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Carne coltivata, mitigazione climatica e narrazioni collettive: il caso italiano

Autore


Erica Onnis

Università Niccolò Cusano di Roma

Professoressa Associata di Filosofia teoretica presso l’Università Niccolò Cusano di Roma


1. Introduzione
2. Food is failing us
3. Cambiare dieta, cambiare storia
4. La carne e il suo cluster di narrazioni: naturalità e tradizione
5. Conclusioni. Decostruzioni, costruzioni e ricostruzioni

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S&F_n. 31_2024

Abstract


Cultured Meat, Climate Mitigation, and Collective Narratives: The Italian Case

The climate crisis has revealed the connections between some practices considered harmless or inconsequential on a global scale and the dramatic changes affecting the climate and environment. This paper explores the different impacts of certain dietary patterns (carnism, vegetarianism, and veganism), potential mitigation scenarios, and the collective narratives about food and our relationship with it that hinder the shift towards more sustainable eating habits. Specifically, the case of the ban on the production and consumption of cultured meat in Italy is examined, with an analysis of the narratives supporting it.

1. Introduzione

La crisi climatica ha reso evidenti le connessioni fra una serie di pratiche a lungo considerate innocue o prive di conseguenze rilevanti sul piano globale e i cambiamenti drammatici che stanno interessando il clima e l’ambiente.

Pratiche (o scelte) come mangiare certi alimenti, usare l’automobile, viaggiare in aereo o mettere al mondo uno o più figli sono oggi sotto l’occhio critico della comunità scientifica, impegnata a determinarne l’impatto sul clima e gli ecosistemi (ma anche sui paesi in via di sviluppo e sulle popolazioni meno privilegiate)[1]. In questo articolo, prendo in considerazione alcune pratiche alimentari (il carnismo, il vegetarianismo e il veganismo), il loro impatto sulla crisi climatica, il loro diverso potenziale a livello di mitigazione e, in ultimo, alcune narrazioni sul cibo e sul nostro rapporto con esso che ostacolano il cambiamento verso forme di alimentazione più sostenibili.

In particolare, esaminerò il caso del divieto della produzione e del consumo di carne coltivata in Italia, interpretandolo come derivante da un cluster complesso di narrazioni alimentari di cui ne verranno esaminate due.

La prima, che emerge riflettendo sul nome con cui la carne coltivata è diventata nota in Italia, ossia carne “sintetica”, è incentrata sul concetto di naturalità: la carne coltivata è sintetica, quindi artificiale, quindi non genuina.

La seconda gravita attorno al concetto di tradizione e sembra inquadrare molte delle ragioni esplicite del divieto: la carne coltivata minaccerebbe la tradizione gastronomica italiana poiché estranea al sistema alimentare del passato. La complessità del cluster ideologico che fa da cornice al consumo di carne fa sì che per superare la diffidenza collettiva verso fenomeni come quelli della carne coltivata (ma questa analisi può essere estesa a numerosi altri casi), sia necessario agire su più fronti ed esplorare nuove narrazioni che permettano all’individuo di concepire in modo diverso la propria relazione con il cibo e le conseguenze che essa produce sull’ambiente e sulla società.

 

2. “Food is failing us[2]

Il sistema alimentare è il settore responsabile delle maggiori emissioni di gas climalteranti – principalmente metano (CH4), diossido di carbonio (CO2) e protossido di azoto (N2O) – ed è riconosciuto come la prima causa del degrado di numerosi e importanti ecosistemi terrestri e marini, del consumo di acqua dolce, dell'inquinamento di acque e terre come esito dell’uso intensivo di azoto e fosforo[3] e della conseguente perdita mondiale di biodiversità che sta toccando tassi di estinzione 1000 volte superiori a quelli degli ultimi dieci milioni di anni[4].

Il sistema alimentare globale è, inoltre, inefficace nel garantire una quantità e qualità di cibo adeguato alla popolazione mondiale. Da un lato, siamo ancora lontani dall’estirpare la fame e la denutrizione[5], dall’altro, l’obesità è quasi triplicata a partire dal 1990 e i decessi legati alla sovranutrizione e alle diete non salutari sono sempre più numerosi e vengono ora riconosciuti come un’autentica epidemia[6].

Non tutte le diete sono ugualmente dannose, tuttavia, poiché gli alimenti responsabili del grande impatto che l’industria alimentare ha sul clima e sull’ambiente sono quelli di origine animale: carne, pesce, uova, latte e prodotti caseari.

Uno studio del 2018 sull’impronta carbonica di diverse diete ha in effetti chiarito come queste tipologie di prodotti siano responsabili dell’83% delle emissioni di gas climalteranti derivate dagli alimenti[7] . Diete prive o povere di essi risultano quindi in impronte carboniche differenti:

[…] le emissioni di gas serra, calcolate in chilogrammi di anidride carbonica equivalenti al giorno [...], sono state di 7,19 [...] per i grandi mangiatori di carne (100 grammi o più al giorno), 5.63 [...] per i medi mangiatori di carne (50-99 grammi al giorno), 4,67 [...] per i bassi mangiatori di carne (meno di 50 grammi al giorno), 3,91 [...] per i mangiatori di pesce, 3,81 [...] per i vegetariani e 2,89 [...] per i vegani[8].

Ridurre o eliminare dalla dieta i prodotti di origine animale ha dunque un effetto positivo sul clima e sugli ecosistemi ed è per questa ragione che l’ultimo rapporto pubblicato dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC 2022)[9] raccomanda un passaggio dalle diete attuali a queste diete più sostenibili[10], capaci di ridurre il riscaldamento globale all’origine dei fenomeni climatici avversi di cui siamo testimoni. Numerosi studi affermano addirittura che un cambiamento globale a livello di dieta e produzione alimentare rappresenti la migliore possibilità di raggiungere l’obiettivo dell’Accordo di Parigi, ossia limitare il riscaldamento globale a un innalzamento di 2-1,5°C[11].

Non solo, infatti, il settore agroalimentare è responsabile di una porzione rilevante delle emissioni antropogeniche di gas serra globali, ma il tipo di gas serra maggiormente emesso dall’industria alimentare è il metano che, da un lato, ha un potere climalterante estremamente maggiore di quello del diossido di carbonio, essendo dunque più dannoso del primo, ma che, dall’altro lato, ha la qualità di dissolversi molto velocemente: perché il carbonio scompaia dall’atmosfera servono centinaia di anni, mentre al metano ne bastano 10-12[12].

Infine, diversamente dall’industria dei trasporti o dell’energia, l’industria alimentare è decarbonizzabile in misura ridotta poiché il metano viene prodotto dai processi digestivi dei ruminanti e dalle loro deiezioni e questi elementi non sembrano sostituibili o eliminabili dal processo produttivo della carne[13] (o almeno non lo sono nel quadro dell’agricoltura animale convenzionale).

Per tutte queste ragioni, la mitigazione delle emissioni di metano rappresenta uno dei principali obiettivi globali tesi alla mitigazione climatica e il Global Methane Pledge, lanciato dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti d’America durante la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2021 (COP26) e di cui al momento sono aderenti 155 paesi è testimone di questa urgenza[14].

 

3. Cambiare dieta, cambiare storia

Se il settore agroalimentare non è decarbonizzabile oltre una certa misura, ma è necessario che esso cambi così che sia possibile abbattere le emissioni di metano, il primo e più immediato scenario che viene alla mente è quello della conversione a diete reducetariane, vegetariane o vegane. Se i prodotti di origine animale sono, cioè, responsabili di rilevanti emissioni di metano che devono essere ridotte, è banalmente necessario diminuirne o azzerarne il consumo.

Cambiare dieta, tuttavia, non è semplice né immediato. Molte delle decisioni che riguardano l’alimentazione sono infatti determinate ogni giorno da numerosi fattori personali, ambientali e sociali[15] che rendono il cambiare alimentazione una decisione complessa di cui il singolo è solo parzialmente responsabile.

Nello specifico, esistono delle narrazioni collettive sul cibo che il filosofo David Kaplan ha definito “food narratives”[16] e che rappresentano degli universi stratificati di idee, significati e implicite prescrizioni che guidano il comportamento dell’individuo accomodandolo in una cornice di senso che ha un’origine e una dimensione sociale.

L’idea delle narrazioni alimentari di Kaplan richiama alla mente altre simili intuizioni sul cibo, come quelle che identificano delle ideologie alimentari – si pensi al carnismo di cui discute Melanie Joy[17] – o delle semiosfere alimentari (dette “foodspheres” da Simona Stano[18]). Il cibo è insomma ampiamente riconosciuto come un elemento culturale inserito in reti semiotiche rilevanti per l’identità dell’individuo e del suo gruppo sociale di appartenenza ed è per questa ragione che cambiare dieta è così impegnativo: perché il cibo non è mai soltanto cibo e la sua scelta rispecchia valori e significati che lo trascendono.

Affinché cambiare stile di alimentazione diventi più semplice, esplorare nuovi sistemi di valore e di significato potrebbe dunque essere una strada efficace. In altri termini, per cambiare dieta, è necessario che cambi – almeno parzialmente – la narrazione che definisce il cibo e la sua relazione con chi lo mangia.

Per esplorare nuove narrazioni, tuttavia, è necessario capire quale sia la narrazione dalla quale si parte e che viene considerata “la normalità”. David Kaplan, per esempio, afferma che negli Stati Uniti (ma anche fuori da essi e in misura sempre maggiore nei paesi in via di sviluppo, che tendono a imitare i paesi del primo mondo), la narrazione alimentare più diffusa si basa sul concetto di libertà (idea che riecheggia l’assenza di norme che caratterizza la moderna gastro-anomie descritta da Claude Fischer[19]).

Kaplan sostiene che quella che definisce freedom narrative[20] sia la storia dominante che gli individui raccontano e vivono in relazione al cibo. Secondo questa narrazione, «for any food issue, freedom to choose is always good and restrictions on choice are always bad»[21]. La relazione che sussiste fra cibo e individuo, in altre parole, rispecchia un ideale di cui la cultura americana è intrisa e cioè quello della libertà di scelta e di autodeterminazione[22]. Nell’ottica di questa narrazione, un cambio di alimentazione come quello richiesto per abbattere le emissioni di metano è difficilmente accomodabile, soprattutto in considerazione del fatto che la mitigazione climatica privilegerà principalmente le generazioni future e quindi chi dovrebbe privarsi nel presente di certi alimenti non godrà di privilegi che ne facciano da contrappeso: i vantaggi dei sacrifici di oggi saranno goduti un domani da chi oggi è giovane o persino non ancora nato.

Se, da un lato, ridurre il consumo di prodotti di origine animale (o addirittura rinunciarvi del tutto) è quindi visto come un sacrificio personale che si accompagna alla rinuncia di certe libertà e se, dall’altro lato, la libertà personale è il valore centrale della narrazione alimentare adottata da una collettività, allora il cambiamento sarà difficilmente accettato di buon grado e infatti, sebbene in aumento, la comunità vegetariana e vegana rappresenta una piccola porzione della popolazione mondiale[23].

Accanto allo scenario del cambio di dieta, recentemente ne è emerso un secondo, ossia quello che prevede la sostituzione parziale o completa della carne prodotta dall’agricoltura animale convenzionale con una carne prodotta da quella che è stata definita “agricoltura cellulare”[24], ossia «la tecnologia e/o l’insieme delle procedure che consentono di ottenere carne da cellule animali o vegetali»[25]. La carne coltivata è carne prodotta in vitro, tramite replicazione cellulare. Essa è simile, a livello molecolare, alla carne convenzionale, ma non richiede le risorse necessarie per produrre quest’ultima: non sono necessari quegli organismi i cui processi digestivi e i cui scarti sono legati alle elevate emissioni di metano di cui è responsabile il settore agroalimentare ed è inoltre necessaria una quantità molto inferiore di acqua e di suolo. Va notato, a questo punto, che oltre all’abbattimento delle emissioni di metano che seguirebbe la scomparsa o il ridimensionamento degli allevamenti convenzionali, l’uso di una quantità inferiore di suolo avrebbe conseguenze estremamente positive per la mitigazione delle emissioni di carbonio. Un quinto delle emissioni antropogeniche di carbonio deriva infatti dalla deforestazione, dal degrado degli ecosistemi forestali e dal cambiamento di destinazione d’uso del suolo[26] e tali pratiche sono legate principalmente al bisogno di pascoli per i ruminanti e di terreni per coltivare i cereali a loro destinati[27].

La carne coltivata, tuttavia, sembra presentare altri preziosi vantaggi, oltre a quelli legati al minore impatto ambientale. Una carne che per essere prodotta non richieda allevamenti intensivi non produce quelle condizioni di sovraffollamento e scarsa igiene che più volte hanno prodotto l’emergenza e la diffusione di zoonosi[28] né l’uso massiccio e preventivo di antibiotici che portano allo sviluppo di patogeni antibioticoresistenti pericolosi per la salute pubblica[29].

La carne coltivata sarebbe, in altre parole, un alimento più sano e più controllato di quello convenzionalmente prodotto e non causerebbe quelle tossinfezioni così diffuse che derivano dal fatto che gli animali (selvatici o domestici) siano serbatoi naturali di numerosi batteri[30].

Infine, accanto ai vantaggi per l’ambiente e per la salute pubblica, la carne coltivata mitigherebbe o risolverebbe (per ovvie ragioni) il problema dello sfruttamento animale. Essa rappresenta una tecnologia in grado di produrre carne senza imprigionare, torturare e macellare miliardi di organismi senzienti a cui vengono riservati trattamenti brutali[31] che sembrano necessari all’agricoltura animale convenzionale, ma su cui l’opinione pubblica si sta sempre più sensibilizzando[32].

Diversamente dal primo scenario, ossia quello di un cambio di dieta, lo scenario che vede la diffusione della carne sintetica e la sua parziale o totale sostituzione alla carne convenzionale (uno scenario futuro, chiaramente, dato che siamo agli albori dell’agricoltura cellulare) non richiederebbe al consumatore di rinunciare ai prodotti di origine animale. Questi ultimi avrebbero un’origine diversa, ma non cambierebbero nella sostanza e perciò la necessità di affrontare grossi sacrifici gastronomici sembrerebbe scongiurata.

A fronte di questi vantaggi ambientali, salutistici, etici e psicologici (e pur considerando le incognite e le problematiche relative alla transizione dall’agricoltura animale a quella cellulare[33]), la carne coltivata sembra un’innovazione per lo meno promettente e potenzialmente in grado di mitigare molte delle sfide globali attuali: la crisi climatica, la sovrappopolazione, la sicurezza alimentare, il benessere animale.

Così come nel primo scenario, tuttavia, anche questa innovazione, che equivale all’introduzione nell’universo alimentare di un cibo “nuovo” e quindi potenzialmente sospetto, deve essere accompagnata da un qualche cambio di narrazione.

La carne è un alimento importante nelle diete di molte culture ed è stata importante per l’evoluzione della nostra specie[34]: è chiaro che sostituirla con qualcosa di parzialmente diverso possa destare delle resistenze. È quindi necessario porsi, nuovamente, la domanda circa la narrazione che circonda la carne, il significato e il valore del suo consumo e chiedersi se questa narrazione sia compatibile (o possa diventarlo) con il passaggio da un tipo a un tipo diverso di carne.

 

4. La carne e il suo cluster di narrazioni: naturalità e tradizione

Come anticipato nella sezione precedente, con il termine “narrazione” mi riferisco a un sistema ideologico, affettivo e valoriale che inquadra il mondo o una sua parte in una complessa griglia di significati e valori che sono dotati, da un lato, di un’origine e una profondità storica e, dall’altro, di una dimensione sociale estremamente pronunciata[35]. Ogni narrazione è connessa a moventi, interessi e punti di vista calati in uno spazio e in un tempo particolari e, per questa ragione, è parziale e prospettica, cioè non sempre immediatamente applicabile in contesti sociali diversi rispetto a quelli in cui è emersa. Queste narrazioni collettive, come molte di quelle più puntuali che troviamo nella letteratura o, in generale, nell’arte[36], sono in grado di produrre suggestioni, credenze e prescrizioni che rappresentano delle forme di conoscenza molto diverse rispetto alla conoscenza scientifica. Le narrazioni offrono cioè un contenuto epistemico saliente e convincente[37] per il soggetto poiché esso ne viene a contatto non tanto leggendo, studiando o ascoltando le dichiarazioni di estranei rispetto ai quali si può sentire più o meno lontano (scienziati, divulgatori, giornalisti, politici), quanto interagendo con familiari, amici e membri della propria comunità con cui intrattiene rapporti di fiducia. Una narrazione è convincente, in altre parole, perché lo è la fonte da cui proviene (e questo implica che possa essere inaccurata poiché non ogni fonte affidabile è necessariamente competente o informata). La forte salienza cognitiva, emotiva e psicologica di quella che potremmo definire “conoscenza narrativa” ne determina, infine, la grande capacità motivazionale: le narrazioni in cui crediamo ci spingono all’azione, definiscono la nostra postura morale e determinano i nostri comportamenti.

Per rispondere alle domande poste in chiusura del paragrafo precedente, sarebbe opportuno ricostruire la famiglia di narrazioni che accompagna il consumo di carne e la sua possibile parziale sostituzione con la carne coltivata. Questo è un compito estremamente complesso poiché egualmente complesso è il cluster di narrazioni che interessa questo alimento e il suo consumo. In questa sede, mi limiterò a esaminare una parte di questo cluster, concentrandomi su due narrazioni interconnesse che sono particolarmente rilevanti nel contesto italiano[38]. Esso, a mio avviso, esibisce infatti notevoli differenze rispetto a quello che è stato analizzato da Kaplan e che gli ha suggerito la salienza delle narrazioni basate sul concetto di libertà di scelta. Come vedremo, in Italia, le narrazioni alimentari che fanno da cornice al dibattito sulla carne gravitano attorno a due valori centrali: non la libertà di scelta quanto piuttosto la naturalità e la tradizione.

Dopo essere stato approvato dal Senato della Repubblica a luglio e dalla Camera dei Deputati a novembre, il 1° dicembre 2023 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana il decreto-legge n° 172 che prevede il «divieto di produzione e commercializzazione  di  alimenti e mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari […]»[39]. Il divieto è motivato dal principio di precauzione e serve ad «[…] assicurare  la tutela della salute umana e degli interessi dei cittadini nonché a preservare il patrimonio agroalimentare […]»[40]. Con questo decreto, l’Italia è diventata il primo e unico paese al mondo a vietare la produzione e il consumo di carne coltivata.

Al di là delle preoccupazioni economiche evidenti dalla petizione promossa da Coldiretti nel 2022 e accolta nella formulazione del disegno di legge del ministro Lollobrigida, il testo della legge, il contesto normativo europeo e le dichiarazioni del ministro offrono interessanti spunti di riflessione sulla narrazione di cui sembra farsi portavoce il governo italiano emanando questo divieto. In base a quanto riportato in un comunicato stampa del Ministero dell'Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste, Lollobrigida ha dichiarato che:

Tuteliamo il nostro cibo, il nostro sistema di alimentazione, per mantenere il rapporto tra cibo, terra e lavoro dell'uomo che ci ha accompagnato per millenni, garantendo la qualità che l'Italia esprime e che è l'espressione della sicurezza alimentare per tutto il pianeta. Il cibo sintetico, coltivato, lontano dalle nostre tradizioni, non garantisce questo principio. […] Siamo orgogliosi che l'Italia sia la prima Nazione del pianeta a proibire questo tipo di produzioni che cancellano il nostro sistema alimentare tradizionale[41].

Dalle dichiarazioni del ministro sembra che, accanto alle ragioni del divieto esplicitate nel testo della legge – ragioni che, secondo alcuni, sono immotivate dato che ogni “novel food” deve essere approvato dall’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) e in generale dalla normativa unionale prima di essere prodotto e commercializzato negli stati membri dell’Unione Europea [42] – vi sia una più generale e ideologica diffidenza nei confronti di un prodotto alimentare sintetico e non tradizionale. Partiamo dal primo aggettivo.

Il termine “sintetico”, con cui la carne coltivata è diventata nota in Italia, rende evidente la prima narrazione su cui vorrei soffermarmi. L’uso di questo aggettivo si riscontra fra i non addetti ai lavori, ma anche, come abbiamo visto, in sedi istituzionali[43], eppure, la carne coltiva non è un prodotto sintetico poiché la sua produzione non coinvolge nessun processo artificiale di sintesi[44]. La sua associazione al dominio del sintetico ha tuttavia forti implicature che la connettono all’artificiale e al non-naturale. La prima narrazione è dunque quella secondo cui la carne coltivata sarebbe un cibo artificiale mentre la carne prodotta convenzionalmente sarebbe un cibo naturale. A questo si unisce l’assunzione che il cibo naturale sia migliore del cibo non naturale in virtù di questa sua proprietà – una credenza irriflessa piuttosto diffusa che si manifesta nel cosiddetto “natural trend”, ossia la tendenza del consumatore contemporaneo a favorire alimenti etichettati come “naturali”, “biologici” o, in inglese, “organic”[45].

Questa narrazione emerge tuttavia da premesse discutibili. In primo luogo, essa cade nella cosiddetta “fallacia dell’appello alla natura”, formulata per la prima volta da George Edward Moore[46]. Considerare la naturalità di un oggetto come garanzia della sua bontà o genuinità significa infatti ignorare che molto di ciò che è “naturale” (concetto sulla cui definizione, tra l’altro, non c’è accordo[47]) è dannoso, pericoloso, malsano o, più in generale, non desiderabile. In secondo luogo, se è vero che la carne coltivata è un prodotto artefattuale, non sembra irragionevole estendere lo stesso giudizio alla carne prodotta dall’agricoltura animale convenzionale (e alla maggior parte degli alimenti distribuiti dalle attuali filiere alimentari[48]).

Di norma, un oggetto è considerato un artefatto – ossia un oggetto artificiale – quando richiede un intervento intenzionale dell’essere umano per venire a essere o per essere ciò che è[49]. L’industria agroalimentare si è servita – e tuttora si serve – di innumerevoli tecniche atte a selezionare artificialmente le specie biologiche più adatte all’allevamento e questo vale tanto per le razze di animali domestici quanto per le cultivar di piante coltivate, che, senza l’intervento umano, non esisterebbero. Questi organismi sembrano perciò esempi di entità artefattuali, ossia “fatte ad arte”. L’intervento di Homo sapiens, tuttavia, non si ferma qui, basti pensare alle numerose strategie di manipolazione, trasformazione, conservazione e cottura dei cibi che li hanno resi, nel corso dei millenni, più digeribili, nutrienti e gustosi di quelli che si potevano trovare “in natura”.

Se la carne coltivata è dunque un artefatto, lo stesso vale per quella non coltivata (così come per quasi tutto quello che mangiamo[50]) e se la carne coltivata non deve essere consumata o prodotta poiché “artefattuale”, sarebbe allora necessario interrompere il consumo e la produzione anche di quella convenzionale (e di tutto il cibo variamente trasformato di cui ci nutriamo abitualmente).

Accanto a quella della naturalità (o innaturalità), esiste un’altra narrazione la cui importanza in Italia sembra evidente. Nel passaggio sopracitato, Lollobrigida afferma che l’agricoltura cellulare è diversa dal sistema alimentare «che ci ha accompagnato per millenni», che la carne coltivata è un cibo «lontano dalle nostre tradizioni» e che queste nuove produzioni «cancellano il nostro sistema alimentare tradizionale». È chiaro come la narrazione veicolata dalle parole del ministro non ruoti attorno alla libertà di scelta del consumatore che caratterizza le diffuse narrazioni sul cibo identificate da Kaplan[51] né soltanto sulla innaturalità dell’agricoltura cellulare: un ruolo rilevante in queste dichiarazioni è rivestito dal concetto di tradizione. Sembra, in altre parole, che il divieto di produrre e consumare carne coltivata derivi da un sistema semiotico e valoriale in cui i cibi non tradizionali (oltre che sintetici) sono guardati con sospetto in virtù della loro estraneità alla storia e alla cultura culinaria e agroalimentare del contesto sociale di riferimento. Del resto, una simile accoglienza, in Italia, l’ha ricevuta un altro novel food il cui consumo è stato però approvato poiché precedentemente approvato a livello unionale: la farina di insetti[52]. Anche in questo caso, è evidente la diffidenza del consumatore verso un cibo “nuovo”, ossia estraneo alla tradizione culinaria italiana, a cui si aggiungono, da un lato, pregiudizi antropologici come quello che associa l’entomofagia ai popoli poveri, primitivi o meno civilizzati e, dall’altro, sentimenti di disgusto derivanti dalla parallela e diffusa repulsione per l’aspetto degli insetti e per gli ambienti in cui essi vivono, spesso considerati sporchi o malsani[53].

L’ipotesi che la narrazione che gravita attorno al concetto di tradizione sia una narrazione centrale nel contesto culturale italiano è irrobustita dal fatto che, da un lato, il richiamo alla tradizione sia sollevato in altri ambiti, si pensi alle molteplici dichiarazioni e iniziative del governo Meloni a favore della “famiglia tradizionale” – spesso chiamata, tra l’altro, “famiglia naturale”, circostanza che suggerisce una connessione fra i concetti di tradizionalità e naturalità. In secondo luogo, per rimanere al livello della dimensione alimentare e culinaria, esiste un potente mito strutturale relativo all’eccellenza e all’antichità della tradizione gastronomica italiana che si riflette, da un punto di vista più generale, nella rinomata salubrità e italianità della dieta mediterranea e, più precisamente, nel valore e nella genuinità di innumerevoli prodotti tipici le cui qualità si rispecchiano nella loro etichettatura come prodotti DOC, DOP, IGP e così via.

Come evidenziato da numerosi studi, queste credenze sono tuttavia erronee poiché, da un lato, la dieta mediterranea è un modello alimentare recente e artificiale che deriva in modo più o meno tortuoso dalle molteplici (e spesso poco salubri) diete diffuse fra le popolazioni del Mediterraneo – diete che variavano largamente a seconda della stagionalità, della zona geografica e, soprattutto, del ceto sociale [54]. Dall’altra parte, molti dei prodotti tipici della gastronomia italiana non sono né italiani né particolarmente genuini[55] quanto piuttosto il risultato di accurate strategie di marketing che hanno sfruttato delle narrazioni contemporanee incentrate su quello che Alberto Grandi e Daniele Soffiati hanno definito un «gastronazionalismo imperante»[56].

Un paese che si riconosce ricchissimo di tradizioni culinarie e custode di un prezioso patrimonio di eccellenze agroalimentari[57] (e che sembra avere un forte interesse economico a preservarli) sembra quindi un contesto particolarmente soggetto a quella diffidenza verso i nuovi alimenti che in letteratura viene chiamata “neofobia alimentare” (food neophobia)[58] e che interessa anche la carne coltivata.

Questa diffidenza limita, di fatto, il consumatore e lo rende virtualmente meno “libero”, circostanza che pare in controtendenza rispetto a quanto registrato da Kaplan e, prima di lui, da Fischer, che riscontrava nella perdita delle tradizioni culinarie un fattore importante all’origine della moderna gastro-anomie[59], una sorta di anarchia gastronomica responsabile di «comportamenti alimentari aberranti»[60] e conseguenze gravissime sulla salute pubblica.

Sembra insomma che in Italia la gastronomia sia più “nomica” che “anomica”, ma data la natura ambigua del criterio che la regola, ossia la sacralità di una tradizione culinaria storicamente inesistente, da questo sembrano discendere svantaggi rilevanti come, per esempio, il rifiuto ideologico di un prodotto come la carne coltivata che potrebbe avere ripercussioni positive sull’ambiente, sulla salute umana e sul benessere animale.

Vorrei infine notare che se anche l’antica tradizione agroalimentare italiana esistesse davvero e avesse le profonde radici che le vengono attribuite, ci sarebbero comunque numerose ragioni per dubitare della sua legittimità quale criterio per vietare il consumo e la produzione della carne coltivata o di qualsiasi altro novel food potenzialmente vantaggioso per l’ambiente e la società.

Da un lato, banalmente, sono esistite molte tradizioni che nel passato sembravano sacrosante e che oggi giudichiamo anacronistiche o incivili, si pensi al matrimonio riparatore o alla segregazione razziale. D’altro canto, ogni tradizione, in origine, non lo era: era qualcosa di nuovo e diverso rispetto a precedenti tradizioni che ha infine soppiantato. Accanto a queste considerazioni di buon senso, certa letteratura ha inoltre evidenziato come le tradizioni siano il prodotto di uno sguardo selettivo sul passato che sceglie di rammemorare certi fatti a discapito di altri, creando una continuità fra presente e passato che è in larga misura fittizia[61]. Altra letteratura chiarisce invece che il richiamo alla tradizione è spesso teso a preservare uno status quo in cui certi gruppi sociali sono avvantaggiati mentre altri vengono sistematicamente discriminati o marginalizzati. Preservare le tradizioni, in questo senso, significa perpetrare delle forme di ingiustizia e oppressione sociale indiretta, cioè non sempre né necessariamente normata e istituzionalizzata, ma capillarmente presente come tacito background culturale che si assorbe inconsciamente fin da bambini[62].

La tradizione, in conclusione, non ha un valore intrinseco. Lo può avere in concerto con un contesto adeguato, ma sembrerebbe che il caso che stiamo qui esaminando non rientri in questa categoria. Preservare le tradizioni può certamente avere dei vantaggi: rende più prevedibili alcune dinamiche sociali, rinforza l’identità della collettività (o almeno di quella parte di collettività che si riconosce nelle tradizioni preservate) e rispetta quelli che potremmo definire “standard transgenerazionali”, nel senso che se gli stessi pattern sociali persistono nel tempo, tutte le generazioni che vivono in quel tempo ne faranno esperienza allo stesso modo[63]. Questi vantaggi, nel caso specifico a cui ci stiamo riferendo e considerata la gravità della crisi climatica e l’urgenza con la quale occorrere reagirvi, sembrano tuttavia futili, deboli o chiaramente inopportuni: le giovani generazioni non si riconoscono in tradizioni discriminatorie e dannose per l’ambiente né sono interessate a preservare. Se si esaminano le richieste del movimento internazionale Fridays for Future, per prendere un celebre esempio, la tutela dell’ambiente e un assetto sociale più equo sembrano anzi essere i loro principali desiderata[64].

Per concludere, la tesi secondo cui la produzione e il consumo di carne coltivata andrebbero evitati o addirittura vietati per ragioni di rispetto del patrimonio gastronomico (e quindi culturale) italiano e per tutela della salute pubblica discende da una famiglia di narrazioni incentrate su idee incongruenti e valori contestabili, ma capaci di generare uno stallo sociale non desiderabile visto il momento storico estremamente critico che l’ambiente e l’umanità stanno attraversando.

 

5. Conclusioni. Decostruzioni, costruzioni e ricostruzioni

Mentre una teoria scientifica può ritenersi valida finché i dati la supportano, affinché una narrazione venga abbandonata o sostituita da qualcosa d’altro non è sufficiente decostruirne razionalmente le premesse logiche o empiriche. Non è l’accuratezza a rendere le narrazioni robuste e influenti.

Le narrazioni, in questo, sono simili agli stereotipi (che infatti spesso incorporano[65]): manifestano una notevole resistenza alle controprove e una parallela tolleranza nei confronti di quei fenomeni che non vi si conformano[66]. Le “eccezioni alla regola” sono insomma tollerate perché né le narrazioni né gli stereotipi si propongono come modelli universali e assoluti di verità. Essi descrivono il mondo – o parte di esso – rifacendosi a una rete semiotica e valoriale a maglie larghe che non si pretende esaustiva e al cui interno possono trovare spazio, talora accomodati in modo rocambolesco, significati e valori di varia natura. D’altro canto, se una nuova informazione è incoerente con la narrazione adottata, essa verrà ignorata o negata[67] e questo chiarisce come il processo che porta al cambiamento di una narrazione o al passaggio a nuove narrazioni non corrisponda a un semplice accumulo di nuova (e migliore) conoscenza, quanto a una ristrutturazione profonda di parte del sistema semiotico, emotivo e valoriale del soggetto.

Se, da un lato, è quindi certamente possibile disarticolare una narrazione, delinearne la genealogia, identificarne i punti deboli ed evidenziarne le conseguenze avverse, la natura proteiforme e solo parzialmente razionale delle narrazioni le rende particolarmente robuste e resistenti a queste decostruzioni. Considerata la loro dimensione emotiva, si potrebbe quindi ipotizzare che costruire e mettere a disposizione nuove narrazioni (possibilmente attraenti per il soggetto) potrebbe essere una strategia promettente perché in una collettività si verifichi uno scivolamento da una narrazione a un’altra. Perché ciò avvenga è però necessaria una costellazione di fattori: non solo che la vecchia narrazione sia internamente incoerente e problematica e che quindi, per aderirvi, sia richiesto un sempre maggiore impegno cognitivo, ma anche che, in primo luogo, si verifichi un mutamento nelle condizioni ambientali e sociali entro le quali la vecchia narrazione risulterà sempre più inadatta e anacronistica, che, in secondo luogo, siano disponibili nuove narrazioni più coerenti e appropriate alle esigenze del nuovo contesto globale (ma non del tutto estranee ai valori della vecchia narrazione), e, infine, che casi esemplari (meglio se prossimi al soggetto) suggeriscano la fattibilità e la relativa facilità del cambiamento.

Per quanto riguarda la necessità di rivedere le narrazioni che coinvolgono il sistema agroalimentare, i fattori elencati poco sopra sono già evidenti. Da un lato, le condizioni climatiche e, conseguentemente, ambientali sono cambiate rispetto a un centinaio di anni fa ed è ora palese che il sistema di produzione convenzionale non è un modello sostenibile. D’altra parte, le condizioni sociali stanno cambiando come conseguenza della consapevolezza sempre maggiore della crisi climatica e della sua natura antropogenica e stanno quindi emergendo nuove narrazioni, sempre più influenti, che tengono conto di comunità e temporalità più ampie. Si tratta di narrazioni di cui si fanno portavoce tanti movimenti ambientalisti fra cui forse il più celebre è Fridays for Future e che non si concentrano sulla dimensione nazionale, ma includono più soggetti, umani e non umani, così come un orizzonte temporale più ampio che non si volge soltanto al passato, come fanno le narrazioni incentrate sulle tradizioni, ma anche al futuro e alle conseguenze che le scelte e le azioni di oggi avranno un domani sulle giovani generazioni o, addirittura, su coloro che non sono ancora nati. Queste nuove narrazioni, inoltre, non sono sempre in aperto contrasto con quelle del passato. Vorrei fare un esempio, riportando un’osservazione del cuoco Lorenzo Biagiarelli[68] a proposito di un pasticciotto vegano in vendita presso la catena di pasticcerie pugliesi Martinucci. Il pasticciotto non contiene latte vaccino, strutto e uova, ma latte di mandorle, olio di oliva, mele e banane e mentre i primi ingredienti non sono certo eccellenze gastronomiche pugliesi, l’olio di oliva, le mele e le mandorle rappresentano invece prodotti particolarmente legati a questa terra (mentre la coltivazione di banane sta prendendo piede a causa del surriscaldamento globale, rappresentando un esempio di adattamento alla crisi climatica). Biagiarelli suggerisce che una nuova narrazione come quella che vede nel cibo vegetale una possibilità preziosa per alimentarsi rispettando l’ambiente, gli animali non umani e la salute pubblica può enfatizzare il valore della natura e del territorio, valori centrali, come abbiamo visto, per le narrazioni tradizionali.

Infine, va notato che all’origine di queste nuove narrazioni c’è sì la mole di dati e teorie fornite dalla ricerca, ma anche il contributo capillare di chiunque ricopra – o sia nelle condizioni di farlo – un ruolo educativo: nelle famiglie, nelle scuole, sui social media, in seno all’industria culturale. Accanto al monito della comunità scientifica e ai tanti movimenti ambientalisti organizzati, negli ultimi anni quest’ultima ha per esempio offerto numerose testimonianze di come sia necessario, ma anche possibile, un cambio di rotta[69]. Lo stesso può dirsi, e veniamo ai “casi esemplari” summenzionati, per quei fenomeni sociali meno strutturati, ma forse ancora più influenti, che sono i tanti profili presenti sui social network che suggeriscono come cambiare alimentazione in concreto, nella quotidianità, pasto per pasto, ricetta per ricetta, senza sforzo e presentando il cambiamento come un’opportunità e non come un sacrificio[70].

Perché cambi una narrazione collettiva, sono dunque necessarie nuove e a volte esemplari narrazioni individuali che mostrino la fattibilità del cambiamento, la sua conciliabilità con il contesto culturale e le sue conseguenze desiderabili sul piano ambientale, economico, personale e (perché no?) gastronomico.


[1] S. Wynes, K.A. Nicholas, The Climate Mitigation Gap: Education and Government Recommendations Miss the Most Effective Individual Actions, in «Environmental Research Letters», 12, 7, 2017; D.P. Van Vuuren et al., Alternative Pathways to the 1.5 C Target Reduce the Need for Negative Emission Technologies, in «Nature Climate», 8, 5, 2018, pp. 391-397.

[2] J. Rockström et al., Planet-proofing the global food system, in «Nature Food», 1, 1, 2020, pp. 3-5.

[3] Ibid.

[4] P.G. Curtis et al., Classifying Drivers of Global Forest Loss, in «Science», 361, 2018, pp. 1108-1111; FAO (Food and Agriculture Organization of the United Nations), The State of the Worlds Forests (SOFO), Roma 2020; J. Rockström et al., op. cit.; T.G. Benton et al., Food System Impacts on Biodiversity Loss. Three Levers for Food System Transformation in Support of Nature, Chatham House, London 2021; IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) (2022), Climate Change 2022: Impacts, Adaptation and Vulnerability. IPCC Sixth Assessment Report, disponibile al link: https://report.ipcc.ch/ar6/wg2/IPCC_AR6_WGII_FullReport.pdf

[5] W. Willett et al., Food in the Anthropocene: the EAT–Lancet Commission on healthy diets from sustainable food systems, in «The lancet», 393, 10170, 2019, pp. 447-492.

[6] P.T. James et al., The worldwide obesity epidemic, in «Obesity research», 9, S11, 2001, pp. 228S-233S; N.H. Phelps et al., Worldwide trends in underweight and obesity from 1990 to 2022: a pooled analysis of 3663 population-representative studies with 222 million children, adolescents, and adults, in «The Lancet», 403, 10431, 2014, pp. 1027-1050.

[7] V. Sandström et al., The role of trade in the greenhouse gas footprints of EU diets, in «Global Food Security», 19, 2018, pp. 48-55.

[8] P. Scarborough et al., Dietary greenhouse gas emissions of meat-eaters, fish-eaters, vegetarians and vegans in the UK, in «Climatic change», 125, 2, 2014, p. 179. Si veda anche J. Poore, T. Nemecek, Reducing foods environmental impacts through producers and consumers, in «Science», 360, 6392, 2018, pp. 987-992.

[9] IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), op. cit.

[10] Willett, W., et al., op. cit.

[11] E.G. Nisbet et al., Very strong atmospheric methane growth in the 4 Years 2014–2017: Implications for the Paris Agreement, in «Global Biogeochemical Cycles», 33, 2019, pp. 318–342; United Nations Environment Programme (UNEP), Climate and Clean Air Coalition (CCAC), Global Methane Assessment: Benefits and Costs of Mitigating Methane Emissions. United Nations Environment Programme 2021; F. Humpenöder et al., Food matters: Dietary shifts increase the feasibility of 1.5° C pathways in line with the Paris Agreement, in «Science Advances», 10, 13, 2024.

[12] IPCC (2007), Climate Change 2007: Synthesis Report. Contribution of Working Groups I, II and III to the Fourth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change, disponibile al link: https://www.ipcc.ch/report/ar4/syr/; IPCC (2018), Global Warming of 1.5°C, disponibile al link https://www.ipcc.ch/sr15/

[13] E. Onnis, Cibo e libertà di scelta. Verso nuove narrazioni alimentari compatibili con la mitigazione climatica, in «Rivista di estetica», 82, 1, 2023, pp. 123-144.

[14] https://www.globalmethanepledge.org/.

[15] E. Onnis, Cibo e libertà di scelta, cit., p. 131: «In primo luogo, ci sono elementi ambientali: la quantità di cibo consumato, per esempio, aumenta quando le porzioni sono più abbondanti […], quando è più facile procurarsi il cibo, quando il pasto dura più a lungo e il numero di commensali è più alto della norma […]. Mangiare in compagnia, inoltre, influenza le scelte alimentari poiché spesso i commensali scelgono ciò che è già stato scelto dagli altri […]. Un altro fattore non trascurabile è l’appartenenza a determinati gruppi religiosi, culturali, sociali o etnici. Questi gruppi sono spesso caratterizzati da abitudini alimentari tipiche, per cui mangiare – o evitare – certi cibi è una scelta che riflette l’identità del gruppo […]. Infine, altri elementi che influenzano le scelte alimentari sono quelli studiati dai ricercatori di marketing: il branding, le pubblicità, gli sconti, la disposizione dei prodotti sugli scaffali dei supermercati, le sponsorizzazioni da parte delle celebrità, la pubblicità occulta nei film e nelle serie tv o, più in generale, le mode e i trend alimentari».

[16] D.M. Kaplan, Food Philosophy. An Introduction, Columbia University Press, New York 2019.

[17] M. Joy, Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche (2009), tr. it. Sonda, Milano 2012; sulle ideologie alimentari, si vedano anche P. Fieldhouse, Food and Nutrition: Customs and Culture, Springer, Berlin 1985; E.F. Eckstein, Food, People, and Nutrition, Avi Pub 1980 e, in italiano, L. Lo Sapio, Carne coltivata. Etica dellagricoltura cellulare, Carocci, Roma 2024.

[18] S. Stano, Eating the Other: Translations of the Culinary Code, Cambridge Scholars Publishing, Cambridge 2015; S. Stano, Food, Ideology and Critical Semiotics, in «LEXIA», 41, 2023, pp. 307-322.

[19] C. Fischer, Gastro-nomie et gastro-anomie, in «Communications», 31, 1, 1979, pp. 189-210.

[20] D.M. Kaplan, op. cit., p. 44.

[21] Ibid., p. 42.

[22] Un altro autore che riconosce un’ideologia simile è Michiel Korthals, si veda M. Korthals, Before Dinner: Philosophy and Ethics of Food, Springer, Berlin 2004. Su questo argomento si veda anche E. Onnis, op. cit.

[23] A riprova del fatto che un cambio di dieta rifletta un cambio più sistemico di opinioni, credenze, significati e valori (ovvero, appunto, un cambio di narrazione), si può pensare a ciò che sottolinea Melanie Joy e cioè che chi non mangia carne solitamente condivide un sistema valoriale diverso rispetto a quello di chi consuma prodotti animali. Si veda M. Joy, op. cit.: «Most of us realize that veganism is often an expression of one's ethical orientation, so when we think of a vegan, we don't simply think of a person who's just like everyone else except that they don't eat animals. We think of a person who has a certain philosophical outlook, whose choice not to eat animals is a reflection of a deeper belief system […]».

[24] C.S. Mattick, Cellular agriculture: the coming revolution in food production, in «Bulletin of the Atomic Scientists», 74, 1, 2018, pp. 32-35; N. Stephens & M. Ellis, Cellular agriculture in the UK: a review, in «Wellcome Open Research», 5, 2020; R. Eibl et al., Cellular agriculture: opportunities and challenges, in «Annual review of food science and technology», 12, 2021, pp. 51-73.

[25] L. Lo Sapio, op. cit., p. 12.

[26] IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), op. cit.

[27] P. G. Curtis et al., op. cit.

[28] M.J. Gilchrist et al., The potential role of concentrated animal feeding operations in infectious disease epidemics and antibiotic resistance, in «Environmental Health Perspectives», 115, 2, 2007, pp. 313-316.

[29] A.D. McEachran et al., Antibiotics, bacteria, and antibiotic resistance genes: aerial transport from cattle feed yards via particulate matter, in «Environmental Health Perspectives», 123, 4, 2015, pp. 337-343.

[30] E.A. Specht et al., Opportunities for applying biomedical production and manufacturing methods to the development of the clean meat industry, in «Biochemical Engineering Journal», 132, 2018, pp. 161-168.

[31] Si veda N. Treich, Cultured meat: Promises and challenges, in «Environmental and Resource Economics», 79, 1, 2021, p. 36: « […] in the EU, which is one of the most advanced region worldwide in terms of animal welfare standards, many painful practices remain widespread within the industry, such as castration without anesthesia, dehorning, tail docking, teeth clipping, beak trimming, and slaughter without stunning».

[32] R. Horgan & A. Gavinelli, The expanding role of animal welfare within EU legislation and beyond, in «Livestock Science», 103, 3, 2006, pp. 303-307; Lo L. Sapio, op. cit., specialmente i capp. 3 e 9.

[33] V. Rubino, La battaglia della carne coltivata dalle aule parlamentari a quelle di giustizia? Considerazioni a margine della legge 172/2023 fra armonizzazione, leale cooperazione e margini di autonomia degli Stati membri, in «Rivista di Diritto Alimentare», 1, 2024, pp. 34-55.

[34] C.B. Stanford, H.T. Bunn (Eds.), Meat-eating and Human Evolution, Oxford University Press, Oxford 2001.

[35] M. Mair, Psychology as Storytelling, in «International Journal of Personal Construct Psychology», 1, 2, 1988, pp. 125-137; D.M. Kaplan, op. cit.

[36] Questa idea, e cioè che le arti debbano essere riconosciute come fonti di conoscenza, è una delle assunzioni del cosiddetto “cognitivismo estetico”. Si vedano N. Goodman, Ways of Worldmaking, Hackett Publishing, Indianapolis 1978; N. Carroll, The wheel of virtue: Art, literature, and moral knowledge, in «The Journal of Aesthetics and Art Criticism», 60, 1, 2002, pp. 3-26; G. Dammann, E. Schellekens, Aesthetic Understanding and Epistemic Agency in Art, in «Disputatio», 13, 62, 2021, pp. 265-282.

[37] C. Linde, Narrative and Social Tacit Knowledge, in «Journal of Knowledge Management», 5, 2, 2001, pp. 160-170.

[38] Le narrazioni sulla carne e sul suo consumo sono numerose e molto studiate. Una linea di ricerca rilevante è, per esempio, quella che associa il consumo di carne ai valori dell’ideologia patriarcale: il potere, il dominio, la forza, la virilità. Su questo tema, molto è stato scritto, ma, da un lato, non è possibile offrirne in questa sede una rassegna organica né un giudizio ragionato per ragioni di spazio e, dall’altro lato, queste narrazioni hanno un carattere più universale di quelle che vorrei prendere qui in analisi. Il contesto culturale italiano non è immune da esse, ma ha delle specificità che sono meno rilevanti in altri contesti e che sono quelle che vorrei evidenziare in questo articolo. Su carne e patriarcato si vedano C.J. Adams, The sexual politics of meat. A Feminist-Vegan Critical Theory, Bloomsbury, London 1990; L. Birke, Feminism, Animals and Science, Open University Press, Buckingham 1994; M. Allen Fox, Deep Vegetarianism, Temple University Press, Philadelphia 1999; A. Calvert, You Are What You (M)eat: Explorations of Meat-eating, Masculinity and Masquerade, in «Journal of International Women's Studies», 16, 1, 2014, pp. 18-33. Per un esempio concreto, si veda lo spot del 2007 di Burger King (disponibile al link: https://www.youtube.com/watch?v=vGLHlvb8skQ [ultimo accesso 22 maggio 2024]) in cui un uomo lascia platealmente un ristorante in cui sta pranzando con una donna e in cui gli è stata servita una piccola porzione di cibo vegetariano per recarsi presso Burger King dove ottiene del cibo che, suggerisce lo spot, è a lui “adeguato”. Il protagonista intona la canzone “I Am Man” e dopo essere uscito da Burger King si unisce a una folla di altri uomini che marciano per strada sventolando orgogliosi un Double Whopper. Il video si chiude con la frase “Eat like a man, man”.

[39] Art. 1, d.l.172/2023, disponibile al link: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2023/12/01/23G00188/sg

[40] Ibid.

[41] Ministero dell'Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste (16.11.2023), Lollobrigida: il divieto sul cibo sintetico è legge [comunicato stampa]. Disponibile al link: https://www.politicheagricole.it/ddl_cibo_sintetico_via_libera_camera_legge#:~:text=Cos%C3%AC%20il%20ministro%20dell'Agricoltura,coltivata%20e%20altro%20cibo%20sintetico

[42] V. Rubino, op. cit.

[43] Oltre al discorso citato, si vedano le dichiarazioni del ministro Lollobrigida durante la conferenza stampa che ha seguito il Consiglio dei Ministri n° 26 del giorno 28 marzo 2023: «L’Italia è la prima nazione che dice no alla carne sintetica, con un atto formale e ufficiale».

[44] Per una breve introduzione alle tecniche impiegate dall’agricoltura cellulare si veda L. Lo Sapio, op. cit. Si veda anche M.J. Post, Cultured meat from stem cells: Challenges and prospects, in «Meat science», 92, 3, 2012, pp. 297-301.

[45] Si vedano P. Rozin et al, Preference for Natural: Instrumental and Ideational/Moral Motivations, and the Contrast between Foods and Medicines, in «Appetite», 43, 2, 2004, pp. 147-154; P. Rozin et al., European and American perspectives on the meaning of natural, in «Appetite», 59, 2, 2012, pp. 448-455; B.P. Meier et al., Naturally Better? A Review of the Natural‐Is‐Better Bias, in «Social and Personality Psychology Compass», 13, 8, 2019.

[46] «To argue that a thing is good because it is “natural” or bad because it is “unnatural” [...] is therefore certainly fallacious» in G.E. Moore, Principia Ethica, Cambridge University Press, Cambridge 1922.

[47] Si veda E. Casetta, Filosofia dell'ambiente, Il Mulino, Bologna 2023, cap. IV.

[48] Per un’inchiesta su questo tema, si veda M. Pollan, Il dilemma dell'onnivoro (2006), tr. it. Adelphi, Milano 2022.

[49] R. Hilpinen, Artifacts and Works of Art, in «Theoria», 58, 1, 1992, pp. 58-82; R.R. Dipert, Artifacts, Art Works, and Agency, Temple University Press, Philadelphia 1993; R. Hilpinen, Artifact, in E.N. Zalta, (ed.), The Stanford Encyclopedia of Philosophy, https://plato.stanford.edu/archives/win2011/entries/artifact/, 2011.

[50] Sulla natura artefattuale del cibo, si veda E. Onnis, Considerazioni sul continuum natura/tecnica. Il cibo come artefatto ibrido, in «Bollettino Filosofico», 38, 2023, pp. 261-274.

[51] In effetti, rinunciare a una bistecca per mangiare del tofu sembra più impegnativo rispetto a rinunciare a una bistecca per mangiare un’altra bistecca. Sembra insomma che, a parità di condizioni economiche, mangiare una bistecca piuttosto che un’altra sembri intaccare molto meno la libertà personale di quanto non faccia sostituire la carne, il pesce o altri prodotti di origine animale con prodotti a base vegetale. Attualmente, il costo di questa nuova carne è ovviamente diverso rispetto a quello della carne prodotta convenzionalmente, ma, come già accennato, sto immaginando uno scenario in cui l’agricoltura cellulare potrà produrre carne coltivata a costi ragionevoli e su larga scala (uno scenario non troppo lontano, se si pensa al numero di start-up e aziende che lavorano al progetto e al fatto che la commercializzazione di alcuni prodotti sia già attiva su alcuni mercati internazionali come, per esempio, gli Stati Uniti, Singapore o Israele).

[52] Un discorso analogo vale per tutta la cucina etnica, guardata con diffidenza da una larga parte dei consumatori italiani, solitamente quelli meno giovani. Si veda G. Mascarello et al., Ethnic food consumption in italy: The role of food neophobia and openness to different cultures, in «Foods», 9, 2, 2020, p. 112.

[53] J. Bartkowicz, Tri-city consumers attitudes towards eating edible insect as an alternative source of food, in «Handel Wewnętrzny», 366, 1, 2017, pp. 156-166; M. Castro, E. Chambers IV, Consumer avoidance of insect containing foods: Primary emotions, perceptions and sensory characteristics driving consumers considerations, in «Foods», 8, 8, 2019, p. 351; B.A. Acosta-Estrada et al., Benefits and challenges in the incorporation of insects in food products, in «Frontiers in Nutrition», 8, 2021, p. 687712.

[54] V. Teti, Fine pasto. Il cibo che verrà, Einaudi, Torino 2015; V. Teti, La dieta mediterranea: realtà, mito, invenzione, in M. Salvati, L. Sciolla (a cura di), L'Italia e le sue regioni, Treccani, Roma 2015.

[55] Si vedano A. Grandi, Denominazione di origine inventata: Le bugie del marketing sui prodotti tipici italiani, Mondadori, Milano 2018; M. Montanari, Il mito delle origini: breve storia degli spaghetti al pomodoro, Laterza, Roma-Bari 2019; D. Soffiati, A. Grandi, La cucina italiana non esiste, Mondadori, Milano 2024.

[56] D. Soffiati, A. Grandi, op. cit., p. 15.

[57] Si noti che nel marzo 2023 il governo ha annunciato di aver candidato la cucina italiana alla Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità. Si veda Ministero della Cultura (23.03.2023). La cucina italiana candidata a patrimonio UNESCO [comunicato stampa]. Disponibile al link: https://www.beniculturali.it/comunicato/24360

[58] E. Toti et al., Entomophagy: A narrative review on nutritional value, safety, cultural acceptance and a focus on the role of food neophobia in Italy, in «European Journal of Investigation in Health, Psychology and Education», 10, 2, 2020, pp. 628-643.

[59] C. Fischer, op. cit., p. 206.

[60] Ibid.

[61] E. Hobsbawm, T. Ranger (a cura di), L'invenzione della tradizione (1983), tr. it. Einaudi, Torino 1987.

[62] Su questo si vedano A.B. Wolf, Fundamentally Flawed: Tradition and Fundamental Rights, in «University of Miami Law Review», 57, 1, 2002, pp. 55-100; A.E. Cudd, Analyzing oppression, Oxford University Press, Oxford 2006.

[63] K. Forde-Mazrui, Tradition as Justification: The Case of Opposite-Sex Marriage, in «The University of Chicago Law Review», 78, 1, 2011, pp 281-334.

[64] Cfr. https://fridaysforfuture.org/what-we-do/our-demands/.

[65] Un esempio è quello delle narrazioni dei pazienti a proposito dei loro medici e di come esse si basino spesso su stereotipi di genere che influenzano le loro valutazioni. Si veda D. Bhaumik, M.J. Schlesinger, How exposure to patient narratives affects stereotyped choices of primary care clinicians, in «Plos one», 18, 12, 2023, p. e0295243.

[66] Su questa caratteristica degli stereotipi, si veda M.D. Hammond, A. Cimpian, Investigating the Cognitive Structure of Stereotypes: Generic Beliefs About Groups Predict Social Judgments Better Than Statistical Beliefs, in «Journal of Experimental Psychology: General» 146, 5, 2017, pp. 607-614.

[67] R.S. Nickerson, Confirmation bias: A ubiquitous phenomenon in many guises, in «Review of General Psychology», 2, 2, 1998, pp. 175–220.

[68] Lorenzo Biagiarelli (24.05.2024), Anatomia di un pasticciotto, ovvero la tradizione vegana possibile [aggiornamento di stato], Facebook. Disponibile al link: https://www.facebook.com/lorenzobiagiarelli

[69] Qualche esempio di produzioni cinematografiche sul tema sono Our Daily Bread (Geyrhalter 2005), Food, Inc. (Kenner 2008), The End of the Line (2009), Cowspiracy: The Sustainability Secret (Andersen, Kuhn 2014), Wasted! The Story of Food Waste (Chai, Kye 2017), The Biggest Little Farm (Chester 2018), Dominium (Chris Delforce, 2018), The Need to Grow (Herring, Wirick 2018), Seaspiracy (Tabrizi 2021), Eating Our Way to Extinction (2021).

[70] Qualche esempio di account seguiti da molti followers su Instagram sono quelli di Tabitha Brown (@iamtabithabrown), Maya Leinenbach (@fitgreenmind), Carlotta Perego (@cucinabotanica), Alfie Steiner (@alfiecooks_), Michaela Vais (@elavegan) o Nisha Vora (@rainbowplantlife).

 

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