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Spazio, ambiente e mondo in Max Scheler. Dall’antropologia filosofica alla psicopatologia fenomenologica

Autore


Lorenzo Cavallo

Università degli Studi di Napoli Federico II

Lorenzo Cavallo è Dottorando in Scienze Filosofiche presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II


  1. Introduzione
  2. Spazialità vissuta e movimento
  3. Scheler tra Uexküll, Bergson e Nietzsche
  4. Spazio vegetale e ambiente animale
  5. Chiusura ambientale e apertura al mondo
  6. Lo spazio del mondo tra fenomeno del vuoto ed eccedenza di fantasia
  7. Antropogenesi e spazialità tra Scheler e Sloterdijk
  8. Binswanger lettore di Scheler: il vuoto del cuore e la psicopatologia dello spazio
  9. Conclusioni

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S&F_n. 32_2024

Abstract


Space, environment and world in Max Scheler. From philosophical anthropology to phenomenological psychopathology

The aim of this contribution is to use some hermeneutic categories borrowed from the reflections of Max Scheler (1874-1928) to interpret the complex relationship between man and space. First of all, the relationship between lived spatiality and vital movement will be analyzed by integrating Scheler's point of view with that of Erwin Straus (1891-1975). Afterwards it will be described how Scheler uses the concept of Umwelt by Uexküll (1864-1944) through the mediation of Bergson and Nietzsche to distinguish the essential characteristics of different living beings. To understand the peculiarity of the human openness to the world, the concepts of empty space and excess of imagination will be illustrated by crossing some of Sloterdijk's reflections with those of Scheler. Finally, the influence of Scheler's reflection on space on Ludwig Binswanger (1881-1966) and the role that these concepts can play in understanding the psychopathology of spatiality will be shown.

Con il concetto di sfera viene coperto il vuoto che si spalanca tra il concetto di ambiente e il concetto di mondo, vuoto fino a oggi ampiamente trascurato dalle teorie dello spazio

Sloterdijk

  1. Introduzione

Se tutto ciò che esiste fisicamente intrattiene una qualche forma di rapporto con lo spazio, del tutto peculiare è la posizione (Stellung) assunta dagli esseri viventi, in generale, e dagli esseri umani in particolare, nei confronti della dimensione spaziale. Lo scopo del presente contributo è dunque quello di utilizzare alcune categorie ermeneutiche mutuate dalle riflessioni di Max Scheler (1874-1928) per interpretare il complesso rapporto tra uomo e spazialità.

L’interesse di Scheler per la dimensione dello spazio risale agli albori del suo avvicinamento alla fenomenologia, nel contesto dei circoli di Monaco e Gottinga. Nel luglio del 1907 tenne infatti, all’interno dello «Psychologischer Verein» – la società filosofica degli allievi di Theodor Lipps (1851-1914) –, una conferenza intitolata Sulla fenomenologia dello spazio in cui pose il problema di «mediante quali processi l’uomo raggiunge una conoscenza della posizione dei corpi nello spazio»[1].

Scheler ritorna poi ad occuparsi della spazialità – questa volta declinata in senso biologico, sotto forma del rapporto tra ambiente e movimento istintivo – in uno dei corsi tenuti a Monaco poco prima dello scandalo che lo portò a perdere l’abilitazione all’insegnamento universitario – si tratta specificamente del corso del semestre invernale 1908-1909 intitolato Die erkenntnistheoretischen Grundlagen der Biologie, di cui sono stati pubblicati, nell’opera omnia di Scheler, diversi appunti preparatori con il titolo Biologevorlesung (1908/09)[2].

Da allora, passando attraverso gli strumenti della fenomenologia e fino agli esiti della sua antropologia filosofica, Scheler non ha mai smesso di interrogarsi sulla natura della spazialità e sulle sue conformazioni essenziali.

  1. Spazialità vissuta e movimento

Prima di porsi la questione della «datità spaziale della visione naturale del mondo»[3], così come si dà nell’uomo e negli altri esseri viventi, bisogna affrontare, seppur brevemente, una questione prettamente teoretica.

Nel porsi il problema filosofico e fenomenologico dello spazio bisogna innanzitutto distinguere lo spazio – come concetto della geometria[4] o della fisica – dalla spazialità. Se la spazialità (Räumlichkeit) rappresenta «in generale un simultaneo essere di qualcosa di esterno rispetto a qualcos’altro»[5], con il concetto di spazio s’intende la determinata forma che questo può assumere – come ad esempio la tridimensionalità. È di conseguenza la spazialità «ciò che fa di ciascuno spazio di qualsivoglia forma per l’appunto uno spazio»[6]. La spazialità designa insomma quella «molteplicità di datità»[7] che si articolano nel loro essere esterne le une alle altre.

In accordo con Kant[8], Scheler ritiene che lo spazio è «un oggetto unitario (…) e una forma indipendente di ordinamento delle cose e delle sensazioni» e che «la spazialità è pre-data rispetto a tutti i contenuti sensibili»[9]. Quelli che Scheler chiama gli «Spazi sensoriali» (Sinnesräume) – come lo spazio ottico, lo spazio tattile, lo spazio cinestetico e lo spazio acustico e vibratorio[10] – sono preceduti dalla spazialità vissuta e dalla sua esperienza fondamentale. Se così non fosse – se non ci fosse un’esperienza vissuta in grado di unificare i contenuti percettivi dei vari spazi sensoriali – non avremmo una visione unificata dello spazio ma solo una serie di frammenti percettivi sconnessi. È infatti abbastanza palese che «nessun singolo spazio tra questi spazi sensoriali, e altrettanto poco, la loro somma coincide con le proprietà dello spazio dato nella visione naturale del mondo»[11].

Scheler, pertanto, rintraccia l’esperienza centrale della spazialità nell’attività vitale del movimento: «la “spazialità” è pura possibilità (…) del movimento»[12], nel senso che lo «spazio motorio primitivo» conduce ad una «”coscienza di ciò che circonda”»[13]. Quindi ciò che caratterizza la spazialità vissuta è la capacità e la possibilità del movimento. Il genere di movimento qui in questione non è però un movimento qualsiasi, bensì il movimento vitale (Vitalbewegung), ossia un movimento spontaneo prodotto in autonomia dallo stesso essere vivente che si muove, quello che Scheler chiama auto-movimento (Selbstbewegung). Per comprendere appieno le condizioni di possibilità del potersi muovere – che per Scheler caratterizza il rapporto dell’essere vivente con la dimensione spaziale – è utile riprendere le considerazioni di Erwin Straus (1891-1975) sulla psicologia e fenomenologia del movimento vissuto.

Nela saggio Le forme della spazialità. Il loro significato per la motricità e per la percezione (1930)[14] – uno dei primi contributi fenomenologici, insieme a quelli di Binswanger e Minkowski, sulla psicopatologia della spazialità – Straus descrive la natura di quello che egli definisce lo “spazio presenziale” la cui «esperienza vissuta presenziale si realizza nel movimento»[15]. Lo psichiatra e filosofo tedesco ritorna poi sul tema del movimento vissuto in una conferenza alla Sorbona del 1935 pubblicata poco dopo con il titolo Le mouvement vécu (1935-1936)[16]. Nella conferenza Straus si chiede «Che struttura ha lo spazio del movimento vissuto?»[17] e risponde argomentando che il movimento vissuto non è il movimento descritto dalla fisica classica, il quale, sotto l’influenza della concezione cartesiana, misconosce la «relazione intrinseca tra sensazione e movimento»[18]. Cartesio nella Sesta meditazione aveva affrontato il movimento – in un modo destinato a dettare «per secoli il destino della psicologia del movimento»[19] – scindendo irrimediabilmente sensazione e movimento, come res cogitans e res extensa, con la conseguenza che «il soggetto viene separato dal mondo»[20]. Straus contrappone dunque a quest’ultima concezione «una teoria del movimento vissuto»[21] in grado di recuperare la consapevolezza che «noi siamo di fatto nello spazio» e che «solo in quanto io sono un essere che esiste nel mondo, posso sentire e posso muoversi»[22]. Dunque, sulla stessa line di Scheler, Straus chiarisce che «la mobilità è un fattore essenziale e costitutivo della nostra esistenza» in quanto «è la mobilità a rendere possibili i nostri rapporti con il mondo-ambiente, e a influire in tal modo su tutte le nostre sensazioni»[23].

Scheler era talmente persuaso del ruolo fondamentale dell’auto-movimento negli esseri viventi tanto da fondere percezione e movimento, anticipando – in un certo senso – l’approccio enattivo della cognizione incarnata secondo cui l’esperienza del mondo sorge dal rapporto sensomotorio che l’organismo intrattiene con l’ambiente[24].

Nel testo Conoscenza e lavoro (1926) Scheler – in un confronto tra la sua posizione e quella del pragmatismo – sviluppa il tema del rapporto tra percezione e movimento:

Una legge biologica generale (…) che vale per la spazialità di ogni struttura possibile, è quella per cui il tipo di movimento dell’animale e la percezione della struttura spaziale di un ambiente corrispondono perfettamente, e che questa stessa struttura spaziale contiene sempre le forme spaziali più elementari che soddisfano il suddetto concetto dinamico di direzione[25].

 

Nell’ottica di Scheler «sensazione», «tendenza pulsionale» e «atto motorio» sono le tre funzioni basilari – strettamente interconnesse – che fondano il «sistema percettivo sensibile»[26]. Di conseguenza: «le possibilità delle qualità sensoriali possedute da un organismo animale non sono mai superiori alle possibilità delle sue capacità di movimento spontaneo, anzi l’una è in funzione dell’altra»[27]. Attenzione passiva, impulsi istintivi e innervazioni motorie condizionano, psichicamente e fisiologicamente, la percezione in un modo tale che il «processo motorio» conduce dunque a una «cognizione valutativa»[28].

Di conseguenza la legge del rapporto tra percezione e movimento vitale può essere così definita:

un organismo ha soltanto quelle qualità sensibili, come alfabeto della sua possibile immagine del mondo, che possono essere segni di richiamo e di riconoscimento degli oggetti, significativi per il suo comportamento istintivo-motorio. La sensazione appare alla fine soltanto come mezzo per fissare gli Indices delle resistenze presenti o possibili, che si contrappongono ai movimenti attivi dell’organismo, per controllare, vigilare con l’aiuto di questi Indices gli atti motori, e per dosare miratamente l’innervazione responsabile del movimento prima del suo successo o fallimento[29].

 

Che questa intima relazione tra cognizione, percezione e movimento sia, in termini biologico-vitali, qualcosa di molto arcaico evolutivamente parlando – e in un certo senso all’origine dello sviluppo della specifica organizzazione nervosa – risulta evidente se rivolgiamo il nostro sguardo al mondo delle formiche. Com’è noto, le formiche rappresentano una delle più numerose famiglie di esapodi del phylum degli artropodi. Fanno parte dell’ordine degli imenotteri e sono insetti eminentemente eusociali – cosa che ha spinto il noto mirmecologo americano Edward O. Wilson (1929-2021) a descrivere una colonia di formiche nei termini di un superorganismo[30]. Si stima che si siano evolute dalle vespe tra i 140 e i 168 milioni di anni fa[31], colonizzando buona parte del globo terreste, ovunque la temperatura non fosse al di sotto dei 10 gradi. Grazie agli studi condotti sulla loro organizzazione sociale e sui loro metodi di comunicazione è stato possibile accertare il meccanismo della trasformazione sensomotoria (sensorimotor transformation) attraverso il quale le formiche sono in grado di trasformare gli stimoli sensoriali – come i segnali biochimici rilasciati sotto forma di feromoni da altre formiche per comunicare la presenza di cibo o di nemici e percepiti tramite apposite antenne – direttamente in comandi motori.

Un’altra prova di questo rapporto di fondazione tra sistema nervoso e movimento proviene dalla biologia marina, ossia da quel campo di studio che si occupa degli organismi provenienti dal primo ambiente nel quale è sorta la vita. Il caso più interessante è quello delle ascidie, una classe di tunicati comprendente poco meno di 3000 specie, diffuse nelle acque di tutto il mondo – soprattutto nell’oceano Indo-Pacifico[32]. Ciò che rende oltremodo curiosa la loro storia è che questi organismi, se allo stadio adulto vivono ancorati al fondale marino – e, in quanto esseri viventi sessili, sono dunque sprovvisti di un sistema nervoso –, diversamente, nella fase larvale della loro vita, dovendo essi ancora trovare il luogo giusto dove stabilirsi, possiedono sia un sistema nervoso che la capacità del movimento attivo. Nel momento in cui trovano un luogo appropriato nel quale collocarsi, si trasformano in organismi sessili, “digerendo” – cioè incorporando – il sistema nervoso perché non serve più loro – ad eccezione di pochi neuroni necessari per i meccanismi di filtraggio relativi al nutrimento[33]. La parabola delle ascidie dimostra come la comparsa del sistema nervoso, nel corso dell’evoluzione, abbia avuto lo scopo di implementare le capacità del movimento attivo.

Dopo aver mostrato lo stretto rapporto tra spazialità vissuta e movimento, è arrivato il momento di analizzare più da vicino come i vari organismi viventi vivono ed esperiscono il proprio spazio.

 

  1. Scheler tra Uexküll, Bergson e Nietzsche

Se la spazialità nella sua essenza è possibilità del movimento vitale, il primo livello nel quale essa si manifesta è rappresentato dal concetto di ambiente.

Nelle riflessioni sviluppate da Scheler nella direzione della spazialità vissuta e del movimento vitale è più che evidente l’influenza del concetto di Umwelt elaborato dal biologo estone Jakob von Uexküll (1864-1944). Scheler è stato infatti tra i primi ad introdurre in Germania il lavoro dello studioso estone[34], e già in una recensione[35] del 1914 del testo di Uexküll, Bausteine zu einer biologischen Weltanschauung (1913), il filosofo di Monaco rintraccia nel lavoro del biologo – oggi considerato uno dei padri dell’ecologia e dell’etologia moderne – il tentativo degno di nota di dotare la biologia di un fondamento filosofico. L’influenza dello scienziato estone è del resto già evidente in uno dei primi scritti fenomenologici di Scheler, La dottrina dei tre fatti (1911-12)[36] dove quest’ultimo cita espressamente il testo di Uexküll Umwelt und Innerwelt der Tiere (1909) – insieme a due testi di Pawlow e Bergson – per quanto riguarda il rapporto tra ambiente ed essere vivente che verrà poi ulteriormente analizzato nel Formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori (1913-16)[37].

Prima di approfondire il punto di vista di Scheler, occorre ripercorrere – seppur brevemente – la posizione originaria di Uexküll[38]. Quest’ultimo, filosoficamente parlando, è – e si considera – un kantiano[39]. Dall’idealismo trascendentale Uexküll riprende soprattutto l’importanza del Ich denke, cioè dell’appercezione trascendentale, e la concezione di tempo e spazio come forme a priori della sensibilità[40]. Com’è chiaro, questa impostazione filosofica gioca un ruolo fondamentale nell’impianto teorico del concetto di Umwelt. Se il mondo, in quanto cosa in sé – o noumeno – è inaccessibile alla coscienza e all’esperienza, non esiste un mondo oggettivo e universale al quale accedere, ma solo una molteplicità – potenzialmente infinita – di ambienti specie-specifici. Uexküll descrive l’Umwelt come una sorta di bolla di sapone che circonda ogni essere vivente seguendolo ovunque esso vada[41]. Esso si costituisce come l’insieme di mondo percettivo e mondo operativo, per cui, il circolo funzionale (Funktionskreis) che caratterizza ogni comportamento animale ha luogo proprio nell’interconnessione di marche percettive e marche operative, di percezione e azione.

Scheler invece, antikantianamente, legge la teoria dell’Umwelt di Uexküll in relazione alla sua idea dell’istanza di un senso esterno come analizzatore del materiale percettivo legato alla rilevanza vitale dell’organismo. Il filosofo tedesco intende dunque l’Umwelt come correlato essenziale della sfera del Leib – così come, lo vedremo più avanti, l’uomo trova il suo correlato essenziale nel mondo (Welt) – e rilegge Uexküll attraverso Bergson e Nietzsche[42] – due dei tre ispiratori, secondo il filosofo di Monaco, di quella filosofia della vita che ha trovato nella fenomenologia il suo metodo più efficace[43]. Ciò che Scheler riprende da entrambi è un modo di concepire la vita e l’evoluzione in generale degli esseri viventi nel loro rapporto con l’ambiente.

Ciò che invece accomuna nel profondo le esigenze teoriche dei due autori – Scheler e Uexküll – è l’antidarwinismo[44] di fondo. Per Uexküll il concetto di adattamento (Anpassung) va sostituito con quello di adeguatezza (Einpassung): un essere vivente non si adatta al proprio ambiente, quanto piuttosto è adeguato ad esso[45]. Scheler d’altro canto, recupera la polemica contro i concetti darwiniani di adattamento e di lotta per l’esistenza da Nietzsche[46] e da Bergson la critica del circolo vizioso – antropomorfico e antropocentrico – dell’evoluzionismo di Spencer[47].

  1. Spazio vegetale e ambiente animale

Ma veniamo ora al rapporto che le diverse forme di vita intrattengono con lo spazio. Nella nota conferenza di Darmstadt del 1927 – poi divenuta saggio – La posizione dell’uomo nel cosmo (1928) Scheler introduce i capisaldi della sua antropologia filosofica, il cui scopo principale è quello di comprendere «l’essenza dell’uomo in rapporto alla pianta e all’animale»[48]. Per Scheler la «posizione particolare dell’uomo» può essere compresa solo analizzando «l’intera struttura del mondo biopsichico»[49], partendo dagli organismi più elementari al fine di individuare le caratteristiche essenziali che differenziano gli esseri viventi dagli oggetti inanimati e tra loro stessi. La prima caratteristica degli esseri viventi è pertanto quella di essere dotati di un «esser-interno»[50] (Innesein).

Il mondo inorganico è ovviamente sprovvisto di qualunque esser-interno, mentre quello organico si distingue proprio in virtù della presenza di un centro ontologico che si manifesta appunto in una determinata forma dell’esser-interno. Ciò che quindi differenzia, in definitiva, il mondo inorganico da quello organico – e, all’interno di quest’ultimo, le varie forme di vita della pianta, dell’animale e dell’umano – è la conformazione specifica assunto dall’esser-interno.

Questa caratteristica è ciò che rende possibile la dimensione dell’affettività, il cui «livello più elementare» è rappresentato da quello che Scheler chiama l’«impulso dell’affezione vitale» (Gefühlsdrang)[51]. In questa particolare caratteristica – che accomuna tutti gli esseri viventi – affezione e pulsione formano un tutt’uno, ma la cosa più importante è che i suoi «due unici stati (…) consistono unicamente in un semplice “muoversi verso un qualcosa”, ad es. verso la luce, oppure in un “allontanarsi da un qualcosa”»[52]. Il movimento si caratterizza ancora, dunque, come l’elemento essenziale della vita in quanto tale. Ma procediamo per gradi.

La forma di vita più elementare presa in considerazione da Scheler è la pianta, conviene dunque partire da essa per comprendere che tipologia di rapporto intrattiene con lo spazio e con il movimento. Da una parte Scheler chiarisce che le piante abbiamo – in quanto loro propria forma dell’impulso all’affezione vitale – la capacità di “muoversi” verso qualcosa come la luce ad esempio – quello che in botanica si chiama fototropismo positivo. D’altra parte, però, rifacendosi alle riflessioni del botanico olandese Anton Hendrik Blaauw (1882-1942)[53], Scheler sostiene che non sia possibile «attribuire alla pianta (…) un qualche tropismo specifico»[54] in quanto «le manifestazioni di movimenti provocati da stimoli, che prima si pensavano riconducibili a queste facoltà, su sono invece rilevati quali parti integranti dei generici movimenti di crescita della pianta»[55]. Insomma, detto in altre parole, «certo l’impulso dell’affezione vitale, che è riscontrabile nella pianta, assume una qualche forma di orientamento (…) secondo le direzioni fondamentali del “sopra” e del “sotto”, della luce e della terra»[56]; allo stesso tempo però non si tratta di «una direzione precisa verso determinate parti e stimoli dell’ambiente-proprio»[57]. Per Scheler è implicito che «la pianta non sia capace di un movimento locale spontaneo, come invece è tipico dell’animale» in quanto essa «non ha bisogno di spostarsi per procurarsi il nutrimento, come invece fanno gli animali»[58]. La pianta è dunque sprovvista di sensazione, pulsione e movimento – e di conseguenza sia di un sistema percettivo, che di un sistema nervoso e di «qualsiasi retroazione degli stati organici verso un centro proprio»[59]; ma – e questo è fondamentale ai fini del nostro discorso – «la pianta può far a meno della sensazione proprio perché essa, il più grande chimico fra tutti gli esseri viventi, elabora il proprio materiale costitutivo organico direttamente dalle sostanze inorganiche»[60].

La pianta, quindi, come essere vivente situato è dotata di un centro ontologico e di un rudimentale esser-interno, non ha però alcuna forma di retroazione verso questo centro – come lo è ad esempio la sensazione –, per cui, nel linguaggio di Scheler, possiamo dire che la pianta è data a se stessa una sola volta[61].

Come si può notare, il punto di vista di Scheler è quello per cui, sebbene sia palese nelle piante un primordiale «muoversi verso qualcosa» e «allontanarsi da qualcosa» in virtù del loro Gefühlsdrang – quello che potremmo chiamare un proto-movimento –, allo stesso tempo esse sono prive di un movimento spontaneo attivo – così come del relativo sistema percettivo[62] – perché non ne hanno un reale bisogno vitale. Nella modalità del suo proprio essere-nello-spazio la pianta è – come tutti gli organismi sessili – tutt’uno con lo spazio.

Con il mondo animale però tutto cambia. L’animale per nutrirsi è costretto a muoversi – in tal senso è meno indipendente rispetto alle piante[63] – e ciò modifica ulteriormente il rapporto che esso intrattiene con lo spazio. Come già accennato, il sistema percettivo sensibile – che accomuna tutti gli animali – si compone a partire dall’interconnessione tra pulsioni, sensazioni e movimenti. Questo, di conseguenza, significa che la sfera del sentire è direttamente proporzionale alle capacità del movimento.

Nell’animale, inoltre, per la prima volta, compare il primo livello di quel «rivolgimento» (Rückwendung) su di sé – o «primitiva re-flexio»[64] –, correlato alla sensazione, che dà luogo alla coscienza estatica – un tipo di sapere immediato senza però alcun riferimento all’io. L’animale, quindi, avendo una forma primitiva di retroazione verso il centro, ed essendo, dunque, capace di sensazione, movimento e coscienza, rispetto alla pianta «è dato a se stesso una seconda volta» [65]. La modalità principale nella quale si manifesta questa forma di «sapere estatico»[66] è rappresentata dall’istinto.

Analizzando il comportamento istintivo Scheler ne individua cinque caratteristiche essenziali: l’istinto 1) «deve essere conforme ad un senso»; 2) «deve avvenire secondo un certo ritmo»; 3) deve «reagire solo a quelle situazioni tipiche ricorrenti che possiedono una qualche rilevanza biologica per la specie»; 4) deve essere «nelle sue linee essenziali, innato ed ereditario»; ed infine 5) deve essere «un comportamento “concluso” fin dall’inizio»[67]. Da questa descrizione emerge chiaramente lo strettissimo rapporto che intercorre tra il comportamento istintivo e la struttura del mondo-ambiente specie-specifico, nel senso che «tutto quello che un animale può cogliere o esperire risulta predeterminato e dominato a priori dalla relazione fra il suo istinto e la struttura del suo ambiente-proprio»[68]. Nell’istinto, in sostanza, si realizza «un’inscindibile unità di pre-sapere e azione» proprio perché si tratta di una «specializzazione dell’impulso dell’affezione vitale» e perché «l’istinto è già orientato verso quegli elementi dell’ambiente-proprio, particolari e rilevanti per la specie, che ricorrono con maggior frequenza»[69]. L’animale, dunque, pur essendo “libero” di muoversi, per via dell’istinto vive prigioniero del suo mondo-ambiente.

 

  1. Chiusura ambientale e apertura al mondo

Ciò che più di tutto caratterizza l’uomo è che in lui l’ambiente si trasforma in mondo. Quando si pensa al concetto di mondo in area fenomenologica di solito viene in mente il lavoro di Martin Heidegger. Dopo aver caratterizzato il Dasein come essere-nel-mondo (in-der-Welt-sein) in Essere e tempo (1927)[70], Heidegger ritorna sul concetto di mondo nelle lezioni del 1929-1930 poi confluite nelle Considerazioni sulla metafisica (1975). Qui il filosofo di Meßkirch, con lo scopo di delineare l’essenza del concetto di mondo, tenta un approccio di tipo comparativo articolato in tre tesi: «1. La pietra (l’ente-materiale) è senza mondo; 2. L’animale è povero di mondo; 3. L’uomo è formatore di mondo»[71]. Questo modo di impostare il problema ricorda non poco l’antropologia filosofica di Scheler[72].

Come già accennato nel paragrafo precedente, nella conferenza di Darmstadt Scheler analizza con particolare attenzione ciò che differenzia l’umano dall’animale e dal vegetale. La dimensione spirituale che caratterizza l’uomo si esprime e si manifesta soprattutto nel fatto che l’essere umano è «aperto al mondo»[73], cioè caratterizzato dall’apertura al mondo (Weltoffenheit)[74]. L’apertura dell’uomo al mondo ha una formula ben precisa:

Uomo ⇄ Mondo → → ···

La schiavitù dell’animale nei confronti del suo ambiente – la Umweltgeschlossenheit – si esprime invece nel seguente modo:

Animale ⇄ Mondo-ambiente

Nella concretezza, ciò che differenzia profondamente le due formule, è che «l’uomo possiede fin dall’inizio (…) una propria visione dello spazio» la quale, grazie ad un peculiare processo di «autocentralizzazione» (Selbstzentriertheit) rende l’uomo «capace di connettere tutti i dati sensibili alle corrispondenti tendenze pulsionali, riferendoli pertanto ad un unico “mondo”» producendo di conseguenza «un vero e proprio spazio del mondo (Weltraum), capace di permanere come sfondo stabile e indipendente dai movimenti locali»[75].

Per comprendere il ruolo fondamentale dei concetti di apertura al mondo e di chiusura ambientale – e con loro il nocciolo della differenza tra umano e animale – bisogna però rivolgere l’attenzione al problema del rapporto tra spirito (Geist) ed impulso primordiale (Drang), soprattutto in relazione al ruolo esercitato dalla filosofia di Schelling sull’ultimo Scheler.

Come ha ampiamente dimostrato Cusinato, dietro alcuni concetti chiave dell’antropologia filosofica di Scheler ci sarebbe l’influenza della filosofia della natura di Schelling, soprattutto per quanto riguarda i concetti di Stufenfolge e di Excentricität, l’idea della realtà come resistenza (Widerstand) e il rapporto tra Geist e Drang[76]. Scheler si sarebbe interessato a Schelling – approfondendone la lettura – tra il 1922 e il 1923 – nel momento, cioè, del passaggio dalla fase prettamente fenomenologica a quella antropologica del suo pensiero. Come scrive infatti Cusinato, «dopo l’incontro con Schelling del 1923 Scheler descrive la persona come la compenetrazione (Durchdringung) di Geist e Drang al livello più elevato»[77]. Com’è noto, Schelling, negli scritti dedicati alla Naturphilosophie, riprende il concetto di auto-organizzazione elaborato da Kant nella Critica del giudizio, ponendolo al centro di una filosofia dell’organismo in grado di emanciparsi dalla visione meccanicistica della natura[78].

Il punto di svolta è rappresentato qui, da una parte, dal concetto di compenetrazione (Durchdringung) tra Natur e Geist, e, dall’altra, dall’idea che l’auto-organizzazione della natura proceda attraverso una di una serie di livelli (Stufenfolge) che dimostrano una complessità sempre maggiore. Con il concetto di compenetrazione il focus si sposta rispetto alla classica opposizione dualistica, delineando invece una condizione di continuità tra natura e spirito tale per cui «La natura deve essere lo Spirito visibile, lo Spirito la natura invisibile»[79].

È proprio grazie al concetto di compenetrazione che Scheler sviluppa la teoria di una «reciproca compenetrazione di uno spirito inizialmente impotente e di un impulso primordiale […] originariamente cieco nei confronti di tutte le idee e di tutti i valori spirituali»[80]. L’idea dell’organismo come forma di auto-organizzazione – volta a contrastare principalmente l’idea meccanicistica della natura – e quella di una serie graduale di livelli in cui si struttura questa auto-organizzazione, hanno di conseguenza avuto una forte influenza nell’ultimo Scheler anche rispetto alla concezione di spirito che si delinea dopo il 1923. Per comprendere dunque la reale cifra della differenza tra uomo e animale bisogna cercare di cogliere la specificità del concetto di Geist nell’ultimo Scheler[81].

Scheler utilizza il concetto di Geist – «termine sul quale solo pochi hanno in mente qualcosa di preciso»[82] – per descrivere la «posizione particolare»[83] dell’uomo, in quanto si tratta di un termine abbastanza ampio da includere vari aspetti della peculiarità umana, come la ragione, il pensiero ideativo[84] e determinati atti emozionali e volitivi[85].

Il punto qui non è che l’uomo sia l’unico essere dotato di spirito, quanto che in lui la dimensione spirituale raggiunge una conformazione particolare. Si tratta di un tema estremamente importante dell’antropologia scheleriana, perché, come nota il filosofo tedesco, la «relazione fra spirito e vita […] è stata fraintesa e trascurata da tutta una serie di importanti concezione filosofiche relative all’uomo»[86]. Se l’effetto della conformazione umana del Geist «consiste nella capacità esistenziale di emanciparsi […] nei confronti del potere, della pressione e della dipendenza dall’organico»[87], la funzione alla base di questa emancipazione è rappresentata dalla capacità umana «di “oggettivare”»[88] se stessi, le proprie pulsioni e gli oggetti del mondo. Nell’uomo una re-flexio di secondo grado – in Idealismo-realismo Scheler parla di «actus re-flexivus» – produce una forma peculiare di autocoscienza (Selbstbewußtsein) – ossia «un sapere che verte sul riferimento all’io […] dell’atto compiuto»[89] –, strettamente intrecciata alla «capacità di oggettivazione» (Sachlichkeit)[90], in grado di liberarlo dalla dimensione estatica che caratterizza l’animale. Con la «capacità di cogliere l’esser-oggetto»[91] delle cose, l’umano sviluppa di conseguenza la capacità di percepire le sue pulsioni come proprie, di oggettivarle e quindi di dominarle. «l’uomo – scrive dunque Scheler – è dato a se stesso addirittura una terza volta: nell’autocoscienza e nella capacità di oggettivare i suoi stessi processi psichici»[92].

Il dramma del comportamento umano può di conseguenza essere scandito in tre fasi o atti: nella prima fase il comportamento è dettato dalla capacità di oggettivazione – che l’animale non possiede, vivendo immerso estaticamente nell’ambiente –; nella seconda fase si verifica un’«azione libera» del «centro personale» nei confronti delle proprie pulsioni; la terza fase è infine quella che conduce ad una «modificazione […] dell’oggettività di una cosa»[93]. Nell’animale invece, più semplicemente, il primo atto è quello di uno stato psico-fisiologico dettato da una pulsione, che conduce ad una modifica dell’ambiente come reazione alla pulsione e che culmina nella conseguente modifica dello stato psico-fisiologico[94].

La distinzione tra animale e uomo – così come quella tra Umwelt e mondo – si rispecchia dunque nella differenza tra «immagine dell’ambiente» e «immagine del mondo»[95]. Per illustrare ciò di cui sta parlando Scheler pone l’esempio della luna: tutto ciò che sappiamo della luna grazie all’astronomia e all’astrofisica è ciò che costituisce l’immagine del mondo dell’oggetto “luna”. Per quanto riguarda invece l’«immagine-ambiente» dell’oggetto “luna”, «ora è una sfera dorata, ora una falce, ora è nascosta, ora è presente, ora ha questa o quella posizione nel cielo notturno», in quanto si tratta di una percezione empirica «relativa nel suo esistere alla nostra organizzazione psico-fisica e alla nostra posizione»[96]. L’animale è in grado di avere solo immagini-ambiente delle cose di cui fa esperienza, ed essendo sprovvisto della categoria di sostanza è sprovvisto anche di «un centro a partire dal quale esso possa rapportare ad una stessa cosa concreta (…) le funzioni psico-fisiche del suo vedere, udire, annusare»[97] a partire dal quale è possibile ricavare un’immagine del mondo – ossia un’immagine «completamente indipendente dalla propria organizzazione psico-fisica, dai propri sensi e dal loro orizzonte, come dai propri bisogni e dai propri interessi»[98]. Scheler riporta l’esempio di un cane, il quale «può vivere per anni in un giardino, andando spesso in ogni suo angolo, ma senza tuttavia per questo riuscire a farsi un’immagine complessiva del giardino stesso (…) che risulti indipendente dalla posizione del suo corpo»[99].

 

  1. Lo spazio del mondo tra fenomeno del vuoto ed eccedenza di fantasia

Cos’è dunque che permette nell’uomo la connessione tra i vari dati sensibili e le pulsioni, producendo di fatto l’autocentralizzazione costitutiva dello spazio-mondo?

La categoria fondamentale per interpretare fenomenologicamente lo spazio così come viene vissuto dall’uomo riguarda il concetto di “spazio vuoto” (Leerraumes) inteso come condizione di possibilità del «vissuto centrale della spazialità»[100] umana. Scheler analizza questo aspetto della spazialità vissuta soprattutto nel saggio Idealismo-realismo (1928) dove intreccia i temi dell’affettività, del movimento e della fantasia all’interno dei rapporti tra realtà, tempo e spazio. Come già accennato, per il filosofo di Monaco «La spazialità viene ottenuta muovendosi, prima che essa venga rappresentata e pensata» per cui essa trova la sua origine nell’«esperienza vissuta di un essere vivente di poter produrre certi movimenti in modo spontaneo»[101]. La datità dello spazio però – come possibilità di movimento, cioè come movimento «in “potentia”»[102] – si manifesta nella modalità prelogica di uno spazio vuoto da riempire attraverso il movimento: «Nella visione naturale del mondo lo spazio appare come un vuoto illimitato, che autenticamente precede e soggiace a tutte le cose e a tutti i movimenti e che nel suo essere è indipendente da tutte le cose e da tutti i movimenti»[103]. La forma dello spazio vuoto è lo sfondo di tutti i possibili movimenti e di conseguenza di tutte le possibili conformazioni della spazialità. La forma vuota dello spazio è un’immagine fittizia della realtà, ma è allo stesso tempo necessaria per la costituzione dell’immagine del mondo e dell’apertura al mondo.

Questo peculiare «fenomeno del vuoto»[104] (Leerphänomen) è ricollegato da Scheler ad una «fame istintiva (Triebhunger) di movimento spontaneo»[105] che conduce ad una «spinta dell’essere umano al movimento»[106] (Bewegungsdrang). La fame istintiva di movimento spontaneo, dunque, precede la percezione di qualunque oggetto nello spazio e dello spazio stesso così come l’immagine dello spazio vuoto precede ogni possibilità di movimento. All’origine tanto della fame istintiva quanto dello spazio vuoto vi sarebbe una caratteristica costitutiva dell’essere umano: l’inappagamento pulsionale (Triebunbefriedigung). Questa eccedenza di vuoto (Überschuß des “Leeren”) – da cui trae origine la fame istintiva di movimento – si manifesta come il correlato essenziale solamente in «un essere che costitutivamente vive in un’eccedenza di brama inappagata e tiene sempre per sé una parte del suo impulso vitale al movimento che è più grande di quello che esso libera»[107].

Nella sua dimensione antropologica la peculiarità dello spazio vissuto sta nello stretto rapporto tra intuizione dello spazio e fantasia pulsionale (Drangphantasie). Difatti nell’essere umano «il vissuto dello spazio è implicato già nelle immagini della fantasia pulsionale spontanea in modo tanto originario quanto originario è il modo in cui esso è implicato nella molteplicità a noi accessibili per mezzo dei sensi»[108]. Questo avviene grazie al fatto che «ogni volta che cogliamo un fenomeno di movimento, nell’aspettativa immediata ed estatica predisponiamo una sfera nella rappresentazione che già contiene in sé il “possibile” luogo futuro di ciò che si muove»[109]. L’«eccedenza di fantasia pulsionale»[110] (Triebphantasieüberschuß) anticipa dunque l’esito di tutto ciò che si muove, prefigurando l’aspetto della realtà.

Quindi, lo spazio vuoto, come immagine fittizia ma necessaria alla visione naturale del mondo, è la condizione di possibilità del manifestarsi della fame istintiva di movimento spontaneo che struttura l’aspetto del mondo: in primis sottoforma di immagini spontanee della fantasia co-date con le pulsioni e le tendenze primarie al movimento – quando l’atto concreto del movimento è ancora “in potentia” –; in secundis attraverso l’azione del movimento spontaneo e le correlate percezioni.

 

  1. Antropogenesi e spazialità tra Scheler e Sloterdijk

Ci si potrebbe però chiedere come effettivamente sia avvenuto – in termini filogenetici – il passaggio dalla chiusura dell’ambiente animale all’apertura del mondo umano, come cioè si sia realizzata quella peculiare posizione dell’uomo che lo contraddistingue come differenza ontologica. Scheler non chiarisce la genesi di questa trasformazione che distanzia uomo ed animale. La risposta più convincente a questo quesito fondamentale è stata però sviluppata da Sloterdijk nel concetto di sfera.

L’esposizione più idonea ai fini del seguente discorso è quella che il filosofo tedesco sviluppa nel saggio La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung[111] (2001). Secondo la visione antropotecnica, l’uomo va considerato come prodotto, così che la sua comprensione è intimamente legata alla comprensione della sua tecnica di produzione in quanto tale. La scommessa dell’onto-antropologia è dunque quella di «leggere l’estatica “posizione dell’uomo nel mondo” di Heidegger, come una situazione tecnogena»[112] interpretando il processo di ominazione come il percorso che ha condotto il preumano dall’Umwelt alla Lichtung in cui «venne prodotto il lampo, nella cui luce il mondo ha potuto illuminarsi come mondo»[113]. Il progetto di Sloterdijk si concretizza dunque analizzando, da una parte la natura delle «prototecniche spontanee» – come l’uso di strumenti rudimentali – e dall’altra la struttura delle primitive «comunità abitative»[114] – come luoghi originari della produzione umana. L’utilizzo delle pietre – litotecnica – da parte dei primi cacciatori, insieme alla costruzione delle prime abitazioni, avrebbe prodotto delle sfere come serre antropogenetiche – intese anche come incubatori o uteri sociali – il cui clima di sicurezza interno avrebbe favorito le trasformazioni essenziali per il «divenire uomo dei preominidi» e il «divenire mondo del premondo»[115].

Incrociando le idee di Scheler con l’approccio di Sloterdijk si può concepire la sfera come l’incubatore dello spazio vuoto. La sicurezza tipica della sfera avrebbe permesso il disimpegno da alcune dimensioni istintuali dell’animale provocando nuove forme di attenzione attiva – si tenga presente che per Scheler «l’evoluzione non è mai un mero progresso, ma sempre anche una decadenza»[116], cioè ad ogni nuova capacità corrisponde la perdita di qualcun’altra.

Per Sloterdijk «fu l’uso della pietra ad aprire l’orizzonte della prototecnica»[117] perché seguendo il lancio della pietra il pre-uomo sviluppò «la disposizione ad anticipare i risultati dei lanci»[118] – quella che per Scheler è la Triebphantasieüberschuß – e con la sensazione di successo del lancio comparve «il primo grado di una funzione di verità postanimale»[119]. Come Scheler nota in un saggio del 1913 anche gli animali superiori possono utilizzare degli oggetti per determinati scopi[120], ma ciò che fa di un mezzo (Mittel) un’utensile (Werkzeug) – così come lo fu per i primi ominidi – è il fatto che esso presenti «sempre una sua struttura significativa, che è posta solo in un secondo momento a servizio di determinati scopi e trasformata poco per volta da questi»[121]. Ora, siccome «l’utensile, considerato da un punto di vista vitale (…) è l’espressione e la conseguenza di una deficienza biologica»[122] – è, cioè, il risultato di quell’evoluzione che da un lato è uno sviluppo e dall’altro una regressione – l’origine della struttura significativa dello strumento può essere rintracciata nella comparsa delle prime sfere.

Si può dire quindi che il lancio – in parte immaginario – di quella pietra che per Heidegger era senza mondo, è stato in grado – attraverso la mediazione della sfera – di sviluppare nell’uomo la Selbstzentriertheit, la Triebphantasieüberschuß, il Leerraumes, e attraverso di essi squarciare il velo della chiusura ambientale aprendo di conseguenza l’uomo al mondo.

 

  1. Binswanger lettore di Scheler: il vuoto del cuore e la psicopatologia dello spazio

Ad aver tratto ispirazione dall’interpretazione scheleriana della spazialità fu anche Ludwig Binswanger (1881-1966) in una conferenza del 1932 intitolata Il problema dello spazio in psicopatologia. Scheler, dal canto suo, si era già interrogato sulla dimensione patologica dell’esperienza spaziale, sostenendo che «la situazione, individuabile in alcuni casi patologici, in cui lo spazio tattile non si coordini direttamente con quello ottico, ma solo attraverso la mediazione di sensazioni cinestetiche, dimostra che la forma vuota dello spazio viene sperimentata, per lo meno come “spazialità” informe, già prima di divenir coscienti d’una qualsiasi sensazione»[123].

Binswanger, nel suo contribuito, affronta i risvolti fenomenologici e psicopatologici delle forme dello spazio orientato e dello spazio timico[124]. Lo psichiatra svizzero recupera la nozione di spazio orientato (orientierter Raum)[125] da Oskar Becker (1889-1964) mentre quella di spazio timico (gestimmter Raum) dalla concezione di spazio presenziale di Straus[126]. Se lo spazio orientato si fonda su di un «sistema di relazioni (…) di tipo vitale e finalizzato» e riguarda il rapporto tra Leib e Umwelt, lo spazio timico si basa invece su di un sistema di relazioni «esistenziale»[127] e ha a che fare con il rapporto tra Io e mondo. Entrambe le forme spaziali sono suscettibili di deformazioni e alterazioni patologiche: se allo spazio orientato sono connessi in particolare i disturbi della prassi – «nel senso più ampio dell’agire, e della cognizione o del percepire e del conoscere» – e i disturbi della parola – «sia in termini di capacità motorie che per quanto concerne la loro funzione di significato o di rappresentazione»[128] –, le deformazioni dello spazio timico hanno a che fare principalmente con i disturbi della dimensione affettiva.

Ed è proprio a proposito dello spazio timico – relativo alla sfera del Gemüt – che Binswanger cita un’ampia parte del testo di Scheler Idealismo-realismo in cui viene descritto il concetto di vuoto del cuore (“Leere” des Herzens) – dal quale derivano le forme del tempo vuoto e dello spazio vuoto.

Come in Scheler, per Binswanger il termine “cuore” rimanda al «rapporto essenziale della situazione emotiva dell’Io» come quando avvertiamo una “stretta al cuore” come «restrizione del mondo»[129]. Tra Io e Mondo si realizza un’«unità dialettica» per cui «se il cuore è “chiuso in sé stesso” (…) Il mondo scompare da un tale “cuore”, e ciò che si considera per realtà non sono altro che vane parvenze»[130]. Lo psichiatra svizzero interpreta dunque la disperazione – che Scheler, nella sua stratificazione della vita emotiva aveva collocato nel livello dei sentimenti spirituali – come «un dileguarsi del mondo» e, soprattutto, una «forma vuota del cuore»[131]. Il vuoto della disperazione – quando si dice ad esempio che «la persona disperata “fissa il vuoto”»[132] – non è ovviamente il vuoto del cuore scheleriano – come condizione di possibilità della curiosità e del desiderio verso il mondo –, quanto una sua deformazione patologica in cui «il disperato risulta (…) assorbito dalla perdita del mondo»[133]. Per dirlo nei termini di Merleau-Ponty accade che «per il malato il mondo non ha più fisionomia»[134].

In questo senso la condizione schizofrenica rappresenta un esempio paradigmatico dello strettissimo rapporto tra affettività e spazialità. In questo contesto, basandosi anche sulle analisi dello psichiatra tedesco Franz Fischer, Binswanger spiega che «bisogna conoscere la perdita “normale” di mondo dovuta alla disperazione da un lato e all’ “apatia del cuore” dall’altro per poter comprendere dal punto di vista antropologico l’esperienza schizofrenica del vuoto»[135]. Anche Straus aveva posto l’attenzione sulla condizione di «un paziente affetto da schizofrenia [che] resta immobile nel suo stato catatonico, pur non essendo legato né paralizzato. Egli resta immobile perché qualcosa lo ha colpito nella sua intera motricità. La malattia ha aggredito gli strati più profondi della sua persona»[136]. Secondo l’ottica di Scheler, la profondità che in questo caso viene colpita dalla patologia riguarda la modalità dello strutturarsi dello spazio vuoto schizofrenico. Sulla condizione spaziale schizofrenica si interroga anche Minkowski che nel capitolo finale de Il tempo vissuto (1933) – intitolato Verso una psicopatologia dello spazio – interpreta un tratto caratteristico degli schizofrenici – quello che comunemente viene considerato un disturbo dell’ideazione e del giudizio – alla luce dei disturbi della spazialità vissuta. Per lo psichiatra francese si tratta della «tendenza alla conglomerazione nello spazio vissuto»[137], dove i concetti di caso, coincidenza e contingenza vengono meno[138]. Più in generale, nel mondo allucinato dello schizofrenico, la spazialità si deforma in virtù di un peculiare «deficit della distanza vissuta, che ha come conseguenza il senso che gli avvenimenti-ambiente tocchino l’individuo e lo influenzino in modo molto più immediato di quello che succede di solito»[139]. Anche questo “deficit della distanza vissuta” può essere letto come un’alterazione congiunta dello spazio vuoto e dell’eccesso di fantasia che si riversa nella modalità percettiva dello spazio circostante.

Insomma, Le intuizioni di Scheler, coniugate con le riflessioni di Binswanger, Straus, Minkowski, oltre che con le ricerche più moderne sulla psicopatologia della spazialità[140], possono dunque portare ad una comprensione maggiore dello spazio vissuto come caratteristica antropologica e del ruolo incrociato di affettività e spazialità in svariate conformazioni psicopatologiche.

 

  1. Conclusioni

Per concludere e allo stesso tempo riassumere i punti principali del discorso fatto, possiamo dire che la differenza tra spazio e spazialità è la stessa che intercorre tra lo spazio della geometria e lo spazio vissuto. Che lo spazio vissuto rappresenta la modalità nella quale gli esseri viventi esperiscono ed interagiscono con lo spazio. Ovviamente, diversi esseri viventi hanno diverse caratteristiche e di conseguenza interagiscono in modi diversi con lo spazio. Tra il regno vegetale e quello animale ha luogo la prima differenza fondamentale: se le piante sono tutt'uno con lo spazio, gli animali possono muoversi. Come abbiamo visto, la possibilità di muoversi, gioca un ruolo fondamentale nelle diverse modalità attraverso le quali si configura la spazialità. La nozione di movimento che è qui in gioco non è però quella della fisica meccanica, bensì quella del movimento vissuto di Straus o del movimento vitale di Scheler. Differenti modi di muoversi equivalgono quindi a diverse modalità di vivere lo spazio. Per comprendere perché l'uomo è l'unico animale aperto al mondo – in cui, cioè, lo spazio si trasforma in mondo –, bisogna attraversare la dimensione del mondo-ambiente (Umwelt), che caratterizza tutti gli esseri viventi. L'uomo, in virtù della posizione particolare che occupa nel mondo degli esseri viventi, è in grado di emanciparsi dalla chiusura ambientale grazie alle funzioni spirituali dell’autocoscienza e della capacità di oggettivazione. Questi strumenti producono, quindi, una peculiare visione dello spazio intimamente legata allo spazio vuoto – sottoforma particolare del vuoto del cuore – come condizione di possibilità della sua caratteristica modalità di esperire i suoi movimenti e di preannunciarne gli esiti. Le deformazioni patologiche della spazialità vissuta ci offrono, dunque, in tal senso, uno scorcio per comprendere l'importanza della relazione che il corpo vivo intrattiene con il mondo, l’affettività e la spazialità.


[1] Scheler non ha lasciato appunti manoscritti della conferenza, ma Karl Schuhmann, mettendo insieme gli appunti presi da Alexander Pfänder (1870-1941) e Johannes Daubert (1877-1947) è riuscito a ricostruire parte della conferenza; cfr. K. Schuhmann, Max Scheler. Sulla fenomenologia dello spazio, in S. Besoli, L. Guidetti, Il realismo fenomenologico. Sulla filosofia dei circoli di Monaco e Gottinga, Quodlibet, Macerata 2000, pp. 89-92, p. 89.

[2] M. Scheler, Biologevorlesung (1908/09) in Id. Gesammelte Werke, vol. XIV, Bouvier, Bonn 1993, pp. 257-367. Sulla Biologevorlesung di Scheler si vedano M. Properzi, Max Scheler e la Biologievorlesung (1908/09) In «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia», anno 22 (2020) [pubblicato: 31/12/2020], disponibile su World Wide Web: https://purl.org/mdd/martina-properzi-03, ISSN 1128-5478; G. Mancuso, Lineamenti per un’ontologia generale della natura e per una teoria biologica della conoscenza: la «Biologievorlesung» del 1908-1909 in S. Besoli, G. Mancuso (a cura di), Un sistema, mai concluso, che cresce con la vita. Studi sulla filosofia di Max Scheler, Quodlibet, Macerata 2010, pp. 133-158.

[3] M. Scheler, Idealismo-Realismo (1927), tr. it. Morcelliana, Brescia 2018, p. 107.

[4] Cfr. E. Husserl, Fenomenologia dello spazio e della geometria, tr. it. Morcelliana, Brescia, 2021.

[5] M. Scheler, Idealismo-Realismo, cit., p. 105.

[6] Ibid.

[7] Ibid.

[8] Com’è noto, nell’estetica trascendentale kantiana, lo spazio – così come il tempo – è considerato un’intuizione pura ed una rappresentazione a priori, che precede, dunque, ogni possibile percezione empirica, costituendone, al contrario, la condizione di possibilità. Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura (1781), tr. it. Utet, Torino 2013, pp. 99-106.

[9] M. Scheler, Idealismo-Realismo, cit., p. 106.

[10] Ibid.

[11] Ibid., p. 107.

[12] M. Scheler, Conoscenza e lavoro (1926), tr. it. Franco Angeli, Milano 1997, pp. 214-215.

[13] M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo (1928), tr. it. Franco Angeli, Milano 2004, p. 130.

[14] E. Straus, Le forme della spazialità. Il loro significato per la motricità e la percezione (1930), tr. it. in E. Straus, H. Maldiney, L’estetico e l’estetica. Un dialogo nello spazio della fenomenologia, Mimesis, Milano 2005, pp. 36-68.

[15] Ibid., p. 60.

[16] E. Straus, Il movimento vissuto (1935), tr. it. in Id. Forme dello spazio, forma della memoria, Armando Editore, Roma 2011, pp. 33-69.

[17] Ibid., p. 43.

[18] Ibid., p. 38

[19] Ibid., p. 37.

[20] Ibid., p. 41.

[21] Ibid., p. 36.

[22] Ibid., p. 42.

[23] Ibid., p. 46.

[24] F. Varela, E. Thompson, E. Rosch, La mente nel corpo. Scienze cognitive ed esperienza umana (1991), tr. it. Astrolabio, Roma 2024; F. Toccafondi, Max Scheler. L’ambiente, gli altri, i valori, Mimesis, Milano 2023, pp. 223-258. Si veda anche V. Gallese, U. Morelli, Cosa significa essere umani?, Raffello Cortina Editore, Milano 2024, pp. 75-105.

[25] M. Scheler, Conoscenza e lavoro, cit., p. 222.

[26] M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., pp. 95-96.

[27] Ibid., p. 96.

[28] M. Scheler, Conoscenza e lavoro, cit., p. 200.

[29] Ibid., p. 267.

[30] B. Hölldobler, E.O. Wilson, Il superoganismo. Bellezza, eleganza e stranezza delle società degli insetti (2009), tr. it. Adelphi, Milano 2011.

[31] C.S. Moreau, C.D. Bell; R. Vila; S.B. Archibald; N.E. Pierce, Phylogeny of the ants: Diversification in the age of angiosperms, in «Science», vol. 312, n. 5770, 2006, pp. 101-104.

[32] Si vedano a tal proposito i meravigliosi disegni di Ernst Haeckel (1834-1919) che ritraggono queste creature.

[33] G. Vallortigara, Pensieri della mosca con la testa storta, Adelphi, Milano 2021, pp. 104-105.

[34] Sul rapporto tra Scheler e Uexküll cfr. G. Cusinato, La totalità incompiuta. Antropologia filosofica e ontologia della persona, Franco Angeli, Milano 2008, pp. 179-182; G. Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris. In dialogo con Max Scheler, Franco Angeli, Milano 2018, pp. 70-77; G. Cusinato, Body enactivism and primordial affectivity. Max Scheler and Jacob von Uexküll’s aporia, in «Thaumàzein», 8, 2020, pp. 226-245; R. Becker, Creative life and the ressentiment of Homo faber: how Max Scheler integrates Uexküll’s theory of environmental in Jakob von Uexküll and Philosophy. Life, Environments, Anthropology (ed. by F. Michelini, K. Köchy), Routledge, New York, 2020; F. Toccafondi, Max Scheler. L’ambiente, gli altri, i valori, cit., pp. 17-21, 52-54.

[35] M. Scheler, Jakob Baron von Uexküll: Bausteine zu einer biologischen Weltanschauung. F. Bruckmann, München 1913 in «Beilage zu Die Weißen Blätter» I, 6 (1914), pp. 119-121.

[36] M. Scheler, La dottrina dei tre fatti (1911-1912), tr. it. in Id. Scritti fenomenologici, Franco Angeli, Milano 2013, pp. 67-133.

[37] M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori (1913-1916), tr. it. Bompiani, Milano 2013, pp. 153-170.

[38] J. von Uexküll, Come vediamo la natura e come la natura vede se stessa? (1922), tr. it. in Pinotti A., Tedesco S., Estetica e scienze della vita, Raffaello Cortina, Milano, 2013, pp. 39-81; J. von Uexküll, Biologia teoretica (1920-28), tr. it. Quodlibet, Macerata 2015; J. von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili (1934), tr. it. Quodlibet, Macerata 2010.

[39] Uexküll lesse da adolescente la Critica della ragion pura di Kant rimanendone profondamente influenzato. Kant è infatti il filosofo che viene maggiormente citato nella produzione del biologo estone e tutta la sua speculazione teorica può essere letta come un tentativo di conciliare la gnoseologia kantiana con la fisiologia costitutiva della Umwelt. Sulla filosofia di Uexküll si veda C. Brentari, Jakob von Uexküll. The Discovery of the Umwelt between Biosemiotics and Theoretical Biology, Springer, Dordrecht 2015.

[40] L. Guidetti, La biologia teoretica di Jakob von Uexküll in J. von Uexküll, Biologia teoretica, cit., pp. IX-LVI, p. XVII.

[41]J. von Uexküll, Come vediamo la natura e come la natura vede se stessa?, cit., p. 41. In un modo del tutto analogo all’esempio di Uexküll della bolla di sapone, Scheler nel testo del 1916 Ordo amoris descrive la struttura assiologico-affettiva singolare – l’ordo amoris appunto – nella sua declinazione spaziale come «una casa in cui egli si trova e che si porta con sé ovunque vada; una casa da cui, per quanto egli corra velocemente, non riesce a fuggire. Attraverso le finestre di quest’abitazione scorge il mondo e se stesso – del mondo e di se stesso non scorge non scorge niente di più e nient’altro oltre a ciò che la particolare posizione di queste stesse finestre, la loro grandezza e il loro colore, gli permettono di vedere. Poiché la struttura del mondo-ambiente di ogni uomo, che nel suo contenuto complessivo è in definitiva articolata in base alla sua struttura assiologica, non muta e non cambia ogniqualvolta l’uomo cambi la propria posizione nello spazio. La struttura del mondo-ambiente si realizza in modo nuovo solo con determinate cose – ma in modo tale che anche questo realizzarsi avviene in base ad una legge di formazione prescritta dalla stessa struttura assiologica del mondo-ambiente» (M. Scheler, Ordo amoris (1916), tr. it. Morcelliana, Brescia 2008, p. 53).

[42] G. Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, cit., p. 71.

[43] M. Scheler, Tentativi per una filosofia della vita (1913), tr. it. in Id. La posizione dell’uomo nel cosmo, Armando Editore, Roma 1997, pp. 81-114.

[44] L’antidarwinismo è un motivo tipico della filosofia e biologia tedesca a cavallo tra fine 800 e inizio 900. Non si tratta necessariamente di un antievoluzionismo – come lo è ad esempio il creazionismo – quanto un rifiuto di alcune concezioni implicite nella versione evoluzionistica propria di Darwin e ancora di più di Spencer. Sull’antidarwinismo di Uexküll cfr. V. Rasini, L’opposizione a Darwin di Jakob von Uexküll, in «S&F», n. 28, 2022, pp. 12-25.

[45] Su questo, in linea con Uexküll, Scheler, descrivendo l’apporto di Nietzsche alla filosofia della vita, scrive che «La vita non è qualcosa che si “adatta” o che viene “adattata”, ma è invece la tendenza a plasmare, a formare, a dominare, anzi a integrare la materia. I singoli organismi e le singole specie sono inseriti nell’ambiente, ma le loro strutture categoriali sono pre-formate secondo l’orientamento attivo della vita che è loro propria; e gli unici fattori che riescono a inserirsi nell’ambiente sono quelli che corrispondono a queste strutture» (M. Scheler, Tentativi per una filosofia della vita, cit., p. 84).

[46] Nell’aforisma 14 – intitolato significativamente Anti-Darwin – del Crepuscolo degli idoli (1889), Nietzsche scrive: «Per quanto riguarda la famosa “lotta per la vita”, questa mi sembra per il momento più asserita che provata. Si verifica, ma come eccezione; l’aspetto globale della vita non è lo stato di bisogno, lo stato di fame, sebbene la ricchezza, l’opulenza, persino l’assurda prodigalità – là dove si lotta, si lotta per la potenza… (…) Ma posto che tale lotta esista – e in realtà essa si verifica –, questa purtroppo si risolve tutto all’opposto di quel che si augura la scuola di Darwin» (F. Nietzsche, Opere, Vol. VI, tomo III, Adelphi, Milano 1970, p. 117). Sull’interpretazione di Darwin da parte di Nietzsche si veda C. Fuschetto, Breve storia di un appassionante equivoco. Nietzsche, Darwin e la scoperta della vita in P. Amodio, C. Fuschetto, F. Gambardella, Underscores. Darwin, Nietzsche, von Uexküll, Heidegger, Portmann, Arendt, Giannini Editore, Napoli 2012, pp. 11-46.

[47] Come scrive Scheler seguendo Bergson: «Di fatto Spencer non segue il corso evolutivo sulle orme della vita stessa, egli scompone solo la realtà già evoluta (…) in piccoli frammenti dimostrando poi come, a partire da questi, possiamo pensarla ricomposta» (M. Scheler, Tentativi per una filosofia della vita, cit., pp. 111-112). Per quanto riguarda la critica di Bergson a Spencer si veda H. Bergson, L’evoluzione creatrice (1907), tr. it. Bur, Milano 2016, pp. 342-348.

[48] M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 90.

[49] Ibid. p. 92.

[50] Ibid.

[51] Ibid., p. 93.

[52] Ibid.

[53] Verso la fine dell’800 nel mondo della botanica cresce un forte interesse verso il tropismo delle piante, alimentato da una disputa – in particolare relativa al fototropismo – che opponeva Charles Darwin (1809-1882) e suo figlio – il botanico Francis Darwin (1848-1925) – da una parte, e il padre della fisiologia vegetale, il botanico tedesco Julius von Sachs (1832-1897) – autore del termine “tropismo” – dall’altra. Ironia della sorte volle che fu proprio un allievo e assistente di Sachs, Wilhem Pfeffer (1845-1920), a dimostrare nel 1896, con il primo filmato in time lapse della crescita di una pianta, la correttezza delle opinioni di Darwin. All’inizio del 900 Blaauw si inserisce in questo dibattito pubblicando diversi scritti e studi di cui, con buona probabilità, Scheler fu attento lettore: Die perzeption des lichtes (1909), De tropische natuur in schetsen en kleuren (1913), Plantkunde en psychische verschijnselen (1915). Sulla querelle tra Sachs e Darwin cfr. S. Mancuso, Plant revolution. Le piante hanno già inventato il nostro futuro, Giunti, Firenze, 2017; U. Castiello, La mente delle piante. Introduzione alla psicologia vegetale, Il Mulino, Bologna, 2019. Sulla passione di Darwin per la botanica si veda O. Sacks, Darwin e il significato dei fiori in Id. Il fiume della coscienza (2017), tr. it. Adelphi, Milano 2018, pp. 13-32.

[54] M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 94.

[55] Ibid.

[56] Ibid., pp. 93-94.

[57] Ibid., p. 94.

[58] Ibid., p. 95.

[59] Ibid., p. 96.

[60] Ibid. Per Uexküll Alla velocità frenetica del mondo animale – scandito da fughe ed inseguimenti – corrisponde l’infinita quiete del mondo vegetale: «Solo in via del tutto eccezionale si può presentare una marca percettiva a innescare un determinato movimento (come nel caso della mimosa). Il compito principale è svolto dalla pianta attraverso una passiva dedizione agli effetti su di essa esercitati dal suo ambiente, al quale è adeguata. Dato che la pianta non può spostarsi dal proprio posto, essa deve confrontarsi con tutti gli effetti esterni che si possono avvertire nel luogo in cui essa è collocata» (J. von Uexküll, Come vediamo la natura e come la natura vede se stessa?, cit., p. 76).

[61] Cfr. M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 127.

[62] All’interno del dibattito scientifico contemporaneo, la questione relativa la presenza o meno nelle piante dei concetti di sensazione e percezione è tutt’altro che risolta. Per un approfondimento si veda P. Calvo, The philosophy of plant Neurobiology: a manifesto in «Synyhese», vol. 193, n. 5, 2016, pp. 1323-1343.

[63] M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, cit., pp. 287-289.

[64] M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 96.

[65] Ibid., p. 128.

[66] M. Scheler, Idealismo-realismo, cit., p. 62.

[67] M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., pp. 101-103.

[68] Ibid.

[69] Ibid,. p. 105.

[70] M. Heidegger, Essere e tempo (1927), tr. it. Mondadori, Milano 2006, pp. 83-163.

[71] M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine (1975), tr. it. Il Melangolo, Genova 2005, p. 232.

[72] A proposito di Scheler, Heidegger scrive: «In tempi recenti Max Scheler ha tentato di tematizzare in modo unitario, nel contesto di una antropologia, questa progressione gerarchica di ente materiale, vita e spirito in virtù della convinzione che l’uomo sia l’essere che riunisce in se stesso tutti i livelli dell’ente, l’essere fisico, l’essere di pianta e animale e lo specifico essere spirituale. Ritengo che questa tesi sia un errore fondamentale della posizione scheleriana, errore che deve necessariamente precludergli la via della metafisica. (…) D’altra parte il modo in cui Scheler pone la questione è, nonostante questo, e per quanto sia rimasta soltanto un programma, superiore per molti aspetti essenziali, a tutte le posizioni precedenti» (Ibid., p. 250).

[73] M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 121.

[74] Com’è noto il concetto di Weltoffenheit gioca un ruolo chiave in tutta l’antropologia filosofica. Sul concetto di mondo in Scheler si veda R. Bonito Oliva, Il profilo del mondo. Uomo e cosmo nell’antropologia di Max Scheler in S. Achella, Le strutture del soggetto. Esperienza etica ed esperienza religiosa, Luciano Editore, Napoli 2004, pp. 135-149.

[75] Ibid., p. 129.

[76] Sull’influenza di Schelling in Scheler si veda G. Cusinato, La totalità incompiuta…, cit., pp. 68-78; G. Cusinato, Schelling come precursore dell’antropologia filosofica del Novecento, in «Etica & Politica», XII, 2, 2010, pp. 61-81; G. Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia…, cit., pp. 23-36.

[77] G. Cusinato, Schelling come precursore dell’antropologia filosofica del Novecento, cit., p. 66.

[78] Dopo l’adesione a Fichte che culmina nella filosofia dell’Io, in Schelling progressivamente il termine “Io” viene sostituito con quello di Spirito, passando ad un’analisi del rapporto tra Spirito e Natura dove quest’ultima viene interpretata, sulla spinta di Spinoza, come qualcosa di vivente. Se c’è una continuità tra Natura e Spirito, il problema da gnoseologico si fa ontologico e in questo contesto si sviluppa una gradualità nella natura che va a costituire la “preistoria dello spirito”; cfr. F.W.J. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale (1800), tr. it a cura di G. Boffi, Orthotes, Napoli-Salerno 2022.

[79] F.W.J. Schelling, L’empirismo filosofico e altri scritti, tr. it. a cura di G. Preti, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1967, p. 47.

[80] M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 158. Com’è noto, nell’ultimo Scheler «“spirito” e “vita” sono due principi che, pur essendo fondamentalmente diversi, nell’uomo hanno necessariamente bisogno l’uno dell’altro. Così se lo spirito ideizza la vita, solo la vita può realizzare e rendere attivo lo spirito» (Ibid., p. 168).

[81] Su questo si veda G. Cusinato, Il concetto di spirito e la formazione della persona nella filosofia di Max Scheler in Lo spirito. Percorsi nella filosofia e nelle culture, a cura di M. Pagano, Mimesis, Milano-Udine 2011, pp. 535-560.

[82] M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 121.

[83] Ibid., p. 119.

[84] L’«atto ideativo» – o «ideazione» –, come «tipico atto dello spirito», consiste nella «capacità di afferrare le forme essenziali della struttura del mondo partendo da un semplice esempio delle regioni essenziali considerate». Questa «capacità di scindere l’esistenza dall’essenza rappresenta la caratteristica principale dello spirito umano ed è alla base di tutte le altre» (Ibid., pp. 135-137).

[85] Ibid., p. 120.

[86] Ibid., p. 169.

[87] Ibid., p. 121.

[88] Ibid., p. 168.

[89] M. Scheler, Idealismo-realismo, cit., p. 63.

[90] M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 121.

[91] Ibid., p. 124.

[92] Ibid., p. 128.

[93] Ibid., p. 123.

[94] Ibid., p. 122.

[95] M. Scheler, Conoscenza e lavoro, cit., p. 212.

[96] Ibid., pp. 212-213.

[97] M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 129.

[98] Ibid., p. 132.

[99] Ibid., p. 131.

[100] M. Scheler, Idealismo-realismo, cit., p. 108.

[101] Ibid., p. 109.

[102] Ibid., p. 110.

[103] Ibid., p. 111.

[104] Ibid., p. 110.

[105] Ibid.

[106] Ibid., p. 111.

[107] Ibid., p. 116.

[108] Ibid., p. 107.

[109] Ibid., pp. 114-115.

[110] Ibid., p. 116.

[111] P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung in Id. Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (2001), tr. it. Edizioni Tlon, Roma 2024, pp. 153-249.

[112] Ibid., p. 165.

[113] Ibid.

[114] Ibid., p. 164.

[115] Ibid., p. 167.

[116] M. Scheler, Essenza e forme della simpatia (1923), Franco Angeli, Milano 2010, p. 63.

[117] P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung, cit., p. 193.

[118] Ibid., pp. 193-194.

[119] Ibid., p. 194.

[120] «Le scimmie superiori, gli elefanti e così via riescono a inserire, tra la loro attività e l’obiettivo, manipolazioni o spostamenti di oggetti affatto sensati e adeguati allo scopo: la scimmia per esempio getta sul suo “nemico” sassi e frutti. Ma non è il fatto di usare una cosa come mezzo volto a un fine, a conferirle l’unità essenziale dell’“utensile”. Se io uso una chiave come martello per bussare alla porta, quella rimane una chiave e non diventa un martello. (…) Poiché a distinguere l’utensile da un oggetto “usato come semplice mezzo”, è per l’appunto l’unità rigorosa della forma di un materiale, la quale costituisce nel contempo quell’unità intrinseca significativa che trascende quel significato occasionale conferito all’oggetto stesso da tutti quegli scopi per cui viene momentaneamente usato. (…) Pertanto ciò che pone l’utensile al di sopra di un mezzo occasionale per le nostre esigenze biologiche, è essenzialmente quella stessa forza spirituale che agisce altresì nella genesi della cultura spirituale» (M. Scheler, Sull’idea dell’uomo (1913) in Id. La posizione dell’uomo nel cosmo, Armando, Roma 1997, pp. 51-79, pp. 63-64.)

[121] Ibid., p. 64.

[122] Ibid.

[123] M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 130.

[124] Nel saggio di Binswanger compaiono anche le forme dello spazio estetico e dello spazio storico ma qui non verranno prese in considerazione.

[125] L. Binswanger, Il problema dello spazio in psicopatologia (1932), tr. it. Quodlibet, Macerata 2022, p. 103.

[126] Ibid., p. 105. Per quanto riguarda la scelta di Binswanger di definire questa forma di spazio come spazio timico o gestimmter Raum, le ragioni dello psichiatra sono le seguenti: «l’espressione “spazio patico” o “spazio del vissuto” rimanda troppo facilmente a un’idea di passività che invece dev’essere mantenuta il più lontano possibile dalla sfera del patico e poiché l’espressione “spazio presenziale”, a causa dei significati molto diversi di “presente” e “presenziale”, porta facilmente a fraintendimenti ed è troppo limitante per l’idea di spazio così come vogliamo qui intenderla, propongo di usare il termine “spazio timico” in quanto (…) esso, rappresenta lo spazio all’interno del quale sosta [aufhält] l’esserci umano in quanto emotivamente situato; (…) esso rappresenta ogni volta lo spazio della nostra disposizione timica o della nostra tonalità affettiva» (Ibid., p. 139).

[127] Ibid., p. 130.

[128] Ibid., p. 107. Si noti che sono le stesse tipologie di disturbi prese in considerazione da Merleau-Ponty nella sua analisi della spazialità corporea, cfr. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), tr. it. Bompiani, Milano 2003, p. 180.

[129] Binswanger, Il problema dello spazio in psicopatologia, cit., p. 132.

[130] Ibid., p. 133.

[131] Ibid., p. 134. La disperazione, ovviamente, a seconda del contesto, «può manifestarsi nei modi più diversi, sia attraverso un “restringimento spaziale” del mondo, sia attraverso un suo silenziarsi (…), sia attraverso un diventare-buio o un diventare-scuro» (Ibid.).

[132] Ibid.

[133] Ibid., p. 135.

[134] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 187. È inoltre significativo il fatto che per il filosofo francese «analizzare da vicino un esempio di motilità morbosa (…) mette a nudo i rapporti fondamentali fra il corpo e lo spazio» (Ibid., p. 156).

[135] Binswanger, Il problema dello spazio in psicopatologia, cit., p. 135.

[136] E. Straus, Il movimento vissuto, cit., p.46.

[137] E. Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia (1933), tr. it. Einaudi, Torino 2004, p. 379.

[138] Tutto ciò che impedisce a questa tendenza di trasformarsi in un delirio persecutorio è la mancanza in questi soggetti di un carattere paranoico. D’altra parte, però, tale tendenza, sembra avere un ruolo di rilievo anche nella patogenesi del delirio di persecuzione stesso.

[139] Ibid., p. 384.

[140] Per una ricostruzione completa dell’indirizzo fenomenologico nella psicopatologia della spazialità si veda M. Mauri, Spaziopatia. Fenomenologia della spazialità vissuta e psicopatologia delle alterazioni spaziali, Mimesis, Milano 2024; Griffero T., Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali, Mimesis, Milano 2017. Si vedano inoltre Fuchs T., Psychotherapy of the Lived Space: A Phenomenological and Ecological Concept in «American Journal of Psychotherapy», vol. 61, n. 4, 2007, pp. 423-439; Fuchs T., Koch S.C., Embodied affectivity: on moving and being moved in «Frontiers in Psychology», vol. 5, Jun. 2014.

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