Il libro di Claudia Maggi si apre con una citazione di Pierre Hadot che, assegnato a una fabbrica addetta alla riparazione di locomotive durante la seconda guerra mondiale, ebbe a dichiarare di essersi occupato, fino ad allora, di aggiustare idee non metalli e le idee, si sa, sono malleabili. Avendo per la prima volta avuto a che fare con i metalli, Hadot aveva allora compreso che ciò che offre davvero resistenza a ogni tentativo di aggiustamento è la materia.
La nozione di materia è assunta nel libro come emblema di tutto ciò la cui definizione eccede le possibilità del pensiero pensante, come la chora del Timeo, ricettacolo privo di caratteristiche; come l’individuo, che non ha qualità universali; come la morte, nihil absolutum senza determinazioni.
Il volume, che raccoglie alcuni saggi dell’Autrice, racconta taluni tratti di quella nevrosi del modello platonico che, orientato verso la prospettiva universalizzante dell’intellegibile, e riluttante verso l’irrazionale, è sfidato da tutto ciò che, come la materia, la morte, il mito, l’eros e l’individuo, presenta forme di inconoscibilità.
Il primo saggio, Zoe. Platone sulla vita e sulla morte (pp. 5-13), comincia con Jankélévich, che accusa Platone di avere eluso la questione del nascere e del morire, riconducendola a un epifenomeno del vivere radicato in un altrove afferrabile dalla ragione filosofica. Nel Critone e nel Fedone si fonda la differenza tra zen ed eu zen, vivere e vivere bene, e in questa distinzione il mero vivere biologico è paragonato a un vegetare, laddove la vita vera è quella di quell’altra parte di noi in cui possono trovare sede la giustizia e l’ingiustizia. Claudia Maggi pone a questo punto una domanda: se è possibile vivere senza vivere bene, è possibile vivere bene senza quella quasi-vita o quasi-morte che è la sussistenza biologica?
Si tratta della domanda – fondamentale per il platonismo – relativa non tanto all’immortalità dell’anima, quanto allo statuto di questa immortalità: l’anima è un essere che è al di là del tempo e quindi della corruzione o è qualcosa che con la corruzione entra in contatto quando entra in contatto con il corpo? Nel Fedone, ove si contempla la figura della circolarità degli opposti che passa dalla vita alla morte, e si evoca anche l’inquietante figura della linearità che porterebbe alla cessazione della vita, si propone un altro modello di pensabilità della relazione tra la vita e la morte, un modello che prevede il vivere non come un mero opposto del morire, ma come qualcosa di originario, che non risulta dalla morte, che precede il tempo e lo fonda: è la teoria dell’anamnesi, che va oltre il mero rimandarsi dei contrari – è infatti possibile rammemorare sia sulla base del simile, sia sulla base del dissimile – e pone il pensare come ciò che eccede la morte. Ma se il pensare eccede la morte e il sensibile, quanto il pensare ci appartiene? Quanto appartiene al vivere? La vita appartiene per essenza agli umani che la vivono o appartiene piuttosto a una dimensione eidetica che vive solo accidentalmente la stagione del vivente?
Nel secondo saggio, L’intermedietà nel Fedro (pp. 15-31), Claudia Maggi cita Paula Philippson che parla del mito come di un linguaggio in grado di esprimere il kosmos symbolikos, luogo della comunicazione tra eternità e tempo, unità e molteplicità, immobilità e movimento. E mostra come, in Platone, il mito e la dialettica, entrambi incompleti, stiano lì – per esempio nel testo del Fedro – a spartirsi per così dire il loro oggetto: la difficile trattazione sull’anima tripartita e sulla reminiscenza.
Il mito sembra venire da un’ antichità così lontana, da avere perso le connotazioni della temporalità, diventando simile piuttosto a una struttura eidetica. La dialettica si appoggia alla metafisica della reminiscenza come a un fondamento, esterno al sistema, che garantisce un attingimento alla verità.
Insomma mito e logo, in Platone, temperano le loro differenze per trovare piuttosto la strada di un incontro, nel quale la dialettica offre lo sforzo della ricostruzione dell’intero e il mito fonda la validità di questo sforzo. Compito della dialettica – scrive Claudia Maggi a p. 31 – non è mai razionalizzare il mito, ma dispiegare, articolandola, la sua intuizione originaria. Il mito è come un sogno che offre all’anima una verità a sprazzi, il logo accoglie questi sprazzi e prova a rendere ragione di essi. E l’anima è lo spazio in cui tutto ciò può avvenire.
L’attenzione dell’Autrice del nostro prezioso piccolo libro si sposta poi, nel terzo saggio, dal titolo La cera di Alcibiade (pp.33-50), sulla figura di quell’amante di Socrate che, ubriaco alla fine del Simposio, denuncia tutta la potenza, e anche in qualche modo la pericolosità, dell’arte socratica di iniziazione dei giovani alla filosofia. Si tratta dell’arte di somministrare un veleno. Platone ci mostra la cosa dal punto di vista dell’avvelenato che tenta l’azzardo di un volo. È la capacità di volare – scrive Claudia Maggi a p. 41 – che rivela il filosofo anche nel quadro che di lui si disegna nel Teeteto: nella capacità di guardare l’insieme e non un misero orticello. Viene in mente Nietzsche che scrive: «Quanto più ci innalziamo, tanto più piccoli sembriamo a quelli che non possono volare». Le ali per volare, se le hai perse, ti possono rispuntare – insegna il Fedro – come spuntano agli amanti nel momento dell’amore, che fa sentire viva la mancanza e la fame di comunanza, e forse avrebbero potuto spuntare anche ad Alcibiade, la cui immagine nel Simposio è l’altra faccia, l’altra possibilità, di quella dell’amante del Fedro.
Platone nella prospettiva di Claudia Maggi appare alla ricerca di stabilità, perché ogni mutamento provoca incertezza e la stabilità, minacciata da quella curvatura nello spazio-tempo che rappresenta l’individuo con la sua soggettività – Platone la ricerca nell’anima, la cui natura tripartita ed erotica viene presentata con un mythos.
Ma, per garantire la stabilità, c’era bisogno di una figura aliena da curvature singolari e questa figura, suggerisce l’Autrice, è il Demiurgo: soggetto assoluto, capace di trasferire quanto ha contemplato su ciò che guarda, esso è la nemesi del sofista, il cui pensiero ipertrofico, proiettivo, eccedente, crea invece solo illusioni.
Alcibiade, l’innamorato privo di misura, non ama il vero Socrate, ma una proiezione che è la sua anima disordinata a dotare di vita. Purtroppo, però, il discrimen tra immagini vere e proiezioni false è difficile da argomentare e resta aperta l’ipotesi che l’amore possa essere, invece che via alle idee, acceleratore di follia proiettiva.
In Sguardo, Eros e relazione causale in Platone e Plotino (pp. 51-68), Claudia riflette sull’optocentrismo della filosofia platonica, nella quale l’anima innamorata e il Demiurgo con il suo sguardo quasi creativo – figure intermedie – incarnano la comunicazione analogica tra sensibile e intellegibile.
Attratta da un bello che ha visto e ritrova tra i simili sensibili, l’anima è ricondotta a ciò che, per il suo trascendere e orientare tanto l’amante quanto l’amato, determina il loro speculare riconoscersi. L’occhio del demiurgo ha lo sguardo fisso sul bello, ma non perché manchi del bello, è infatti lui stesso bello e privo di invidia: sguardo volto all’eterno e agente sul divenire, egli riproduce ogni cosa come bella. Fin qui Platone.
In Plotino ogni polarizzazione tra sguardo soggettivo e sguardo oggettivo si risolve in unità con la dottrina della doppia energheia, che determina una nuova esegesi del demiurgo: a ogni livello ontologico c’è una doppia attività, quella verso sé stessi, che culmina nella contemplazione del principio e quella generativa, per cui ogni natura, resa gravida dall’oggetto della propria visione, diviene capace di generare. Il demiurgo, attivo e passivo a un tempo, riceve trattiene e trasmette l’oggetto del suo sguardo, dall’intelletto all’anima, dalle anime al sensibile. Ogni natura ama la natura che è a essa superiore e affine. La causa ultima dell’eros, spinta verticale degli amanti del bello, è l’intellegibile. Essa accomuna i simili e trasforma l’amante nell’oggetto del suo amore; il quale è dunque demonico, quando incarna lo stato di mancanza, quando l’occhio non si è ancora riempito dell’oggetto della visione, ed è divino nel momento generativo. È l’uno ad attirare lo sguardo degli enti e al tempo stesso a generarli: un presentimento dell’infinito – come lo chiama Hadot – percorre tutti gli stadi dell’essere.
In Materia, indivisibilità e vita. Epicuro in Plotino (pp. 69-84), l’Autrice mostra come Plotino difenda l’idea di una estraneità originaria dell’anima alla corporeità e dunque critichi tanto l’idea aristotelica dell’anima come forma del corpo quanto l’idea pitagorica dell’anima come armonia. In polemica con l’atomismo, Plotino mostra che una realtà materiale non può da sé generare vita.
Ogni cosa davvero grande, cioè non grande nel senso dell’estensione, ma nel senso della pienezza dell’essere, appartiene a sé. La materia non può da sola assumere alcuna qualificazione, essa necessita di un agente esterno che la conduca all’emergenza dell’esistere e la ordini secondo forme e numeri: la fisica ha assoluto bisogno della metafisica.
In L’Uomo e la ruota. Genealogia di un sistema-ingranaggio in Carlo Michelstaedter (pp. 85-101), l’individuo si configura come una deviazione nello spazio-tempo che, possedendo il marchio della soggettività concreta dotata di predicati, elude ogni tentativo di universalizzazione. Nella sua tensione all’universale, la filosofia di Platone, secondo Carlo Michelstaedter, presenta punti oscuri, non universalizzabili, come il ritratto di Socrate, con la sua quasi tragica unicità, come le individualità dell’amante e dell’amato nel Simposio e nel Fedro.
Michelstaedter sottolinea il carattere inautentico di ogni generalizzazione. Il cerchio perfetto come paradigma del sé è costruzione forzata ed esprime il tentativo dei sensibili singolari di sanare l’esteriorità di ciascuno rispetto a sé stesso, di annullare la distanza tra ciò che esiste in ragione di sé, e ha quindi in sé il proprio centro, e ciò che esiste a partire dalla partecipazione all’altro da sé, e dunque mai può trovare in sé il proprio centro.
Segnati dall’impossibilità di possedersi pienamente, i soggetti – secondo Carlo Michelstaedter – fuggono da sé stessi, si narcotizzano, provano ad autoaffermarsi, assumono la falsa parentela dei nomi e vivono la vita della sola memoria, priva di sapore attuale.
Quel che bisognerebbe fare, allora, è assumere la consapevolezza della propria insufficienza, rinunciando all’illusione dell’infinita potestas, al falso futuro additato dal racconto sociale, che promette una continuazione del sé; ma gli umani per lo più chiedono una benda agli occhi, schiavi della brama di possesso.
«Secondo Michelstaedter bisognerebbe liberarsi – scrive Claudia Maggi a p. 93 – dalla naturalezza con cui la matematica penetra nelle nostre fibre, fino a indurci a ritenere che tutto sia riducibile a un’espressione nella quale il risultato non poteva non essere quello che i calcoli implicitamente suggerivano». «Bisognerebbe rinunciare ad attraversare l’esistenza con la sicurezza che si tratti di un’operazione algebrica, che proietta la nostra immagine a destra dell’uguale».
Il sistema sociale – una contingenza truccata da necessità – opera grazie a un progressivo adattamento del sé, promette la sicurezza e benda l’ intelligenza, riduce gli umani a rotoli di denaro, a dati impersonali: alberi potati, riserva di legna utile al disegno complessivo. La comunicazione è ridotta a segni convenuti, e chi volesse eccepire, tenendosi fuori dall’universale sinfonia, sarebbe considerato pazzo.
In una postilla al suo libro, l’Autrice ricorda ai suoi lettori come la filosofia sia in fondo una malattia, una malattia contemporaneamente necessaria e inutile, come tutte le cose che coinvolgono il nocciolo di noi stessi. Ma ricorda anche che Alcibiade imperfetto, Alcibiade che arriva al banchetto perdendosi la lezione di Diotima, Alcibiade infelice, è l’unico che però abbia visto in Socrate il dischiudersi dell’autentica bellezza.
Lidia Palumbo
S&F_n. 28_2022