Le monde sensible et le monde de l’expression. Cours au collège de france, 1953 è un volume che raccoglie gli appunti che Maurice Merleau-Ponty scrisse durante la preparazione del corso di lezioni tenute nell’anno accademico 1952-1953 al Collège de France. L’importanza di questo testo risiede soprattutto nel suo essere a metà strada tra le prime grandi opere dell’autore (La struttura del comportamento e Fenomenologia della percezione) e gli ultimi scritti. Ciò che si respira nella lettura di queste note, inevitabilmente dal carattere frammentario e a tratti enigmatico, è la necessità di un rinnovamento teorico che, tuttavia, non è da intendersi nel senso di un rigetto di ciò che era stato sostenuto nelle opere precedenti. Le note al corso del ‘53 di fatto continuano e sviluppano le tesi merleau-pontiane, ma lo fanno con nuova consapevolezza critica. Come riferisce lo stesso autore nell’Autopresentazione inviata a Martial Gueroult nel 1951: «I nostri due primi lavori […] cercavano di restituire il mondo della percezione. Quelli che abbiamo in preparazione vorrebbero mostrare in che modo la comunicazione con l’altro e il pensiero riprendano e oltrepassino la percezione che ci ha iniziati alla verità» [M. Merleau-Ponty, Autopresentazione (1962), tr. it. a cura di G. D. Neri, in «Aut Aut», 1989, 232-233, p. 5]. Per cui, se la Fenomenologia della percezione, il testo cardine degli anni ’40, aveva focalizzato la propria attenzione sull’esperienza percettiva, evidenziando in essa «ciò che vi è di originario in contrapposizione al modo di pensare di scienza e pensiero oggettivo» [M. Merleau-Ponty, Il mondo sensibile e il mondo dell’espressione (2011), tr. it. Mimesis, Milano-Udine 2021, p. 59]; ora, sulla base della guida offerta da quei fondamenti, Merleau-Ponty prospetta in questo corso di pervenire alla formulazione di una “teoria della razionalità” che mostri come la verità origini dalla percezione. Nel fare ciò, però, sarà necessario ripensare alcune nozioni e categorie che, a causa del loro esser state, nell’opera precedente, subordinate al modo classico di concepire coscienza, percezione e forma della conoscenza, hanno depositato una serie di residui dualistici. Il dualismo riguarda soprattutto la relazione tra mondo sensibile e mondo dell’espressione. Nella Fenomenologia vi era ancora eterogeneità tra queste due sfere dell’essere, l’una precedeva l’altra, o meglio, l’una realizzava l’altra: il linguaggio traduceva il pensiero, la riflessione l’irriflesso ecc. Ciò che invece l’autore vuole far emergere nell’esposizione delle lezioni è la sostanziale continuità esistente tra i livelli superiori dell’esistenza (conoscenza, comunicazione, storia) e la percezione. Bisognerà, dunque, non solo «approfondire l’analisi del mondo percepito mostrando che esso presuppone già la funzione espressiva» [ibid.], cosa che implica anche il far vedere come nella conoscenza e nella comunicazione l’esperienza percettiva del senso si conservi senza essere soppressa, come essa si sublimi nella cultura; ma anche far constatare, nella direzione opposta, come l’espressione stessa sia contenuta nella più semplice percezione. Così, allo scopo di mostrare come la percezione sia intrinsecamente espressione, Merleau-Ponty dedica le lezioni di questo corso all’analisi dell’espressione corporea e prelinguistica, rimandando a un altro momento, come da lui stesso annunciato, l’approfondimento dell’espressione linguistica.
Secondo l’autore, l’espressione non è altro che «la proprietà di un fenomeno, per la sua organizzazione interna, di farne conoscere un altro che non è dato o che non è mai stato dato» [ibid. p. 62]. È in questo modo che i prodotti umani esprimono l’uomo. Per le opere culturali invece il discorso è più articolato: esse esprimono l’uomo esprimendo il mondo. La percezione va intesa in questo secondo senso perché essa esprime il mondo, cioè è emersione della verità di un mondo, attraverso il corpo. Il corpo, dal canto suo, ha una duplice funzione: «in quanto organizzazione data, in quanto campi sensoriali, esso risponde a ciò che gli si offre, –ma lo stesso corpo è anche corpo che si muove verso il mondo per significarlo e designarlo» [ibid., p. 68]. Il corpo, in altre parole, è l’elemento cardine in quel moto a duplice senso tra percezione ed espressione tale che, se da una parte è solo attraverso il corpo che il mondo perviene all’espressione, dall’altra è il corpo che si esprime nel mondo.
L’indagine merleau-pontiana nelle note si rivolge in prima istanza a una critica alla maniera classica in cui la coscienza è stata pensata (coscienza riflessiva) e a una ridefinizione della nozione di coscienza percettiva come coscienza espressiva. La coscienza riflessiva, infatti, ponendo sé stessa e l’oggetto, fa emergere e allo stesso tempo ignora la condizione paradossale di una vicinanza-distanza rispetto al mondo. Vicinanza perché «questa coscienza può avere a che fare solo con le sue significazioni» e quindi vi è «presenza immediata di questa coscienza ai suoi oggetti» [ibid. p. 63]; distanza perché essa è, nei confronti dei suoi oggetti “sorvolo assoluto”, distacco. Da ciò deriva che il senso, significazione determinata dalla coscienza, è essenza chiara e distinta, e di conseguenza «questa coscienza è pronta a essere messa in parole, tradotta in linguaggio, è già posizione di un enunciato, coscienza parlante» [ibid., p. 64]. La coscienza espressiva che invece Merleau-Ponty delinea nelle note non è linguistica, ma è originariamente rapporto prassico con il senso, senso che è «praticato, più che essere posseduto come tale» [ibid., p. 65]. E non potrebbe essere altrimenti, perché quello di Merleau-Ponty è un soggetto che è situato tra le cose attraverso un corpo che è in rapporto espressivo con il mondo sensibile. Ciò significa che l’essere non è separato dalla coscienza, l’essere sconfina su di essa, la circonda, e in ciò consiste la sua prossimità alla cosa: nel suo “far vibrare” il corpo raggiungendolo nell’interno. Allo stesso tempo però, e qui il paradosso vicinanza-distanza torna ma con un altro significato, l’oggetto è distante dalla coscienza perché questo, per quanto il suo apparire dipenda dalla soggettività, non è comunque riducibile a essa: vi è sempre una trascendenza e un’eccedenza dell’oggetto. Il senso “praticato”, allora, si prospetterà alla coscienza non come «sussunto sotto un’essenza o significazione, in quanto partecipa a un’idea o a una categoria. – ma come modulazione di una certa dimensione» [ibid., p. 75], giacché esso appare solo nello scarto rispetto alle dimensioni costitutive del campo percettivo, a loro volta non scaturite unilateralmente dal darsi del mondo “oggettivo”, ma costituitesi nel reciproco rapporto espressivo di corpo situato e paesaggio. Quindi il senso non parla, non è un enunciato, è tacito, e tuttavia «noi comprendiamo il sensibile come se tra questo e il nostro corpo vi fosse un patto che ci precede e precede ogni intuizione, come se esso ci parlasse un linguaggio […] di cui abbiamo una conoscenza implicita» [ibid., p. 77].
Questo nuovo modo di concepire la coscienza percettiva, che doveva far piazza pulita degli ultimi residui di dualismo ancora presenti nella Fenomenologia della percezione, si accompagna a una nuova concezione della visione, che a sua volta anticipa quella reciprocità della relazione intenzionale tra visto e vedente che emergerà soprattutto nelle opere successive. È soprattutto nell’analisi dell’istituirsi della profondità nella percezione, fenomeno già descritto nella Fenomenologia, che è possibile notare l’emersione di questo nuovo orizzonte teorico. Infatti, se nella Fenomenologia «la profondità nasce sotto il mio sguardo perché esso cerca di vedere qualcosa» [M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), tr. it. a cura di A. Bonomi, Bompiani, Milano-Firenze 2019, p. 349], il che vuol dire che essa dipende ancora dal movimento spontaneo del soggetto; nelle note invece il rilievo è il frutto di una sollecitazione da parte del visibile: la discrepanza tra le immagini retiniche suscita un cambiamento nella visione e lo sguardo, rispondendo alla vocazione, realizza la profondità, in un rapporto a doppio senso in cui «il dato indica [il] corpo che occorre avere e il corpo compie il dato» [M. Merleau-Ponty, Il mondo sensibile e il mondo dell’espressione, cit., p. 105]. Ciò però non significa che ci sia una deduzione della profondità dal sensibile. Al contrario, vi è una tensione dei movimenti oculari a cui ci si abbandona procedendo verso il senso del visibile.
Questa riflessione appartiene alla più ampia trattazione della spazialità, che nelle note riveste un ruolo propedeutico all’esposizione della natura del movimento percepito. Già nella Fenomenologia si era parlato di uno spazio intelligibile che «non è svicolato dallo spazio orientato, non ne è appunto che l’esplicitazione e, distaccato da questa radice, non ha assolutamente senso» [M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 155]. Ma nelle note l’indagine procede con maggiore profondità. Qui, infatti, facendo leva su una serie di esperimenti (tra i quali gli occhiali di inversione di Stratton e la stanza inclinata di Wertheimer) l’autore mostra come la dimensionalità della spazialità originaria derivi proprio dall’espressività della prassi corporea. Il “luogo” è il frutto della proiezione espressiva del corpo di uno spazio virtuale come «sistema di corrispondenze tra campo attuale e ciò che sarebbero proprietà spaziali per altre situazioni» [M. Merleau-Ponty, Il mondo sensibile e il mondo dell’espressione, cit., p. 84]. E la proiezione va intesa nel contesto di un ingranaggio formato dal corpo e il suo ambiente, che a sua volta determina l’orientamento spaziale. La costituzione del percetto avviene attraverso l’istituzione di livelli, cioè l’assunzione di dati elementi percettivi come punti di riferimento. Questa “scelta” dei livelli non ha nulla di arbitrario, ma dipende «da una certa presa del mio corpo sul mondo, una sicurezza e una familiarità [aisance] del mio corpo nel mondo, il fatto che io lo abito» [ibid., p. 94]. Il fatto che gli elementi sensibili acquisiscano una certa forma nell’esperienza percettiva non dipende solo ed esclusivamente dal loro darsi, ma soprattutto dal modo in cui la situazione viene colta, interpretata e appresa dal soggetto percipiente. La sintesi è sì preriflessiva, ma ha comunque carattere contingente, pur non essendo arbitraria. Essa comporta uno scambio dialettico tra soggetto e mondo, un «conflitto di fattori di Auffassung contro condizioni figurali oggettive» [ibid., p. 137] che è orientato verso uno stato privilegiato, una relazione esistenzialmente ottimale tra i due termini. La “scelta” è parte di uno scambio dialettico tra i mezzi e il fine della sintesi percettiva; qui un senso sentito immanente è portato a forma più determinata attraverso un tipo di Sinngenbung che dipende, in ultima analisi, dall’ottimo esistenziale del soggetto.
Lo stesso discorso si applica anche al movimento, in quanto esso è «variazione, modalità di questa spazialità primordiale» [ibid., p. 95]. Nella trattazione del movimento Merleau-Ponty, superando il punto di vista di Zenone e Bergson, fa propri alcuni aspetti fondamentali della psicologia della Gestalt, pur criticandone altri. Il movimento percepito è per gli psicologi della Gestalt momento figurale, il che significa che esso appare in un certo modo solo in funzione di un certo sfondo. È la configurazione strutturale del campo percettivo nel suo insieme che permette di intendere il movimento. Nella sua costituzione è centrale l’apporto della soggettività (fattori storici e personali). Ciò perché anche il movimento percepito, come lo spazio, implica una Sinngenbung che scaturisce dal soggetto percipiente «come essere totale» [ibid., p. 137]. L’organizzazione del campo è quindi completata dai fattori soggettivi in uno “scambio” tra momenti figurali dati e significazione soggettiva non rappresentativa: «i momenti figurali operano in quanto soddisfano un’apprensione del senso, e questo non appare se non incarnato in figura» [ibid., p. 151]. Vi è equilibrio dialettico tra passività del dato e attività di una scelta preriflessiva. Per questo motivo Merleau-Ponty può sostenere che «l’apprensione del senso e l’apprensione del movimento sono la stessa cosa» [ibid., p. 137], perché percepire il movimento è da una parte produrre attivamente la costruzione situazionale percepita, dall’altra, essere testimoni del suo darsi.
Tutto ciò è permesso e mediato attraverso il corpo proprio, da intendersi come «potere di dispiegare intenzioni nello spazio, potere di tracciare» [ibid., p. 161]. Ma quando Merleau-Ponty parla del corpo proprio, e soprattutto della coscienza che il soggetto ne ha, egli si riferisce al concetto di matrice schilderiana di schema corporeo. Con questo l’autore intende l’unità spaziale, temporale e senso-motoria del nostro corpo, un’unità che non è semplicemente la somma delle parti che la compongono: essa le oltrepassa, le abita e fonda le relazioni tra queste e il mondo. Lo schema è sfondo di ogni agire possibile, abita lo spazio esterno e forma con esso un sistema che coinvolge anche l’interno. Da non confondersi con il corpo concepito biologicamente, esso è piuttosto «un pensiero che noi abbiamo perché siamo» [ibid., p. 178], un’intellezione implicita e proto-intellettuale che, in quanto tale, non si dispiega davanti a noi come un oggetto. È percepito come un’unità e la sua percezione è caratterizzata da ambiguità proprio perché noi siamo «aderenti a esso, situati in esso» [ibid., p. 177]. In quanto orientato verso fini e sfondo della prassi, è dinamico, perché si modifica nel rapporto con il mondo e incorpora nuovi progetti e azioni. È attraverso lo schema corporeo, che è potenza motoria, che vengono a instaurarsi nel mondo percepito i livelli, è questo l’organo di proiezione da cui procede e prende forma lo spazio percepito con le sue possibilità motorie. In questo modo, il mondo sensibile e mondo dell’espressione si uniscono organicamente. La funzione proiettiva, tuttavia, come si è già accennato, è in relazione dialettica con il dato: vi è un’anticipazione reciproca e livelli più elevati di espressione originano dalla percezione come un tipo originario di prassi. Quello che Merleau-Ponty intende è che le forme di espressione, anche quelle più elevate corrispondono a diversi livelli di motilità e ognuno di essi è inserito in una proiezione espressiva.
Lo schema corporeo è quindi, prima di ogni cosa, possibilità di azione del corpo, sfondo su cui si stagliano gli oggetti del mondo come possibili poli della nostra azione. Il movimento infatti è per il Merleau-Ponty delle note, il fenomeno più originario della coscienza incarnata ed è proprio a partire da esso che, secondo l’autore, è possibile cogliere la trama di fili intenzionali che legano corpo e mondo.
L’ultima parte delle note è dedicata all’analisi del movimento come mezzo di espressione, un’indagine che si articola attraverso la considerazione delle modalità espressive delle arti figurative (in primis, pittura e cinema). Secondo l’autore è proprio in esse che è possibile render conto dell’emersione del senso nella percezione, giacché nel linguaggio la provenienza sensibile è nascosta dal meccanismo attraverso cui il movimento viene sublimato nella significazione. Per questo Merleau-Ponty ci tiene a evidenziare come la pittura e la scultura nella rappresentazione del movimento non si limitino semplicemente a raffigurare uno dei frame che comporrebbero lo spostamento del mobile. Esse cercano invece di riprodurre “emblemi del movimento” perché ciò che deve essere suscitato non è «decifrazione di segni mediante intelligenza che li interpreterebbe come indicanti cambiamento di luogo, ma […] senso immanente della “metamorfosi”, senso gestuale per un corpo che sa la sintassi dei gesti, sintesi senza analisi» [Ibid., p. 220]. Nel cinema invece la riproduzione del movimento avviene attraverso la messa in scena di un certo ritmo. Occorre che «sia rappresentato per una certa durata, da tal punto a tal punto, […] che si inserisca in un certo contesto di comportamento» [ibid., p. 224].
Le riflessioni estetiche delle note rappresentano il punto culminante di un discorso che, come si è detto, cerca di render conto della bidirezionalità esistente tra percepito ed espressione. L’arte manifesta un’intenzionalità significante che proviene dal sensibile: il movimento diviene in essa espressione, espressione che, in quanto tale, era già contenuta nella percezione.
Francesco Lamberti
S&F_n. 28_2022