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La terza epoca del concetto di “rivoluzione”: da Platonov a Latour passando per Koselleck (e oltre)

Autore


Delio Salottolo

Università degli Studi di Napoli - L'Orientale

Indice


  1. In memoria di un villaggio in memoria del futuro: vincoli e possibilità della rivoluzione e della sua concettualizzazione
  2. Genealogia e prima epoca del concetto di rivoluzione
  3. Dispiegamento e seconda epoca del concetto di rivoluzione
  4. La terza epoca del concetto di rivoluzione: una conclusione provvisoria

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S&F_n. 30_2023

Abstract


The third epoch of the concept of “revolution”: from Platonov to Latour via Koselleck (and beyond)

Starting from the horizon of ethical, economic, political and climatic crisis that characterises our epoch, this essay aims to propose an analysis of the concept of revolution and its positioning among the fundamental concepts that define the conditions of possibility of the historical and temporal experience of the human in Modernity. The exploration moves from Platonov’s novel, Čevengur, in which it is possible to explore the constraints and possibilities of the concept of revolution in Modernity, its complex reasons and contradictions, and then to propose a reconstruction of what we define as the first two epochs of this conceptualisation, starting from the indications of Koselleck and Marramao. In the conclusions, we move from Bruno Latour’s reflection and try to go beyond our never having been modern, to try to define the contours of a possible third epoch of the concept of revolution, in which we need to rethink the very structures through which we think about our belonging to the world and time.

  1. In memoria di un villaggio in memoria del futuro[1]: vincoli e possibilità della rivoluzione e della sua concettualizzazione

Nel nostro tempo di crisi – etica, comunitaria, economica, politica, climatica – se c’è una parola-concetto, di quelle che hanno caratterizzato l’esperienza temporale e storica della Modernità, dandone la sfumatura determinante (e non soltanto in senso politico), che ha perso di efficacia e di richiamo e che non sembra più identificare orizzonti di possibilità e di realizzazione, in ogni senso e in ogni direzione, questa parola-concetto è sicuramente quella di “rivoluzione”: da Copernico a Lenin passando per i philosophes e Kant, la Modernità ha fatto ruotare il suo asse intorno a questo perno – la “rivoluzione” – che porta con sé, semanticamente e nell’immaginario, l’idea di un riposizionamento dell’esperienza umana e l’esigenza della determinazione di un novum radicale dinanzi all’impensabile – all’impossibile di una riflessività – delle trasformazioni accelerate e costanti della realtà umana e nonumana e al tradimento delle percezioni immediate del senso comune, e contemporaneamente l’idea di un qualcosa che, in un modo o nell’altro, mette in discussione costantemente il novum nella sua apparizione sulla superficie delle cose, quando caratterizzato da processi di distruzione creativa che ciclicamente danno nuovi inizi e pongono nuove conclusioni alla vicenda della Modernità capitalistica in crisi. L’assunto da cui intendiamo muovere, all’interno di questa riflessione sulla posizione del concetto di “rivoluzione” all’interno della nostra contemporaneità, è che la crisi contemporanea è una crisi del concetto di “rivoluzione”, e che il concetto di “rivoluzione entrato-in-crisi” è la manifestazione di una crisi complessiva delle strutture temporali e storiche di pensiero della tarda Modernità, crisi determinante e per certi versi definitiva, crisi che si pone lungo il crinale che si staglia tra un’epoca e un mondo – l’Occidente e la lunga ed efferata trasformazione del mondo in Globo – che sta già finendo, e un’epoca e un mondo che tardano a mostrare la propria possibile forma e plasticità – nel caso se ne dia l’eventualità dinanzi al possibile termine ultimo della vicenda umana su quello che si è dimostrato essere un pianeta fragile e chatouilleux[2].

Il concetto di “rivoluzione” determina le caratteristiche dell’esperienza temporale e storica della Modernità, e la determina nella misura in cui ne rappresenta un gradiente. L’asse della “rivoluzione”, sul quale ruota il nostro mondo e la nostra visione del mondo, istituisce vincoli e definisce campi di possibilità: qualunque concetto che determini le condizioni di possibilità della pensabilità storica e temporale umana nella Modernità è attraversato da questa torsione fondamentale, partendo dal presupposto koselleckiano che i concetti sono “fattori” della realtà e non soltanto riflessi sovrastrutturali[3]. Il concetto di “rivoluzione” non si posiziona accanto agli altri, in una collocazione più o meno centrale, ne rappresenta la cifra da cui quelli ne acquisiscono possibili intensità. Una rivoluzione può essere e determinarsi come un’utopia o un’anti-utopia, grande compimento o grande tradimento, come trascendenza che si realizza nel tempo – una trascendenza che passa dall’intemporale nel quale per eccellenza risiede al temporale della sua realizzazione ultima – o come immanenza nei movimenti di progresso o di decadenza; la rivoluzione, per essere pensata, necessiterebbe di una Storia in generale, una Storia universale, di cui rappresenterebbe però di volta in volta il compimento nell’evento puntuale che esibisce una straordinaria concentrazione epocale e conduce a una svolta definitiva, o il processo permanente che fa saltare ogni compimento e ogni possibile unificazione storica; alla rivoluzione occorrerebbe la cancellazione del passato, il suo essere rigettato in un museo antiquario di bizzarrie affascinanti o tremende e soprattutto trascorse, o la costruzione di una nuova tensione tra ciò che non ha mai smesso di essere – la condizione umana e nonumana – e ciò che necessita di venire finalmente alla luce – il passaggio dall’invisibile al visibile; la rivoluzione rappresenterebbe una condizione di possibilità che preme sul fondo delle cose e una condizione di possibilità che annulla tutte le altre possibilità, definisce i contorni di una rideterminazione della relazione tra ontologia e epistemologia, tra ciò-che-è e ciò-che-deve-essere, tra ciò che si presenta e ciò che si ri-presenta; la rivoluzione connetterebbe il caso – l’occasione, ciò-che-viene-incontro, e la necessità – ciò-che-costringe il divenire e ciò che viene pensato come pre-determinato in un flusso continuo; la rivoluzione sarebbe la deviazione che realizza quello che – in un momento successivo e “riflessivo” – viene pensato come percorso rettilineo, scindendo definitivamente e ri-accorpando temporalità umana e temporalità nonumana, rendendo allo stesso tempo evidente e già-sempre “ignota” quella cosa che pensiamo come “futuro”, il di-là da venire; la rivoluzione si determinerebbe come la definizione del possibile presente e della possibile presenza, ma è spesso limitata dal suo essere processo senza fine; la rivoluzione giocherebbe tra l’unicità e l’irripetibilità dell’esperienza sempre rivoluzionata e il suo distendersi come momento definitivo. La rivoluzione aiuterebbe a riconsiderare la posizione dell’umano nel cosmo umano e naturale, centrando e decentrando l’esperienza.

Se c’è un romanzo che, nel nostro tempo di crisi, può aiutare a comprendere la complessità del concetto di “rivoluzione”, in maniera immaginifica e poetica, e le intensità che porta con sé, questo romanzo non può che essere un’opera ispirata alla più complessa e contraddittoria delle rivoluzioni della Modernità, la cosiddetta Rivoluzione d’Ottobre, la rivoluzione che rappresenta – tra le altre cose, ovviamente – la sintesi tra ciò che accade o viene incontro e ciò che si vuole che accada o venga incontro. La Rivoluzione d’Ottobre è la presa di coscienza – e l’attuazione nella realtà – di tutto il portato complesso e contraddittorio della Modernità; è l’evento-processo capace di “cambiare” corso alla Storia, introducendoci nel secolo breve, e di porsi come paradigma insuperabile di cosa significa vivere una rivoluzione. E il romanzo non può che essere Čevengur, opera scritta tra il 1926 e il 1929, ma pubblicato la prima volta in russo soltanto nel 1972, all’interno del quale l’autore, Andrej Platonovič Platonov, ha saputo racchiudervi la complessa esperienza vivente dell’evento-processo rivoluzionario con profonda intensità poetica e complessità – per così dire – epistemologica. Rivoluzione – comunismo, socialismo – non rappresentano, nell’opera di Platonov, semplicemente il modo mediante il quale i dannati della Russia diventano (o credono di diventare) protagonisti della Storia universale: i personaggi che vivono e praticano la rivoluzione raccontata da Platonov sembrano provare sospetto per la Storia, per il suo flusso uni-direzionale, per il suo compimento; si tratta di una rivoluzione vista sì dallo sguardo atavico dell’eterno contadino russo, ma che, dinanzi alla rivoluzione, scopre di non essere eternamente uguale a se stesso, e cerca nei segni del passato la realizzazione del futuro promesso, e nel presente rivoluzionario la possibilità di “eternizzazione” definitiva. Non c’è l’eroismo della classe operaia, non si tratta di definire la grande avventura della trasformazione dell’esistente, tecnica e politica, ma di rendere conto di come la rivoluzione impatti sul mondo umano e nonumano, nelle rappresentazioni e negli assemblaggi della realtà. In uno dei protagonisti, Dvanov, «si era già formata l’immacolata convinzione che prima della rivoluzione anche il cielo e tutti gli spazi fossero diversi – non così cari»[4], una sorta di trasformazione cosmica; c’è l’idea ripetuta più volte che sia possibile custodire la rivoluzione «in una categoria eroica e incontaminata»[5], che la rivoluzione stessa possa mutare fisionomie e personalità, come quel personaggio il cui «volto internazionale non lasciava trasparire un sentimento chiaro» e di cui «era impossibile determinare le sue origini – se fosse figlio di braccianti o di professori», perché «nell’impatto con la rivoluzione i tratti della sua personalità erano stati cancellati»[6]. La rivoluzione diviene quasi la manifestazione – o il tentativo di costruzione – di una nuova “cosmogonia”, in cui anche il cielo e la terra, i fiumi e i campi, i tratti della personalità e del viso, i pensieri e le credenze degli umani, trovano una nuova configurazione, nuovi assemblaggi: la rivoluzione non è soltanto un cammino verso una nuova società, ma una nuova “composizione di mondi”[7]. Si tratta di un romanzo d’avventura e di formazione, un pastiche modernista che fonde realismo lirico ed eccesso surrealistico, un viaggio verso l’utopia – la Čevengur del titolo, località sperduta nella steppa più profonda, in cui sarebbe stato realizzato il comunismo perfetto –, e la fine dell’utopia – la distruzione di Čevengur avvenuta per mano dei Bianchi o dei Rossi. Ma Čevengur è un luogo straniante: gli abitanti «spostano le case e portano a braccia i giardini»[8], è un luogo che, secondo uno dei personaggi, poteva sopravvivere soltanto «grazie al banditismo, perché era evidente che nessuno faceva nulla, ma tutti mangiavano pane e bevevano tè»[9], del resto «a Čevengur non c’era bilancio, per la gioia del governatorato, che presumeva che laggiù la vita procedesse sulle sane basi dell’autosufficienza finanziaria» e questo perché «gli abitanti invece avevano da tempo preferito una vita felice a qualsiasi lavoro, alle costruzioni e ai calcoli reciproci a cui si sacrifica il corpo cameratesco dell’uomo, che vive una volta sola»[10]. «L’uomo di Čevengur», colui che porta l’annuncio della realizzazione del comunismo in quello che viene definito un villaggio in memoria del futuro, «non amava i boschi, le alture e gli edifici, gli piaceva il ventre piatto della terra, declive contro il cielo, che inspirava il vento e si stringeva sotto il peso del viandante»[11], l’uomo è convinto che «il comunismo preme come una forza della natura» e chiede: «posso fermarlo con la politica o non devo?»[12], è convinto che gli abitanti di Čevengur abbiano la fine di tutto, «La fine di che? – domandava diffidente Gopner. – Ma di tutta la storia universale: a che ci serve?»[13]. Ma la fine della storia universale è anche fine del mondo: gli abitanti di Čevengur «aspettano la fine del mondo e basta…» e, alla domanda di Čepurnyj: «e tu non hai detto loro che la fine del mondo al momento sarebbe una mossa controrivoluzionaria?», la risposta non può che essere: «No, compagno Čepurnyj! Stavo pensando che il secondo avvento fosse utile per loro, e anche per noi sarà un bene»[14]. Il comunismo è una forza della natura, non soltanto una forza sociale, il mondo finisce e bisogna volerla la fine del mondo, perché sotto gli occhi si sta già componendo un nuovo mondo: il secondo avvento, eco religiosa dello svelamento finale, non è soltanto secolarizzato ma diviene l’unica traduzione possibile per i contadini russi della steppa di quella composizione di mondo umano e mondo naturale in una configurazione nuova. «Čevengur non accumula proprietà, la distrugge»[15] perché «sia il bene della vita sia l’esattezza della verità sia il dolore dell’esistenza avvenivano da sé a seconda della necessità»[16]: la rivoluzione comunista, portata alle sue estreme conseguenze in questo villaggio della steppa, mostra come la forma più elevata di emancipazione consista nella (inter)dipendenza, come l’assoluta libertà coincida con l’assoluta necessità. «Laggiù vive l’uomo collettivo ed eccellente, e, nota bene, senza alcun comò in camera, tutti affascinati gli uni dagli altri»[17]: c’è un senso di compiutezza lì a Čevengur, perché per un altro personaggio, Aleksej Alekseevič, «ora che il socialismo si chiamava cooperazione aveva preso ad amarlo con tutto il cuore»[18] e «grazie alla cooperazione proclamata da Lenin aveva percepito nel socialismo una santità viva»[19]; e la compiutezza si realizza anche nella relazione con il mondo naturale, perché «quel sole avrebbe illuminato per secoli il benessere di Čevengur – i suoi giardini di meli, i tetti di ferro sotto i quali gli abitanti allevavano i loro figli e le ardenti cupole lucide delle chiese, che timidamente chiamavano l’uomo dall’ombra degli alberi nel vuoto dell’eternità circolare», un luogo idilliaco, «gli alberi crescevano in quasi tutte le vie di Čevengur» e «nei cortili […] fioriva una quantità di erbe, e l’erba dava asilo, nutrimento e senso alla vita di un abisso di insetti negli strati bassi dell’atmosfera, tanto che Čevengur era popolata solo in parte dagli uomini»[20], perché «da noi a Čevengur […] abbiamo mobilitato il sole a un eterno lavoro, e la società l’abbiamo sciolta per sempre»[21], del resto «a Čevengur l’uomo non fatica e non corre, e tutte le tasse e gli obblighi ricadono sul sole»[22], «c’è riposo per l’uomo: andavano di fretta solo i borghesi, loro dovevano ingozzarsi e opprimere»[23], mentre «per tutti e per ciascuno lavorava unicamente il sole, dichiarato a Čevengur proletario universale»[24]. C’è un indefinibile senso di benessere in questo villaggio sperduto nella steppa, un benessere non interno ma che si dà nell’apertura all’esteriorità: «tutto il tepore dell’uomo è fuori!»[25] e che non necessità di alcuna forma di intimità in una vita che è completa esposizione alle ragioni della composizione di un nuovo mondo. Platonov non teme di raccontare l’assurdo, il limite estremo che la rivoluzione porta con sé: le sue descrizioni sono a tratti grottesche, oggi si utilizzerebbe forse l’aggettivo inglese weird, si inserirebbe quest’opera inclassificabile nella letteratura weird, e forse in un certo senso a ragione, perché la vera potenza di questo romanzo inattuale nel suo tempo e forse in ogni tempo sta tutta nel presentare la (im)possibilità della rivoluzione nella sua connessione con la Modernità matura: forse non siamo mai stati moderni[26], e forse, come sottolinea Bruno Latour, il progetto moderno è fallimentare in sé, non si riuscirà mai ad essere moderni, ma la nostra questione consiste nel capire se la rivoluzione sarà davvero impossibile, qualcosa che appartiene alla letteratura weird, ora che il mondo sta cambiando radicalmente – dunque: non saremo mai più rivoluzionari – o è possibile ancora immaginare quella che, provvisoriamente, vorremmo definire la terza epoca della rivoluzione. La vicenda di Čevengur si chiude con un massacro e la distruzione: la rivoluzione prosegue ma prende altre strade, quelle non stranianti della Storia conosciuta, e i personaggi sopravvissuti tornano alle loro eterne vite.

 

  1. Genealogia e prima epoca del concetto di rivoluzione

Le vicende del concetto di rivoluzione sono strettamente intrecciate alle vicende del concetto di Stato moderno: questo, innanzitutto, il punto di partenza della nostra riflessione. E non soltanto nel discorso leninista, per il quale «lo Stato è il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili fra le classi» in quanto esso «appare là, nel momento e in quanto, dove, quando e nella misura in cui gli antagonismi di classe non possono essere oggettivamente conciliati» per cui «l’esistenza dello Stato prova che gli antagonismi di classe sono inconciliabili»[27], mentre la rivoluzione si pone allo stesso tempo come evento – presa del potere, violenza e instaurazione della dittatura del proletariato, e come processo – fase di transizione verso l’estinzione di quest’ultimissima forma di Stato, fase la cui durata è imprevedibile. Occorre operare una seppur rapida genealogia del concetto di rivoluzione, analizzare quelle che possiamo definire le prime due epoche del concetto di rivoluzione.

Come nota giustamente Giacomo Marramao, sul concetto di rivoluzione grava «un’indeterminatezza brumosa»[28] che lo rende non solo adatto a tutti gli usi politici ma anche a tutte le interpretazioni: di volta in volta connesso – strategicamente – alla sua dimensione politica o sociale, al suo manifestarsi come ostile alle conquiste della Modernità o come estensione dell’industrializzazione stessa, al suo essere costruito a tavolino e razionalmente o al suo definirsi a partire da istanze profondamente irrazionalistiche. La «polisemia culturale» del termine «è l’indice dell’avvenuta neutralizzazione ideologico-pragmatica del termine, che si traduce in una perdita delle sue autentiche coordinate concettuali e lo rende così coniugabile con le nomenclature più disparate»[29]. Sono due le difficoltà, nota il filosofo: innanzitutto, reperire lo specifico moderno della rivoluzione, dal momento che oramai viene utilizzato, come termine, per ogni cambiamento più o meno radicale nel tessuto complessivo della vita sociale; in secondo luogo, evitare lo schiacciamento riguardo la sua origine etimologica – re-volutio come ritorno – mediante il quale si intende recuperare i modelli ciclici di interpretazione dei fenomeni storico-sociali, ri-definiti nei termini di distruzioni creative. Possiamo notare, infatti, sulla scorta di queste indicazioni, come le crisi cicliche del Capitalismo siano sempre giocate su un doppio registro: da un lato, permettono il richiamo a una temporalità appunto ciclica, per certi versi rassicurante – restituendo dunque anche al concetto di rivoluzione la sua “ciclicità” originaria (di cui parleremo a breve) e rendendo la sua possibile esperienza come “interna” al movimento complessivo della modernizzazione capitalistica, dunque rendendolo (appunto) “rassicurante” e non “tremendo”; dall’altro lato, permettono – grazie alla loro temporalità e, spesso, spazialità ridotte – di non mettere in discussione la linea uni-direzionale del tempo e della Storia universale, manifestandosi come momenti che aprono sì a nuove distruzioni creative ma lungo un percorso già-sempre finalizzato. Il novum delle accelerazioni capitaliste si posiziona sempre lungo la linea del progresso e seguendo il tracciato della Storia universale, mentre il concetto di rivoluzione e il concetto di crisi sono restituiti a una dinamica di ripetizione: non mettono più in discussione – non possono mettere più in discussione – il cammino della modernizzazione capitalistica. Fondamentale è allora per noi la “storia concettuale” che permette di cogliere la soglia costante tra concetto e realtà, nella misura in cui, koselleckianamente, non è possibile né derivare i concetti dalle condizioni del contesto storico-concettuale, né il contesto dai concetti, perché il rapporto è di co-produzione reciproca[30].

Reinhart Koselleck, dal canto suo, fa notare che «il nostro concetto di rivoluzione può quindi essere definito come un concetto generale elastico, che può contare su una certa comprensibilità in ogni parte del mondo, ma il cui senso preciso è soggetto a oscillazioni enormi da un paese all’altro, da un campo politico all’altro»[31]. Oscillazioni dovute innanzitutto al fatto che “rivoluzione” è un concetto in cui si deposita «un’esperienza immediata»[32] che, muovendo dall’industrializzazione e dalle sue accelerazioni, non smette di porsi nei termini della domanda su «che cosa non si potrebbe rivoluzionare nel mondo»[33]. Oscillazioni dovute, però, anche al fatto che “rivoluzione” è un prodotto linguistico che assume caratteristiche peculiari nella Modernità con «possibilità semantiche estensibili, ambivalenti e ubiquitarie»[34].

È risaputo che è soltanto a partire dal ‘500 che la parola-concetto “rivoluzione” inizia a entrare nel lessico politico, innestandosi sul modello del “ciclo delle costituzioni” di Polibio, nel quale era presente un “fondo naturale”, qualcosa di assimilabile a un ciclo naturale. L’aver utilizzato il termine “rivoluzione” a partire dal XVII secolo per indicare questo ciclo, e il fatto che questo ciclo richiami una dimensione naturale, è connesso all’utilizzazione della parola nell’ambito astronomico (il moto di rivoluzione degli astri) e, secondo Koselleck, fu proprio attraverso la mediazione dell’astrologia, che il concetto da astronomico entrò pian piano nel lessico politico: se è vero che le stelle seguono i propri cicli e le proprie orbite senza alcuna connessione apparente con quelli terrestri, è comunque altrettanto vero che possono influenzare o addirittura determinare le cose umane[35]. Linguisticamente è nella sillaba “re” che si trova stratificata questa idea ciclica di un qualcosa che torna e che, nel suo ri-tornare, influenza. Del resto, come nota Latour, seppur con altre finalità teoriche, nella medesima pagina in cui Galilei disegna la luna e le macchie lunari – momento imprescindibile di quel movimento che avrebbe permesso all’umano di effettuare il passaggio da un mondo chiuso a un universo infinito e di unificare il mondo sublunare e il mondo extra-terrestre[36] – il filosofo e scienziato disegna anche un oroscopo predisposto per il suo mecenate: captatio benevolentiae, certamente, ma anche fase di passaggio determinante nella costruzione complessa e contraddittoria della visione del mondo moderna[37].

Ma occorre andare più in profondità, per cogliere quella che possiamo identificare come la prima epoca della storia del termine-concetto “rivoluzione”. In realtà, come nota Marramao, è già a partire dal ‘500 che il ciclo delle costituzioni polibiano subisce una torsione concettuale notevole e, nella stratificazione del concetto di “rivoluzione”, è possibile notare quella che il filosofo italiano definisce “increspatura” tra un’origine ciclica e qualcosa che mette – in questa fase aurorale – in crisi la necessità del ciclo. Figura centrale di questo ripensamento del modello del “ciclo delle costituzioni” è Machiavelli. Polibio è indubbiamente l’unico storico antico che presenta allo stesso tempo una visione ciclica delle costituzioni e, dunque, del tempo umano, in quanto soggetto a una necessità, e un’inedita tensione verso la determinazione di una sorta di fine della storia, rappresentato dall’affermazione della potenza di Roma. Ma il tempo umano è comunque guidato dal tempo cosmico, e la necessità è l’unica legge effettiva del macrocosmo e del microcosmo. Il “futuro” come apertura all’ignoto non esiste ancora in Polibio, e il “progresso” – che non ha la connotazione di condizione di possibilità della pensabilità storica, come nel Moderno – è qualcosa che pertiene esclusivamente all’ambito tecnico-scientifico e al percorso di crescita etica dell’individuo. All’interno di questo schema già problematico, Marramao nota quanto sia decisiva la torsione che effettua Machiavelli nel noto passaggio del Libro I dei Discorsi: «nacquono queste variazioni de’ governi a caso intra gli uomini» (Disc., I, 2). Il passaggio decisivo è quello dalla necessità polibiana al caso di Machiavelli: il ciclo delle costituzioni non rientra nell’ambito della necessità di natura, bensì si posiziona lungo l’emergenza nel flusso immanente delle vicende. Passaggio, ma anche frattura, tra la provvidenza e la contingenza, tra la prevedibilità del dover-essere e l’instabilità dell’essere-come-evento. A partire da questo spostamento, anche i concetti di Fortuna e Virtù subiscono una medesima torsione: la Fortuna non è più una legge cosmica ma la rappresentazione dell’imprevedibilità della contingenza; la Virtù non è più una questione privata, un cammino etico individuale, ma diviene un’attitudine costruttiva, comunitaria e politica. La Fortuna resta dalla parte della natura, non più come necessità ma come contingenza, mentre la Virtù si posiziona dalla parte dell’artificio, che costruisce i mezzi per contrastare il flusso. Lo “strumento” per eccellenza diviene il Principe (per certi versi, nel nostro discorso, antesignano dello Stato), vero artificio umano contro i rovesci sempre possibili della Fortuna. Se il Principe e lo Stato sono dalla parte della Virtù, sembra che in questo primo momento la “rivoluzione” si ponga ancora nella prospettiva della Natura. Potremmo così azzardare la costituzione di due serie concettuali nella riflessione di Machiavelli: Fortuna (da Necessità a Caso)-Natura-Rivoluzione e Virtù(da individuale a Politica)-Artificio-Stato. La famosa scissione natura-cultura – sulla quale oggi tanto ci si arrovella come espressione di un evento/destino (a seconda delle interpretazioni) della tradizione occidentale di pensiero e di prassi, e ragione determinante per cui non siamo mai stati davvero moderni – trova una delle sue molteplici origini all’interno di questa concettualizzazione storico-politica, in queste “increspature” nelle letture machiavelliane di Polibio, all’interno di questo mutamento nella lettura del reale nella sua complessità. Dal nostro punto di vista, il problema della nascita del concetto “rivoluzione” è che sembra immediatamente collocarsi a cavallo tra la dimensione della “Fortuna”, dunque della contingenza e imprevedibilità naturale, e della “Virtù”, dunque della politica come progetto e dell’artificio umano: la rivoluzione aiuta a pensare al di là di natura e cultura, nella misura in cui – e su questo tanta riflessione politica si è spesa – è sempre qualcosa che connette un kairos, la decisione nel momento opportuno, e un flusso di eventi immanente e senza Soggetto, orizzontale, modale e reticolare. E così, tornando alla teoria di Machiavelli, lo Stato si pone come freno ai rovesci della Fortuna, mentre la rivoluzione sembra appartenere a un modo, certo non arbitrario ma probabilistico, di trasformazione delle costituzioni. La realtà è che i concetti e le prassi storico-culturali di “rivoluzione” e “Stato” intrattengono relazioni costantemente ambigue.

Come sottolinea Marramao, il pensiero rinascimentale fonda allora la propria riflessione politica «sul riconoscimento, teorico e pratico, della frattura tra disegno provvidenziale e vicende della città terrena»[38] con un’attitudine non più medievale di smarrimento e dolore, ma “moderna” nella misura in cui diviene misura della Virtù. Ma questo passaggio non sarebbe stato possibile se non si fosse determinato il processo di definizione di un antropocentrismo e la costituzione di un umanismo: in una classica genealogia che va da Agostino a Descartes (il passaggio dalla scoperta della verità di Dio in sé al Soggetto come “luogo” dell’autoevidenza del vero è sicuramente notevole, ma appunto il passaggio non sarebbe potuto avvenire se non a partire dalla base agostiniana), la saldatura tra Soggetto e Fondamento diviene determinante per la nascita del Politico in senso moderno (come costruzione e artificio volto a dominare la realtà umana), nonché della Scienza in senso moderno (come costruzione e artificio volto a dominare la realtà naturale – la tecnica precede sempre la scienza, come direbbero ognuno a suo modo Canguilhem[39] e Latour[40]). Ma la percezione della frattura tra “disegno provvidenziale” e “vicende della città terrena” resta decisiva, riposizionandosi e rioccupando il problema della relazione tra necessità e caso, all’interno della relazione tra politicità e impoliticità dell’umano: «la tensione irrisolta tra politica, come dominio del divenire e del contingente destinato a tradursi in forme e a riprodurle incessantemente, e impoliticità originaria della coscienza interiore, cui sola, in ultima analisi, compete il diritto di giudicare del bene e del male»[41]. Lo spostamento del centro sull’umano – l’antropocentrismo – è un gesto determinante: la tensione tra necessità e caso si sposta dalla relazione Uomo-Dio alla relazione Uomo-Natura. Incipit homo faber. E la Scienza da un lato e la Politica dall’altro diventano i luoghi determinanti dell’artificio. Homo faber, quale espressione antropologica dell’uomo rinascimentale, non rappresenta ancora una sintesi di ragione e storicità: il mondo che l’umano manipola e trasforma ha ancora le caratteristiche di contingenza della “natura” e soprattutto riguarda un modo differente di concepire lo spazio più che una ridefinizione futurologica dell’intervento umano. La storicizzazione del tempo umano, decisiva per comprendere le condizioni di possibilità dell’esperienza storica dell’uomo della Modernità, non si è ancora sviluppata.

Nel ‘600, dunque, il concetto di rivoluzione mantiene la sua dimensione ciclica, di ritorno segnalato dal prefisso “re”. L’esperienza della rivoluzione inglese (1642-1688) diviene paradigmatica e, in Hobbes come in Machiavelli, l’idea di questo “ritorno” fa emergere la necessità dello Stato, come artificio e costruzione umana: la Glorious Revolution non è instaurazione del novum ma è una forma del “ritorno” alla pace civile[42]. La natura inizia a divenire il luogo della “minaccia” e il luogo distaccandosi dal quale l’umano può acquisire il suo mondo e il suo dominio: lo stato di natura, che può sempre riaffacciarsi nella storia umana, deve essere neutralizzato dall’artificio statale e tecnico-tecnologico. Natura e Artificio – nonostante Scienza e Politica siano entrambi artifici e il mondo naturale sia “costruito” tanto quanto il mondo sociale – si confrontano ancora una volta e la loro tensione scandisce l’avvento della Modernità, caratterizzandone la “storia”. Se è vero che l’Artificio interviene proprio a spezzare il vincolo della ciclicità, questo “evento” non si posiziona comunque lungo la linea di un tempo che progredisce e si accumula in una direzione. Se è vero, come nota Koselleck, che in Hobbes c’è qualche anticipazione di alcuni discorsi tipici dell’idea moderna di progresso – ad esempio, il fatto che le acquisizioni della scienza e della tecnica tendono all’infinito – è altrettanto vero che queste concezioni non implicano un’idea complessiva di Storia come processo unitario di un’Umanità in generale. Non è ancora avvenuta la temporalizzazione della storia, nonostante la calcolabilità del tempo e la sua spazializzazione secentesca possano essere lette nei termini di quell’astrazione che avrebbe dato avvio al tempo capitalistico, astratto appunto, della produzione. Nel ‘600 il tempo è ancora preso nella sua metafora naturalistica: è sì astratto, è sì calcolabile, ma proprio per questo resta per certi versi “ciclico”, nella misura in cui la ragione del “ciclo” è data dalla riproducibilità del calcolo. Su questo punto, Koselleck è molto chiaro:

La metafora naturale della “rivoluzione” politica si basava sulla premessa che anche il tempo storico fosse sempre di una stessa qualità, chiuso in se stesso, ripetibile. Restava una questione sempre controversa, ma secondaria rispetto alla ciclicità: in quale punto del movimento ascendente o discendente di una revolutio si dovessero collocare l’ordinamento politico presente o quello auspicato. Tutte le posizioni politiche restavano superate in un concetto di rivoluzione transistorico.[43]

 

Secondo Koselleck, sintetizzando, la metafora naturale di “rivoluzione” si sente nell’ambito politico fino agli albori del XVIII secolo: la premessa era che il tempo storico umano avesse la medesima qualità del tempo ciclico naturale, per cui la rivoluzione non era sentita come l’apertura al radicalmente nuovo e il concetto di rivoluzione manteneva una caratterizzazione di transistoricità e di transpoliticità. Questa è, allo stesso tempo la genealogia profonda e la prima epoca del concetto di rivoluzione.

 

  1. Dispiegamento e seconda epoca del concetto di rivoluzione

Lo abbiamo già accennato: secondo Koselleck «il rapporto tra la storia concettuale e la storia sociale è più complesso di un semplice rapporto di riducibilità di una disciplina all’altra […] una “società” e i suoi “concetti” stanno in un rapporto di tensione che contraddistingue anche le discipline storico-scientifiche connesse»[44]. La questione della «lotta semantica per definire posizioni politiche o sociali e per mantenere in vita o realizzarle in virtù delle definizioni»[45] è sempre stata presente, ma a partire dalla Rivoluzione Francese presenta un salto qualitativo: «i termini non servono solo a intendere i dati preesistenti in un modo o nell’altro, ma si estendono al futuro», per cui «espressioni riguardanti il futuro vengono coniate in misura crescente, posizioni da conquistare in avvenire vanno definite linguisticamente prima di poter essere occupate e conquistate»[46]. Centrale diviene la relazione con l’esperienza: «il contenuto di esperienza di molti termini diventa così più scarso, mentre la pretesa di realizzazione che contengono aumenta proporzionalmente» e così «contenuto di esperienza e spazio di esperienza coincidono sempre meno»[47]. Le lotte per la concettualizzazione sono immediatamente lotte politiche e le lotte politiche sono lotte per la concettualizzazione: nel linguaggio latouriano, al fianco delle lotte di classe o politiche ci sono sempre lotte di classificazione[48]. Secondo Koselleck, è opportuno segnalare la distinzione tra “concetto” e “parola” nei confronti della “cosa”; il “concetto” si trova a mediare costantemente tra le parole e le cose, rideterminando le prime e divenendo un “fattore” delle seconde: «un concetto non è solo un indicatore dei complessi di relazioni che comprende: è anche un loro fattore», perché «con ogni concetto vengono posti determinati orizzonti, ma anche i limiti di un’esperienza possibile e di una teoria pensabile»[49]. Quello che occorre studiare è «la convergenza tra concetto e storia»[50], anche se non si tratta di un’ontologia storica: se la storia assumesse significato e potesse essere compresa soltanto mediante un’identificazione perfetta tra dimensione concettuale e dimensione sociale e materiale, tra piano della ri-presentazione e piano degli eventi, allora si cadrebbe in quello che Koselleck chiama «ingenuo circolo vizioso che va dalla parola alla cosa, e viceversa»[51]. Centrale diviene la questione della “tensione” fondamentale che attraversa la relazione tra elaborazione concettuale e stati di fatto.

Per comprendere, dunque, la seconda epoca del concetto di rivoluzione, occorre delineare le caratteristiche che assume la temporalità all’interno del percorso della Modernità. Secondo lo storico e filosofo tedesco, «a partire dalla seconda metà del secolo XVIII […] il tempo non si accontenta di restare la forma nella quale si svolgono tutte le storie; acquista esso stesso una qualità storica»: questo è l’evento capitale a partire dal quale «la storia non si compie più nel tempo, ma grazie al tempo» e «il tempo acquista un carattere dinamico, poiché diventa una forza della storia stessa», si tratta di una nuova forma dell’esperienza che presuppone «un concetto di storia altrettanto nuovo, ossia il singolare collettivo Geschichte»[52].

L’esperienza storica e temporale della Modernità si fonda su una serie di processi che incrociano concetti e fatti, e ne definiscono lo statuto contraddittorio.

Innanzitutto, il modo mediante il quale le storie plurali articolano la possibilità di una storia al singolare: «il teorema della non-contemporaneità di storie diverse ma contemporanee in senso cronologico»[53]; centrale è il ruolo della colonizzazione come matrice della costruzione di una storia al singolare sulla base di un’idea di “progresso”: «la contemporaneità del non-contemporaneo, un’esperienza inizialmente legata all’espansione oltremare, diviene la griglia fondamentale per interpretare in termini di progresso la crescente unità della storia del mondo a partire dal secolo XVIII»[54]. In secondo luogo, determinante è la produzione della differenza del passato – sia nel senso “progressista” di una tenebra dalla quale fuoriuscire, sia nel senso “conservatore” di una tradizione da preservare (cioè: re-inventare costantemente): il processo che segnala Koselleck è quello a partire dal quale inizia ad applicarsi a tutti i campi della vita umana un criterio di distinzione basato su “prima di” e “dopo di” piuttosto che semplicemente “prima” e “dopo”; tutto questo conduce alla questione della prospettiva nell’analisi di un evento storico: «adesso un evento può cambiare la sua identità, se cambia la sua posizione nel processo integrale della storia»[55], per cui «se nella storia presente vengono registrate esperienze nuove, che si ritiene non siano mai state fatte prima, anche il passato può essere concepito nella sua diversità fondamentale», e «ne consegue che il carattere peculiare delle varie epoche deve esprimersi proprio nell’orizzonte del progresso»[56].

La caratteristica peculiare dell’esperienza storica e temporale della Modernità è che «la diagnosi del tempo nuovo e l’analisi delle età passate corrispondono»[57]. Questa corrispondenza produce un cambio di prospettiva radicale, il dilatarsi dello iato tra l’esperienza e l’aspettativa: «viene scavato un solco tra l’esperienza precedente e l’aspettativa di futuro, e aumenta la differenza tra passato e avvenire, sicché il tempo vissuto viene esperito come salto e rottura, come età di transizione, in cui emergono continuamente cose nuove e inattese», e «il significato del tempo viene a comprendere anche la novità, anche perché già prima della tecnicizzazione delle comunicazioni e delle informazioni l’accelerazione è diventata un’esperienza specifica del tempo»[58]. Nascono così le due determinazioni temporali che caratterizzano le esperienze costanti di transizione che hanno accompagnato e – a nostro modo di vedere – accompagnano ancora la Modernità: l’idea che il passato sia un campo di battaglia sul quale combattere per un suo “superamento” o per un suo “mantenimento” o “ritorno a”; l’idea che il futuro sia un ulteriore campo di battaglia sul quale combattere in quanto, differente dal presente e dal passato, diventa una sorta di enigma e sfida costante. In questo senso, andando anche oltre le intenzioni di Koselleck, possiamo dire che la Modernità – nella sua concezione storica e temporale – mostra a pieno la sua contraddizione determinante: non può pensarsi se non all’interno di un processo uni-direzionale, caratterizzato dalla Storia in generale e non dalle storie particolari, dal progresso (o regresso) come movimento unico, da un percorso per il quale il futuro può essere ignoto soltanto nella misura in cui non è facile cogliere, nel momento presente, le potenzialità insite nel suo movimento già-sempre direzionato. Il non-conosciuto del futuro è soltanto non-conosciuto nell’hic et nunc dell’invisibilità presente, ma la direzione è già-sempre segnata: quello che il filosofo francese Michel Serres interpreta come “movimento retrogrado del vero”, caratterizzazione fondamentale del pensare e del sentire moderni[59]. Lo scarto laterale, l’anomalia, non possono essere contemplati: il caso o l’evento non sono altro che quanto non si è in grado di cogliere nell’analisi presente, ma che diverrà chiaro – un momento del percorso – in un momento successivo, e se il caso o l’evento dovessero rappresentare uno scarto, un’anomalia, la verità del processo sarà quella di una sorta di ortopedia storica, un suo raddrizzamento e un suo re-inserimento all’interno del percorso lineare (per certi versi, il de-potenziamento del “caso” in vista della costruzione della “Storia” lo si può leggere in un percorso che va dalla teodicea leibniziana all’astuzia della ragione hegeliana, passando per l’astuzia della natura kantiana)[60]. Le conseguenze di questo processo complesso, secondo Koselleck, sono tre: la nascita di neologismi in -ismus, «termini che proiettano il movimento storico nel futuro»[61] come repubblicanesimo, liberalismo, socialismo, comunismo – si tratta di termini che implicano un certo movimento e un movimento certo verso il futuro, divenendo termini “concorrenti” nel cogliere la verità del futuro a partire dalla direzione del presente; l’utilizzazione di termini e concetti che mantengono la forma lessicale ma cambiano il loro significato temporale: un esempio su tutti è ovviamente il concetto di rivoluzione, ma anche emancipazione e il suo portato futurologico; la nascita dell’esigenza di una manipolazione politica del linguaggio, mediante la quale sorgono i processi culturali di ideologizzazione e critica ideologica – la lotta di classe che si intreccia con la lotta di classificazione. Koselleck, quando analizza la nascita e l’utilizzazione della parola Neuzeit, ricava un’indicazione per noi fondamentale: il termine presenta un’ambiguità in quanto può indicare semplicemente «che il nunc di ogni dato momento è nuovo»[62], che l’attuale è sempre una soglia rispetto al passato e al presente, ma contemporaneamente ha la caratteristica di «avanzare una pretesa qualitativa, cioè la pretesa di essere nuovo nel senso di completamente diverso, o persino migliore, nei confronti del tempo precedente»[63]. Questa indicazione è decisiva in quanto pone l’accento su un’altra dicotomia classica che attraversa la Modernità, quella tra fatto e valore: il futuro è diverso dal presente e dal passato soltanto nella misura in cui deve essere diverso e contemporaneamente migliore. Affinché il futuro sia davvero diverso e migliore, le vicende umane devono seguire il processo della Storia universale progressiva: il futuro è allo stesso tempo ignoto e già indirizzato, come abbiamo appena visto. E così, all’interno di questo quadro, come cambia il concetto di rivoluzione? Qual è quella che definiamo la seconda epoca della rivoluzione?

Come abbiamo visto, in Hobbes “rivoluzione” condivideva qualcosa del suo campo semantico, dal punto di vista politico, con “guerra civile”: se non coincidevano, comunque non si escludevano del tutto, la seconda esprimeva un’espressione possibile della prima, sempre in vista di un ritorno della “pace civile”. Ma è proprio tra la fine del ‘600 e gli inizi del ‘700 che qualcosa inizia a cambiare nell’uso linguistico. Nel vocabolario dell’Accademia di Francia del 1694, nota Koselleck, il significato principale della parola “rivoluzione” era ancora quello astronomico, per cui, nella sua utilizzazione politica e in connessione con lo Stato, poteva sì indicare un rivolgimento importante, ma soltanto all’interno di un processo ciclico (come quello mostrato, ad esempio, da Hobbes) – dunque: il movimento della “rivoluzione” apparteneva ancora alla sua dimensione naturale. Eppure, proprio a partire dall’esperienza della Glorious Revolution, la parola inizia a diffondersi nella sua utilizzazione politica e a cambiare spettro: diviene un termine che si oppone a quello di “guerra civile”, rappresentando non solo un sommovimento radicale ma anche un cambiamento verso il meglio – anche se viene sentita ancora, come abbiamo visto, come una forma del “ritorno” alla pace civile, indica contemporaneamente un cambiamento che identifica un processo di miglioramento. Si tratta di uno di quei momenti in cui i fatti premono e implicano trasformazioni nei concetti. La “guerra civile” diviene allora un assurdo girare a vuoto, la “rivoluzione” diviene un movimento razionale: nella sua relazione con lo Stato, la rivoluzione passa da ciò che per eccellenza può minarlo a ciò che ne può determinare la definitiva realizzazione. Certo, dietro la maschera della “rivoluzione” può nascondersi sempre la più terribile “guerra civile”, ma il concetto di “rivoluzione” si è comunque liberato da questa prossimità: la relazione diviene ambigua, ma non più unilaterale. La seconda epoca della “rivoluzione” è quella che muove dalle caratteristiche proprie della temporalità della Modernità e dall’evento storico rappresentato dalla Rivoluzione Francese. Innanzitutto, esattamente come la pluralità delle storie si è condensata nella Storia universale, così la pluralità delle rivoluzioni possibili si condensa in un singolare collettivo: si parla sempre più di “rivoluzione” come ciò che «pare raccogliere in sé i decorsi di tutte le singole rivoluzioni»[64]. La “rivoluzione” diviene un concetto metastorico, dice Koselleck, nella misura in cui «tende a dare un ordine storico alle esperienze sovvertitrici», e in più acquisisce un aspetto trascendentale, nella misura in cui «diventa un principio regolativo sia per la conoscenza sia per l’azione di tutti gli uomini che ne sono coinvolti»[65]. Un altro elemento che rientra nella definizione complessa del concetto è sicuramente quello di accelerazione: se è vero che in Robespierre, quando chiama i concittadini ad accelerare la rivoluzione, è ancora possibile sentire l’eco secolarizzata della fine delle attese della salvezza finale, è altrettanto vero che “rivoluzione” e “accelerazione” si avvicinano sempre più, e la rivoluzione diviene anch’essa una forma di accelerazione lungo una linea uni-direzionale. In questo senso, il concetto di “rivoluzione” sin dai suoi esordi inizia ad assumere quella indeterminatezza brumosa da cui abbiamo preso le mosse con l’analisi di Giacomo Marramao: la rivoluzione è una parola-concetto che può essere utilizzata sia per movimenti dall’alto verso il basso che dal basso verso l’alto, per indicare eventi puntuali e processi di media-lunga durata – con un gesto per certi versi provocatorio, Koselleck nota che, sin dall’indomani del 1789, «cominciarono a convergere, a tratti, il concetto di riforma e quello di rivoluzione»[66], divenendo centrale l’idea di una pianificazione sociale del futuro.

Un ulteriore elemento è quello per cui “rivoluzione” non identifica soltanto un processo verso il futuro, ma già sempre un modo di leggere il passato, per cui diviene un «concetto prospettico di filosofia della storia, che indicava una direzione irreversibile»[67] – ed è per questo che, costantemente e soprattutto nel XIX secolo, il concetto di “rivoluzione” si è contaminato con il concetto di “evoluzione”, perché la caratterizzazione moderna della temporalizzazione dei concetti assume una qualità politica, nel senso che inizia a identificare la prospettiva di una parte: «se usate in senso antitetico, evoluzione e rivoluzione diventano concetti di parte, mentre il fatto che possano essere usati con uno stesso senso sta a indicare quel processo generale di emancipazione sociale che si diffonde e che viene promosso con l’industrializzazione»[68]. Il fatto che la rivoluzione possa avere come oggetto l’emancipazione sociale e non solo politica è un’altra grande novità introdotta, secondo Koselleck, da questo spostamento del concetto di “rivoluzione”: le conquiste delle rivoluzioni americana, francese e russa sono sentite come conquiste che devono riguardare tutto il mondo e tutti gli uomini, «tutte le espressioni moderne di “rivoluzione” si riferiscono, spazialmente, a una rivoluzione mondiale; temporalmente, all’esigenza che resti permanente, finché i suoi scopi non siano stati raggiunti»[69]. La “rivoluzione”, dunque, assume una caratteristica peculiare che richiama allo stesso tempo una sua sorta di “necessità” storica ma anche l’idea che vi sia un gruppo di iniziati che possa “forzare” i tempi e accelerarne la realizzazione: «se finora la rivoluzione è stata descritta come una categoria metastorica che serviva a determinare i processi sociali e industriali nel senso di un processo accelerato, ebbene adesso proprio questo intervento si rivela come la pretesa di dirigerne coscientemente il corso da parte di “iniziati” alle sue leggi progressiste»[70], nasce il «moderno rivoluzionario di professione, che, quanto più è in grado di cancellare se stesso, tanto più è capace di “attuare” le rivoluzioni»[71]. La legittimità della rivoluzione sta proprio in questa connessione: la “cooperazione” tra un processo che allo stesso tempo accade da sé, raggiunge la sua necessità storica di manifestazione, e deve essere fatto accadere da avanguardie rivoluzionarie.

La seconda epoca della rivoluzione si compie e si chiude con l’ultima grande rivoluzione politica, la Rivoluzione d’Ottobre, quella da cui abbiamo preso le mosse. Il fallimento della Rivoluzione d’Ottobre può leggersi anche nei termini di un fallimento di un’epoca e di un modo di concettualizzare l’esperienza storica e temporale propria della Modernità. L’unica rivoluzione possibile resta la Rivoluzione Francese, quella che ha aperto e, allo stesso tempo, ha chiuso le condizioni di possibilità della rivoluzione stessa. È un dato di fatto che oggi non solo qualcosa come una rivoluzione sembra essere impossibile, ma che addirittura sembra giacere nell’impensabile e nell’inimmaginabile, oltre a non suscitare più alcun tipo di passione. Il romanzo di Platonov, con cui abbiamo aperto, sembra essere particolarmente efficace, perché indica, allo stesso tempo, il necessario fallimento di ogni rivoluzione post-Rivoluzione Francese e, nel fallimento annunciato, sembra indicare ulteriori possibilità. La possibilità di una terza epoca della rivoluzione di là da venire.

 

  1. La terza epoca del concetto di rivoluzione: una conclusione provvisoria

Bruno Latour connette la crisi della modernità – la scoperta che non si può essere mai davvero moderni – con la caduta dei regimi sovietici, nel 1989, e contemporaneamente, nel medesimo anno, con le prime conferenze globali su questioni ambientali che sembrano annunciare anche la fine di un certo capitalismo, basato sul principio di un “progresso” che si fonda sul dominio totale della natura. Quello che Latour definisce «il miracoloso 1989»[72] segnalerebbe la fine di un doppio inganno della Modernità: quello che annunciava la fine dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo – che con la stagione neoliberista sarebbe stato rilanciato oltremisura, e quello che annunciava il definitivo dominio sulla natura esterna, la sovranità dell’umano sull’intero pianeta che andava trasformandosi in Globo. Latour spiega come la Modernità rappresenti innanzitutto «una rivoluzione del tempo», e come questa rivoluzione presenti una dimensione immediatamente politica, nella misura in cui «indica una frattura nel trascorrere del tempo; indica una lotta che ha vincitori e vinti»[73]. La ragione per cui il termine “Modernità” suscita problemi di carattere epistemologico e di definizione – vere e proprie lotte di classificazione, per cui si cerca di ripensarla aggiungendo prefissi vari – è da ritrovarsi, secondo Latour, nel fatto che entrambe queste indicazioni – la frattura nello scorrere del tempo, la definizione sul campo di vincitori e vinti – non si manifesta più in maniera limpida, come si sarebbe voluto durante la sbornia da fine della storia che avrebbe poi attraversato l’ultimo decennio del XX secolo. La ragione è da trovarsi nel fatto che “il miracoloso 1989” avrebbe svelato definitivamente l’insieme di paradossi che tiene insieme la Modernità, il fatto che, da un lato, avrebbe fatto sempre più proliferare ibridi di umano e nonumano (laddove per nonumano, non si intendono necessariamente enti di origine biologica, ma anche e soprattutto di origine tecnico-tecnologica), dall’altro avrebbe strenuamente difeso la necessità di tenere separati gli ambiti creando due giurisprudenze separate: quella della natura e quella della cultura/società[74]. I paradossi sono innumerevoli, secondo Latour. Il primo recita: «La natura non è una nostra costruzione: è trascendente e ci travalica infinitamente» mentre «La società è una nostra costruzione: è immanente al nostro agire»[75]: si tratta della descrizione del “momento Hobbes”, che abbiamo affrontato già in questo saggio, ma questa volta letto come il momento in cui si sancisce, nella sua polemica con Boyle, la nascita parallela dell’umano (e della sua politica) e della natura (e della sua scienza), in senso moderno. Se si analizzano i due processi come paralleli, si scopre che la Modernità, per funzionare, deve ammettere il rovesciamento del primo paradosso in un secondo paradosso, continuando a mantenerli e a “giocarli” entrambi in una co-presenza che, ovviamente, non può essere dialettizzata: «La natura è una nostra costruzione artificiale in laboratorio: è immanente» mentre «La società non è una nostra costruzione: è trascendente e ci travalica infinitamente»[76]. La nascita del laboratorio, come luogo in cui “si costruiscono” la natura e le leggi che regolano i fenomeni della natura, e la nascita del Leviatano, lo Stato moderno, luogo in cui “si costruiscono” gli umani e le leggi che regolano le relazioni tra gli umani, è una nascita parallela che può reggersi soltanto a partire dalla compresenza dei due paradossi: il determinismo della natura e la libertà dell’umano possono reggersi soltanto sul fatto che la natura deve essere pensata anche come potenzialità e l’umano anche come prodotto. Quella che Latour chiama la “costituzione” moderna si fonda su tre garanzie, mediante le quali è possibile dire tutto e il contrario di tutto, in cui è contenuta ogni possibilità di critica e di risposta alla critica. La prima garanzia recita in questo modo: «anche se siamo noi che costruiamo la natura, è come se non la costruissimo»; la seconda garanzia invece afferma: «anche se non siamo noi che costruiamo la società, è come se la costruissimo»; la terza garanzia riguarda le pratiche e si definisce in questi termini: «la natura e la società devono rimanere assolutamente distinte; il lavoro di depurazione deve restare assolutamente distinto da quello di mediazione»[77]. Semplificando al massimo, gli scienziati moderni continueranno a costruire artificialmente la natura e le sue leggi, sostenendo però di “scoprire” i suoi segreti e la sua normatività immanente; gli scienziati sociali continueranno a costruire artificialmente la società e le sue leggi, ma reclutando sempre più “nonumani” e ragionando nei termini di una normatività che trascende il lavoro di costruzione. L’impensato della Modernità sta nel tenere insieme tutte queste contraddizioni, producendo allo stesso tempo teorie articolate e possibilità di critiche. Ancora una volta, Bruno Latour, nella sua capacità di sintesi, sembra indicare alcune problematizzazioni particolarmente complesse. Se si parte infatti dalla “trascendenza della natura”, quella che il filosofo francese chiama “possibilità critica” non può che essere quella che sancisce che non si può nulla contro le leggi di natura. Se si parte invece dalla “trascendenza della società”, scopriamo che nulla si può contro il dominio delle leggi della società. Contemporaneamente, però, la Modernità presenta anche la possibilità di una “immanenza della natura”, che permette di pensare possibilità e virtualità illimitate, e la possibilità di una “immanenza della società”, che permette di pensarci come del tutto liberi. Sono innumerevoli gli incroci possibili tra queste impostazioni, così come è possibile tenerle tutte separate o affidarsi soltanto a una di esse e usare le altre come errori palesi di interpretazione. Si tratta, secondo Latour, della storia del primo Illuminismo, quello per il quale la scoperta delle leggi razionali che regolano i fenomeni della natura interna ed esterna all’umano lo avrebbe strappato al suo oscurantismo, e quello del secondo Illuminismo, come lo definisce Latour, quello del XIX secolo, per il quale la scoperta delle leggi razionali che regolano i fenomeni della società permetteva di discernere chiaramente tra vera scienza – limitando gli “eccessi” del primo Illuminismo – e pervasiva ideologia. La Modernità poteva anche lavorare a una sintesi di entrambe le istanze, «prendendo le scienze naturali per criticare le false pretese del potere e sfruttando le certezze delle scienze umane per criticare le false pretese delle scienze naturali e del dominio scientifico»[78]. Sono queste le operazioni, dunque, che producono la “rivoluzione del tempo”: la Modernità può a partire dalla dicotomia natura/cultura procedere alla “creazione” di una pre-Modernità, attraverso un processo, per certi versi, estremamente semplice. Una volta separati gli ambiti del naturale e del socio-culturale, sarà gioco facile per i Moderni criticare come false le credenze naturali delle altre culture, in quanto ignorano i veri meccanismi che regolano i fenomeni naturali (il tuono non è una divinità, ma un fenomeno naturale), così come criticare come false le credenze sociali e politiche delle altre culture, in quanto ignorano i veri meccanismi che regolano i fenomeni economici e sociali (gli spiriti degli antenati non tengono insieme la comunità, perché tali spiriti non sono altro che costruzioni sociali che ogni gruppo si dà, pur non sapendolo). Ma “il miracoloso 1989” sancisce la fine o, per meglio dire, sancirebbe lo svelamento di quest’insieme complesso di contraddizioni.

Muovendoci lungo questi sentieri latouriani, possiamo dire che non si tratta di uno “svelamento” che proverrebbe da qualcosa come una “Modernità riflessiva”, bensì dagli effetti stessi, nella materialità del mondo e delle relazioni, della sua Costituzione: la separazione tra natura e cultura ha portato, dal lato della natura, a un iper-sfruttamento le cui conseguenze più evidenti sono la crisi climatica e il surriscaldamento globale[79], e dal lato della cultura-società, a un iper-sfruttamento dell’umano da parte dell’umano le cui conseguenze più evidenti sono la crescita costante delle moltitudini affamate e delle disuguaglianze globali.

E la “rivoluzione”? Se il concetto di rivoluzione ha attraversato due epoche – i due grandi momenti della prima e della seconda Modernità: il momento in cui iniziano a sorgere e poi si affermano il regime temporale e storico della Modernità e la forma di vita capitalistica –, nella fase attuale, quella della crisi definitiva della Modernità, quando un mondo sta finendo (quasi letteralmente) e un altro tarda a manifestarsi (e rischia di non manifestarsi più), quale ruolo può giocare la “rivoluzione”? È ancora un concetto in grado di descrivere e performare una qualche realtà presente o di là da venire? La ragione per cui sembra essere impensabile è divenuto chiaro: la fase del capitalismo avanzato neoliberista, con la sua temporalizzazione realizzata e uni-direzionale, nata con la Rivoluzione Francese, non permette più che si diano ulteriori “rivoluzioni” – la rivoluzione non può che essere un evento unico, quello che sancisce l’ingresso in un mondo in cui la Storia è universale e ha trovato il suo cammino. Un ulteriore paradosso della Modernità consiste proprio in questo, andando anche oltre Latour, il fatto che pensa la Storia come un processo universale che non ha una fine ma possiede un fine pre-stabilito, e contemporaneamente l’assenza di una fine e la determinazione di un fine ne sanciscono la (possibile) fine. Bisogna tornare all’idea che il “progresso”, così come lo abbiamo inteso nei termini koselleckiani, rappresenta la fine delle storie possibili, più che il motore di una qualche Storia universale: oggi che siamo giunti a quella che potrebbe definirsi come la concreta possibilità della fine catastrofica dell’umano, occorre riattivare contemporaneamente la pensabilità delle storie possibili – dunque una nuova “rivoluzione” allo stesso tempo materiale e culturale – e la virtualità della trasformazione della realtà, a partire da un rinnovato legame tra umano e nonumano.

La fantasia platonoviana di Čevengur permette non soltanto di scavare nelle contraddizioni della rivoluzione storica russa, ma anche nelle contraddizioni del concetto di rivoluzione, così come è stato pensato dai Moderni, a partire dal modello della Rivoluzione Francese, unica rivoluzione davvero possibile nella Modernità. La fine della Storia universale, pensata come riattivazione delle storie particolari, l’idea che una rivoluzione debba riguardare umani e animali, cieli e lineamenti del volto, indica come l’unica strada percorribile sia quella del ripensamento complessivo di ciò che Latour chiama “Costituzione” moderna. Ma non si tratta di discorsi vaghi e indefiniti, c’è un concreto movimento di pensiero che sta già provando a lavorare in questa direzione, mantenendo ancora elementi della Modernità, ma pensando certamente oltre il suo limite fondamentale, quello che sta portando sempre più all’iper-sfruttamento della natura e degli umani, fino a un punto di rottura definitivo che potrebbe non essere così lontano. Quando in filosofie politiche come ad esempio quella proposta da Nancy Fraser[80] si trovano riflessioni complesse e articolate in grado di pensare in maniera avanzata l’intersezionalità – la produzione e la ri-produzione – come unica chiave di lettura possibile per mettere in discussione il terribile dominio della Modernità capitalistica, quello che ci sta portando alla fine di tutte le cose, muovendo dall’idea che l’impresa di questa lunga fase della storia umana, la sua tensione verso il superamento di ogni limite in vista di un’accumulazione pensata come infinita, non può che mettere in crisi contemporaneamente e come processo unico le condizioni ecologiche di possibilità dell’esistenza umana e nonumana, le relazioni solidali e le disposizioni affettive che legano gli umani tra di loro, i poteri pubblici che definiscono le condizioni di possibilità della vita in comune, e le nuove forme di pensabilità di un vero universalismo che tenga conto di tutte le dimensioni dell’esistenza comune umana e nonumana; quando la riflessione giunge a questo livello di intreccio tra elementi, rimescolando tutto ciò che la Modernità ha tenuto separato, ri-assemblando (per utilizzare una terminologia latouriana) ciò che abbiamo pensato come dis-assemblato, ripensando le condizioni di possibilità dell’esperienza temporale e storica dell’umano e del nonumano contemporaneamente, allora il concetto di “rivoluzione” può entrare nella sua terza fase e tornare a divenire un possibile “fattore” (in senso koselleckiano) della realtà. Non più soltanto movimento circolare e che segnala un ritorno – anche se pure di un ritorno si tratterà: ci sarà bisogno, per pensare il nuovo mondo, di attingere anche a ciò che non siamo abituati a pensare come moderno; e non più soltanto ciò che sancisce la fine di un’epoca e di un mondo con la creazione di una nuova epoca e di un nuovo mondo sulla base di una netta separazione, anche valoriale, tra passato e presente-futuro – ma anche di questo si tratterà: bisognerà chiudere nettamente con quanto rappresenta il nostro presente e il nostro passato, ma contemporaneamente riattivare un ethos e un pathos che tengano insieme la necessità della trasformazione radicale e del mantenimento tradizionale, un ethos e un pathos che rinvigoriscano quanto di potente permane nell’accezione dell’attuale. Quella che Michel Foucault ha chiamato “ontologia dell’attualità” o “ontologia di noi stessi”, come eredità nobile ma rimasta invisibile dell’Illuminismo[81], forse rappresenta proprio questo, la terza epoca del concetto di rivoluzione, qualcosa che muove segnando non solo una soglia con il passato e con il futuro, ma anche con il presente, l’unico modo per rompere definitivamente con l’uni-direzionalità del tempo della storia alla quale la Modernità resta avvinghiata e che, pur essendo fondata da una rivoluzione, non permette più di pensare la rivoluzione e la trasformazione dell’esistente. Se restiamo moderni, nel senso che abbiamo provato a segnalare e analizzare, neanche lì dove cresce il pericolo potrà crescere anche ciò che salva: del resto il pericolo sta già crescendo notevolmente, senza che ciò che possa salvare riesca a emergere. Perché ciò che eventualmente potrà salvarci non potrà che passare per una rivoluzione, una rivoluzione che molto probabilmente non avrà la forma delle rivoluzioni (riuscite e fallite) della Modernità, sarà qualcosa di completamente diverso, che permetterà allo stesso tempo un ritorno e una frattura radicale.

 


[1] Si tratta della definizione che gli abitanti di Čevengur danno del proprio villaggio. Cfr. A.P. Platonov, Čevengur (1926-1929), tr. it. Einaudi, Torino 2015.

[2] Cfr. I. Stengers, Au temps des catastrophes. Résister à la barbarie qui vient, La Découverte, Paris 2009.

[3] Cfr. R. Koselleck, Storia dei concetti e storia sociale, in Futuro passato (1979), tr. it. Marietti 1820, Genova 1996, pp. 91-109.

[4] A.P. Platonov, op. cit., p. 168.

[5] Ibid., p. 177.

[6] Ibid., p. 120.

[7] Il riferimento è a P. Descola, La composition des mondes, Flammarion, Paris 2017, e ovviamente al suo opus magnum, che ha avuto grande impatto negli studi antropologici e non solo, Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris 2005.

[8] A.P. Platonov, op. cit., p. 251.

[9] Ibid., p. 246.

[10] Ibid., p. 227.

[11] Ibid., p. 228.

[12] Ibid., p. 221.

[13] Ibid., p. 222

[14] Ibid., p. 247.

[15] Ibid., p. 228.

[16] Ibid., p. 225.

[17] Ibid., p. 238.

[18] Ibid., p. 244.

[19] Ibid., p. 249.

[20] Ibid., p. 245.

[21] Ibid., p. 252.

[22] Ibid., p. 254.

[23] Ibid.

[24] Ibid., p. 262.

[25] Ibid., p. 270.

[26] Il riferimento è ovviamente a B. Latour, Non siamo mai stati moderni (1991), tr. it. Elèuthera, Milano 2016.

[27] V.I. Lenin, Stato e rivoluzione (1917), tr. it. Editori Riuniti, Roma 1954, p. 9.

[28] G. Marramao, Potere e secolarizzazione. Le categorie del tempo, Editori Riuniti, Roma 1985, p. 5.

[29] Ibid.

[30] Cfr. R. Koselleck, Storia dei concetti e storia sociale, e Id., Sulla disponibilità della storia, entrambi in Id., Futuro passato (1979), cit., rispettivamente pp. 91-109 e pp. 223-238. Importante anche Id., La storia dei concetti e i concetti della storia, in Id., Il vocabolario della modernità (2006), tr. it. il Mulino, Bologna 2009, pp. 27-47.

[31] Id., Criteri storici del moderno concetto di rivoluzione, in R. Koselleck, Futuro passato, cit., pp. 55-72, qui p. 56.

[32] Ibid., p. 57.

[33] Ibid., p. 56.

[34] Ibid., p. 57.

[35] Cfr. ibid., p. 58.

[36] Il riferimento è ovviamente al testo fondamentale di A. Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito (1957), tr. it. Feltrinelli, Milano 1988.

[37] Cfr. B. Latour, Cogitamus. Sei lettere sull’umanesimo scientifico (2010), tr. it. il Mulino, Bologna 2013, pp. 102-106.

[38] G. Marramao, op. cit., p. 17.

[39] Il riferimento è soprattutto ai primi studi di Canguilhem: cfr. G. Canguilhem, Descartes et la technique (1937), e Id., Activité technique et création (1938), in Id., OEuvres Complètes. Volume I. Écrits philosophiques et politiques (1926-1939), Vrin, Paris 2011, rispettivamente pp. 490-498 e pp. 499-506. Per l’analisi dell’importanza di questi saggi per la riflessione canguilhemiana e, in generale, per l’epistemologia francese, ci permettiamo di rinviare al nostro D. Salottolo, Tecnica, norma e individualità: Canguilhem nell’Antropocene, in «Studi filosofici» XLV, 2022, pp. 75-95.

[40] La riflessione di Bruno Latour parte proprio dal problema della costruzione tecnica dei fatti scientifici: cfr. B. Latour, S. Woolgar, Laboratory Life. The Construction of Scientific Facts, Princeton University Press, Princeton 1986, e Id., Science in Action. How to Follow Scientists and Engineers Through Society, Harvard University Press, Harvard 1987. Le implicazioni etiche di questa impostazione si trovano in Id., Cogitamus, cit.

[41] G. Marramao, op. cit., p. 16.

[42] Su questa circolarità, si sono interrogati, muovendo da intenzioni differenti, M. Foucault, La società punitiva. Corso al Collège de France (1972-1973), Feltrinelli, Milano 2016, in particolare pp. 37-45, e G. Agamben, Stasis. La guerra civile come paradigma politico, Bollati Boringhieri, Torino 2015.

[43] R. Koselleck, Criteri storici del moderno concetto di rivoluzione, cit., p. 59.

[44] Id., Storia dei concetti e storia sociale, cit., p. 92.

[45] Ibid., p. 96.

[46] Ibid.

[47] Ibid.

[48] Cfr. ad esempio B. Latour, Facciamoci sentire! Manifesto per una nuova ecologia (2022), tr. it. Einaudi, Torino 2023.

[49] R. Koselleck, Storia dei concetti e storia sociale, cit., p. 102.

[50] Ibid., p. 103.

[51] Ibid.

[52] Id., «Età moderna» (Neuzeit). Sulla semantica dei moderni concetti di movimento, in Id., Futuro passato, cit., pp. 258-299, qui p. 276.

[53] Ibid., p. 278.

[54] Ibid., p. 289.

[55] Ibid., p. 281.

[56] Ibid., p. 282.

[57] Ibid.

[58] Ibid., p. 289.

[59] Cfr. M. Serres, Darwin, Napoleone e il samaritano. Una filosofia della storia (2015), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2017.

[60] Cfr. R. Koselleck, Il caso come residuo motivazionale nella storiografia, in Id., Futuro passato, cit., pp. 135-150.

[61] Id., «Età moderna» (Neuzeit). Sulla semantica dei moderni concetti di movimento, cit., p. 292.

[62] Ibid., p. 266.

[63] Ibid., p. 267.

[64] Id., Criteri storici del moderno concetto di rivoluzione, cit., p. 63.

[65] Ibid.

[66] Ibid., p. 64.

[67] Ibid.

[68] Ibid., p. 65.

[69] Ibid., p. 66.

[70] Ibid., p. 69.

[71] Ibid., pp. 69-70.

[72] B. Latour, Non siamo mai stati moderni, cit., p. 20.

[73] Ibid., pp. 22-23.

[74] Il riferimento è anche a M. Serres, Il contratto naturale (1990), tr. it. Feltrinelli, Milano 2019.

[75] B. Latour, Non siamo mai stati moderni, cit., p. 52.

[76] Ibid.

[77] Ibid.

[78] Ibid., p. 56.

[79] Al tempo in cui scrive Latour, il 1990, la crisi ambientale era sicuramente all’ordine del giorno, ma non aveva assolutamente l’impatto nell’immaginario che presenta oggi.

[80] Un riferimento su tutti può essere N. Fraser, Capitalismo cannibale. Come il sistema sta divorando la democrazia, il nostro senso di comunità e il pianeta (2022), tr. it. Laterza, Bari-Roma 2023. Importante anche Id., Capitalismo. Una conversazione con Rahel Jaeggi (2018), tr. it. Meltemi, Milano 2019.

[81] Ci riferiamo, ovviamente, alla rilettura che Michel Foucault propone della riflessione kantiana sull’Illuminismo. Cfr. M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo? (1984), in Id., Archivio Foucault 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 217-232; e in una forma più distesa la lezione del 5 gennaio 1983 del corso al Collège de France intitolato Le gouvernement de soi e des autres (M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), Feltrinelli, Milano 2009, pp. 11-47). 

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