine Settecento e inizio Ottocento[7].

Oltre ai capitalisti privati, a salpare verso sud erano anche spedizioni scientifiche-geografiche finanziate e organizzate dai governi nazionali: tra le più famose vi è quella del capitano Cook, che nel 1773 fu la prima ad attraversare il circolo polare antartico. Una di queste spedizioni, quella russa comandata dal navigatore Fabian Gottlieb von Bellingshausen, fu la prima ad avvistare il continente antartico nel 1820[8]. Simili spedizioni continuarono a succedersi, con frequenza altalenante, per tutto l’Ottocento: a spingere i governi a finanziare i viaggi alla volta dell’Antartico erano motivazioni di natura scientifica, territoriale e commerciale. Gli scienziati erano interessati allo studio della geografia delle regioni ancora non mappate del mondo, alla loro fauna e flora, e a fenomeni geofisici e meteorologici. I primi inizi della collaborazione scientifica internazionale nel contesto antartico risalgono a questo periodo, e ogni spedizione muoveva i propri passi sulla base delle scoperte condivise dagli esploratori di nazioni diverse che l’aveva preceduta. Inoltre, i vari governi, in particolare quello britannico, si interessarono sempre di più nel corso dell’Ottocento all’espansione territoriale nelle regioni antartiche (una vera e propria terra nullius, vista l’assenza di nativi): lo scopo principale era lo sfruttamento delle risorse naturali dei mari antartici e subantartici, come foche e balene. Per quanto riguarda le prime, l’industria si era espansa al punto che nel giro di alcuni decenni la popolazione di foche nell’emisfero sud aveva subito un tracollo, tale da compromettere irrimediabilmente i profitti delle imprese dedite alla caccia alla foca. Questo fatto, oltre ad alcune innovazioni tecnologiche come l’arpione a cannone (inventato nel 1864), fece sì che i cacciatori di foche furono gradualmente sostituiti dai balenieri. La caccia alla balena era, negli ultimi decenni dell’Ottocento, la principale attività commerciale in tutta la fascia subantartica del globo. Uno dei primi effetti collaterali della sempre più intensa attività esplorativa e commerciale fu la creazione di un immaginario romantico riguardante “l’ultimo continente”. I racconti di balenieri ed esploratori, filtrati dalla stampa popolare e dalla propaganda, restituivano un’immagine dell’Antartide come un luogo ricco di misteri da svelare per gli scienziati, di pericoli da affrontare per gli avventurieri, e di opportunità da sfruttare per capitalisti e investitori. La possibilità di compiere imprese patriottiche (guadagnando gloria per sé stessi e nuovi territori per la propria nazione) si mischiava con l’interesse per le questioni scientifiche ancora irrisolte, e l’industria delle balene diventò sempre più sviluppata e remunerativa.

Fu in questo clima culturale, composto da un miscuglio tra fiducia nella scienza, sogni di gloria individuale, fervori patriottici e miraggi di profitti, che iniziò e si sviluppò, tra fine Ottocento e i primi due decenni del Novecento, la cosiddetta “età eroica dell’esplorazione antartica”. I primi esploratori sul suolo del continente si diedero l’obiettivo di mappare l’entroterra, spingendosi sempre più in profondità: notissima è la “corsa” al Polo Sud del 1911 che vide protagonisti il norvegese Amundsen e il britannico Scott. Le spedizioni condotte in questa fase videro i primi esperimenti di permanenza in Antartide per periodi medio-lunghi, affrontando il temibile inverno antartico. La rivalità tra i paesi nel condurre missioni esplorative era scandita dalle continue pretese territoriali su porzioni del continente: nel 1919, parti di Antartide erano state reclamate da sei diverse nazioni, con la Gran Bretagna che in particolare intendeva asserire la propria sovranità sull’intero continente. Le prime spedizioni continentali furono condotte con mezzi tecnologici estremamente primitivi per gli standard attuali: fu solo progressivamente che fecero la loro comparsa la radio, il trasporto motorizzato e gli aeroplani. Nel frattempo, la crescita dell’industria baleniera stava assumendo proporzioni preoccupanti, e vi erano diffusi timori che il settore potesse andare incontro a un destino simile a quello toccato alla caccia alle foche: un crollo totale dovuto allo sterminio della popolazione di balene. Nei primi anni del Novecento, le autorità coloniali britanniche delle isole Falklands (da cui dipendevano tutti gli altri territori britannici nella regione, incluse porzioni dell’Antartide) introdussero i primi provvedimenti legislativi volti alla tutela della popolazione di balene. A questo contesto risalgono i primi accordi internazionali riguardanti l’Antartide: nazioni come la Norvegia avevano bisogno di ottenere i permessi necessari per far sì che le proprie navi baleniere potessero operare nelle acque territoriali britanniche dell’oceano Antartico e dei mari subantartici, mentre la Gran Bretagna iniziò a coordinare con Australia e Nuova Zelanda (che guadagnarono la propria autonomia rispettivamente nel 1901 e nel 1907) la propria politica territoriale in Antartide.

Dagli anni ‘20 del Novecento in poi, sempre più nazioni iniziarono a interessarsi delle sorti dell’Antartide: la sempre maggiore presenza di mezzi tecnologici (radio, aeroplani, ecc.) ha portato gli storici a far coincidere la decade con l’inizio della cosiddetta “età meccanica dell’esplorazione antartica”. L’entroterra del continente venne progressivamente mappato utilizzando nuovi strumenti come la fotografia aerea; una serie di spedizioni statunitensi guidate da Richard E. Byrd videro nel 1929 la creazione del primo vero e proprio insediamento antartico, “Little America”, nella regione nota come Barriera di Ross. L’immagine dell’audace esploratore che sfida un continente impervio e proibitivo si era evoluta: ora la figura di Byrd incarnava, agli occhi di una sempre più attenta stampa popolare, l’immagine dell’uomo destinato a dominare e soggiogare l’Antartide con i mezzi della tecnologia. Lo stesso Byrd tendeva a vedere nella propria “Little America” una sorta di esperimento sociale:

If it were possible, I wanted to create a single attitude—a single state of mind—unfettered by the trivial considerations of civilization. [...] In a word, we are trying to get away from the false standards by which men live under more civilized conditions. The Antarctic is a new world for all of us which requires its own standards, and these are materially different from those set up in civilization...[9].

 

Alcune tra le prime testimonianze delle viaggiatrici donne in Antartide offrono una prospettiva di genere sulla sempre maggiore attività umana nel continente:

Antarctica to me is female. Fickle, changeable, unpredictable, her baseness disguised by a white make-up of pristine purity. Suddenly she strips off her gloves, rolls up her sleeves and, with the ferocity of a wolf, springs at your throat. The deceptive white mask becomes a shrieking, demoniacal darkness, a savage reiteration of her sheathed power, lest any man let down his guard and forget[10].

 

Il graduale svilupparsi di una “comunità antartica”, un nucleo di personale esperto che era stato più volte nel continente e stava iniziando a stabilire basi semi-permanenti, rese sempre più evidenti le peculiari e difficili condizioni psicologiche a cui erano sottoposte le persone che rimanevano per lungo tempo sul continente, sospese tra l’isolamento e la convivenza forzata a stretto contatto con i propri colleghi. Allo stesso tempo, l’attenzione internazionale sull’Antartide si acuiva: a partire dagli anni ‘40, Cile e Argentina avanzarono pretese territoriali in contrasto tra di loro e con quelle britanniche. Iniziò a prospettarsi seriamente all’orizzonte la possibilità di una crisi diplomatica, se non di un conflitto armato, per il possesso di regioni dell’Antartide: la situazione era ulteriormente complicata dal contesto geostrategico di metà Novecento, ormai in piena Guerra Fredda. La rivalità tra le due nazioni sudamericane e la Gran Bretagna divenne fonte di preoccupazione per gli Stati Uniti; l’URSS si rifiutava di riconoscere le pretese territoriali di ciascun paese e pretendeva di essere coinvolta in qualsiasi negoziato riguardante l’Antartide. Nemmeno gli Stati Uniti riconoscevano le pretese territoriali e di sovranità delle altre nazioni, e nel 1955 il governo di Washington D.C. lanciò l’operazione Deep Freeze, che vide una serie di estese attività sul continente, tra cui la fondazione della base di McMurdo (a oggi il più grande insediamento umano permanente in Antartide).

Nel frattempo, l’industria delle balene era entrata in una fase di declino ormai irreversibile: l’olio di balena, un tempo una risorsa preziosa, stava gradualmente venendo rimpiazzato da analoghi sintetici, e nonostante i tentativi di regolare la caccia, la popolazione di balene aveva subito un forte declino, al punto che alcune specie erano negli anni ‘50 e ‘60 ormai a serio rischio di estinguersi. Tuttavia, stava iniziando a delinearsi all’orizzonte la possibilità dello sfruttamento minerario dell’Antartide: in una lettera a Byrd risalente al 1939, il presidente Roosevelt elenca «national defense of the western hemisphere, radio, meteorology, and minerals»[11] come i quattro obiettivi di una base permanente in Antartide. Per quanto riguarda la national defense, nel corso degli anni ‘50 si diffusero seri timori che l’URSS, finora il grande assente in Antartide, potesse installare stazioni di lancio nucleare e basi per sottomarini in grado di tenere sotto scacco l’intero emisfero meridionale.

A controbilanciare il clima di tensione internazionale negli anni ‘50 vi era, almeno in Antartide, la tradizione di cooperazione scientifica che si era sviluppata nei decenni precedenti. L’Antartide era uno dei pochi avamposti rimasti di una “repubblica delle lettere” dove climatologi, geografi, fisici e meteorologi di nazioni rivali potevano scambiarsi messaggi cordiali e farsi visita reciprocamente nelle rispettive basi scientifiche sperdute nell’entroterra ghiacciato. Questa forte e diffusa cultura di cooperazione conviveva con il timore che la situazione politica in Antartide potesse sfociare in conflitti aperti: la compresenza di questi due fattori può essere vista come il fattore trainante dei negoziati, stimolati dall’occorrenza dell’Anno Geofisico Internazionale del 1957-58, che sfociarono nel Trattato Antartico del 1959[12]. Il Trattato del 1959, composto da quattordici articoli, fu negoziato a Washington D.C. da tutte le nazioni che avevano pretese territoriali sul continente (Regno Unito, Cile, Francia, Argentina, Australia e Nuova Zelanda), più Sudafrica, Giappone, Belgio, Stati Uniti e URSS, quest’ultima finalmente coinvolta. Esso fu un capolavoro imperfetto di diplomazia: le complicate questioni territoriali non vennero risolte, ma semplicemente messe da parte. Ciascuna nazione non rinunciò alle proprie pretese territoriali, ma accettò di “congelarle” per tutto il periodo di validità del Trattato. Tra i principali provvedimenti adottati dal trattato vi sono: la proibizione di qualsiasi attività di natura militare in Antartide; la proibizione di test nucleari; l’impegno a facilitare la collaborazione scientifica internazionale e la conservazione delle “risorse viventi” dell’Antartide. Tale trattato costituisce l’impianto principale che da allora governa le attività umane in Antartide; esso fu espanso dal Protocollo di Madrid del 1991, che formalizza gli obblighi di conservazione ecologica e descrive l’Antartide come una «riserva naturale dedicata alla pace e alla scienza», vietando formalmente le attività minerarie ed estrattive (che negli anni ‘90 sarebbero finalmente state commercialmente praticabili grazie allo sviluppo tecnologico e ingegneristico). Tutte le nazioni attualmente attive in Antartide sono firmatarie del Trattato Antartico e del Protocollo di Madrid, e fanno così parte dell’Antarctic Treaty System (ATS); questo rende l’Antartide l’unico territorio sulla Terra almeno parzialmente avulso dalle normali dinamiche di sovranità territoriale che formano la base della politica internazionale[13].

Valutare approfonditamente le implicazioni dell’ATS e le sue prospettive future è al di là della portata del presente lavoro, specialmente in quanto l’attuale sistema è minacciato dal cambiamento climatico e da una complessa e mutevole situazione internazionale - le rivendicazioni territoriali “congelate” potrebbero, in un futuro, tornare a essere causa di attriti. Tuttavia, va rimarcato il collegamento tra l’ATS e i trattati fondamentali che regolano lo spazio; come già accennato, il trattato del 1967 sullo spazio extra-atmosferico è stato creato prendendo il Trattato Antartico come modello, proibendo alcune attività militari e fornendo una cornice entro cui sviluppare una collaborazione internazionale[14]. Degno di nota è il fatto che il Trattato del 1967 proibisce a qualsiasi paese di avanzare pretese territoriali sui corpi celesti, definendo lo spazio extra-atmosferico come «la provincia di tutta l’umanità»[15].

 

3. La provincia di tutta l’umanità

Tenendo a mente la peculiare storia e le specifiche circostanze politiche che hanno caratterizzato la nascita del Trattato Antartico, è possibile estrapolare alcune considerazioni che possono essere ragionevolmente applicate anche al caso spaziale. In primo luogo, lo sviluppo storico delle industrie della caccia alle foche e alle balene suggeriscono che un’ipotetica industria estrattiva spaziale (ad esempio sulla Luna) potrebbe seguire una traiettoria simile: rapido sviluppo seguito da un altrettanto rapido tracollo a causa dell’esaurimento della risorsa estratta, con effetti significativi sull’ambiente in cui avviene l’estrazione. Se l’attività mineraria in Antartide è vietata dal Protocollo di Madrid, un simile divieto attualmente non esiste per quanto riguarda, per continuare con l’esempio, la Luna: l’unico tentativo finora attuato di imporre regolamenti stringenti per quanto riguarda lo sfruttamento dei corpi celesti è il Trattato sulla Luna del 1979, che è stato ratificato da pochissime nazioni e rimane pertanto di fatto lettera morta. Il solo limite attualmente esistente allo sfruttamento indiscriminato, predatorio e potenzialmente imperialistico e militare delle risorse presenti sul suolo lunare è di natura tecnico-commerciale: la Luna non è ancora ricoperta di cave e pozzi minerari solo perché non esistono ancora le tecnologie necessarie per rendere remunerativo un simile sviluppo minerario[16]. Esistono buone ragioni per creare un sistema di regolamenti che in qualche modo protegga o tuteli un ambiente come la Luna? In altre parole: gli esseri umani, utilizzando strumenti come il Trattato Antartico e il Protocollo di Madrid, hanno deciso di riconoscere e di assumere su di sé l’obbligo morale di tutelare l’Antartide e il suo ambiente; è legittimo aspettarsi che un simile obbligo venga riconosciuto anche nei confronti della Luna e degli altri ambienti extraterrestri, anch’essi terrae nullius attualmente al di fuori della sovranità degli Stati?

Se in un futuro dovessero essere scoperti ambienti extraterrestri in cui esiste qualcosa di immediatamente riconoscibile come degli esseri viventi, allora sarebbe facile sostenere che tali ecosistemi extraterrestri andrebbero tutelati: soltanto le conoscenze scientifiche ottenute dallo studio approfondito di tali ecosistemi sarebbero immense, e da sole basterebbero a giustificare stringenti misure di conservazione ecologica. Esiste però anche la possibilità di situazioni meno definite, ad esempio ambienti in cui i fenomeni biochimici, che potrebbero potenzialmente portare all’abiogenesi, sono appena iniziati, oppure in cui esistono processi che sono talmente diversi da quelli che avvengono sul pianeta Terra che è effettivamente problematico decidere se si possa parlare o meno di “vita”. Esiste anche la possibilità di rinvenire, sulla superficie di pianeti come Venere o Marte, tracce di un ecosistema estinto[17]. Alcuni ambienti spaziali, infine, sono certamente del tutto inorganici, e questo sembra rendere più difficile un’argomentazione in favore di una loro tutela: si può parlare di ecologia in assenza di vita nativa? In altre parole, esistono buone ragioni per imporre limiti alle attività umane nello spazio in nome di una protezione degli ambienti spaziali? Oppure, inversamente: esistono buone ragioni per cui gli impegni ecologici dovrebbero limitarsi a proteggere organismi definiti come “viventi”? Domande di questo tipo riguardano il cuore della definizione stessa di “ecologia” che si sceglie di adottare.

Ritornando all’Antartide, è opportuno ricordare che gli impegni ecologici nei confronti del continente sono stati assunti nel corso di un processo, storicamente situato, durante il quale gli esseri umani sono entrati in relazione con il continente; i valori, gli obiettivi e le aspettative di ciascun umano che si è recato in Antartide hanno informato la sua azione nel continente e, al contrario, l’incontro con l’Antartide ha avuto un effetto sia sulla società umana nel suo complesso sia sugli individui che hanno vissuto sul continente. Il riconoscimento di questo fatto, per quanto per certi versi banale, è funzionale all’assunzione di una prospettiva ecologica che abbia come oggetto l’insieme, fenomenologicamente situato, delle relazioni sussistenti tra gli enti di un dato ambiente, umani inclusi.

And this biosphere includes all the thoughts (and nightmares) we are having too. It includes wishes and hopes and ideas about biospheres. It’s not exactly physically located precisely on Earth. It’s phenomenologically located in our projects, tasks, things we’re up to. Say, for example, we decide to move to Mars to avoid global warming. We will have to create a biosphere suitable for us from scratch—in a way we will have exactly the same problem as we have on Earth, possibly much worse, because now we have to start from the beginning. [...] phenomenologically, we are still on Earth. The phenomenology of something is the logic of how it appears, how it arises or happens. If we move to Mars, the move will appear in an Earthlike way, no matter what the coordinates on our space chart tell us[18].

 

In altre parole, se gli esseri umani dovessero iniziare ad espandersi sulla Luna (luogo in cui, per quanto attualmente ne sappiamo, non esistono forme di vita native), costruendo miniere, insediamenti e basi, l’espansione dell’orizzonte fenomenologico dei nostri progetti, aspettative, desideri e valori alla superficie lunare (o in altre parole dell’insieme delle nostre relazioni con la Luna) significherebbe automaticamente che la Luna verrebbe inclusa all’interno della nostra biosfera, e quindi entro l’oggetto della nozione di ecologia che qui viene proposta. Più concretamente, il rischio è che un’espansione umana sulla Luna provochi un peggioramento della biosfera umana nel suo complesso: in assenza di un sistema riconosciuto che ponga limitazioni all’appropriazione delle risorse lunari, è plausibile ad esempio che queste ultime diventino un oggetto del contendere tra diversi attori statali e privati, e quindi un’occasione di conflitto (come è avvenuto nel caso dell’Antartide durante la Guerra Fredda). La militarizzazione incontrollata dello spazio non farebbe poi che peggiorare ulteriormente le cose, creando possibilità finora inedite di escalation militare. In sintesi, la tesi qui sostenuta è che vale la pena tutelare la Luna (e lo spazio in generale) in quanto questo implica in primo luogo tutelare noi stessi dalle possibili conseguenze di un approccio predatorio nei confronti di quei luoghi, come la superficie lunare, che verranno sempre più inclusi nell’orizzonte dell’attività umana.

Il fatto che simili protezioni siano state adottate in Antartide è il risultato della peculiare situazione internazionale del periodo, ma d’altro canto un fattore determinante è stato la cultura di collaborazione scientifica che si è sviluppata sul continente: senza gli scienziati che hanno favorito i negoziati del Trattato Antartico (ad esempio nel contesto dell’Anno Geofisico Internazionale), esso molto probabilmente non sarebbe mai esistito. Questo suggerisce che la responsabilità della tutela ecologica degli ambienti spaziali ricade in modo significativo sulla comunità scientifica: la promozione della cooperazione scientifica internazionale, i valori della open science, la divulgazione scientifica, sono tutti strumenti con cui contrastare le tendenze predatorie di attori statali e privati. Un simile compito è certamente imponente: almeno per quanto riguarda l’Antartide, sono stati riscontrati dei successi significativi, ma è impossibile dire se essi verranno replicati anche nello spazio. Nei decenni successivi a quella che viene tradizionalmente indicata come la “corsa allo spazio” - che ebbe il suo culmine con lo sbarco sulla Luna nel 1969 - l’interesse generale nei confronti dell’espansione spaziale sembrò subire un declino; ora stiamo assistendo al fenomeno contrario, con un investimento sempre maggiore da parte di diversi paesi nei rispettivi programmi spaziali. Siamo dunque nelle fasi iniziali di un complesso gioco che vedrà coinvolti attori privati e statali, la cui posta è la relazione che l’umanità avrà con la propria nuova “provincia” per i prossimi decenni, e che verrà almeno in parte giocato – così come è accaduto nel caso dell’Antartide – tramite le narrazioni, le argomentazioni e i modi di concettualizzare tale relazione da parte di scienziati, comunicatori scientifici, e attori politici. Seguire ed influenzare l’evoluzione di tali narrazioni dovrebbe essere tra i principali scopi della divulgazione scientifica e della science advocacy nei confronti dello spazio per gli anni a venire.

 

4. Conclusione. Abitare un paese alieno

È possibile, se non probabile, che almeno in una prima fase dell’espansione umana nello spazio le attività su ambienti extraterrestri saranno condotte in massima parte da droni o altri sistemi robotizzati, senza che vi siano insediamenti umani permanenti. Tuttavia, è opportuno spendere alcune righe conclusive sugli esseri umani che un giorno forse abiteranno in luoghi come la superficie lunare. Di nuovo, l’Antartide può essere presa a modello, e alcuni lavori preliminari in tal senso esistono già[19]: vi è una letteratura significativa sugli effetti negativi dell’isolamento prolungato in un ambiente estraneo a cui sono sottoposte le persone sul continente. Lo stato mentale delle persone durante l’inverno antartico è stato descritto come “ibernazione psicologica”[20], ed esistono effetti neurologici significativi provocati dalla permanenza prolungata nel continente[21]. Attualmente, i meccanismi di aiuto psicologico per contrastare gli effetti dell’isolamento sulla socialità sono insufficienti; per fare un solo esempio, come descritto da un recente rapporto del programma antartico statunitense, esistono serissimi problemi di alcolismo e di molestie sessuali all’interno della comunità dei ricercatori nelle basi americane in Antartide[22].

Plausibilmente, le condizioni che ipotetici coloni spaziali sulla Luna o su Marte dovranno subire sortiranno effetti simili, se non peggiori, il che suggerisce che sarebbe opportuno sviluppare preventivamente metodi di intervento e supporto psicologico adeguati. Riguardo a questo, molto dipenderà dal modo in cui tale colonizzazione avverrà. L’astrobiologo Haqq-Misra ha proposto una strategia per abitare Marte che sia volta alla costruzione di un “Marte sovrano”, i cui coloni siano “cittadini marziani” e in quanto tali liberi da ogni interferenza da parte di stati e attori privati terrestri; secondo Haqq-Misra, una simile condizione di autonomia e libertà avrebbe effetti positivi sulla condizione psicologica ed esistenziale dei coloni, e anche su quello che abbiamo descritto in precedenza come l’orizzonte fenomenologico-ecologico dell’umanità in generale[23]. È innegabile che le spedizioni in Antartide, così come quelle nello spazio, abbiano sortito anche effetti psicologici positivi sugli individui che le hanno intraprese[24]. La storia dell’umanità in Antartide suggerisce pertanto che l’impegno ecologico nei confronti degli ambienti extraterrestri, quando e se ci troveremo ad operare in essi e ad abitarli, è l’impegno a curare una parte di quell’orizzonte di relazioni di cui noi facciamo inestricabilmente parte, e quindi a prenderci cura (anche) di noi stessi; in questo, come suggerito anche dal recente report antartico, sarà necessario anche adottare una prospettiva intersezionale per quanto riguarda, ad esempio, le questioni di genere. Resta da vedere se l’umanità, collettivamente, deciderà di assumersi un simile impegno.


[1] Informazioni provenienti dal sito del programma antartico statunitense: https://www.usap.gov/aboutthecontinent/ (Ultimo accesso: 28-11-2023).

[2] Per fare un esempio recente, nel 2019 l’amministrazione Trump ha ufficialmente inaugurato la sesta branca delle forze armate statunitensi: la United States Space Force. https://www.spaceforce.mil/ (Ultimo accesso: 28-11-2023).

[3] Ad esempio, per scopi minerari, come descritto da questo articolo pubblicato sul sito dell’ESA:

https://www.esa.int/Enabling_Support/Preparing_for_the_Future/Space_for_Earth/Energy/Helium-3_mining_on_the_lunar_surface (Ultimo accesso: 28-11-2023).

[4] Un esempio già in fase avanzata di studio è la possibilità di costruire una rete di strade sulla Luna per contrastare l’insidiosa polvere del suolo lunare, come previsto dal progetto PAVER dell’ESA:

https://www.esa.int/Enabling_Support/Space_Engineering_Technology/How_to_make_roads_on_the_Moon (Ultimo accesso: 28-11-2023).

[5] Per un approfondimento e un confronto critico dei due sistemi nel contesto delle relazioni internazionali, si veda H. Padden, Does Space Law Prevent Patterns of Antarctic Imperialism in Outer Space?, in «Global Policy», XIII, 3, 2022, pp. 346-357.

[6] Dove non altrimenti specificato, tutte le nozioni storiche sull’Antartide sono tratte da S. Martin, A History of Antarctica, Rosenberg Publishing, Sydney 2013.

[7] Per approfondire, si veda B.L. Basberg, Commercial and economic aspects of Antarctic exploration – from the earliest discoveries into the “Heroic Age”, in «The Polar Journal», VII, 1, 2017, pp. 205-226.

[8] L’avvistamento di von Bellingshausen è il primo di cui si abbia conferma certa, ma è possibile che il continente sia stato avvistato in precedenza da navi di cacciatori di foche o da altri navigatori.

[9] R.E. Byrd, Little America, Putnam, New York 1930, p. 193.

[10] J. Darlington, My Antarctic honeymoon: a year at the bottom of the world, Muller, London 1957, p. 235.

[11] Citato in P.J. Beck, The International Politics of Antarctica, Croom Helm, London-Sydney 1986, p. 27.

[12] Il Trattato Antartico e tutti gli altri documenti rilevanti per l’Antarctic Treaty System sono consultabili presso il sito di quest’ultimo: https://www.ats.aq/e/key-documents.html (Ultimo accesso: 28-11-2023).

[13] Per un’analisi approfondita dell’evoluzione del diritto internazionale riguardo all’Antartide e le sue relazioni con lo spazio extra-atmosferico, si veda C. Collis, Territories beyond possession? Antarctica and Outer Space, in «The Polar Journal», VII, 2, 2017, pp. 287-302.

[14] Il trattato sullo spazio extra-atmosferico è consultabile, ad esempio, sul sito del Dipartimento di Stato statunitense: https://2009-2017.state.gov/t/isn/5181.htm (Ultimo accesso: 28-11-2023).

[15] Dall’art. 1 del trattato.

[16] Riguardo alle significative debolezze dell’attuale diritto spaziale in questo senso, si veda di nuovo H. Padden, op. cit.

[17] Si veda ad esempio B. Sauterey, B. Charnay, A. Affholder, S. Mazevet, R. Ferrière, Early Mars habitability and global cooling by H2-based methanogens, in «Nature Astronomy», VI, 10, 2022, pp. 1263–1271.

[18] T. Morton, Being Ecological, The MIT Press, Cambridge 2018, p. 31.

[19] P. Suedfeld, Antarctica and space as psychosocial analogues, in «REACH», IX-XII, 2018, pp. 1-4.

[20] G.M. Sandal, F.J.R. van de Vijver, N. Smith, Psychological Hibernation in Antarctica, in «Frontiers in Psychology», IX, 2018, art. num. 2235.

[21] A.C. Stahn, H.C. Gunga, E. Kohlberg, J. Gallinat, D.F. Dinges, S. Kühn, Brain Changes in Response to Long Antarctic Expeditions, in «New England Journal of Medicine», vol. 381 num. 23, 2019, pp. 2273-2275.

[22] Il report in questione è disponibile sul sito della National Science Foundation: https://new.nsf.gov/stopping-harassment/sahpr (Ultimo accesso: 28-11-2023).

[23] J. Haqq-Misra, The Transformative Value of Liberating Mars, in «New Space», IV, 2, 2016, pp. 64-67; Id., Sovereign Mars. Transforming Our Values through Space Settlement, University Press of Kansas, Lawrence 2022.

[24] Si veda ad esempio S. Blight, K. Norris, Positive psychological outcomes following Antarctic deployment, in «The Polar Journal», VIII, 2, 2018, pp. 351-363; P. Suedfeld, J. Brcic, P.J. Johnson, V. Gushin, Personal growth following long-duration spaceflight, in «Acta Astronautica», vol. 79, 2012, pp. 118-123.

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