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Intorno ad alcuni modi del caso in Darwin a partire dal Doktorarbeit di Wilhelm Windelband

Autore


Edoardo Massimilla

Università degli Studi di Napoli Federico II

Docente di Storia della Filosofia presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II e Presidente della Società Italiana di Storia della Filosofia

Indice


1. Caso si dice in molti modi

2. La duplice nozione del caso assoluto

3. Il caso relativo

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S&F_n. 28_2022

Abstract


On some models of chance in Darwin starting from Wilhelm Windelband’s Doktorarbeit

The incidence of the notion of chance in the evolutionary mechanism that Charles Darwin envisages in On the origin of species (1859) is one of the basic reasons why the father of the theory of evolution does not willingly use the term “evolution”. At the same time, this incidence also underlies the fact that many of those who, after the publication of Darwin's masterpiece, accepted the evolution of living things as a fact, were reluctant to recognize the core of “evolution” in the interaction between natural selection and the heritable intraspecific variations. However, it must be said that the notion of chance is, in general, anything but univocal. From this point of view, the essay aims to synthetically highlight the presence of some "modes" of chance, which interact with each other, in Darwin's «long argument». In order to reach this end, it will resort to the investigations into the "causal notion of chance" that the neo-Kantian philosopher Wilhelm Windelband develops in his doctoral dissertation, entitled Die Lehren vom Zufall and published in 1870.

Sa cosa le dico? Che in lei c’è qualcosa. Oppure le manca qualcosa. Tanto il risultato è lo stesso (…).Noi scienziati chiamiamo tale condizione un processo evolutivo.

Prima o poi se ne renderà conto anche lei, ma l’evoluzione è qualcosa di severo. (…) È come per le alluvioni, le valanghe, i terremoti… Non si sa quando arrivano, e una volta che sono arrivati è troppo tardi.

Murakami Haruki, La fine del mondo e il paese delle meraviglie, 1985

 

 

  1. Caso si dice in molti modi

L’incidenza radicalmente anti-teleologica del caso nel meccanismo evolutivo che Darwin prospetta ne L’origine delle specie rappresenta, come è noto, una delle ragioni di fondo per le quali il padre della «teoria dell’evoluzione» non adoperò volentieri il termine intrinsecamente finalistico di evolution – che non ricorre mai come sostantivo nella prima edizione dell’opera (1859)[1] – e preferì piuttosto definire la propria teoria come «teoria della discendenza con modificazione»[2] o «teoria della selezione naturale»[3]. È altresì noto che, proprio in ragione di tale incidenza, molti di quegli studiosi che, nei decenni immediatamente successivi alla pubblicazione del capolavoro di Darwin, accettarono come un dato di fatto che le «forme» organiche «si sono evolute e tutt’ora si evolvono»[4], furono restii a riconoscere il motore principale di tale processo nel nesso contingente fra il sorgere delle variazioni intraspecifiche ereditabili e la selezione naturale operata dalle loro «condizioni di esistenza»[5] abiotiche e biotiche (selezione alla quale esse, una volta sorte, sono generalmente sottoposte).

Occorre tuttavia rilevare che la nozione di «caso» non è affatto univoca e che la sua scivolosa polisemia impegnò lungamente Darwin in un faticoso corpo a corpo, le cui tracce sono depositate nelle opere edite e nelle loro differenti edizioni, ma anche negli scritti inediti, nei taccuini di lavoro e nell’epistolario. In tempi piuttosto recenti tale circostanza è stata ampiamente evidenziata dalla letteratura critica. Per limitarsi soltanto a qualche esempio particolarmente significativo, è possibile rimandare il lettore al lucido saggio di James G. Lennox sulla corrispondenza tra Darwin e Asa Gray (2010)[6], alla documentatissima monografia di Curtis Johnson sull’idea di caso in Darwin (2015)[7] e alla maggior parte degli studi raccolti in un volume sul ruolo del caso nell’evoluzione pubblicato a cura di Grant Ramsey e Charles H. Pence (2016)[8].

Su questo sfondo il mio contributo persegue – è bene chiarirlo subito – un obiettivo molto limitato. Esso intende saggiare la possibilità di distinguere con precisione i tratti caratterizzanti di alcuni concetti di caso presenti nelle indagini di Darwin facendo strumentalmente ricorso a tre significati della nozione di Zufall rigorosamente delineati, assieme ad altri, dal filosofo neokantiano Wilhelm Windelband nella sua dissertazione dottorale sul tema delle dottrine del caso pubblicata nel 1870[9]. A questo fine farò peraltro riferimento solo alla prima esposizione pubblica compiuta della teoria di Darwin, ossia alla prima edizione di On the Origin of Species by Means of Natural Selection.

 

  1. La duplice nozione del caso assoluto

Nelle pagine introduttive di Die Lehren vom Zufall Windelband mette subito in evidenza che «il tratto generalmente caratteristico del concetto di caso è qualcosa di negativo» nella misura in cui esso, pur nelle sue molteplici accezioni, rappresenta sempre «la negazione della necessità»[10]. «Il caso – egli scrive – è in qualche misura l’ombra della necessità»: per questo motivo, così come l’ombra muta le proprie sembianze a seconda della luce che cade sul corpo di cui è l’ombra, allo stesso modo il concetto di caso muta «la sua forma e il suo significato» a seconda del modo in cui le «diverse dottrine filosofiche» illuminano il «concetto cardinale» della necessità[11].

Muovendosi in tale orizzonte Windelband prende anzi tutto in considerazione le diverse accezioni possibili della nozione di caso che discendono da una concezione causale della necessità. Quest’ultima si condensa nella proposizione secondo cui «ogni mutamento ha le sue cause da cui necessariamente risulta», la quale esprime «l’assoluto essere condizionato e l’assoluta dipendenza di tutto l’accadere»[12]. La sua «validità priva di eccezioni per l’intero ambito della conoscenza umana» è «generalmente riconosciuta» e costituisce «la base di ogni scienza», anche a prescindere dal problema filosofico complesso e divisivo di stabilire «da dove [essa] deriv[i]»[13].

La negazione pura e semplice di un simile concetto di necessità è la «casualità assoluta»[14], concepita però come «oggettiva “assenza di causalità” (cioè come caso “assoluto” inteso in senso metafisico)»[15]. Secondo Windelband si tratta della «forma più grezza» del «concetto di caso», la quale altro non è che un’«incongruità che contraddice la legge fondamentale di tutto il pensare», come risulta immediatamente evidente già al livello linguistico: difatti, «quando si dice: “questo accade per caso”», adoperando il termine “caso” nel senso dell’oggettiva assenza di causalità, non si fa altro, a guardar bene, che «assumere l’assenza di causalità come causa»[16].

Ciò nonostante, nota Windelband, «il mondo intero parla di caso» quando non si riesce a individuare, come spesso accade, la «causa sufficiente» di un evento[17]. Questa semplice circostanza ci rinvia all’opportunità di mettere a fuoco un’altra possibile accezione della nozione di «casualità assoluta» che le imprime una «svolta soggettiva»[18]. Se abbiamo difatti deciso che, quando la causa sufficiente di un evento non può essere individuata e riconosciuta, essa «non può mancare nel mondo oggettivo», allora «sulle prime non resta che ricercare nel pensare umano la mancanza che il concetto di casualità assoluta porta a espressione»[19]. In altri termini, qui non è più in gioco un’oggettiva assenza di causalità, ma «un’assoluta impossibilità soggettiva di conoscenza delle condizioni causali», e dunque un «caso “assoluto” inteso in senso gnoseologico»[20]. Windelband mette in luce come questa nozione soggettiva della casualità assoluta fosse ben nota già alla filosofia antica (in modo particolare agli stoici) e sia stata poi ripresa da molti filosofi e scienziati dell’età moderna, come Hume, Adolphe Quetelet e Alexander von Humboldt[21]. È tuttavia Spinoza a definirla nella maniera più chiara laddove afferma nell’Ethica che «in rerum natura non datur contingens»[22] e che dunque «res aliqua nulla alia de causa contingens dicitur nisi respectu defectus nostrae cognitionis»[23]. La parola «caso» adoperata in questa accezione è dunque in primo luogo un «testimonium pauperatis» mediante cui «lo spirito» ammette di «non conoscere le cause determinanti di un fatto»[24]. Al contempo, però, essa è anche «un concetto-limite della conoscenza umana», un ago magnetico che «punta sempre alle regioni inesplorate e mai percorse del sapere» e costituisce dunque «uno sprone a nuove ricerche per ogni spirito pensante e per la scienza»[25].

Ora, non c’è dubbio che Darwin abbia ben presente e faccia uso di questa accezione soggettiva del concetto di casualità assoluta posta in evidenza da Windelband. Nell’Origin essa entra con forza in gioco allorché Darwin affronta il problema delle cause (o leggi) delle variazioni intraspecifiche ereditabili – la cui abbondante consistenza rappresenta notoriamente l’inaggirabile presupposto del processo evolutivo così come egli lo concepisce – e riconosce senza remora alcuna che tali cause (o leggi) ancora gli sfuggono.

Il tema è al centro del quinto capitolo dell’opera («Leggi della variazione»), ma è già ampiamente presente nel primo («La variazione allo stato domestico»), ove per un verso Darwin sottolinea il fatto che «il numero e la diversità delle deviazioni di struttura ereditabili, tanto di scarsa quanto di notevole importanza fisiologica, sono senza fine»[26], ma per un altro verso afferma che le «leggi della variazione» sono «varie, per lo più sconosciute o appena percepite»[27], e ciò al pari delle «leggi che governano l’eredità», giacché «nessuno sa dire perché la stessa peculiarità in individui diversi della stessa specie o in individui di specie diverse qualche volta è ereditata e altre volte no; perché un discendente spesso torna a presentare certi caratteri del nonno, della nonna o di qualche altro progenitore molto più lontano; perché una certa peculiarità è spesso trasmessa da un sesso a entrambi i sessi o a un sesso soltanto, più comunemente ma non necessariamente allo stesso sesso»[28].

Per la nostra questione l’apertura del quinto capitolo dell’opera di Darwin ha tuttavia un valore paradigmatico. «Finora – egli scrive – mi sono talvolta espresso come se le variazioni – così comuni e multiformi negli esseri organici allo stato domestico e, in misura minore, in quelli allo stato di natura – fossero dovute al caso. Questa è senz’altro un’espressione del tutto imprecisa, ma serve a riconoscere apertamente la nostra ignoranza circa le cause di ogni singola variazione particolare»[29]. Tale precisazione rappresenta certamente il riferimento più diretto per chi voglia comprendere perché Darwin adoperi sempre qualche «precauzione» le non molte volte in cui attribuisce al «caso» l’origine delle variazioni. Egli scrive ad esempio: «il puro caso, come potremmo chiamarlo, potrà far sì che una varietà differisca in qualche carattere dai suoi genitori»[30]. Oppure: «ritengo che gli effetti dell’abitudine abbiano un’importanza abbastanza subordinata rispetto agli effetti della selezione naturale di quelle che possiamo chiamare variazioni accidentali degli istinti, cioè le variazioni prodotte da quelle stesse cause sconosciute che producono le lievi deviazioni di struttura»[31]. O ancora: «negli animali, come nelle piante, una modificazione di struttura di qualsiasi grado può essere realizzata mediante l’accumulazione di numerose, lievi e, come siamo costretti a chiamarle, accidentali variazioni, in qualsiasi modo vantaggiose, senza che entrino in gioco l’esercizio o l’abitudine»[32]. La piena consapevolezza della necessità di lavorare con un concetto «gnoseologico» e non «ontologico» di casualità assoluta allorché si attribuisce al «caso» l’origine delle variazioni rappresenta peraltro una delle ragioni, anche se non l’unica e nemmeno la principale, di una circostanza evidenziata con forza da Curtis Johnson il quale nota come, tra la quarta edizione dell’Origin del 1866 e la sesta e ultima del 1872, Darwin espunga progressivamente ogni accostamento lessicale dei termini «chance» e «accidental» al termine «variation» (declinato al singolare o al plurale) adoperando come sostituto l’espressione «so-called spontaneous variation»[33].

Né a Darwin sfugge la funzione positiva di «sprone a nuove ricerche» che Windelband attribuisce all’accezione «soggettiva», altrimenti piuttosto povera, della nozione di casualità assoluta[34]. Basti pensare che alle «leggi della variazione» – «varie, per lo più sconosciute o appena percepite»[35] – egli dedica tutto il quinto capitolo dell’Origin, che può essere per certi versi considerato come una sorta di importante appendice ai primi quattro capitoli del suo «one long argument»[36], capitoli nei quali, come è noto, Darwin presenta fin da subito al lettore il nocciolo esplicativo della propria teoria. A proposito delle cause sconosciute delle variazioni intraspecifiche ereditabili Darwin avanza peraltro uno sciame di ipotesi, già anticipate nel primo capitolo della sua opera. Facendo riferimento al clima e all’alimentazione, egli ritiene che una «certa, piccola quantità di cambiamento possa essere attribuita all’azione diretta delle condizioni [esterne] di vita», sostiene poi che una qualche «decisa influenza» vada senza dubbio attribuita alle «abitudini» conformemente al principio lamarckiano dell’uso e del disuso, richiama infine l’importanza delle «misteriose leggi della correlazione della crescita» che in modi non di rado «bizzarri» legano tra loro «parti ben distinte» degli organismi[37].

E tuttavia la congettura principale formulata da Darwin circa le cause della variazione è un’altra. Difatti, già quando tratta delle variazioni allo stato domestico, egli si dichiara «fortemente incline a sospettare che la causa più frequente della variazione possa essere la circostanza per cui gli elementi riproduttivi maschili e femminili sono stati sottoposti a qualche azione prima dell’atto del concepimento»[38] e che, in ragione di ciò, il «sistema riproduttivo (…) produca una prole non perfettamente conforme ai genitori, ovvero variabile»[39]. Tale congettura, ripresa nel quinto capitolo dell’Origin in riferimento alla variazione in genere, è fondata da Darwin su una «lunga serie di fatti» che egli dichiara di non potere riferire nel dettaglio, ma che mostrerebbero come, posto a confronto con altri apparati organici, «il sistema riproduttivo» sia «altamente sensibile ai cambiamenti nelle condizioni di vita»[40]. Per questo motivo gli «elementi sessuali maschili e femminili» degli organismi verrebbero facilmente condizionati da ogni sorta di influenza esterna «prima che abbia luogo l’unione che formerà un nuovo essere», la qual cosa costituirebbe la ragione principale della «condizione variabile o plastica che si riscontra nella prole»[41]. «Non conoscendo [Darwin] l'esistenza del materiale genetico – nota a tale riguardo Telmo Pievani –, è una discreta intuizione osservativa a proposito delle inesattezze della riproduzione»[42].

 

  1. Il caso relativo

Va detto però che in Die Lehren vom Zufall Windelband circoscrive a più riprese anche una terza accezione «causale» del caso alla quale attribuisce un particolare rilievo. È difatti possibile «intendere il caso come un concetto di relazione e ritenere che esso includa una negazione del principio di causalità non per un singolo fatto [come accade sempre quando si impiega la nozione di “casualità assoluta”], ma per la relazione di due fatti determinati»[43]. Qui non è in gioco una negazione forte o debole, ontologica o gnoseologica del principio causale. Qui si tratta solo di prendere atto che l’assoluto condizionamento causale di tutto l’accadere non può essere rappresentato – o, più rigorosamente, non può essere rappresentato dal nostro intelletto finito – come un’unica serie causale, bensì come un complicato coacervo di innumerevoli serie causali distinte: non già come «una semplice catena in cui un anello succede a un altro di necessità», bensì come «un numero infinito di fili di tal fatta» che «corrono fianco a fianco, si toccano, si incrociano, si intrecciano e formano quel mirabile tessuto che denominiamo corso del mondo»[44]. Per tale motivo succede di continuo che «due fatti, che [pure] coincidono nello spazio e nel tempo» – dando naturalmente vita, col «fatto» ulteriore del loro coincidere, a una certa serie di effetti – non stiano «l’uno con l’altro in una relazione di causa ed effetto»[45].

Windelband ritiene che in queste circostanze sia opportuno parlare di «caso relativo», nella misura in cui s’impiega un concetto di caso secondo il quale «un evento non è casuale in sé [e nemmeno perché non ne si conoscono le cause], ma solo in relazione a un altro evento con il quale si incontra»[46], laddove questo incontro «deve necessariamente alterare il decorso di ognuno dei due eventi coincidenti»[47] quale noi ce l’eravamo rappresentato isolando alcune delle loro condizioni causali d’insorgenza. È questo il motivo per il quale il caso ci appare sempre come «il sorprendente», «l’inatteso», «l’incalcolabile», come ciò che «perturba ogni volta, e in una certa misura, il decorso dei fatti su cui si abbatte dall’esterno»[48]. Per supportare tale posizione Windelband richiama Schopenhauer – e segnatamente il paragrafo 23 di Ueber die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde (ove il filosofo sottolinea, tra le altre cose, che «i fenomeni possono benissimo seguire [folgen] l’uno all’altro senza conseguire [erfolgen] l’uno dall’altro») e la trattazione delle categorie di modalità contenuta nella Critica della filosofia kantiana (la lunga appendice di Die Welt als Wille und Vorstellung)[49] –, ma accenna anche alla circostanza che la τύχη dei greci, la quale aveva ben poco a che vedere con l’assoluta assenza di necessità se è vero che Sofocle la definisce ἀναγκαία[50], rimanda etimologicamente all’aoristo  (τυχει̃ν) del verbo τυγχάνω che originariamente significa “incontrare”, “imbattersi”[51].

Windelband specifica anche che di “caso relativo” si può parlare in senso proprio quando tra due eventi che concorrono nello spazio e nel tempo non è dato riconoscere un rapporto causale diretto, ma neanche indiretto. A tale proposito egli adduce l’esempio del giorno e della notte che seguono costantemente l’uno all’altra e viceversa senza conseguire l’uno dall’altra o viceversa, ma il cui rapporto di successione non è pensabile come casuale nella misura in cui sia l’uno che l’altra dipendono da una causa comune: la rotazione assiale del pianeta. Non rientra dunque nel concetto di caso relativo che Windelband ha di mira quel tipo di correlazione costante tra due variabili che la statistica definisce come «spuria» nella misura in cui induce sulle prime a credere che la variabile A (ad esempio il numero dei pompieri impegnato per domare un incendio) sia lo explicans della variabile B (il numero di vittime dell’incendio), laddove invece le operazioni di controllo mostrano che A e B sono in realtà effetti di una variabile C (la dimensione dell’incendio).

Il «caso relativo» di Windelband è dunque in definitiva da intendersi – come riteneva Max Weber – «nel senso di una relazione logica tra complessi di cause pensate separatamente», vale a dire come una specifica «nozione causale del “caso”» per la quale «l’effetto “casuale” sta in antitesi con ciò che ci si poteva “aspettare” secondo quelle componenti causali di un avvenimento che abbiamo raccolto in un’unità concettuale»: per la quale, dunque, «il “casuale” è ciò che non è derivabile causalmente, secondo regole generali dell’accadere, da quelle condizioni che vengono prese esse sole in considerazione, ma è stato invece causato in virtù del subentrare di una condizione che sta “al di fuori” di esse»[52].

Qui posso solo accennare agli ulteriori sviluppi dell’argomentazione di Windelband il quale nota che anche la nozione di «caso relativo» ha senso solo nell’orizzonte della limitatezza delle nostre capacità conoscitive[53]. Ciò perché, a ben vedere, non solo il concorrere di due fatti tra cui non è riconoscibile una connessione causale diretta o indiretta, ma anche ogni singolo fatto considerato nella sua piena concretezza, proprio nella misura in cui deve essere concepito come il portato necessario dell’incrocio di un numero immenso di serie causali raggruppabili sotto una molteplicità altrettanto immensa di leggi generali, è sempre «casuale» (zufällig) per tutti gli aspetti che cadono al di fuori del suo essere un caso (Fall) di quelle leggi generali di cui, di volta in volta, riusciamo a formarci una rappresentazione concettuale unitaria[54]. Per converso, ogni possibile accezione causale del caso, anche quella di caso relativo, sparirebbe come neve al sole se la conoscenza umana potesse mai realizzare il proprio ideale regolativo, ossia «risalire completamente la catena delle condizioni che agiscono dietro ogni fatto o connessioni di fatti e giungere a concepire l’intero corso dell’accadere del mondo come “sistema dell’esperienza”» penetrando unitariamente «il complesso intreccio legale che lega tutto l’accadere»[55].

In questa sede mi sembra invece importante evidenziare che la lucida consapevolezza dell’incidenza del “caso relativo” nei tortuosi percorsi della storia della vita sul nostro pianeta è senza dubbio un tratto caratterizzante delle indagini naturalistiche di Darwin e il presupposto stesso del meccanismo «cieco» e «automatico» che sta al centro della sua teoria della discendenza con modificazione. Come è immediatamente comprensibile, mi riferisco anzitutto al fatto che Darwin sottolinea costantemente e a più riprese la mancanza di relazioni causali riconoscibili tra la genesi delle variazioni intraspecifiche ereditabili e la loro (eventuale) adeguatezza all’ambiente biotico e abiotico, assai complesso e tutt’altro che immobile, nel quale esse si trovano di volta in volta a vivere. Solo su questo sfondo, a ben vedere, è possibile cogliere l’effettiva portata della generalizzazione che gli balenò in mente per la prima volta nel settembre del 1838[56]: quella secondo la quale le variazioni ereditabili che si trovano «casualmente» a essere più adeguate di altre alle loro condizioni di vita, e che sono perciò favorite nel corso della lotta per l’esistenza, godono di un tasso di sopravvivenza e dunque di riproduzione tendenzialmente maggiore che consente loro di consolidarsi e diffondersi dando progressivamente origine a nuove specie.

A partire da questa prospettiva si rilegga ad esempio (ma gli esempi potrebbero essere agevolmente moltiplicati) quanto Darwin scrive alla fine del capitolo quinto dell’Origin dopo avere esposto al lettore le proprie congetture a proposito delle leggi della variazione:

Qualunque sia la causa di ogni piccola differenza della discendenza rispetto ai progenitori – e deve esserci una causa per ognuna di esse – è l'accumulazione costante, mediante la selezione naturale, di tali differenze, quando siano vantaggiose per l'individuo, a dare origine a tutte le più importanti modificazioni di struttura che mettono in grado gli innumerevoli esseri viventi sulla faccia della terra di lottare tra loro e consentono ai meglio adatti di sopravvivere[57].

 

Mi sembra che qui, come altrove, emerga con evidenza come la preliminare presa d’atto del continuo intrecciarsi tra due «complessi di cause pensate separatamente»[58], quello che produce le variazioni e quello che fissa i criteri della loro selezione, sia alla base della determinazione di ciò che, nonostante tutto, si può dire in generale anche di questo casuale intrecciarsi: data la variazione, «durante ciascuna generazione o a certi intervalli»[59] una selezione comunque avviene, o almeno tendenzialmente avviene. Da ciò deriva la fisionomia severa dell’evoluzione darwiniana, fondata sulla convinzione di fondo – sempre riaffermata al di là delle strategie retoriche e dei tentennamenti – secondo cui è possibile rendere efficacemente ragione delle descrizioni teleologiche del mondo organico, della sua relativa «perfezione di struttura e coadattamento che suscita giustamente la nostra ammirazione»[60], pur tenendo fermo, o meglio proprio tenendo fermo che, all’origine, le variazioni non sono in alcun modo direzionate, né da un designer trascendente, né da entelechie immanenti, e nemmeno dall’ambiente, secondo cui, dunque, esse hanno certamente cause fisiche e chimiche, ma non già «scopi» comunque intesi.

Una concezione dell’evoluzione che potrebbe essere definita non «evolutiva», se con questo termine si intende lo svolgersi e il dispiegarsi di qualcosa di già contenuto nell’inizio, bensì «epigenetica»[61]. A patto però di adoperare tale espressione non nel senso dell’embriologia – vale a dire riferendola all’idea di un processo saldamente direzionato di differenziazione e sviluppo dell’embrione a partire da un nucleo originario, la quale esercitò un fascino irresistibile sull’evoluzionismo filosofico di Spencer, ma fu sempre maneggiata con estrema cautela da Darwin –, quanto piuttosto nel senso della petrografia o della geografia fisica, fondato sulla circostanza che la preposizione ἐπί greca significa anzitutto «sopra» e perciò talvolta anche «dopo» essendo riferibile a qualcosa che va ad aggiungersi e a sovrapporsi a qualcos’altro di preesistente. Si parla, in questo senso, di un «giacimento minerario epigenetico» per indicare che, in ragione del subentrare di una serie di fattori, esso si è formato in un secondo momento nella roccia di cui pure fa parte, o di «valle epigenetica» in riferimento a una valle che si è formata per la progressiva erosione esercitata dalle acque di un fiume o dall’avanzare di un ghiacciaio sopra coltri sedimentarie preesistenti fino a giungere a contatto con le rocce dure del substrato. Analogamente per Darwin la «valle dell’evoluzione» è «scavata» nella «coltre» delle variazioni preesistenti dal subentrare della lotta per la vita e della selezione naturale che ne consegue, le cui dinamiche, pur potendo senza dubbio essere delineate «in astratto», sono sempre difficilissime da determinare in relazione a ogni «caso concreto»[62]. Ben sappiamo, del resto, che il caso relativo ci appare sempre come «il sorprendente», «l’inatteso», «l’incalcolabile», come ciò che «perturba ogni volta, e in una certa misura, il decorso dei fatti su cui si abbatte dall’esterno»[63].

«Il nocciolo esplicativo variazione-selezione» che sta al centro della teoria di Darwin si configura dunque come un geniale tentativo di fare scientificamente i conti con l’incidenza di un caso così inteso nella storia della natura organica, essendo, proprio in quanto tale, costretto a oscillare di continuo «fra l’insorgenza accidentale e non direzionata di differenze da una parte e i capricci di ambienti mutevoli e scostanti dall’altra» e a concepire gli «adattamenti delle specie» non già come «picchi di ottimalità assoluta», ma come «prodotti incompiuti, provvisori, sempre relativi a circostanze del momento», a riconoscere, cioè, che non c’è «alcuna finalità nell’adattamento» e che «l’evoluzione» è in definitiva «un processo di esplorazione di possibilità contingenti»[64]. Ciò comporta una serie di conseguenze (ben note, fra loro connesse e di primaria importanza) sul concreto sviluppo della teoria di Darwin. A una sola di queste voglio in conclusione far cenno.

Puntando a rendere ragione dell’incidenza del caso relativo nella storia della natura organica, la «teoria della selezione naturale»[65], iuxta sua propria principia, esclude fin dall’inizio l’onnipotenza della selezione naturale. Gli intrecci poliedrici e mutevoli del caso relativo rendono difatti strutturalmente possibile l’insorgere di «variazioni che non sono né utili né dannose» in relazione al filtro selettivo che incontrano, le quali dunque «non saranno toccate dalla selezione naturale e resteranno fluttuanti, come vediamo nelle specie polimorfiche»[66]. Ma ancor più importante è che gli stessi intrecci incidono sul tempo profondo dell’evoluzione, nel corso del quale «la selezione naturale (…) agisce o adattando attualmente le varie parti di ogni essere alle sue condizioni di vita organiche e inorganiche, o avendole adattate in periodi da lungo tempo passati»[67]. Sappiamo infatti che gli «ambienti» sono «capricciosi» non solo perché tendenzialmente «scostanti», ma anche perché «mutevoli»[68]: sappiamo, cioè, che non v’è alcuna armonia prestabilita o necessaria corrispondenza tra le condizioni di vita biotiche e abiotiche da lungo tempo passate e quelle presenti. Strutture e istinti che, in passato, hanno superato con successo il «fuoco temprante» della selezione naturale, possono dunque costituire nel presente, ossia in rapporto a un diverso filtro selettivo, un punto di partenza non soltanto inaggirabile ma anche svantaggioso per i processi di variazione intraspecifica e dunque un ostacolo al verificarsi casuale (nel senso del caso relativo) di «variazioni favorevoli» senza il quale «niente può succedere»[69]. Ciò significa che tali strutture e tali istinti possono essere nel presente all’origine di processi evolutivi estremamente variegati e spesso drammatici causando estinzioni, adattamenti a mala pena funzionanti e vistosamente imperfetti[70], sopravvivenza di organi e schemi comportamentali vestigiali che avendo perso la loro primitiva funzione non sono né utili né dannosi in rapporto alle attuali condizioni di esistenza, o anche, per converso, “ingegnosi” fenomeni di rifunzionalizzazione di organi e pattern comportamentali provenienti dal passato alle attuali condizioni di esistenza[71].


[1] C. Darwin, On the Origin of Species by Means of Natural Selection or the Preservation of Favored Races in the Struggle for Life, John Murray, London 1859; tr. it. L’origine delle specie, a cura di G. Pancaldi, BUR, Milano 2009. La forma verbale «evolved» ricorre qui una sola volta come ultima parola dell’ultimo periodo dell’opera (ibid., p. 490; tr. it. cit., p. 515).

[2] Nella prima edizione de L’origine delle specie l’espressione «theory of descent with modification» (senza aggiunte o omissioni) presenta tredici occorrenze, sette delle quali sono significativamente situate nel conclusivo (e ricapitolativo) capitolo quattordicesimo dell’opera. «Theory of descent» presenta inoltre tre occorrenze, «theory of modification» una e «theory of descent with slow and slight successive modification» una. «Theory of descent with modification through natural selection» presenta infine due occorrenze e «theory of descent with slow modification through natural selection» una.

[3] Nella prima edizione de L’origine delle specie l’espressione «theory of natural selection» (senza aggiunte) presenta ventidue occorrenze, sette delle quali sono situate nell’ultimo capitolo dell’opera. «Theory of the natural selection of successive slight modifications» presenta invece una sola occorrenza, al pari dell’espressione più specifica «theory of the natural selection of instincts».

[4] C. Darwin, op. cit., p. 490; tr. it. cit., p. 515.

[5] Ibid., p. 206; tr. it. cit., p. 224.

[6] J. G. Lennox, The Darwin/Gray Correspondence 1857-1869: an Intelligent Discussion about Chance and Design, in «Perspectives on Science», vol. 18, no. 4, 2010, pp. 456-479.

[7] C. Johnson Darwin’s Dice. The Idea of Chance in the Thought of Charles Darwin, Oxford University Press, Oxford - New York 2015. Cfr. anche due saggi-recensione dedicati alla monografia di Johnson: C. H. Pence, The Many Chances of Charles Darwin, in «Studies in History and Philosophy of Biological and Biomedical Sciences», 53, 2015, pp. 107-110 e M. A. Flannery, Darwin and the End of Providence: The Role of Chance in Evolution, in «Metascience», 26, 2017, pp. 145–148.

[8] G. Ramsey e C. H. Pence (edited by), Chance in Evolution, The University of Chicago Press, Chicago - London 2016.

[9] W. Windelband, Die Lehren vom Zufall, Henschel, Berlin 1870. Nei decenni successivi alla pubblicazione il Doktorarbeit di Windelband godé di una solida reputazione. Basti pensare a un giudizio espresso nel 1906 da Max Weber il quale, trattando del senso in cui la «logica specialistica» della sua epoca intendeva la nozione di «caso “relativo”» (su cui ci soffermeremo), afferma che essa «si richiama in sostanza ancora oggi, nonostante vari progressi particolari, al primo scritto di Wilhelm Windelband» (M. Weber, Kritische Studien auf dem Gebiet der kulturwissenschaftlichen Logik, 1906, in Max Weber Gesamtausgabe I/7: Zur Logik und Methodik der Sozialwissenschaften. Schriften 1900–1907, hrsg. von G. Wagner in Zusammenarbeit mit C. Härpfer, T. Kaden, K. Müller und A. Zahn, Mohr, Tübingen 2018, pp. 380-480, p. 389; tr. it. Studi critici intorno alla logica delle scienze della cultura, in Id., Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Torino 2001, pp. 209-278, p. 215). Per un’analitica disamina di Die Lehren vom Zufall, che esula del tutto dallo scopo di questo saggio, si veda la memoria di G. Morrone, I modi del caso. Intorno al primo scritto di Wilhelm Windelband, in «Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche», CXXI, 2011, pp. 63-94.

[10] W. Windelband, op. cit., p. 5.

[11] Ibid.

[12] Ibid., p. 5.

[13] Ibid.

[14] Ibid., p. 6.

[15] M. Weber, op. cit., p. 389; tr. it. cit., p. 214.

[16] W. Windelband, op. cit., p. 6.

[17] Ibid., p. 20.

[18] Ibid.

[19] Ibid.

[20] M. Weber, op. cit., p. 389; tr. it. cit., pp. 214-215.

[21] Cfr. W. Windelband, op. cit., p. 20. Come è noto, Darwin conosceva bene sia le opere di Hume che quelle di Alexander von Humboldt

[22] «Nella natura delle cose non c’è niente di contingente» (B. Spinoza, Ethica ordine geometrico demonstrata, I, prop. 29; tr. it. Boringhieri, Torino 1983, p. 49). Cfr. W. Windelband, op. cit., p. 20.

[23] «Una cosa per nessun’altra causa si dice contingente, se non riguardo a un difetto della nostra conoscenza» (B. Spinoza, op. cit., I, prop. 33, schol. I; tr. it. cit., p. 53). Cfr. W. Windelband, op. cit., p. 21.

[24] Ibid.

[25] Ibid.

[26] C. Darwin, op. cit., p. 12; tr. it. cit., p. 19.

[27] Ibid., p. 12; tr. it. cit., p. 18.

[28] Ibid., p. 13; tr. it. cit., pp. 19-20.

[29] Ibid., p. 131; tr. it. cit., p. 145 (il corsivo è mio). Cfr. anche ibid., p. 167 (tr. it. cit., p. 183): «La nostra ignoranza delle leggi della variazione è profonda. Neppure in un caso su cento possiamo presumere di conoscere la ragione per cui questa e quella parte differisce, più o meno marcatamente, dalla stessa parte dei progenitori».

[30] Ibid., p. 111; tr. it. cit., p. 123 (il corsivo è mio).

[31] Ibid., p. 209; tr. it. cit., pp. 227-228 (il corsivo è mio). Ma cfr. anche ibid., p. 213 (tr. it. cit., p. 231) ove si parla di «variazioni così dette accidentali» e p. 216 (tr. it. cit., p. 235) ove si parla di «accumulazione (…) di abitudini mentali e azioni peculiari apparse per la prima volta per effetto di ciò che, per la nostra ignoranza, chiamiamo un accidente».

[32] Ibid., p. 242; tr. it. cit., p. 262 (lievemente modificata; il corsivo è mio).

[33] Cfr. C. Johnson, op. cit., pp. 115-135.

[34] Cfr. supra, nota 25.

[35] Cfr. supra, nota 27.

[36] C. Darwin, op. cit., p. 459.

[37] Ibid., pp. 11-12; tr. it. cit., pp. 17-18. Cfr. anche ibid., pp. 167-169; tr. it. cit., pp. 183-185.

[38] Ibid., p. 8; tr. it. cit., p. 14.

[39] Ibid., p. 9; tr. it. cit., p. 15.

[40] Ibid., p. 131; tr. it. cit., pp. 147-148. Ad alcuni dei fatti in questione Darwin fa cenno nel primo capitolo della sua opera, laddove, a proposito della propria convinzione secondo cui una qualche azione esercitata sugli organi riproduttivi maschili e femminili prima del concepimento potrebbe essere la causa più frequente della variazione, egli scrive: «Diverse ragioni mi inducono a crederlo, ma la principale è l'effetto notevole che la cattività o l'allevamento producono sulle funzioni del sistema riproduttivo: questo sistema sembra infatti più suscettibile di qualsiasi altra parte dell’organizzazione a ogni cambiamento nelle condizioni di vita. Domare un animale è una delle cose più facili, ma poche imprese sono più difficili che farlo riprodurre liberamente in cattività, anche nei molti casi in cui il maschio o la femmina si accoppiano. Quanti animali non si riproducono, pur essendo tenuti a lungo in condizioni di confinamento moderato nella loro terra natia! Solitamente ciò viene attribuito a una corruzione degli istinti, ma quante piante coltivate mostrano il massimo vigore, eppure producono raramente o non producono affatto semi» (ibid., p. 8; tr. it. cit., p. 14). E poco dopo continua, scendendo più nel dettaglio: «Si dice che la sterilità sia la rovina dell’orticultura; ma, in questa prospettiva, dobbiamo attribuirla alla stessa causa che produce la variabilità, che è la fonte di tutti i frutti più preziosi del giardino. Posso aggiungere che, come alcuni organismi si riprodurranno liberamente anche nelle condizioni più innaturali (per esempio il coniglio e il furetto tenuti in gabbia), mostrando che il loro sistema riproduttivo non è influenzato, così alcuni animali e piante sopporteranno l'addomesticamento e la coltivazione e varieranno poco, forse appena un po' di più che allo stato di natura» (ibid., p. 9; tr. it. cit., pp. 15-16).

[41] Ibid., p. 132; tr. it. cit., p. 148.

[42] T. Pievani, Introduzione a Darwin, Laterza, Roma - Bari 2012, pp. 76-77.

[43] W. Windelband, op. cit., p. 22.

[44] Ibid.

[45] Ibid.

[46] Ibid., p. 23 (il corsivo è mio).

[47] Ibid., p. 24.

[48] Ibid.

[49] Cfr. ibid., p. 23.

[50] Sofocle, Aiace, v. 485.

[51] Cfr. W. Windelband, op. cit., p. 23.

[52] M. Weber, op. cit., p. 389; tr. it. cit., p. 215.

[53] Cfr. W. Windelband, op. cit., p. 53.

[54] Cfr. ibid., p. 29.

[55] G. Morrone, op. cit., p. 82.

[56] Cfr. C. Darwin, Notebook D: Transmutation (1838), p. 135.

[57] C. Darwin, On the Origin of Species, cit., p. 170; tr. it. cit., pp. 185-186.

[58] Cfr. supra, nota 52.

[59] C. Darwin, On the Origin of Species, cit., p. 79; tr. it. cit., p. 89.

[60] Ibid., p. 3; tr. it. cit., p. 9.

[61] Questa contrapposizione tra una concezione «evolutiva» e una concezione «epigenetica» dei processi di sviluppo è adoperata da Max Weber, ma in relazione alle scienze storiche della cultura, e specificamente in rapporto alla disputa tra Julius Wellhausen e Eduard Meyer circa la storia del Giudaismo. Cfr. M. Weber, op. cit., pp. 403-404; tr. it. cit., p. 215. Ma si veda anche Id., Die Wirtschaftsethik der Weltreligionen. Das antike Judentum, in Max Weber-Gesamtausgabe, I/21, 1-2: Die Wirtschaftsethik der Weltreligionen. Das antike Judentum. Schriften und Reden 1911–1920, hrsg. von E. Otto unter Mitwirkung von J. Offermann, Mohr, Tübingen 2005, 1 Halbband, pp. 210-757, pp. 236-237; tr. it. Il Giudaismo Antico, in Id., Sociologia della religione, 2 voll., a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Milano 1982, vol. II, pp. 363-737, p. 365.

[62] Cfr. C. Darwin, On the Origin of Species, cit., pp. 79-80; tr. it. cit., p. 89: «È facile provare in astratto a conferire (…) a ogni forma un certo vantaggio su un'altra, ma in nessun caso concreto sapremo probabilmente cosa fare per riuscirci. Questo ci convincerà della nostra ignoranza circa le relazioni reciproche tra tutti gli organismi, una convinzione tanto necessaria quanto difficile da acquisire. La sola cosa che possiamo fare è tenere sempre a mente che ogni organismo si sforza di crescere in progressione geometrica, che in un certo periodo della sua vita, in qualche stagione dell'anno, a ogni generazione o a certi intervalli, questo deve lottare per la vita ed essere soggetto a distruzione». Quella che oggi chiameremo consapevolezza della complessità ecologica è molto più viva in Darwin che in molti eminenti darwinisti del secolo ventesimo. A tale proposito cfr. ad esempio ibid., pp. 71 sgg. (tr. it. cit., pp. 81 sgg.), ove Darwin adduce una serie di casi concreti, da lui ritenuti ancora piuttosto semplici, per mostrare quanto siano «complessi e imprevedibili i sistemi di controllo e le relazioni degli esseri organici che si trovano a lottare insieme nello stesso paese».

[63] Cfr. supra, nota 48.

[64] T. Pievani, op. cit., p. 131.

[65] Cfr. supra, nota 3.

[66] C. Darwin, On the Origin of Species, cit., p. 81.; tr. it. cit., p. 91. Trattando delle variazioni in natura, Darwin aveva già in precedenza fatto riferimento al caso dei «generi che a volte sono stati chiamati “proteiformi” o “polimorfici”, nei quali le specie presentano una quantità esorbitante di variazioni e per i quali non vi sono due naturalisti che riescano a mettersi d’accordo su quali forme considerare specie e quali varietà» (ibid., p. 46; tr. it. cit., p. 55).

[67] Ibid., p. 206; tr. it. cit., p. 224 (il corsivo è mio).

[68] Cfr. supra, nota 64.

[69] C. Darwin, On the Origin of Species, cit., p. 108.; tr. it. cit., p. 120.

[70] Cfr. ad esempio ibid., pp. 201-203; tr. it. cit., pp. 219-221.

[71] Cfr. ad esempio ibid., pp. 180-182 (tr. it. cit., pp. 197-199) e pp. 219-224 (tr. it. cit., pp. 237-243).

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