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Abstract
Ethical Reflections from the bioethical Implications of the Ongoing technological Revolution
Bioethics, as applied ethics that reason about the interconnections between the biological and technical dimensions of the human, cannot but evolve extremely rapidly. The constant innovations coming, for example, from the field of artificial intelligence or from the manipulation of the genome, cannot but constantly question the human form of life. In this interview, Rossella Bonito Oliva, a moral philosopher, discusses the complex issues of the unthought and artificial intelligence, genome manipulation and the very latest innovation concerning the “production” of a “synthetic human embryon”, highlighting what she calls “the increasingly widespread disinterest in the 'human' form of life”.
S&F_: La bioetica, in quanto etica applicata che ragiona sulle relazioni sempre più complesse tra dimensione biologica e dimensione tecnica dell’umano, evolve costantemente ed è costantemente alla ricerca di possibili risposte a problemi allo stesso tempo sempre nuovi e sempre antichi. La pensatrice Hayles, nel suo recente L’impensato, si è interrogata su quelli che definisce “assemblaggi cognitivi” che sempre di più includono attori umani e attori nonumani (viventi nonumani e macchine). Quali scenari si stanno aprendo nella comprensione dell’umano? Quali potrebbero essere gli impatti di una teoria che pone l’attenzione alla dimensione dell’impensato?
RBO_: Vorrei sottolineare che la bioetica è un’etica applicata molto particolare per la sua storia e per i nodi critici che ha intercettato nel tempo. Diversamente da altre etiche applicate – etica della comunicazione, etica dell’ambiente, neuroetica, ecc. – la bioetica ha come suo focus la vita (come suggerisce il nome). Là dove “etico” richiama il coinvolgimento dell’umano nella delimitazione di un territorio “familiare”, culturalmente segnato da valori e conoscenze, bios mette in gioco connessioni e intrecci con la complessa articolazione del biologico tra vivente e non-vivente, come l’interdipendenza tra l’azione umana e l’ambiente, gli attori nonumani, le macchine. Il testo della Hayles del 2017 raccoglie criticamente l’eredità di Deleuze e di quanti si sono interrogati sulle ricadute della processualità intensificata dall’azione umana concentrandosi su quanto non solo dipende dall’azione più o meno responsabile degli umani, ma penetra e crea assemblaggi: una “seconda natura” ossimoricamente generata dalla cultura o civiltà delle macchine. Che cosa decide delle potenzialità della conoscenza e dell’azione umana al di là dell’inconscio, della coscienza, degli immaginari e degli universi simbolici? In questo senso l’impensato tocca in qualche modo scava ancora più a fondo, allarga una dimensione in qualche modo individuale per interrogarsi sulle metamorfosi dei sistemi cognitivi. È quanto ha progressivamente spostato l’orizzonte della bioetica rispetto alla sua ispirazione medica. Questa volta non per questioni legate ai valori, alle responsabilità e alle regole di una ricerca medica, ma per la scivolosità di questioni di carattere economico, politico (finanziamenti e politiche sanitarie) e etico in senso lato. Le promesse della medicina non entravano solo nel merito della cura e della salute, ma toccavano questioni centrali dell’etica, della morale, della politica, dei diritti – nascita, morte, natura/cultura – portando ad emergenza l’oscillazione tra natura e cultura, tra corpo/mente e artificio. Al di là delle posizioni degli esperti, ciò che è entrato nel dibattito è la legittimità della coppia sapere-potere, o meglio la ricaduta delle sperimentazioni della scienza sulla percezione delle potenzialità dell’azione umana. Se già con la scoperta dell’inconscio si è sollevato il velo sul pre-sunto dominio della coscienza e della ragione strumentale, l’assemblaggio uomo-macchina sempre più pervasivo nella nostra vita quotidiana ha non solo detronizzato soggetto e ragione ma focalizzato gli interrogativi sui fattori che incidono sulla metamorfosi della percezione della realtà prodotta dall’artificializzazione del naturale e dalla naturalizzazione dell’artificiale. Come le macchine hanno inciso o meglio mediato il rapporto corpo/mente e di conseguenza tra vissuti e decisioni? Come la trasformazione della relazione soggetto-oggetto ha spostato l’asse dal soggetto all’oggetto, o meglio ha generato una sorta di simbiosi nell’interconnessione tra il mezzo e le strutture cognitive? Difficile rimanere nell’orizzonte della capacità di preveggenza delle scienze o della perdita del paradigma morale nel momento in cui la tecnologia ha spostato l’asse dal sapere al potere, dall’interrogativo sulla posizione dell’uomo nel mondo alla produzione di artefatti che da protesi/strumenti capaci di “esonerare” e supportare diventano corpi e menti. Si pensi all’uso ormai diffuso di cellulari, computer che organizzano e scandiscono le nostre vite, la nostra memoria e le nostre rappresentazioni. È quella che si definisce una “complessità” incrementata dalla scienza, ma offerta alla conoscenza attraverso sistemi operativi computazionali indifferenti al significato della vita umana, ma capaci di incidere sulle scelte e le decisioni o meglio di illudere di poter regolare la processualità e surrogando l’interazione tra sistemi diversamente regolati attraverso algoritmi: nell’economia, nella genetica capaci di fornire orientamento, orientare decisioni di quanto si rivela sempre più in-decidibile.
S&F_: Un tema di cui si sta discutendo a lungo riguarda ancora una volta l’intelligenza artificiale, soprattutto a partire dalla diffusione del programma ChatGPT che permette di costruire contenuti “originali” e non soltanto corretti formalmente. In un’intervista rilasciata al quotidiano laRepubblica, il filosofo Luciano Floridi racconta che, dopo aver provato la chatbot, ha rilevato che “non c’è alcuna comprensione del testo. Brutale. Zero. Proprio come l’abbecedario o la calcolatrice non capiscono i numeri, per quanto precisi siano i calcoli”. Eppure, il mondo umano è sempre più gestito da questa tipologia di software. Gli algoritmi pilotano oramai molti aspetti dell’esistenza umana, dall’informazione che ci viene proposta dai nostri device alle possibilità di indirizzare i risultati elettorali delle nostre sempre più esauste democrazie (il caso Cambridge Analytics), fino alla profilazione individuale in modo da renderci consumatori sempre più efficienti e performanti. Quali scenari apre la sempre maggiore diffusione di algoritmi e “intelligenza artificiale”? Come dovrebbe rapportarsi l’umano a questo suo possibile futuro?
RBO_: La questione di quello che può fare l’AI si intreccia con la rappresentazione dell’umano. Mi spiego meglio, dal punto di vista del prodotto non vi è dubbio che l’intelligenza artificiale lavora più velocemente, in modo più efficace ma se ci spostiamo sul fine o sull’uso che fa del mezzo il fine il risultato è zero come sostiene Floridi. Ma il fatto che il mezzo promette quanto è entrato profondamente nell’approccio umano alla realtà non è da sottovalutare, a mio avviso la domanda non va posta nei termini di comparazione, se è vero che guardiamo, sentiamo, ricordiamo anche attraverso strumenti ormai incorporati. In termini di funzionamento e di efficacia potremmo dire siamo perdenti, il problema è che la perdita è molto più radicale se ne va del significato della vita umana, della possibilità di uscire da una neutralizzazione dell’umano. Difficile rispondere, ma decisivo domandarsi se l’azione umana sia circoscritta alla produzione, se il dominio della dimensione economica condensi il significato della vita umana, se tutto questo sia il terreno al cui interno trovano alimento i valori a cui comunque l’etica si appella. La famosa domanda posta più volte dai filosofi circa la comparabilità tra l’intelligenza delle api, delle formiche e l’intelligenza umana oggi non offrirebbe grandi margini di differenziazione dal momento che viviamo in una rete dalla quale è difficile uscire, pena l’esclusione dalla comunicazione, dalla partecipazione alla vita comune, dal riconoscimento sociale. Questo spiega la commistione di entusiasmo e di timore verso l’AI. Centri di ricerca istituzionali si pongono più domande di imprese e centri di ricerca finanziati da privati, forse perché l’AI è un buon investimento, cresce su un terreno reso fertile e disponibile dal progressivo disinteresse alla forma “umana” della vita.
S&F_: Un team dell’Università di Cambridge, guidato dalla biologa Magdalena Ernicka-Goetz, è riuscita a far crescere un embrione, senza utilizzazione di ovociti e spermatozoi, fino al punto in cui inizia la formazione di linee cellulari distinte, ma non quelle di cervello o cuore. La ricerca avrebbe la funzione di favorire gli studi sulle malattie genetiche e sulle cause degli aborti spontanei. La notizia ha avuto una grande eco mediatica e si è parlato di primo “embrione umano sintetico”. Le domande che questa “scoperta” spinge a porsi sono innumerevoli: se l’embrione non ha cuore né cervello, può essere considerato umano? E se non è propriamente umano, di cosa si tratta? Qual è il confine tra dimensione naturale e dimensione tecnica in un “ente” di questo tipo? Inoltre, proprio in quanto embrione allo stesso tempo umano e non-umano, può davvero essere utile alla ricerca? O rappresenta una forma rinnovata di prometeismo portato alle estreme conseguenze?
RBO_: Certo i miracoli sono sempre esistiti al mondo e quindi anche un uomo sintetico senza cuore e cervello sarebbe il coagulo di molte speranze, paradossalmente l’artificio più vicino all’AI che ovviamente pecca in termini di empatia e pensiero. Una grande definitiva liberazione per l’umano che traduce il ritardo, la distanza alla base della sua evoluzione, in un definitivo passo laterale. Prometeo si sa viene punito, torturato e poi ridotto al silenzio spettrale della montagna. Prometeo non parla più o forse sarebbe meglio dire che logos e mythos si sono fusi nell’AI che combina dati, lavora in termini previsionali partendo da ciò che è disponibile e compiendo valutazioni, prendendo decisioni, intercettando elementi omogenei o omogeneizzabili. Come ogni sintesi anche quelle artificiali implicano un movimento di mediazione nell’opposizione tra due fattori, ma il medio non è nel mezzo e nemmeno il mezzo, d’altra parte cuore e cervello non sono evidentemente riproducibili artificialmente. Ma forse ci sarà un tempo in cui questo embrione potrà apparire a pieno titolo umano o, viceversa, che proseguendo su questa strada cuore e cervello non siano più così essenziali a caratterizzare l’umano.
S&F_: Come abbiamo appena visto, uno dei temi centrali per la bioetica è sicuramente l’ingegneria genetica che, semplificando al massimo, permette tra le altre cose di alterare le sequenze di DNA dei geni in vista della “produzione” di nuove composizioni genetiche più adatte a rispondere a determinate “esigenze”. Dinanzi a questi scenari che evolvono molto rapidamente, si può dire che il rischio sia lo sviluppo di nuove forme di “vulnerabilità”. Cosa dovrebbe o potrebbe fare la riflessione etica e bioetica dinanzi a questi possibili, ma sempre più reali, scenari?
RBO_: La ricerca nel campo della genetica ha rivoluzionato profondamente la ricerca medica, le capacità previsionali sullo sviluppo di determinate malattie e in generale la conoscenza delle interazioni con fattori ambientali, regimi di vita, ambiente. Ancora una volta quando viene sottolineata solo la capacità di intervento sulle sequenze di DNA o di intervento sull’ereditarietà di alcune patologie anche la genetica può intervenire a complicare e problematizzare la relazione tra sapere e potere, tra conoscenza ed azione. Allora la vulnerabilità può prendere nuove forme per la disponibilità di un fiume di informazioni – ormai all’ordine del giorno sui network, giornali, trasmissioni e intrattenimenti – non metabolizzabili del tutto da chi può essere chiamato a decidere. Ancora una volta l’essere informati non mette nella condizione di poter decidere, la sequenza genetica non decide assolutamente sul futuro di una vita a meno di non considerare la vita, la nostra vita, come una bolla chiusa che galleggia nel mondo. E in questo senso la vulnerabilità è data da due fattori, uno interno e l’altro esterno. Quello interno è l’assolutizzazione del dato genetico rispetto alle condizioni ambientali, sociali e vitali che interagiscono con la processualità della vita, taciute dall’informazione secca. Il rischio non è l’ignoranza ma la difficoltà di amministrare e governare le paure e i timori che l’ereditarietà di una patologia può generare nel soggetto informato. Chi può decidere o intervenire? Evidentemente ogni soggetto che viva in un paese che garantisca l’assistenza sanitaria, che disponga di strutture capaci di informare sul dato specifico – la sequenza – ma anche sui fattori che richiedono l’incrocio dei dati con le condizioni di vita. Forse un’utopia nel nostro mondo. Ma dall’esterno la raccolta dati non viene sprecata, né tanto meno si può ancora pensare che l’avanzamento della ricerca non abbia bisogno di finanziamenti e che finanziamenti siano ispirati da interessi economici. Questo comporta ovviamente problemi in termini di rispetto di sorveglianza e controllo della sfera privata: non a caso chiamata banca dati.
S&F_: Il termine “etica” è quanto mai presente e all’ordine del giorno, perlomeno all’interno delle varie forme che assume il discorso pubblico europeo e all’interno delle differenti tipologie di progettualità europee. L’Unione Europea sembra dunque dare la massima importanza alla dimensione etica e bioetica. Come è possibile interpretare questo interesse da parte delle istituzioni comunitarie? Qual è la loro possibile efficacia? Quale dovrebbe essere il compito dell’etica e della bioetica dinanzi alle sfide, non semplici, della nostra contemporaneità, anche dal punto di vista istituzionale?
RBO_: Non saprei come rispondere a questa domanda se non che “etica” e “bioetica” sono diventati termini inflazionati e da un certo punto di vista privati di significato come i termini che coinvolgono il significato di dignità, responsabilità, giustizia. La perdita del paradigma della morale ha inciso anche sull’etica, privata della tensione ai valori attraverso la quale si declina la forma “umana” della vita. Etica ha a che fare con l’umano, riflette il sistema di relazioni che l’uomo costruisce con il mondo, con gli altri formandosi come prima persona in un orizzonte condiviso. In questa cornice dignità, responsabilità e giustizia possono trovare un’eco, sia pure nella complessità di tensioni e differenze della vita umana. Per usare un’espressione di De Martino non è l’etichetta che garantisce la qualità etica, ma l’eterna lotta per rimediare al rischio di “perdita della presenza” che alimenta il tempo dell’umano come trascendimento irrisolvibile in termini di regole, costrutti. La “presenza” dell’umano, il sentirsi sentendosi familiare nello spazio abitato, mette in gioco il mondo, gli altri in uno scambio dialogico e dinamico. Che le istituzioni comunitarie lo mettano a tema è sicuramente importante, ma non credo che la questione etica possa risolversi in termini politici che al momento la forma del governo non sembra aver superato l’ispirazione pragmatico/strumentale ed essersi difesa dalle ingerenze economiche.