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Byung-chul Han-La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite [a cura di S. Aglan-Buttazzi, Einaudi, Torino 2021]

Primum supervivere. Attraverso una lettura sociologica del fenomeno dell’algofobia Byung-chul Han coniuga l’interesse per l’indagine della società neoliberale con l’urgenza della critica di un sintomo: la paura di soffrire. L’algofobia appare sin dalle prime pagine del libro occasione per incentivare un movimento riflessivo, i cui risultati sono affidati alla forma saggistica, prediligendo una prosa lineare e scattante. La dissertazione gravita intorno al problema del dolore e prevede un’organizzazione tematica tramite la declinazione dell’argomento in vari ambiti, realizzando una grammatica del dolore atta a strapparlo al silenzio patologico cui è costretto nella società odierna.

Il filosofo sudcoreano difende le prerogative misconosciute dell’ἄλγος, richiamandosi alla gravitas di pensatori che hanno calcato il panorama della modernità. Il testo-guida di Han è lo scritto di Ernst Jünger, Sul dolore (in Foglie e pietre, tr. it. a cura di F. Cuniberto, Adelphi, Milano 2012, pp. 137-185), che affronta il rapporto uomo-dolore, inquadrandolo sociologicamente e politicamente per cogliere il ruolo dell’ἄλγος in «quella nuova razza umana» (ibid., p. 140) che è il «Lavoratore» (ibid.). Per Jünger è la maniera di trattare il dolore a costituire una tra le misure che concorrono a rivelare il valore di un uomo, nella consapevolezza che esso è incurante delle sue qualità: colpisce tutti. L’autore abbraccia completamente l’idea jüngeriana secondo cui «il nostro rapporto col dolore (Schmerz) rivela in quale società viviamo» (Han, La società senza dolore, p. 5), tanto da pensare a un’ermeneutica del dolore come strumento capace di interrogare la natura di una societas. L’algofobia imperversa nel clima neoliberale e intraprende la via di un’anestetizzazione che contagia anche la politica, così producendo una democrazia palliativa che indietreggia davanti alla necessità di riforme dolorose ma urgenti. Alla politica palliativa manca «il coraggio del dolore» (p. 6), così essa è condannata a soggiornare nelle spire dell’Uguale. Dunque, nella società che forgia soggetti di prestazione, la sofferenza è d’intralcio: essa arriva a costituire motivo di scandalo, fino a essere costretta al silenzio. L’imperativo della felicità a tutti costi, una felicità idiota perché non raggiunta tramite la convivenza con il dolore, è per Han, il segno di una violenza coercitiva, che intralcia qualunque moto rivoluzionario, lasciando precipitare l’uomo nella depressione.

L’andamento della trattazione esige un passaggio obbligato sulla realtà della situazione pandemica in pagine che si intitolano Sopravvivere. Il virus ha mostrato il vero volto dell’algofobia, la tanatofobia, che spinge la società neoliberale a scarnificare la vita sempre più, assegnandola alla desolazione della mera sopravvivenza. Nelle considerazioni dell’autore, il virus ci assomiglia, siamo il virus nella riduzione dell’esistenza a nuda vita, impegnati a parassitarla attraverso la moltiplicazione, nella preoccupazione costante non solo di supervivere, ma quasi di sopravviverle, inseguendo l’aspirazione post-umana a vivere facendo a meno della vita stessa e dei suoi ingombri. La pandemia, gettando «una morte nuda addosso alla nuda vita» (p. 27), ha allentato i legami, accelerato l’invasività di un potere che diviene biopolitico e ha acuito la sensibilità verso il timore della sofferenza.

In un’esistenza così svilita si chiarisce quella che Byung-chul Han definisce insensatezza del dolore, il cui eroe borghese, Monsieur Teste di Paul Valéry è contrapposto a Teresa d’Avila, la quale, nel mostrare la sensatezza del dolore, svela il volto di delizia della sofferenza. Per il filosofo sudcoreano il dolore diviene un «mero strazio corporeo» (p. 31), poiché la vita non è più intrecciata e veicolata attraverso una narrazione che le ascriva un senso ma, svuotata di ogni peso, si lascia scivolare verso il fiume pericoloso del no-sense. Il potere terapeutico delle parole non può più esercitare il suo effetto guaritore in assenza dell’urgenza e del bisogno naturale di raccontarsi. All’insopportabile insensatezza del dolore nel saggio viene contrapposta una tendenza apparentemente paradossale: l’iperalgesia, che si lascia ben spiegare dalla vicenda fiabesca della principessa sul pisello di Hans Christian Andersen. Più il soggetto si disabitua a provare dolore, e più diventa sensibile a insignificanti fastidi, fino a lamentare la morbidezza dei materassi, quando, in realtà, «è proprio la persistente insensatezza della vita a far male» (p. 34).

Il testo si mostra particolarmente ricettivo nei confronti del pensiero jüngeriano sull’impossibilità della soppressione del dolore; esso, in base a un’astuzia, «si somma di nascosto creando un “capitale invisibile” che “matura gli interessi e gli interessi sugli interessi”» (p. 37). All’astuzia della ragione di Hegel, Byung-chul Han accosta l’«astuzia del dolore» (E. Jünger, Sul dolore, cit., p. 149), espressione jüngeriana nata dalla constatazione che il dolore è una dimensione ineliminabile dell’essere umano e nessuno può trovarvi riparo.

Perché abolire il dolore se esso è la prova della «“verità che è divenuta carne”»? (p. 42) Il dispiegarsi della trattazione conduce al rapporto tra ἄλγος e verità, indugiando sull’aspetto doloroso che comporta il coraggio di farsi carico dell’ἀλήθεια. Il dolore è «un affidabile criterio di verità» (ibid.), in sua assenza risulta difficile poter operare una differenza tra ciò che è reale e ciò si finge tale, tra una «coesistenza viva» (p. 43) e una «prossimità morta» (ibid.). Nel momento in cui il dolore è costretto a vibrare in modo sotterraneo e a tacere anestetizzato dagli analgesici, esso viene cercato dall’individuo mediante degli eccessi rovinosi, messi in atto alla ricerca della certezza di essere ancora vivi. L’algofobia si converte in un’algofilia sfrenata e innaturale.

L’autore de La società senza dolore finisce per accusare l’algofobia di intorpidire persino il movimento «della formazione dialettica dello spirito» (p. 52), che necessita di un passaggio obbligato per il negativo, superando nel dolore la contraddizione fino a conquistare, hegelianamente, la «verità assoluta». L’ἄλγος è il segreto delle avventure dello spirito, che, invece di dileguarsi o perdersi nella sofferenza, risorge e si afferma: «senza dolore non c’è neanche rivoluzione né rinnovamento radicale, non c’è Storia» (p. 56).

In un passaggio nevralgico, la riflessione si innalza fino all’analisi del nesso essere-dolore. Il riferimento a una frase di Heidegger contenuta nel suo scritto Ernst Jünger diviene occasione per alludere a un’«ontologia del dolore» (p. 58), nell’abbandono di un approccio puramente esistentivo. L’analitica esistenziale heideggeriana, nella considerazione dell’esistenza come ex-sistenza, oltrepassamento continuo della realtà verso la possibilità, appare incontrare il favore dello scrittore de La società senza dolore, impegnato a criticare la tirannia dell’Uguale e la quotidianità «deiettiva» (per esprimersi come l’Heidegger di Essere e tempo) neoliberale.

Il penultimo paragrafo mette in evidenza un veloce declino della sensibilità, che non dipende più soltanto dalla strumentalizzazione disciplinare dei mezzi di produzione cinematografica e fotografica, ma è dovuto soprattutto alla completa trasformazione del cittadino in consumatore. Se la manipolazione dell’intrattenimento del XX secolo, esercitata attraverso mezzi multimediali, produceva uno stordimento e la nascita di un’indifferenza generalizzata negli individui, la conclusione di Han è che la mancata empatia neoliberale nasce dal fatto che l’altro uomo è oggettualizzato e guardato di conseguenza come una tra le tante cose da consumare. Lo sguardo si posa sugli esseri umani come se si posasse su degli oggetti. Il consumatore appare, nelle pagine dell’autore, come guidato da un’arroganza bestiale che si converte in frustrazione nell’impattare con il temuto non potere.

Per quanto la tecnologia si impegni a sfondare le porte dell’inaccessibile, si scontra con l’evidenza che l’altro non è afferrabile come vorremmo. A schiudere la dimensione dell’alterità ci pensa l’amore, ma ciò prevede un costo: il rischio del vincolo e l’esposizione alla sofferenza, un prezzo troppo alto e rischioso da affrontare per la codardia dell’individuo assuefatto alla vita confortevole. Tuttavia, la società neoliberale ha trascinato anche l’amore nei circuiti spietati dei meccanismi economici, fabbricando la forma di un amore surrogato, con la promessa allettante di amori frivoli senza contrappesi emotivi.

L’ultimo paragrafo costituisce quasi un’appendice ragionata che accoglie la portata di una riflessione maturata nel succedersi delle pagine. Byung-chul Han spinge il lettore a interrogarsi sulla natura in cui ha preso forma la vita, chiedendosi se in essa l’uomo si sia affermato come der Letzte Mensch nietzschiano. Il filosofo sudcoreano motiva la propria distanza sul tema dell’Ultimo uomo dal pronostico presente nel saggio jüngeriano (Über den Schmerz), considerando non superata, ma ancora attuale, l’identificazione tra l’ultimo uomo e l’individuo del XXI secolo, giunto a sacrificare anche «l’idea liberale di libertà» (p. 76). Ciò favorisce lo sviluppo di un potere psicopolitico che, sfruttando il timore della fragilità umana, si insidia nelle dinamiche vitali fino a sollecitare l’autodenudamento digitale dei soggetti per affermarsi in modo invasivo. Anche le considerazioni di Francis Fukuyama (soprattutto in La fine della storia e l’ultimo uomo) sull’ultimo uomo, dal punto di vista di Han, non sono condivisibili, poiché il politologo non riesce a scorgere che la natura del soggetto in quanto Letzte Mensch non è strettamente legata alla democrazia liberale, ma va interpretata come «una manifestazione genuina della modernità» (p. 74). Inoltre, sulle sorti del futuro il filosofo sudcoreano conferma la propria distanza dalla profezia di un’inversione di tendenza ipotizzata da Fukuyama, che sarebbe innescata dall’insofferenza per il grado di noia raggiunto in una società dove è scomparsa la «megalotimia» (p. 73).

Il pregio de La società senza dolore consiste nell’aver saputo racchiudere in una manciata di pagine la complessità di un argomento che ci interessa intimamente, realizzando l’obiettivo che si pone: illuminarci sulla connessione tra algofobia e società neoliberale. La cura nella scelta dei temi rivela un’approfondita e scaltra conoscenza testuale che si conferma nell’appropriatezza delle fonti cui riferirsi. La trattazione risulta, tuttavia, grandemente debitrice alle linee portanti che sorreggono il saggio di Jünger, Sul dolore, il cui rimaneggiamento da parte del pensatore tedesco dopo quasi cinquant’anni rende le argomentazioni valide per un’appropriazione ancora attuale. Il limite de La società senza dolore riguarda la concezione di Han sull’ultimo uomo, poiché non sviluppa appieno la complessità del problema, limitandosi, nel contrastare le posizioni di Fukuyama e di Jünger, a accennare alla prospettiva transumanista, che prevede il superamento dell’era dell’ultimo uomo, verso un’esistenza non sovraumana, bensì inumana. È proprio Jünger, nel suo saggio, Sul dolore, a parlare dell’impossibilità di trapiantare artificialmente in una società la concezione eroica del mondo, insita nell’essere umano destinato a appartenervi «per diritto di nascita», visione che non può essere estesa al pubblico senza scadere nella forma di un vuoto concetto universale. Appare evidente che a muovere il saggio di Byung-chul Han sia la constatazione di una desolazione esistenziale che trova causa nell’innaturale rigetto della fragilità, interpretato attraverso l’emergere di un sintomo che pretende ascolto: l’algofobia. Lo scopo dell’autore è farla parlare per rivelarci, a partire dalla sua natura di significante, il rimosso. Sebbene la paura della morte nasca insieme alla vita e muoia con essa, l’umanità ha provato nel corso dell’evoluzione innumerevoli rimedi per mitigarla, tra di essi la ricerca di un piacere catastematico, raggiunto mediante esercizi di aponia e atarassia. In un clima politicamente incerto la paura del dolore e della morte si acuisce drasticamente. La differenza che corre tra l’algofobia epicurea, nata sul terreno di una delusione politica, la caduta della democrazia di Atene, e l’algofobia neoliberale, sorta in un clima di disinteressamento politico, consiste nell’accettazione della realtà della morte, e, soprattutto, nella concezione riservata al corpo, che non coincide tout court con la vita, ma ne rappresenta piuttosto un avamposto. Nella società neoliberale la vita si trascina come nudo corpo, essa «non è umana, bensì non morta» (p. 79). La risposta al perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite passa per la presa coscienziale dello status in cui versa l’esistenza.

Ivana Porpora

S&F_n. 26_2021

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