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Dono e dolo: dal digital turn al tecnostress

Autore


Andrea Calandrelli - Alessandra Nicolini

Università degli studi di Roma - La Sapienza

Andrea Calandrelli svolge attività didattica in Clinica medica ed è Direttore scientifico dei Master di “Psico-Neuro-Endocrino-Immunologia” e “Integrazione tra medicine convenzionali e non convenzionali” presso l’Università degli studi di Roma - La Sapienza. Alessandra Nicolini è Psicologa clinica e specialista in Psicoterapia a indirizzo fenomenologico-ermeneutico.

Indice


  1. La digitalizzazione dell’esperienza tra risorse e fattori di rischio
  2. Il tecnostress
  3. Attivazione della risposta infiammatoria indotta dal tecnostress

 

 

 

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S&F_n. 27_2022

Abstract


Gift and “dolus”: from digital turn to technostress

The digital revolution, by reconfiguring our way of being in the world as a stay-always-on, has altered the principle of separation between online and offline. Continuous and unrestricted connection can have negative effects on quality of life and productivity, compromising individual psychosomatic equilibrium. The health effects associated with the pervasive use of digital devices and their applications are often summarised under the term “technostress”. Protracted exposure to an excessive information load determines a response involving the activation of psycho-neuro-endocrine-immunological processes whose alteration plays a crucial role in the pathogenesis of the symptoms most frequently associated with technostress. We call this response “e-inflammation”.

  1. La digitalizzazione dell’esperienza tra risorse e fattori di rischio

L’introduzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), e la loro ampia diffusione in tutti i campi della vita, personale, sociale, lavorativa, hanno cambiato il nostro modo di stare al mondo. Non solo noi agiamo attraverso di esse, ma esse agiscono su di noi, non soltanto per mezzo delle abitudini che introducono nella nostra quotidianità, ma modificando il nostro modo di fare e accedere all’esperienza di noi stessi, degli altri e del mondo.

Le nuove tecnologie non offrono semplicemente un supporto operativo, un prolungamento, una “estensione” alle nostre possibilità di pensare, agire e sentire, ma hanno mutato in modo radicale le coordinate del nostro abitare, fungendo da veri e propri organizzatori del dominio esperienziale, riconfigurando/trasfigurando il nostro modo di percepire lo spazio, il tempo e il nostro corpo.

La discontinuità e frammentarietà dell’esperienza prodotta dal “multiliving”[1] genera nuovi modi del sentire che si connotano per la flessibilità e velocità di adattamento con cui essi mutano al variare, allo “switch”, dei contesti in rapido cambiamento.

Le nuove tecnologie non rappresentano più solo una tra le diverse dimensioni del reale, ma sono vere e proprie «forme di vita», come suggerisce il titolo del saggio “Technology as Forms of Life”[2], ovvero prospettive da cui osservare il mondo, gli altri e noi stessi.

Sono, al contempo, «un modo del disvelamento»[3] e un campo di manifestatività del nostro esserci. Esse cioè si costituiscono come un vero e proprio ambiente, luogo del commercio quotidiano con il mondo.

I nuovi dispositivi di comunicazione mobile, ad esempio, come gli smartphone o i tablet, non sono più soltanto degli strumenti per telefonare, ma inaugurano un nuovo mo(n)do della comunicazione, che cambia il rapporto tra presenza e assenza, tra concentrazione e distrazione, tra pubblico e privato.

Lo smartphone, se da un lato abolisce la distanza, dall’altro abolisce la vicinanza poiché genera una condizione in cui tutti sono, allo stesso tempo, vicini e lontani, indipendentemente dal loro grado di prossimità fisica. Si può, cioè, essere seduti al bar, di fronte a una persona, ma “chiacchierare” con chi non è presente. Questo fenomeno è conosciuto in letteratura con il termine “phubbing”, un neologismo derivato dall’unione delle parole “phone” e “snubbing” che rimanda, per l’appunto, all’atto di ignorare qualcuno in un contesto sociale[4].

Nel riconfigurare il nostro modo di stare al mondo, in rapporto con gli altri e con noi stessi, come uno stare-sempre-connessi, “always on”, lo smartphone ha dunque alterato il principio di separazione tra l’online e l’offline. Viviamo, cioè, in una “zona grigia”, termine con il quale vogliamo indicare quella realtà ambigua, ibrida, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge l’online dall’offline.

Il carattere “onlife”[5] dell’esperienza, la costante reperibilità e connettività rendono, perciò, sempre più difficile la distinzione tra vita privata e vita professionale, tra tempo libero e tempo di lavoro. Il confine si è talmente assottigliato al punto che non sembra avere più senso parlare di questa separazione; nell’era dei device mobili, di Internet e dei Social network, essere online sembrerebbe, infatti, essere la norma.

Ma questa con-fusione tra i domini dell’esperienza che il massiccio innesto delle nuove tecnologie nella vita odierna ha generato, introduce nuove opportunità, o arreca danni? Rappresenta una risorsa, o un fattore di rischio?

È indubbio che gli individui, le organizzazioni e la società in generale abbiano ottenuto benefici significativi dall’implementazione e dall’utilizzo delle nuove tecnologie, attraverso l’accesso maggiore e rapido alle informazioni, l’ampliamento delle possibilità di comunicazione, i miglioramenti nelle prestazioni e nella produttività.

Ma ogni nuova tecnologia, anche la più promettente, ha sempre una contropartita. Esse, infatti, rivelano una originaria e ineliminabile ambivalenza poiché, se da un lato offrono nuove opportunità, dall’altro nascondono molteplici insidie. Come ci ricorda il mito di Prometeo, il dono è sempre anche un “dolos”, un inganno. Ogni progresso di carattere tecnologico, se da un lato pone condizioni che possono, ad esempio, portare alla emancipazione dal lavoro, dall’altro impone nuove condizioni di dipendenza da esso. La libertà permessa dalla connessione senza fili, se da un lato ci consente di essere sempre da un’altra parte, d’altro canto ci rende sempre raggiungibili, ovunque ci si trovi, e in qualsiasi momento. Possiamo allontanarci dal luogo di lavoro, eppure continuare a essere lì, così come possiamo trovarci sul posto di lavoro ma essere affacciati sulla soglia di un altrove.

L’accessibilità resa dai device senza fili crea, inoltre, aspettative relative al comportamento di risposta. Anche quando non siamo presenti, siamo comunque disponibili. Distanti, ma raggiungibili, “reperibili”. Ogni chiamata non risposta, ogni email in giacenza, o messaggio WhatsApp spuntato ma non evaso, rimane registrato, e questa registrazione implica una responsabilità che è quella del rispondere. Essa può generare sentimenti di sovraccarico a causa dell’elevato numero di notifiche più o meno rilevanti, più o meno desiderate, che ciascuno di noi riceve giornalmente da parte dei contatti social, un fenomeno questo che troviamo descritto in letteratura con l’espressione “social network overload”.

Potenzialmente, quindi, non c’è fuga dal lavoro, dalla famiglia, dagli amici, o da chiunque altro, ed è proprio il fatto di non essere cablati, ma wireless, a renderci legati!

Il contatto perpetuo e la co-presenza di reti sociali dovuti alla portabilità possono creare enormi richieste e generare importanti ricadute sulla salute e il benessere individuale. Il carattere di disponibilità, infatti, se da una parte facilita la comunicazione superando i vincoli fisici del faccia-a-faccia, può essere percepito come un fattore di stress. Una connessione continua e senza vincoli di tempo e spazio può avere effetti negativi sulla salute, la qualità della vita e sulla produttività, compromettendo il nostro equilibrio psicosomatico.

  1. Il tecnostress

Le continue sollecitazioni provenienti dalle nuove tecnologie e dagli online social network possono determinare notevoli percezioni di stress negli utenti.

Uno studio svedese ha riscontrato un aumento dello stress percepito in relazione al carico informativo e sociale. L’uso combinato di computer e telefono cellulare, così come il numero di messaggi scambiati giornalmente, l’email e le chat online, sono stati associati a stress prolungato, depressione e disturbi del sonno[6].

Lo stress associato all’uso pervasivo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione nella società contemporanea è stato denominato “tecnostress”. Il primo a osservare e descrivere questo fenomeno fu lo psicologo americano Craig Brod che lo definì «un disturbo causato dall’incapacità di gestire le richieste provenienti dalle moderne tecnologie informatiche in maniera sana»[7]. Le nuove tecnologie richiedono, infatti, l’acquisizione di alcune skills, tra cui la gestione di un maggior flusso di informazioni, una maggiore velocità di elaborazione, l’aggiornamento continuo di applicazioni e software, così come la gestione contemporanea di più funzioni (multitasking).

Questa definizione è stata successivamente ampliata fino a includere «qualsiasi impatto negativo su atteggiamenti, pensieri, comportamenti o fisiologia del corpo causato direttamente o indirettamente dalla tecnologia»[8].

L’avvento della tecnologia mobile, potremmo dire “prêt-à-porter”, che, come abbiamo argomentato nel paragrafo precedente, ha permesso un uso costante dei flussi informativi, senza vincoli di spazio e di tempo, ha introdotto una sostanziale differenza con la prima, embrionale definizione di Brod sviluppata a partire dall’osservazione delle reazioni psicofisiche di soggetti che lavoravano seduti alla propria scrivania.

Le forme di questo disagio possono delinearsi in due modi differenti; possiamo, infatti, considerare il tecnostress un termine ombrello che include due fenomenologie distinte, ma correlate: il technostrain o tecnofobia, e la technoaddiction o tecnomania. Mentre il technostrain è caratterizzato dalla difficoltà ad accettare le nuove tecnologie e si manifesta con sentimenti e comportamenti negativi associati al loro uso, la technoaddiction, invece, consiste in una iper-identificazione con lo strumento, caratterizzata da un utilizzo compulsivo delle nuove tecnologie e da stati di ansia associati ai periodi di disconnessione. Tra i fenomeni descritti in letteratura citiamo, ad esempio, i casi di “Nomo Phobia”, un termine derivato da “nomo”, abbreviazione di no-mobile, e “phobia”, con il quale si definisce la paura incontrollata di rimanere senza connessione alla rete mobile, a cui si associano sintomi panicoformi, o la FOMO, acronimo di Fear of Missing Out, una condizione caratterizzata dal timore di rimanere tagliati fuori dal contatto con gli eventi, le esperienze e le “stories” che avvengono all’interno dei social networks, e che può portare al controllo compulsivo delle pagine social e della messaggistica istantanea per mantenere la connessione sociale ed evitare la perdita del contatto con quelle esperienze.

La diffusione del lavoro a distanza, fortemente incentivato dalla pandemia di Covid-19, ha portato, inoltre, a osservare sempre nuove forme di disagio derivanti, ad esempio, dall’esposizione prolungata a sessioni di videoconferenze, denominata “affaticamento da riunione virtuale” (Zoom fatigue). Tale condizione è stata identificata come un fattore di rischio per il benessere e la produttività dei lavoratori e risulta da un insieme di fattori tra cui l’aumento del carico cognitivo dovuto allo sguardo prolungato da parte degli altri; l’apparente vicinanza degli altri e la riduzione della mobilità; le aspettative non soddisfatte relativamente alla sincronia e ai segnali non verbali; la ridotta distribuzione del lavoro tra i colleghi; l’aumento dell’attenzione sulla propria immagine visualizzata sullo schermo. Rispetto a quest’ultimo fattore è stato osservato che nelle persone che presentano una maggiore insoddisfazione per il proprio aspetto, in particolare il volto, la visualizzazione della propria immagine sullo schermo determina un’attenzione su di sé negativa che le espone a un maggior rischio di sviluppare disturbi quali “ansia da specchio” (“mirror anxiety”)[9]. A questa aumentata preoccupazione per il proprio aspetto è, inoltre, corrisposto un incremento dell’interesse verso l’utilizzo della cosmesi e della chirurgia estetica del volto, come dimostrato da uno studio che ha analizzato i trend di ricerca online sui principali browser da parte degli utenti durante il lockdown[10].

Possiamo, dunque, considerare il tecnostress come un fenomeno “psicosomatico” che emerge dall’incontro con le nuove tecnologie, sia in ambito individuale, sia in contesti organizzativi come disturbo lavoro-correlato, interferendo con la quotidianità sociale e relazionale e con la produttività lavorativa. Come abbiamo visto, esso è associato all’insorgenza di disturbi di diversa natura, che coinvolgono la sfera emotiva e comportamentale, con conseguenze sul piano della concentrazione e del rendimento, o sulla qualità del sonno[11], ma l’uso prolungato dei dispositivi tecnologici può comportare anche disturbi a carico dell’apparato muscolo-scheletrico, come dolori cervicali dovuti alla posizione della testa perennemente chinata in direzione dello smartphone/tablet (“text neck”), sindrome del tunnel carpale, tendinite da “texting”, gomito da mouse (“mouse elbow”), o disturbi a carico dell’apparato visivo come affaticamento oculare, bruciore, arrossamento, lacrimazione, secchezza oculare, fotofobia, annebbiamenti visivi transitori (sindrome da visione del computer).

Nonostante la varietà di forme attraverso cui il tecnostress trova espressione a livello individuale, questi sintomi presentano un comune denominatore: l’infiammazione, la quale gioca un ruolo cruciale nella patogenesi dei disturbi a esso più frequentemente associati.

  1. Attivazione della risposta infiammatoria indotta dal tecnostress

L’esposizione protratta a un carico informativo e social(e) eccessivo determina una attivazione neuro-endocrina e immunitaria che ha come effetto la produzione di sostanze responsabili dell’infiammazione. I sistemi neuro-endocrino e immunitario formano un network di comunicazione bidirezionale attraverso le citochine, una classe di molecole messaggere prodotte da diversi tipi di cellule, immunitarie e non, in risposta a stimoli di diversa natura.

In circostanze normali, la maggior parte delle citochine non sono espresse, o sono espresse a concentrazioni molto basse, mentre la loro produzione è tipicamente dis-regolata durante l’esposizione a eventi di natura stressante, quali infezioni, lesioni, tossine, ma anche stati emozionali. Diversi studi, infatti, dimostrano che livelli più elevati di citochine pro-infiammatorie circolanti nel sangue sono associati a emozioni negative quali rabbia, paura, vergogna, tristezza, ma non a quelle positive[12].

Lo stress è noto per attivare il sistema nervoso simpatico e l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene i quali regolano la produzione di citochine attraverso il rilascio corrispettivo di adrenalina e noradrenalina negli organi linfoidi, e di cortisolo. Mentre la noradrenalina stimola il sistema immunitario a produrre citochine pro-infiammatorie, il cortisolo, a dosi fisiologiche, esercita una potente azione anti-infiammatoria. Tuttavia, in condizioni di stress eccessivo e prolungato, aumenti persistenti del cortisolo si traducono in una ridotta risposta recettoriale. Di conseguenza, la capacità del sistema immunitario di rispondere ai segnali antinfiammatori si riduce e i processi infiammatori si sviluppano.

La persistenza degli stressors, o l’incapacità adattativa della persona alle richieste provenienti dalle nuove tecnologie, può determinare, nel medio e lungo periodo, una condizione di infiammazione cronica di basso grado (“low grade inflammation”), derivante dalla mancata risoluzione dell’infiammazione e/o dalla stimolazione prolungata e ripetuta del sistema immunitario. Proponiamo di definire tale condizione “e-inflammation”.

L’esposizione protratta a un carico informativo eccessivo determina, infatti, una risposta che coinvolge l’attivazione di processi psico-neuro-endocrino-immunologici la cui alterazione gioca un ruolo cruciale nella patogenesi e nel mantenimento dei sintomi più frequentemente associati al tecnostress.

Diversi studi dimostrano, infatti, come l’implementazione delle nuove tecnologie, così come l’esposizione a problemi specifici derivanti dal loro utilizzo (ad esempio, sovraccarico informativo e sociale, multitasking, lunghi tempi di risposta, guasti al sistema, interruzioni del lavoro), possano causare effetti dannosi sulla salute attraverso il rilascio di sostanze che, in maniera diretta o indiretta, sono coinvolte nella regolazione dei processi infiammatori. Questi studi, ad esempio, hanno rilevato aumenti dei livelli di noradrenalina[13] e cortisolo[14], e diminuzione delle concentrazioni di melatonina[15] che sappiamo svolgere una importante azione antiossidante e possedere proprietà immunomodulanti e anti-infiammatorie.

Uno studio, in particolare, ha riscontrato la presenza di livelli elevati di citochine pro-infiammatorie, in particolare interleuchina-6 (IL-6), nei figli adolescenti rispetto ai loro genitori, in relazione al maggiore tempo dedicato da parte dei primi, se confrontati con gli adulti, all’utilizzo delle nuove tecnologie e dei social network[16].

Questi risultati ci portano a osservare che il modo in cui siamo coinvolti nel mondo e con gli altri attraverso la tecnologia ha profonde ricadute sulla funzionalità immunitaria, inducendo, ad esempio, una modificazione nei geni di trascrizione pro-infiammatoria. In questo senso possiamo allora capire come lo stress derivante dall’uso pervasivo delle nuove tecnologie possa radicarsi biologicamente, “incarnarsi” di volta in volta nell’incontro con esse, modellando i fenotipi e la suscettibilità alle malattie[17].

Rimane da chiedersi, tuttavia, se le nuove tecnologie siano la “causa”, o semplicemente il campo di manifestazione di un disagio che, attraverso di esse, trova la sua attuazione.


[1] T. Mazali, Not too close not too far, just right. Sherry contro Turkle, in «Mediascapes Journal», 2, 2013, pp. 155-158.

[2] L. Winner, Technologies as Forms of Life, in «Epistemology, Methodology and the Social Sciences», eds. Cohen and Wartofsky (Kluwer Academic Publishers), 1983.

[3] M. Heidegger, La questione della tecnica (1953), tr. it. goWare, Firenze 2017.

[4] E. Karadağ, S.B. Betül Tosuntaş, E. Erzen, P. Duru, N. Bostan, B.M. Şahi̇n, I. Çulha, B. Babadağ, Determinants of phubbing, which is the sum of many virtual addictions: A structural equation model, in «Journal of Behavioral Addictions», 4, 2, 2015, pp. 60–74.

[5] L. Floridi, La quarta rivoluzione, Raffaello Cortina, Milano 2017. Con questo termine Floridi identifica l’ibridazione tra vita ed esperienza online.

[6] S. Thomée, F.M. Eklöf, E. Gustafsson, R. Nilsson, M. Hagberg, Prevalence of perceived stress, symptoms of depression and sleep disturbances in relation to information and communication technology (ICT) use among young adults: An explorative prospective study, in «Computers in Human Behavior», 23, 3, 2007.

[7] C. Brod, Technostress: the human cost of the computer revolution, AddisonWesley, Reading 1984.

[8] M.M. Weil, L.D. Rosen, Technostress: coping with technology @work @home @play, Wiley, New York 1997.

[9] R. Ratan, D.B. Miller, J.N. Bailenson, Facial Appearance Dissatisfaction Explains Differences in Zoom Fatigue, in «Cyberpsychology, behavior and social networking», 25, 2, 2022, pp. 124–129.

[10] K. Thawanyarat, S. Francis, T. Kim, C. Arquette, S. Morrison, R. Nazerali, The Zoom Effect: A Google Trends Analysis, in «Aesthet Surg J.», 42, 1, 2022, NP76-NP82.

[11] Gli schermi retroilluminati di pc, tablet e cellulari inibiscono la produzione di melatonina che serve ad avere un sonno di qualità ed entrare nel cosiddetto “default mode network”, ossia lo stato di semi-veglia che precede il sonno.

[12] D.C. Slavish, D.R. Jones. J.M. Smyth, C.G. Engeland, S. Song, N.M McCormick, J.E. Graham-Engeland, Positive and Negative Affect and Salivary Markers of Inflammation Among Young Adults, in «Int J Behav Med.», 27, 3, 2020, pp. 282-293.

[13] C. Korunka, K.H. Huemer, B. Litschauer, B. Karetta, A. Kafka-Lützow, Working with new technologies: hormone excretion as an indicator for sustained arousal: a pilot study, in «Biological Psychology», 42, 3, 1996, pp. 439-452.

[14] R. Riedl, H. Kindermann, A. Auinger, A. Javor, Technostress From a Neurobiological Perspective: System Breakdown Increases the Stress Hormone Cortisol in Computer Users, in «Business & Information Systems Engineering», 4, 2, 2012, pp. 61-69.

[15] B.B. Arnetz, M. Berg, Melatonin and adrenocorticotropic hormone levels in video display unit workers during work and leisure, in «Journal of Occupational and Environmental Medicine», 38, 11, 1996, pp. 1108-1110.

[16] T.D. Afifi, N. Zamanzadeh, K. Harrison, M.A. Callejas, WIRED: The impact of media and technology use on stress (cortisol) and inflammation (interleukin IL-6) in fast paced families, «Computers in Human Behavior Volume», 81, 2018, pp. 265-273.

[17] A. Calandrelli, A. Nicolini, Sintomi funzionali. Dalla scissione mente-corpo al paradigma corpo-mondo, in «InCircolo. Rivista di filosofia e culture», 11, 2021, pp. 168-188.

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