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Il prossimo come te stesso. Identità, significazione e etica dello spazio globale dalla debolezza del “noi”

Autore


Francesco Pio Leonardi

Università di Catania (Sicilia)

Francesco Pio Leonardi è Dottorando in Scienze dell’interpretazione presso l’Università di Catania (Sicilia)


  1. Introduzione: luogo e comprensione
  2. Pensiero cosciente
  3. Visione ed epifania
  4. Identico e contraddittorio
  5. Unità globale e unità morale
  6. Spazio globale: cose nuove e cose antiche

 

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S&F_n. 32_2024

Abstract


The Other as Yourself: Identity, Signification, and the Ethics of Global Space from the Fragility of the “We”

In this analysis, conscious thought is indicated as the place in which the sense of global spaces can be created, based on two categories of union: vision and epiphany. The vision concerns the subject’s possibility of internalizing the world; epiphany, however, allows us to think of consciousness not in the usual way, as the center of the person, but rather as a personality recollected to the center. The reversal of perspective would highlight the authentic unity of subjectivity, not split into a source, in which the meaning of things is produced, and how things themselves are, but immersed in the totality of the world (global space). Starting from the irreducibility of otherness, understood as a presence aroused by an original "yes" (F. Rosenzweig), we arrive at the principle of subjectivity in dialogue, which creates the unity of meaning of the world and of consciousness (M. Buber). In this sense, the Jewish-Christian commandment "You will love your neighbor as yourself" (Lev 19, 18 - Mk 12, 31) does not seem to be interpretable as a tension towards the other to be realized on the track of identity, but rather as a departure from the fact of the relationship to finally arrive at the experience of subjectivity and otherness. This reversal would achieve two things: the re-signification of contact spaces (including problematic ones, such as social media or the suspicious areas of the technical and consumer society) and an authentically founded responsibility, the deployment of which modifies and broadens the horizon of the world. From here it seems possible to indicate ethical philosophy as a crossroads to achieve this aim.

  1. Introduzione: luogo e comprensione

A prima vista, il concetto di spazio globale sembrerebbe indicare il contenitore universale entro il quale si dispiega tutto ciò che accade nell’universo. La celebre prima espressione del Tractatus di Wittgenstein[1] indica proprio questo, e la determinazione dello spazio logico come ambiente neutro, al cui interno sono e possono essere compresi gli elementi che lo caratterizzano, è frutto di un’ermeneutica il più delle volte preposta al pensiero del filosofo austriaco e a quello di molti altri autori che hanno fatto la storia del pensiero occidentale.

Bisogna, tuttavia, prestare attenzione alle distinzioni che lo stesso Wittgenstein evidenzia, perché proprio queste costituiscono un punto determinante e utile dal quale muovere la ricerca. All’inizio dell’opera sopra citata, egli afferma: «Ogni cosa è come in uno spazio di possibili stati di cose. Questo spazio posso pensarlo vuoto, ma certo io non posso pensare la cosa senza spazio»[2]. Sembra, dunque, voler dire che questo alveo della possibilità costituisce la base sulla quale si erge l’edificio del reale. Esso (il reale), però, non può essere indagato in generale, bensì attraverso il linguaggio che lo delimita, generando luoghi precisi: «La proposizione determina un luogo nello spazio logico. A garantire l’esistenza di questo luogo logico è l’esistenza delle parti costitutive, l’esistenza della proposizione munita di senso»[3]. Se, dunque, lo spazio si muta in luogo mediante l’azione del linguaggio, l’origine della significazione risiede nelle cose che accadono nel particolare, intrise, per così dire, di comunicazione. Più avanti Wittgenstein precisa che la generazione del senso all’interno dello spazio logico non è orientato ordinatamente a un senso di carattere metafisico, ma si tratta di un qualcosa di carattere tipicamente accidentale, che rende il linguaggio uguale in tutte le sue parti:

Tutte le proposizioni sono di pari valore. Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che abbia valore v’è, esso dev’essere fuori d’ogni avvenire ed essere-così. Infatti, ogni avvenire ed essere-così è accidentale. Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, che altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev’essere fuori del mondo[4].

 

Il margine d’eccedenza a cui l’autore fa riferimento è un tema grandemente dibattuto tra gli interpreti[5]. Questa apertura, seppur piccola, alla possibilità di un oltre il mondo ha fatto sobbalzare sostenitori e detrattori della Metafisica. Ciò che, tuttavia, sembra importante in prima battuta, all’interno della nostra ricerca, è il fatto che la significazione dello spazio a cui ci si riferisce viene declinata in modo totalmente immanente, ben lontana da pretese universalistiche. Il dubbio, l’ipotesi che un fuori dal mondo possa esserci, però, sembra causato dalla stessa natura dello spazio logico e degli stati di cose a cui accennavamo all’inizio. Da un lato, infatti, Wittgenstein sembra avvertire la necessità di puntare l’attenzione sul fatto che l’accadere delle cose generi una certa complessità, duttilità e comprensibilità dei luoghi che procedono dal linguaggio, che sono totalmente immanenti e che non possono essere letti come il contenitore statico di oggetti statici e solidamente determinati (infatti si parla di stati di cose); dall’altro, l’oggettivazione rigida dell’analisi linguistica, di cui è testimone anche la stessa struttura del Tractatus, lascia aperte delle questioni che, in prima battuta, sembrerebbero delle aporie o quanto meno dei punti oscuri.

 

  1. Pensiero cosciente

La confusione nella quale gran parte della filosofia denominata «continentale» si trova, di cui è possibile intravedere i frutti nella virata drastica verso l’approccio alle scienze dure e nello sviluppo della filosofia della scienza, principalmente fiorente nelle università anglo-americane, poggia anche su interpretazioni sistematiche del pensiero di Wittgenstein, comunemente identificato tra i padri della filosofia analitica. Il progressivo abbandono di quelli che tradizionalmente sono considerati studi umanistici forse è il frutto della mancata risoluzione della contraddizione sopra esposta e della liquidazione più o meno superficiale della stessa mediante la mancanza di interesse, poiché l’impresa di questi studi risulta scarsamente produttiva e spesso fortemente correlata alla religiosità. Il dubbio che si pone, in contesti diversi, riguarda le condizioni di esistenza nel futuro del pensiero teoretico e di quello morale, viste le continue defezioni non solo nell’ambito delle politiche sull’istruzione, ma anche nelle basilari scelte dei corsi di studio da parte dei giovani. Come per tutte le cose, le fondamenta del futuro si costruiscono hic et nunc, per cui sembra importante cominciare il nostro itinerario dalla posizione di una base interpretativa che permetta di comprendere come sia possibile, per il discorso filosofico, porsi in atteggiamento propositivo e non abdicante rispetto al compito di comprensione degli spazi globali che, nella nostra epoca, si allargano e si contraggono senza posa.

Nella filosofia morale occidentale tradizionale[6], la coscienza, come dato antropologico primario, ha rappresentato e rappresenta il fil rouge che attraversa la relazione uomo-spazio globale. La particolare connotazione sacra con la quale questo dispositivo di comprensione è stato veicolato in special modo dal cristianesimo, tuttavia, oltre ad averne preservato il valore separandolo (sacralizzandolo) rispetto al resto, ha prodotto anche allontanamento, mancanza di comprensione profonda e, infine, assolutizzazione che rasenta l’idolatria di un concetto spogliato della propria dimensione olistica. In breve, si assiste continuamente alla valorizzazione di qualche suo dato essenziale ridotto all’utile, ma si dimentica nella sua totalità. Ci riferiamo così, non troppo velatamente, al principio di autodeterminazione, l’ultima e spesso l’unica dimensione ricordata del pensiero cosciente. La teologia morale cristiana, sebbene a una lettura superficiale non sembrerebbe, è stata uno dei primi responsabili dell’ipertrofia dell’io oggi dilagante, in positivo e in negativo. Già nel simbolo cristiano il dato dell’incarnazione costituisce l’incipit per il dispiegamento delle vicende umane e della loro salvezza[7]; ciò vuol dire che la concretezza carnale degli atti umani determina inequivocabilmente l’indirizzo della storia. Questo è il dato positivo. La conseguenza negativa, sebbene non inizialmente in senso morale, è determinata dalla reazione contraria al rigido controllo istituzionale delle chiese sull’agire personale. Il progressivo sgretolamento della societas christiana a opera della secolarizzazione ha generato, per certi versi, l’effetto “elastico” dell’assolutizzazione della soggettività. Sembra evidente che la riduzione del pensiero cosciente a mera posizione di atti non rende ragione della pregnanza dello stesso e neanche di quella che oggi comunemente si chiama dignità della persona, da cui scaturiscono il valore stesso dell’autodeterminazione e il fondamento dei diritti delle comunità democratiche. A questo punto, sembra necessario definire i tratti fondamentali della dimensione olistica della coscienza.

 

  1. Visione ed epifania

Tutti gli atti, caratterizzati moralmente per il fatto stesso della loro posizione, sono sempre prodotti da un’intenzione, più o meno cosciente. Anche i movimenti che in modo incosciente interessano il corpo vivente dell’uomo sono sempre il frutto di una concatenazione di eventi in cui la libertà gioca un ruolo fondamentale, seppur in misura dipendente dal singolo caso. La libertà determina l’opzione di base che indirizza le scelte. Bisogna, tuttavia, non correre il rischio di ipostatizzare la cosiddetta opzione fondamentale, proprio perché non s’intende qui affermare (come spesso è accaduto nella teologia[8]) che dall’indirizzo di vita “scelto” una volta per sempre possono dedursi tutti gli atti successivi. In tal caso non si riuscirebbe a rendere conto anche solo degli errori di processo. Ciò che tentiamo di dire è che l’indirizzo, seppur cangiante, della coscienza determina il modo di interpretare cose ed eventi con i quali il soggetto entra in contatto. Il “contenitore” gnoseologico (trascendentale in senso kantiano), entro il quale i fatti assumono una forma nella coscienza, sembra dipendere in larga misura dalla configurazione di quest’ultima, in analogia alla forma del fluido delimitata dal contenitore nel quale si trova.

Se, tuttavia, l’indirizzo fondamentale non può essere cristallizzato, ci si chiede quale sia la categoria adatta a rendere comunicabili i suoi connotati. Ci sembra di poter affermare che, come diceva Bloch, tutte le categorie del pensiero tendono all’utopia, il che le rende potenti, ma anche paradossalmente deboli[9]; a noi non resta che porci dinanzi a esse con l’ottimismo della volontà, ma con la consapevolezza della presenza di difficoltà pressoché ineliminabili[10]. In tale prospettiva, abbiamo scelto la categoria di visione come modo utile per descrivere la questione o, quantomeno, per porre solide fondamenta per lo sviluppo di un discorso etico non ridotto a moralismi o a mere applicazioni.

Per ben comprendere questo assunto, bisogna innanzitutto identificare l’oggetto, il termine della visione. Esso, evidentemente, si riferisce allo spazio globale intriso di significati spesso contraddittori e sovrapposti l’uno all’altro. L’associazione della questione del senso allo spazio vissuto, al mondo, sembra suggerire una co-appartenenza del soggetto e della realtà nella quale egli opera. In tale prospettiva, il termine tedesco Weltanschauung suggerisce il duplice aspetto dell’attribuzione di senso al mondo (concezione del mondo) e dell’epifania dello stesso. Il filosofo-teologo tedesco Romano Guardini, nell’intero corso della sua opera[11], ha mostrato come tali dimensioni siano essenziali nella disamina della coscienza umana, nel suo operare nel mondo:

Il mondo è un’immensità di realtà; quanto a materie ed energie, forme ed accadimenti, compiti e azioni, tensioni e ordinamenti, magnificenze e spaventosità. Il mondo è qualcosa di trionfante, di violento, di munifico in modo sovrabbondante e di distruttivo senza pietà. Il mondo è tale non solo da riempire ogni spazio, ma da imporsi con tutte le sue forze. Esso è l’oggetto tout court. Esso attrae a sé le energie dell’istinto, del cuore e dello spirito. Domina con la possanza del suo essere. Rivendica a sé il carattere della totalità non solo nell’essere, ma nell’esperire vissuto. Si pone alle energie quale compito, dell’azione e dell’opera[12].

 

Il mondo (die Welt) è, dunque, il discrimine che separa e unisce al contempo la coscienza e la realtà. Nonostante si verifichi una certa opposizione tra le due componenti che sembrerebbe suggerirne il quasi uguale valore assoluto, dal brano citato emerge come il peso del mondo con la sua spaventosità a tratti violenta sia oltremodo preponderante. Già Kant, nel suo discorso sul giudizio estetico, aveva teorizzato una simile impostazione[13]. La visione, in tal senso, tenta di agganciare le facoltà del soggetto alla smisurata possenza degli spazi, sorreggendolo perché non ne resti schiacciato. Si potrebbe affermare che dalla totalità di questo mondo l’agire umano trova il suo compimento come forte esperienza del limite e richiesta di salvezza. La stessa cultura, dalla quale derivano gli sviluppi della tecnica, può essere letta come anelito di salvezza dinanzi a un limite più o meno accettato. La salvezza qui è intesa come salus, cioè come condizione di vita favorevole rispetto all’ambiente circostante. Si comprende bene, dunque, che l’oggetto della visione, il mondo, fa in modo che ciò che è indagato non sia alla stessa stregua di qualsiasi altra indagine, ma costituisca il trait d’union con la totalità, quindi con l’universale. Da ciò, infine, sembra possibile individuare l’inizio del discorso filosofico fortemente ancorato al concreto. È innegabile, infatti, che la tensione della filosofia sia sempre verso l’universale; il compito primario, tuttavia, è quello di definirne i termini d’accesso.

Romano Guardini individua, come già evidenziato, l’accesso alla totalità proprio nella visione, intesa come incontro col reale con le sue fattezze concrete e solide. Ciò comporta due conseguenze rischiose dal punto di vista del metodo: la prima è che, dapprincipio, la totalità è altro dal soggetto e assoluta rispetto a esso, per cui ogni rivendicazione di derivazione cade; ciò avviene in special modo dinanzi al negativo effettivo e non dinanzi al falso negativo del non-io che non prende le mosse dall’indisponibilità delle cose, bensì dall’io stesso. In tale contesto la filosofia come esercizio pratico si presenterebbe come esercizio positivo, quindi come tentativo di evadere dal negativo, ma comunque disposto ad accoglierne la totalità incommensurabile. Anche Theodor Adorno, nel suo dialogo serrato con Hegel, in Dialettica negativa, seguendo questa impostazione scriveva:

La dialettica è la coscienza dell’oggettivo contesto di accecamento, non già scampata a esso. Evaderne dall’interno è oggettivamente il suo fine. La forza per evadere le proviene dal contesto immanente; le si potrebbe applicare, ancora una volta, il detto di Hegel che la dialettica assorbirebbe la forza dell’avversario, per rivoltargliela contro; non solo nell’individuale dialettico, ma infine nell’intero[14].

 

La visione qui assume la connotazione di coscienza della «forza dell’avversario» mediante sperimentazione diretta. Guardini, invece, affermava:

Nell’apertura e libertà di cui abbiamo parlato, mi incontro con la realtà in questione; gli immediati rapporti funzionali e finalistici cadono e vengo colpito dall’essenza di ciò che mi sta di fronte, entro nel suo ambito di senso, me ne rendo conscio e sono invitato a prendere posizione nei suoi confronti nella modalità conveniente. […] Questo è un incontro; esso mi offre un’immagine di cui prima non disponevo e senza la quale non si può avere la comprensione ultima dell’esistenza[15].

 

L’essenza, dunque, colpisce dall’esterno e, offrendo la propria «immagine», invita alla presa di posizione; si tratta, infine, della chiamata alla responsabilità come primizia della filosofia:

Scaturisce da qui il filosofare: e la meditazione filosofica lo approfondisce […]; quanto più viva è la persona e più originario il suo rapporto col mondo, tanto più frequente sarà nella sua esistenza l’incontro e tanto più a lungo conserverà la capacità d’esso fin nella vecchiaia. L’opposto di tale capacità sono l’abitudine, l’indifferenza, l’insensibilità che snobba[16].

 

Lo scuotimento, la «purificazione» dello sguardo sulle cose perché queste appaiano nella loro autenticità è indice della non-dipendenza di esse dalla capacità soggettiva di accoglienza. In poche parole, la visione è eteronoma perché la sua struttura e il suo contenuto sono tali. Di certo, essa coinvolge il soggetto che agisce inserendosi nelle sue azioni come propriamente appartenente a esso e modificandosi anche a partire dalle sue facoltà. Ciò comporta un certo grado di libertà e, nel medesimo istante, di debolezza. Come per un grande «tesoro in vasi di creta»[17] il contenitore non è sempre commisurato al valore del contenuto, ma proprio da questa contraddizione – non solo apparente, ma sostanziale – emerge l’identità che abita lo spazio globale.

 

  1. Identico e contraddittorio

La percezione della struttura dello spazio, non solo come vasta gamma di possibilità di azione, bensì anche come eventi che propriamente si realizzano, dipende dalla visione che si ha sull’identità. Si è detto che la visione genera la «contraddizione dello scarto» tra il proprium dello spazio globale e la lenta, oppure molto limitata, capacità di accoglienza del soggetto. Dall’umanesimo, passando per Descartes, al positivismo e giungendo ai nostri giorni, la storia del pensiero ha raggiunto vette prima neanche immaginate, ma il “compenso” più alto è stato corrisposto alla soggettività. Ciò non è avvenuto solo nella filosofia, ma anche nelle scienze “dure”. La traslazione della concezione tradizionale dello spazio fino al XVII secolo verso lo spazio regolato dalla meccanica quantistica, ad esempio, sembra essere indice della rilevanza che il soggetto assume nell’accadere delle cose, non come mero osservatore di un fenomeno dato di per sé, ma come “produttore” dello stesso[18]. Da qui, anche nel cosiddetto senso comune il soggetto autonomo è inteso non solo come irriducibile, ma anche come il principio di qualsiasi movimento che abbia conseguenze nel mondo e pure oltre esso. Anche quando, sul piano etico, il disincanto verso tale concezione totalizzante del soggetto induce alla deresponsabilizzazione, come modificazione di sé a partire dal mondo senza alcun filtro, in realtà la soggettività non ha abdicato al proprio compito principiale, ma ha solo eliminato in modo velato l’alterità. La necessità di una reale visione dell’identità, dunque, sembra urgente.

Se essa deve emergere dalla contraddizione, dal rapporto col negativo in senso proprio e non solamente immaginato, l’inizio non sembra essere nel cogito e neanche negli agenti esterni. Tale contraddizione (o “nodo” originario) appare piuttosto come «positività» e come «movimento complesso». La complessità è indice non solo della difficoltà nel tentativo di fissare una possibile ermeneutica della categoria di identità, ma anche perché, come suggerisce l’etimo della parola[19], si tratta del frutto dell’interazione di più elementi, interpretabili solo a partire dalla loro unione profonda; in tal senso qualsiasi scomposizione risulta inadeguata e astratta.

La filosofia del Novecento è pervasa dall’idea del ritorno alla concretezza. Dal “divorzio” nietzschiano dalla metafisica all’esistenzialismo, alla genesi contemporanea della filosofia della scienza, il principale obiettivo è stato quello dell’indagine accurata sulle cose, cercando di ridurre al minimo il peso della mediazione soggettiva. Dopo Hegel, per il quale la mediazione coincideva con la cosa stessa[20], molti pensatori hanno cominciato una vera e propria disputa a posteriori. Dal dialogo polemico con l’idea dell’onnipresenza del sistema, molti pensatori hanno elaborato nuovi modi di concepire l’ontologia e la filosofia pratica. Torna in tal senso il tema della visione, che condensa in sé l’anelito alla ricerca di un orizzonte pur sempre presente, ma eterodosso rispetto alla metafisica classica.

Sembra che, allo stato attuale, molte costruzioni teoriche in campo morale siano ridotte alla loro efficienza, come quando si prepone un parametro di riferimento a un bilancio di sostenibilità. Anche il tentativo di arginare le derive morali, che i nuovi spazi di socializzazione hanno indotto, funge spesso da terapia antidolorifica che agisce sul sintomo, ma non sulla malattia. Il bisogno di immediatezza – lungi dall’essere inteso esclusivamente in senso cronologico – di per sé è legittimo, ma abbisogna di ciò che lo rende leggibile.

Il pensiero ebraico del Novecento, in questa prospettiva, ha elaborato un modo «Nuovo» – come recita l’espressione del suo iniziatore Franz Rosenzweig[21] – di pensare la presenza nello spazio globale. Alcune di queste intuizioni possono senz’altro tornare utili per tentare una lettura del tempo presente. Si è appena utilizzato il termine «presenza» e non «identità» per marcare il fatto che il concetto proposto non si limita specificamente a questo status, bensì si rivolge alla concretezza relazionale delle cose, di cui il concetto funge da caratteristica di conoscibilità. Rosenzweig, nella prima parte della sua opera programmatica, scrive:

L’affermazione diviene il contrassegno della determinazione originaria; il predicato, certo, nel caso singolo è sempre un singolo, quindi negativo, ma la determinazione, secondo il suo concetto originario è invece appunto positiva: il puro “così”. Che questo “così” divenga poi un “così e non altrimenti” è un processo che s’instaura solo quando all’ ‘uno’ originariamente tale si aggiunge e si affianca l’‘altro’[22].

 

Bisogna notare qui che la dimensione ontica viene resa mediante quella del linguaggio; l’affermazione (die Bejahung) che chiaramente rimanda all’atto del parlare, del proferire parola, costituisce la denotazione dell’originarietà delle cose (das Merkmal der Urbestimmung). Non sembra esserci spazio, dunque, per l’assoluto, ma ogni determinazione è tale perché all’origine si affianca un altro (zu dem ursprünglich Einen das “Andre” hinzutritt). La rilevanza del linguaggio, secondo Rosenzweig, non sta primariamente nella sua capacità concettuale, bensì nel suo essere relativo a qualcuno, quindi relazionale. Viene offerta così una possibilità «nuova» al pensiero, quella, cioè, dell’uscita al di fuori dell’orizzonte della mente e quella della concretezza attuale che genera, che produce novità, oppure che, talvolta, distrugge. La «presenza positiva» di cui si parla, infatti, non deve essere intesa in senso bonario, ma come coscienza ancorata fortemente agli atti che pone. Non si tratta neanche, a nostro avviso, di mera retorica di una filosofia che guarda ai fasti di un passato ormai scomparso, bensì del tentativo di lettura di un’epoca che, avendo indotto la filosofia (come compito universale) a deporre le armi dinanzi a una complessità satura di contraddizioni, sembra aver interrotto ogni tentativo di significazione dello spazio e degli avvenimenti:

La differenza tra vecchio e nuovo pensiero logico e grammaticale non sta nel rumore e nel silenzio, ma nel bisogno dell'altro e nel prendere il tempo sul serio, il che è la stessa cosa: pensare qui significa pensare per nessuno e parlare con nessuno (per cui non si parla per nessuno e, se vi sembra più dolce, si possono anche dire “tutti”, la famosa “universalità”), ma parlare significa essere d'accordo, parlare con qualcuno e pensare per qualcuno; e quel qualcuno è sempre una persona molto specifica e non ha solo orecchie come il grande pubblico, ma anche una bocca[23].

 

L’invito al pensiero relazionale che Rosenzweig propone, mette in risalto la dimensione dell’essere per. Non si dà, quindi, pensiero che non sia dialogo con l’altro. Ciò comporta il rischio della libertà, per il quale l’interlocutore può non essere d’accordo, oppure, addirittura, suscitare contraddizioni. L’avere una bocca (hat auch einen Mund) riporta la questione alla risposta del destinatario dell’interlocuzione che, a sua volta, diventa soggetto del pensiero. Si opera così uno spostamento dall’interesse per il pensiero al pensiero in sé. Si tratta di un’operazione teorica che permette di guardare al pensiero oggettivo, accogliendo serenamente il fatto che non può esserci punto di vista assoluto; non come rinuncia, ma come accoglimento positivo del limite in vista del rispetto profondo della realtà abitata. Da qui sembra auspicabile dedurre tre cose: l’unità del senso del mondo (globale secondo questo aspetto); un’etica che non limita, ma che esalta la pluralità; una democrazia “giovane” che allarghi il proprio esercizio sugli orizzonti di significato dei nuovi spazi di contatto, lontana dal terrore di perdere il controllo.

 

  1. Unità globale e unità morale

In verità, il mio Io è solo quando c’è [concretamente]; quando, per esempio, devo segnalare che vedo l’albero perché un altro non lo vede; allora, in verità, nella mia conoscenza l'albero è in connessione con me; ma sempre, altrimenti, non so che dell'albero e di nient’altro[24].

 

L’esempio appena citato, naturalmente, non è casuale. Rosenzweig, infatti, riprende il tema del vedere e, in particolare, del vedere qualcosa secondo quanto già detto. Non è strano, tuttavia, neanche il riferimento a una pianta (l’albero) e non a una persona, quasi a indicare (come evidentemente afferma più avanti) che le categorizzazioni, i giudizi logici sono solo l’inizio, ma non il tutto del reale inteso in modo olistico e relazionale. Questo, inoltre, ha una corrispondenza quasi parallela con l’esempio di Martin Buber, nella prima parte del suo celebre saggio Ich und Du del 1923. In questo scritto viene chiarificato ancora meglio quanto proposto nell’idea di fondo del Nuovo Pensiero:

L’albero non è un’impressione, non è un gioco della mia immaginazione, non è uno stato d’animo, ma è un corpo vivo davanti a me e ha a che fare con me, come io con lui, solo in un modo diverso. Non si cerchi di svigorire il significato della relazione: relazione è reciprocità[25].

 

La questione, allora, riguarda il tipo di reciprocità:

L’albero allora avrebbe una coscienza, simile alla nostra? Non la esperisco. Ma volete di nuovo dividere l’indivisibile, perché vi sembra che vi sia riuscito dividerlo in voi stessi? Non incontro nessun’anima dell’albero e nessuna driade, ma l’albero stesso[26].

 

Secondo Buber, la reciprocità trascende la capacità di esperirla, ma bisogna prestare attenzione al rischio di un misticismo surreale. La trascendenza proposta non è visione di un oltre, bensì apertura significativa all’hic et nunc, alla realtà con la sua durezza spesso tutt’altro che dolce. Non vi è nessun annacquamento, ma solo esercizio critico sulla vita nella sua interezza, non su una o più proiezioni. Da qui sembra emergere il compito della filosofia.

Il concetto di relazione come flusso di verità si allarga, con intensità differenti e proprie della sua essenza ai diversi aspetti della vita del mondo collegando e disgiungendo unità e molteplicità, distanza e unione in un dis-equilibrio reso armonioso solo se vissuto dall’interno. A ben vedere, la praticità di questa indagine teorica non instaura un mero rapporto di ricaduta sulla riflessione morale, ma è esso stesso morale. Secondo l’uso dominante del termine «morale», oggi per lo più tendente alla sola etica, interpretata come la serie di scelte da compiere o da evitare, in vista della garanzia del vivere pacifico, questo discorso risulterebbe poco accessibile. La questione da sollevare, allora, riguarderebbe il valore dei princìpi morali e se è sia possibile vivere in modo pacifico senza pacificazione. Nel solco tracciato da questa domanda si articola la possibilità di sopravvivenza delle democrazie occidentali. Di certo, in questa prospettiva, l’etica non è soppiantata dalla visione, ma ne trae il proprio nutrimento. Anche la prospettiva “mistica” di Buber è andata sempre più adagiandosi sul piano pratico in senso stretto:

Nel compiere questo passaggio tuttavia Buber ha portato con sé il bagaglio delle storie narrate, la loro ricchezza di vita e di pensiero. E ciò emerge in modo peculiare nella costante sottolineatura della centralità di una relazione viva con il divino, vissuta comunitariamente e non solo individualmente, del valore dell’ascolto e della ricerca, del senso e della fedeltà alle proprie radici, della tensione ad un’etica della vita quotidiana che rechi con sé il segno di relazioni autenticamente vissute giorno dopo giorno[27].

 

Il senso di quanto detto fin qui può essere condensato brevemente nel «comandamento della relazione», altrimenti detto «dell’amore», presente nell’Antico Testamento (Lv 19, 18) e ripreso in toto dal Vangelo di Marco (12, 31): «Amerai il prossimo tuo come te stesso»[28]. Questo precetto, considerato tra i primi di tutta la Sacra Scrittura, se non addirittura il primo in assoluto (regola d’oro), è stato oggetto di studio della tradizione dell’ebraismo prima e del cristianesimo poi. Esso è stato interpretato in entrambe le tradizioni sia al positivo, sia al negativo: «Non fare agli altri ciò che è male per te. Questa è tutta la Torà, il resto è commento. Ora va e studia!»[29]. Così il saggio Rav’ Hillel ammoniva il pagano che, nel racconto talmudico da cui è tratta la frase, chiedeva di imparare l’ebraismo per convertirsi a esso. In quest’ultimo caso l’accento è posto sull’evitare di fare qualcosa di malvagio nei confronti dell’altro. Ciò che, tuttavia, a prescindere dal “punto d’ingresso” del comandamento, salta all’occhio è il chiaro riferimento al «se stessi» come parametro di valutazione della moralità delle azioni. Nel cristianesimo, in seguito alla cristallizzazione della societas christiana, per la quale anche la Teologia ha assunto un ordo divenuto più importante del suo stesso oggetto di studio, il riferimento all’identità come «appartenenza all’ovile», come metro di misura nel discernimento, ha determinato il limite entro il quale sarebbe possibile declinare le relazioni in genere, specialmente per ciò che riguarda quelle umane. Da quello che emergerebbe, però, dalle parole evangeliche[30], l’attenzione sarebbe rivolta al soggetto solo in seconda battuta, mentre la preminenza apparterrebbe al comando in sé. Ciò sembrerebbe essere suggerito non solo dalle parole del Cristo, ma anche dall’intera narrazione della sua vicenda. L’identità, dunque, sarebbe definita dalla relazione e non viceversa. Non nel senso dell’inverso dell’adagio agere sequitur esse, perché anch’esso riguarda un agire assoluto, sciolto e astratto, bensì nella direzione del movimento proprio dello scambio, etico per costituzione. L’ebraismo, dal canto proprio, ha visto lo sviluppo degli studi sulla halakhah (tradizione normativa) sbilanciarsi su fronti diversi, ma ciò che è possibile notare è che il perfetto a-temporale (אָֽהַבְתָּ֥) mediante il quale la lingua ebraica introduce il comando di amare del libro del Levitico sembra assumere un’accezione di perentorietà e di peso non trascurabile. Sembra essere, inoltre, questo il bacino ermeneutico dal quale Buber deduce il suo principio dialogico[31].

 

  1. Spazio globale: cose nuove e cose antiche

La grande questione che interessa il nostro tempo è quella dell’atteggiamento da assumere di fronte al sorgere di nuovi spazi, come se l’operazione del re-interpretare lo spazio tradizionale da parte della tecnica avesse moltiplicato le dimensioni del già vasto universo precedentemente conosciuto. Sono nati, in un tempo relativamente breve rispetto anche alle comuni accelerazioni della storia, modi diversi di percepire l’agire soggettivo che tende sempre più a diminuire le mediazioni che lo separano dal proprio fine. Dai consumi alle connessioni, si è tentato di ridurre non lo spazio e il tempo, bensì le difficoltà relative alla gestione di questi. Da ciò, sembra evidente che giova una riflessione più profonda rispetto a quella prodotta dagli stereotipi, spesso provenienti da generazioni anagraficamente più anziane.

Se è vero, infatti, che “nuovi” spazi esistono nel senso che prima alcune realtà come il web, le piattaforme social o l’IA non esistevano, sembra ancor più vero che l’interpretazione secondo cui il “nuovo” possa essere considerato come un estraneo naturalizzato nell’ambiente esistente, che ha inquinato l’aria salubre che si respirava prima, è abbastanza lontana dalla realtà delle cose per essere presa seriamente in considerazione; prova di ciò è il grande numero di registrazioni che alcune piattaforme registrano non appena nascono (non solo tra i giovani)[32]. La novità reale, dunque, risiederebbe non tanto nel fatto che esistano spazi più larghi, ma nel tentativo di leggere il vecchio in modo più definito, onnicomprensivo e preciso. Sembrerebbe trattarsi, più o meno velatamente, dell’estensione, del perpetrarsi del fenomeno della globalizzazione, cominciato già più di un secolo fa. Il problema da sottoporre alla riflessione filosofica, dunque, non riguarderebbe il come poter produrre una filosofia del digitale, bensì come compiere una lettura serena e attenta del reale nella sua totalità. Lo spazio, infatti, se deve essere reso significativo, deve essere pensato in modo globale; bisogna considerarlo, appunto, in analogia con il globo geometrico, nella correlazione dei punti della superficie tra loro e con il centro d’origine, prendendo in esame in special modo la superficie curva come riducibile a infinitesime quantità discrete, formanti una totalità conclusa. La filosofia e la sua riflessione morale non possono “adagiarsi” sulle parti, ma bisogna che recuperino il ruolo di luogo dell’unione tra le parti e il tutto. A questa posizione sembra essere legata indissolubilmente la sopravvivenza del sapere umanistico, altrimenti relegato alla Geniza di carte al macero, non immediatamente distruttibili per una certa aura di sacralità, ma comunque destinate alla dissoluzione.

Tutti i processi, che generano gli ambienti “nuovi” che conosciamo, spesso sono regolati dal mantra della frammentazione, inteso come la natura propria del dato (si tratti di dato informatico o di qualsiasi altro genere poco importa), però la particolarità

non deve essere fine a sé stessa, ma rimanere invece strettamente concepita in funzione del tutto. Un modo di esprimere questa realtà è di descrivere la frammentazione come cellularità. Nel momento in cui consideriamo i frammenti come cellule, mettiamo in risalto la loro appartenenza al tutto: una cellula presume un organismo che funziona perché articolato in modo cellulare, dove le cellule dipendono l’una dall’altra ed è questa co-dipendenza organica che afferma l’integrità dell’organismo nel momento stesso in cui afferma la suddivisione e combinatorialità delle parti costitutive[33].

 

La dimensione del dialogo qui torna imperiosa sotto l’aspetto della principialità. Si tratta, è vero, di una dimensione indagabile solo dal suo emergere; quindi, non data a priori. La sfida risolutiva, tuttavia, sembra passare per il contributo di una riflessione che recuperi la propria ragion d’essere nella concretezza degli eventi.


[1] Cfr. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus (1921), in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di A.G. Conte, tr. it. Einaudi, Torino 19866, prop. 1.

[2] Ibid., prop. 2.013.

[3] Ibid., prop. 3.4.

[4] Ibid., propp. 6.4-6.41.

[5] Cfr. L. Perissinotto, Introduzione a Wittgenstein, Il Mulino, Bologna 2018, pp. 13-23.

[6] Ci si riferisce qui, prevalentemente, alla grande tradizione che dal pensiero aristotelico-tomista è giunta fino ai nostri giorni.

[7] Si vedano ad esempio il Simbolo Niceno-Costantinopolitano, prodotto dal Secondo Concilio di Costantinopoli [553 d.C.] e i relativi canoni che condensano, sul piano dottrinale, questo assunto. Cfr. H. Denzinger, P. Hünermann, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, EDB, Bologna 201845, pp. 236-245.

[8] Si veda, ad esempio, l’opera di B. Häring, Liberi e fedeli in Cristo. Teologia morale per preti e laici (1978), tr. it. San Paolo, Cinisello Balsamo 1989. Quest’opera, seppur foriera di grandi ed equilibrate aperture nella Teologia morale cattolica, ha indicato l’esigenza del fissaggio del “punto fermo dell’opzione fondamentale”, dettato anche dai tempi in cui è stata pubblicata. Forse, da questa, la Teologia morale non si è mai affrancata.

[9] Cfr. E. Bloch, Il principio speranza (1954), tr. it. Garzanti, Milano 1994, p. 230.

[10] Cfr. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino 1975, p. 75.

[11] Bisogna ricordare, a tal proposito, che Romano Guardini fu docente titolare della cattedra di Filosofia della religione e Weltanschauung cattolica dal 1923 al 1939 a Berlino e dal 1945 al 1962 a Tubinga e a Monaco di Baviera.

[12] R. Guardini, Mondo e persona. Saggio di antropologia cristiana (1939), tr. it. Morcelliana, Brescia 20154, p. 96.

[13] Cfr. I. Kant, Critica del giudizio (1790), in Id., Le tre critiche, tr. it. Mondadori, Milano 2008, p. 950.

[14] T. Adorno, Dialettica negativa (1966), tr. it. Einaudi, Torino 2004, p. 364. 

[15] R. Guardini, Etica. Lezioni all’Università di Monaco (1950-1962), tr. it. Morcelliana, Brescia 20213, pp. 248-249.

[16] Ibid.

[17] Cfr. 2Cor 4, 7.

[18] Cfr. K. Baclawski, The Observer Effect, in 2018 IEEE Conference on Cognitive and Computational Aspects of Situation Management (CogSIMA), Boston (MA USA), IEE 2018, pp. 83-89.

[19] Il termine complesso deriva dal participio passato del verbo latino complecti (stringere, comprendere). L’etimologia sembra offrire il senso dell’abbracciare, avvicinare, stringere elementi di per sé sparsi.

[20] Cfr. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito (1807), tr. it. Bompiani, Milano 2017, p. 167.

[21] Cfr. F. Rosenzweig, Das Neue Denken. Einige nachträgliche Bemerkungen zum "Stern der Erlosung", in Id., Zweistromland. Kleinere Schriften zu Glauben und Denken, in Gesammelte Schriften vol. 3, a cura di R. Mayer, A. Mayer, Martinus Nijhoff Publishers, Dodrecht 1984, pp. 139-160.

[22] Id., La stella della redenzione (1921), tr. it. Vita e Pensiero, Milano 2005, p. 27.

[23] «der Unterschied zwischen altern und neuem, logischem und grammatischem Denken liegt nicht in laut und leise, sondern im Bedürfen des andern und, was dasselbe ist, im Ernstnehmen der Zeit: denken heißt hier für niemanden denken und zu niemandem sprechen (wobei man für niemanden, wenn einem das lieblicher klingt, auch alle, die berühmte "Allgemeinheit " , setzen kann), sprechen aber hießt zu jemandem sprechen und für jemanden denken; und dieser Jemand ist immer ein ganz bestimmter Jemand und hat nicht bloß Ohren wie die Allgemeinheit, sondern auch einen Mund». Id., Das Neue Denken, cit., pp. 151-151. Traduzione mia.

[24] «In Wahrheit ist mein Ich nur dabei, wenn es - dabei ist; wenn also z. B. ich betonen muß, daß ich den Baum sehe, weil ein andrer ihn nicht sieht; dann ist in meinem Wissen allerdings der Baum in Verbindung mit mir; aber immer sonst weiß ich nur von dem Baum und von nichts anderm». Ibid., p. 147. Traduzione mia.

[25] M. Buber, Io e tu (1923), in Id., Il principio dialogico e altri saggi, tr. it. San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 64.

[26] Ibid., p. 65.

[27] F. Miano, Mistica e Etica in Martin Buber, in I. Adinolfi, G. Gaeta, A. Lavagetto (a cura di), L’anti-Babele. Sulla mistica degli antichi e dei moderni, Il Melangolo, Genova 2017, p. 485.

[28] וְאָֽהַבְתָּ֥ לְרֵעֲךָ֖ כָּמ֑וֹךָ אֲנ: così l’originale ebraico della parte del verso in questione del libro del Levitico.

[29] Talmud Shabbat 31a, in https://www.sefaria.org/Shabbat.31a.4?lang=bi.

[30] Il comandamento dell’amore è riportato, con qualche differenza testuale, anche negli altri tre racconti evangelici. Si vedano a tal proposito le pericopi di Mt 12, 29-31; Lc 10, 25-28; Gv 13, 34.

[31] Cfr. M. Buber, Il chassidismo e l’uomo occidentale (1956), tr. it. Il Melangolo, Genova 2012.

[32] Dallo streaming autonomo alla semplice scorsa delle foto senza filtri, queste nuove possibilità di interazione registrano grandi numeri di afferenza, crollando successivamente per il cambio della tendenza. Solo in poche hanno mantenuto numeri pressoché costanti nel tempo. Si veda a tal proposito il Diciannovesimo Rapporto Censis sulla comunicazione, in https://www.censis.it/comunicazione/il-vero-e-il-falso-0.

[33] G. Buccellati, Umanesimo digitale. I frammenti in-discorso con il tutto, in M. Marassi, N. Scotti Muth (a cura di), Umanesimo e digitalizzazione. Teoria e realizzazioni pratiche, Vita e Pensiero, Milano 2024, p. 6.

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