Autore
Indice
1. Introduzione
2. Intelligenza artificiale e forma dell’arte
3. Forma dell’arte e «meta-senso»
4. «Meta-senso» e destino della forma
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S&F_n. 30_2023
Abstract
Artificial Intelligence and the Fate of Form
In the following pages, I will test the relationship between the autonomy of the morphe, which has especially characterised contemporary philosophy and art, and the idea according to which art can be created by artificial intelligence. Specifically, I will try to answer the following question: to what destiny of form does the idea according to which art can be created by artificial intelligence lead? In order to try to answer, I will reflect upon the relationship between art and artificial intelligence both through a critique of the idea according to which the latter can create the former autonomously from a human agent and through the introduction of the idea of “meta-sense”. Also, I will reflect upon the meaning of the artistic form and the autonomy to which it is frequently destined - and which artificial intelligence radicalises, as I will try to argue.
1. Introduzione
Una delle idee secolari della filosofia, che ha influenzato con forza l’arte, è che la nozione di forma possa essere definita in due modi diversi: da un lato, morphe (μορφή) come forma sensibile e, dall’altro lato, eidos (εἶδος) come forma intelligibile[1]. Anche se, nel corso dei secoli, la relazione tra la prima e la seconda è stata risolta in modi diversi, l’autonomia della morphe, sia dall’eidos in particolare, sia da qualsiasi altra dimensione non sensibile in generale ha caratterizzato soprattutto la filosofia e l’arte contemporanee. Il riferimento è, ad esempio, all’idea secondo la quale l’eteronomia della forma dell’architettura sia da sostituire con la sua autonomia: se è vero che nelle «arti “figurative” abbiamo a che fare con la totalità dell’opera d’arte soltanto quando, partendo da ciò che è dato concretamente, supponiamo l’altro oggetto “rappresentato” e lo congiungiamo con quello figurativo»[2], è anche vero che in architettura «questo non è affatto necessario»[3], perché è sufficiente «comprendere un certo corpo, percepito nella sua precisa forma spaziale, delimitata in qualche modo da superfici colorate, per giungere alla totalità e alla pienezza dell’opera d’arte architettonica»[4].
Nelle pagine che seguono, metterò alla prova la relazione tra l’autonomia della morphe e l’idea secondo la quale l’arte possa essere creata dall’intelligenza artificiale. In particolare, proverò a rispondere alla domanda seguente: a quale destino della forma porta l’idea secondo la quale l’arte possa essere creata dall’intelligenza artificiale? Per provare a rispondere, nei paragrafi 2 e 3 rifletterò sulla relazione tra arte e intelligenza artificiale sia attraverso una critica all’idea secondo la quale la seconda possa creare la prima in autonomia da un agente umano sia attraverso l’introduzione dell’idea di «meta-senso», e nel paragrafo 4 rifletterò sul significato della forma artistica e dell’autonomia alla quale è destinata di frequente – e che l’intelligenza artificiale radicalizza, come proverò ad argomentare.
Devo premettere alle pagine che seguono un caveat: credo che la mia riflessione possa avere senso per un lettore che, anche a prescindere da uno studio filosofico dell’arte, abbia sperimentato l’arte, se non altro una tantum, come occasione di comprensione di sé e degli altri esseri umani – cosa che, da una prospettiva filosofica, significa attribuire in qualche modo all’arte un potere simbolico[5].
2. Intelligenza artificiale e forma dell’arte
Il caso citato con frequenza maggiore è il ritratto intitolato Edmond de Belamy, prodotto attraverso l’intelligenza artificiale da Obvious e venduto da Christie’s nel 2018 a 432.500 dollari. Edmond de Belamy è prodotto dall’intelligenza artificiale attraverso reti generative avversarie (generative adversarial networks: GANs), il meccanismo delle quali è spiegato dal loro inventore attraverso una metafora: «The basic idea of GANs is to set up a game between two players. One of them is called the generator. […] The other player is the discriminator. […] The generator is trained to fool the discriminator. We can think of the generator as being like a counterfeiter, trying to make fake money, and the discriminator as being like police, trying to allow legitimate money and catch counterfeit money. To succeed in this game, the counterfeiter must learn to make money that is indistinguishable from genuine money, and the generator network must learn to create samples that are drawn from the same distribution as the training data»[6]. Fuori di metafora, il «generator» produce immagini che per il «discriminator» sono indistinguibili dalle immagini reali sulle quali è stato addestrato. In particolare, Edmond de Belamy è un’immagine che per il «discriminator» è indistinguibile dai 15.000 ritratti reali, dipinti tra il 1300 e il 1800, sui quali è stato addestrato. E, dato che il «generator» non conosce le immagini reali sulle quali il «discriminator» è stato addestrato, le immagini che produce non sono repliche delle immagini di partenza, ma immagini inedite: Edmond de Belamy non è una replica (una copia, un montaggio) dei 15.000 ritratti reali di partenza, ma un’immagine inedita (secondo Obvious, «Le immagini prodotte da questi modelli non costituiscono né una miscela né una “media” di tutte le immagini contenute nell’insieme di dati iniziale. Se mostrate a una GAN 10.000 immagini, la rete creerà l’immagine 10.001»)[7].
Obvious aggiunge dettagli significativi sui quali riflettere: «Ciò significa che un artista che lavora con gli algoritmi delle GAN non dà alcun contributo al processo in termini di inventiva? No: significa semplicemente che l’artista concentra la sua creatività su altre variabili del processo, o si serve di un tipo diverso di creatività, e che la creazione visiva viene sempre più delegata allo strumento. Alcuni degli aspetti su cui l’artista si concentra sono la scelta del tema, le ricerche legate alla decisione di trattare tale tema, la ricerca dell’ispirazione – che si traduce qui nella ricerca e nella scelta dei componenti del database utilizzato come input per l’algoritmo – la programmazione e la messa a punto dell’algoritmo e dell’intero processo basato su tentativi ed errori, e la scelta del mezzo espressivo»[8]. Proviamo a elencare, da un lato, le azioni che Obvious attribuisce alla «creatività» umana e, dall’altro lato, le azioni che Obvious attribuisce alla «creatività» dell’intelligenza artificiale. Il primo elenco è lunghissimo: «la scelta del tema, le ricerche legate alla decisione di trattare tale tema, la ricerca dell’ispirazione», cioè «ricerca» e «scelta dei componenti del database utilizzato come input per l’algoritmo», «la programmazione e la messa a punto dell’algoritmo» e «la scelta del mezzo espressivo». Il secondo elenco è cortissimo: «la creazione visiva». E parlare di «creazione visiva» significa parlare di forma – l’idea che emerge è non solo che l’arte possa essere prodotta da una sinergia tra agente umano e intelligenza artificiale, ma anche, e soprattutto, che l’arte possa essere prodotta da una sinergia tra un agente umano responsabile di una varietà di azioni e un’intelligenza artificiale responsabile di un’azione che, anche se è unica, è cruciale: il dare forma.
La domanda alla quale provare a rispondere è, allora, la seguente: anche se l’elenco delle azioni dell’agente umano è più lungo dell’elenco delle azioni (dell’azione) dell’intelligenza artificiale, che cosa significa spostare il dare forma dal primo al secondo?
L’osservazione dalla quale partire è che l’elenco delle azioni dell’agente umano non distingue affatto l’attività artistica da altre attività. Anche quando, ad esempio, progettiamo app per attività di self-tracking (da app che ci mostrano quanti passi facciamo ad app che ci mostrano quante ore dormiamo) le nostre azioni sono «la scelta del tema, le ricerche legate alla decisione di trattare tale tema, la ricerca dell’ispirazione», cioè «ricerca» e «scelta dei componenti del database utilizzato come input per l’algoritmo», «la programmazione e la messa a punto dell’algoritmo» e «la scelta del mezzo espressivo». Allora, possiamo riformulare la nostra domanda nel modo seguente: se l’elenco delle azioni dell’agente umano non distingue affatto l’attività artistica da altre attività, spostare il dare forma dall’agente umano all’intelligenza artificiale significa spostare dal primo al secondo qualcosa che, al contrario, è più distintivo dell’attività artistica?
La risposta possibile è affermativa, se non altro nel senso che, anche se consideriamo in modo esclusivo le definizioni contemporanee di arte, che sono caratterizzate dalla tensione all’autonomia della forma, il dare forma sembra esserci in qualsiasi caso, dalle definizioni più classiche alle definizioni meno classiche. Per le prime, il dare forma, e in particolare una forma estetica, cioè che sia esperibile e giudicabile attraverso qualità estetiche, è addirittura essenziale (cfr., ad esempio, Beardsley, che parte da Dewey e definisce l’arte come forma capace di produrre un’esperienza estetica particolare[9]). Per le seconde, che potremmo definire convenzionaliste (dalle storiche alle istituzionali), anche se la qualità estetica della forma non è essenziale, il dare forma come creazione artefattuale sembra esserci in qualsiasi caso, dalle definizioni storiche dell’arte (cfr., ad esempio, Levinson[10], secondo il quale l’arte è una creazione artefattuale prodotta in modo consapevole a partire dagli artefatti che, nel corso della storia, sono stati considerati artistici. Cfr. anche Carroll[11]) alle definizioni istituzionali dell’arte (cfr., ad esempio, Dickie[12], secondo il quale l’arte è una creazione artefattuale prodotta in modo consapevole per essere presentata al pubblico del mondo dell’arte, che attiva una sua comprensione di senso[13]. In ultimo, anche se in autonomia dai riferimenti citati, cfr. Danto[14], secondo il quale l’arte è una creazione artefattuale capace di comunicare una visione a un fruitore, che attiva una sua comprensione di senso, attraverso uno stile e una retorica metaforica).
Ma, se la forma (dalle sue articolazioni più materiali alle sue articolazioni più immateriali) è in qualche modo essenziale per l’arte, che cosa significa spostare il dare forma dall’agente umano all’intelligenza artificiale? La tesi dissacrante proposta da Poe in The philosophy of composition può aiutarci a rispondere, dato che è quasi a metà strada tra l’idea di una forma artistica creata da un agente umano caratterizzato da una creatività irriducibile a un agente non umano, e in particolare alla computazione di un’intelligenza artificiale, e l’idea di una forma artistica creata dalla computazione di un’intelligenza artificiale. Secondo Poe, la forma artistica, e in particolare la forma della sua poesia The raven, è in «nessuna parte […] dovuta al caso o all’intuizione, […] [dato che] l’opera procedette, passo passo, al suo compimento con la precisione e la rigida conseguenza di un problema matematico»[15]. Ad esempio, nell’ordine nel quale Poe spiega le ragioni (calcolate prima di comporre la sua poesia) delle sue scelte formali, il numero dei versi corrisponde a una seduta di lettura, la categoria estetica corrisponde alla bellezza, il tono corrisponde alla malinconia, il refrain corrisponde a una parola («nevermore») composta dalla vocale più sonora («o») e dalla consonante più prolungata («r») et cetera. Ma, anche se c’è un senso nel quale Poe compone la sua poesia «con la precisione e la rigida conseguenza di un problema matematico», sembra esserci ancora una distinzione essenziale tra la forma artistica della sua poesia, cioè di un artefatto creato da un agente umano (anche se, secondo Poe, la sua creatività è in qualche modo riducibile a qualcosa di analogo a una computazione), e la forma artistica creata dalla computazione di un’intelligenza artificiale. La prima forma risulta da un processo non esternalizzato, cioè è Poe a determinare numero dei versi, categoria estetica, tono, refrain et cetera. E poco importerebbe se le sue scelte formali non fossero calcolate, cioè consapevoli: anche se le sue scelte fossero inconsapevoli, sarebbe Poe a determinare in qualsiasi caso la forma della sua poesia. Al contrario, la seconda forma risulta da un processo esternalizzato, nel quale le ragioni per le quali un output (una forma) risulta da un input (da dati) sono imperscrutabili[16] – in modo analogo, le ragioni per le quali la forma di Edmond de Belamy risulta dai 15.000 ritratti reali di partenza sui quali l’intelligenza artificiale è stata addestrata sono imperscrutabili.
Credo che l’esternalizzazione e l’imperscrutabilità delle ragioni della forma siano essenziali per riflettere sulla relazione tra arte e intelligenza artificiale. Non è necessario opporre alla tesi di Poe la tesi di Borges, secondo la quale «L’esercizio delle lettere è misterioso; ciò che noi opiniamo è effimero, e io sceglierei la tesi platonica della Musa piuttosto che quella di Poe, il quale ragionò, o finse di ragionare, che la stesura di una poesia è un’operazione dell’intelligenza»[17]. Sia che la poesia risulti da un «esercizio» «misterioso» e inconsapevole sia che la poesia risulti da «un’operazione dell’intelligenza» consapevole, la forma è data da un processo non esternalizzato e non imperscrutabile. Anche se la tesi di Borges fosse più credibile della tesi di Poe, cioè anche se l’imperscrutabilità definisse anche la forma artistica creata da un agente umano, potremmo credere che Borges sia in grado di rispondere, ad esempio, alla domanda seguente: «Perché hai scelto di caratterizzare il personaggio X nel modo Y?». Ma non potremmo credere che l’intelligenza artificiale usata da Obvious, insieme con Obvious, sia in grado di rispondere in modo analogo alla domanda seguente: «Perché hai scelto di caratterizzare il personaggio ritratto in Edmond de Belamy con contorni sfumati tra la sua figura e lo sfondo, colori scuri e un’espressione sfuggente?». La ragione per la quale la capacità di rispondere alle domande poste è essenziale non ha a che fare con le risposte in sé, cioè con la comunicazione effettiva dell’intenzione dell’autore al fruitore. Non importa se non sappiamo da Borges le ragioni per le quali il personaggio X è caratterizzato nel modo Y. E non importa se non sappiamo dall’intelligenza artificiale le ragioni per le quali il personaggio ritratto in Edmond de Belamy ha un’espressione sfuggente. Al contrario, la ragione per la quale la capacità di rispondere alle domande poste è essenziale ha a che fare con una presenza specifica (rivelata nel primo caso) e un’assenza specifica (rivelata nel secondo caso). Nel caso di Borges, il solo fatto di essere in grado (in potenza) di rispondere alla domanda rivela la non casualità del risultato formale. Al contrario, nel caso dell’intelligenza artificiale, il solo fatto di non essere in grado (in potenza) di rispondere alla domanda rivela la casualità del risultato formale – la forma creata dall’intelligenza artificiale è casuale in un modo estraneo alla forma creata dall’agente umano.
Non a caso, se analizziamo l’etimologia della parola «automatico»[18], che descrive il modo nel quale l’intelligenza artificiale funziona, scopriamo qualcosa di istruttivo: la parola greca automatizo (αὐτοματίζω), dalla quale deriva, significa non solo «opero […] automaticamente, spontaneamente», ma anche, attraverso la parola derivata automatismos (αὐτοματισμός), «caso fortuito, sorte, azione spontanea, ventura» e, attraverso la parola derivata automatistes (αὐτοματιστής), «che riferisce tutto al caso». In ultimo, la dea greca Automatia (Αὐτοματία) è «la dea del Caso, Fortuna». Anche se millenni separano l’etimologia della parola «automatico» dal suo uso contemporaneo, soprattutto per definire il modo nel quale sia l’intelligenza artificiale in particolare, sia numerose tecnologie in generale funzionano[19], il suo significato continua a essere istruttivo per comprendere sia la prima sia le seconde. Ad esempio, dire che la traduzione italiana di machine learning, del quale le reti generative avversarie citate fanno parte, è apprendimento automatico significa dire che ci sono «programmi che determinano automaticamente una sequenza di azioni per risolvere un problema»[20], e in particolare «programmi che migliorano le loro prestazioni in base all’esperienza». Se abbiamo, da un lato, 15.000 ritratti reali di partenza come input e, dall’altro lato, Edmond de Belamy come output, parlare di automazione significa parlare di una sorta di creazione casuale, nel senso che le ragioni per le quali il secondo, cioè l’output, risulta dai primi, cioè dall’input, sono non solo imperscrutabili, ma anche, e soprattutto, estranee alla creazione di un senso che, al contrario, c’è nei casi citati di Poe e Borges. Se domandassimo a Poe e Borges le ragioni dei loro output formali, sarebbero in grado non solo di risponderci (anche se il primo chiamerebbe in causa «la precisione e la rigida conseguenza di un problema matematico» e il secondo chiamerebbe in causa «la tesi platonica della Musa»), ma anche, e soprattutto, di darci ragioni che potremmo definire nel modo seguente: ragioni della creazione di un senso, cioè ragioni per le quali, nel caso di Poe, il numero dei versi scelto, la categoria estetica scelta, il tono scelto, il refrain scelto et cetera creano il senso della sua poesia (a partire dal senso simbolico del corvo che, in dialogo con il protagonista umano, ripete di continuo la parola «nevermore» in un’atmosfera bella e, insieme, malinconica) e, nel caso di Borges, il modo Y scelto crea il senso del suo racconto (a partire dal senso simbolico del personaggio X). Al contrario, se domandassimo all’intelligenza artificiale usata da Obvious, insieme con Obvious, le ragioni del suo output formale, non sarebbero in grado non solo di risponderci, ma anche, e soprattutto, di darci le ragioni della creazione di un senso. La risposta che potremmo ottenere, e che non ha a che fare con le ragioni della creazione di un senso, è che Edmond de Belamy risulta dal processo automatico dei 15.000 ritratti reali di partenza, e in particolare delle correlazioni statistiche tra i dati di partenza. Ma, ancora, parlare di processo automatico significa parlare di una sorta di creazione casuale, cioè estranea alla creazione simbolica che, per definizione, «gett[a], mett[e] insieme»[21] forme e sensi, sia quando crediamo che il senso di una forma sia determinato soprattutto dall’intenzione del suo autore sia quando crediamo che il senso di una forma sia determinato soprattutto dalla comprensione del suo fruitore (e sia quando optiamo per teorie dell’arte meno convenzionaliste sia quando optiamo per teorie dell’arte più convenzionaliste, dalle storiche alle istituzionali) – parlare di processo automatico significa parlare di una sorta di creazione casuale, perché, se non ci sono le ragioni della creazione di un senso, non c’è altro che «oper[are] […] automaticamente, spontaneamente», attraverso «caso fortuito, sorte, azione spontanea, ventura» e «che riferisce tutto al caso».
3. Forma dell’arte e «meta-senso»
La riflessione sull’automazione sottintende qualcosa di essenziale. Creare il senso simbolico, ad esempio, del corvo che, in dialogo con il protagonista umano, ripete di continuo la parola «nevermore» in un’atmosfera bella e, insieme, malinconica significa sottintendere non solo che Poe sarebbe in grado di dare ragione del senso citato, ma anche che la condizione alla quale sarebbe in grado di dare ragione del senso citato è che è un essere umano che cerca di dare senso alla sua esistenza, cioè all’esistenza umana, a partire dal fatto, non casuale, di essere un essere umano. Il protagonista della poesia di Poe soffre per la morte della donna amata e, quando il corvo irrompe nella sua casa, trova la risposta alle sue domande nella parola «nevermore», che è ripetuta di continuo dal corvo, in una gradazione ascendente che va dalla sua malinconia alla sua disperazione. Potremmo dire che la forma, a partire da numero dei versi scelto, categoria estetica scelta, tono scelto, refrain scelto et cetera, ha la capacità di significare la sofferenza, la malinconia e la disperazione citate per la ragione seguente: perché è l’output di un input che coincide con un agente umano – la forma ha la capacità di essere la creazione di un senso perché risulta dall’esperienza che un essere umano ha sia di sé come essere umano sia degli altri come esseri umani.
Immaginiamo di essere di fronte alla forma che coincide con Edmond de Belamy. In particolare, immaginiamo di fare l’osservazione seguente: «I contorni sfumati tra la sua figura e lo sfondo, i colori scuri e l’espressione sfuggente significano che la condizione esistenziale dell’essere umano è caratterizzata da una malinconia sofferente che può scentrare la sua identità». È credibile lo scenario immaginato, cioè è credibile fare l’osservazione citata? Se la risposta è negativa, siamo pronti ad argomentare un’idea ulteriore (nelle pagine che seguono). Se la risposta è positiva, proviamo ad aggiungere un esercizio comparativo. Immaginiamo di essere di fronte alla forma che coincide con la poesia di Poe e, ancora, di fare l’osservazione seguente: «Il numero dei versi, la categoria estetica, il tono, il refrain, cioè la ripetizione continua della parola “nevermore” in una gradazione ascendente, et cetera significano che la condizione esistenziale dell’essere umano è caratterizzata da una malinconia sofferente che può scentrare la sua identità». Quale tra le due osservazioni è più credibile? In particolare, a quale tra le due forme ci affideremmo di più per comprendere il senso dell’esistenza umana? Se la risposta è che ci affideremmo di più alla forma che coincide con Edmond de Belamy, la sua controargomentazione possibile è che il fatto di risultare da 15.000 ritratti reali di partenza, cioè da 15.000 forme create dall’esperienza che un essere umano ha sia di sé sia degli altri, non significa affatto che sia più sensata, cioè più portatrice di senso, perché, ancora, non è «una miscela», «una media» delle 15.000 forme, ma «l’immagine 1[5].001» – risultare da un’intelligenza artificiale, cioè da un processo automatico delle correlazioni statistiche tra i dati di partenza, significa, ancora, risultare da una casualità estranea alla forma creata dall’esperienza che un essere umano ha sia di sé sia degli altri. Quando siamo di fronte alla forma che coincide con la poesia di Poe, se è vero che è arte, è anche vero che non facciamo sic et simpliciter un’esperienza estetica (che non è affatto esclusiva dell’arte, ma che include altro, dalla natura ad artefatti non artistici come, ad esempio, un semaforo). Al contrario, facciamo anche un’esperienza, piuttosto straordinaria, di comprensione di senso. In particolare, possiamo interrogarci sul senso dell’esistenza umana attraverso una sorta di dialogo tra noi e la poesia di Poe, nella quale possiamo trovare le risposte alle seguenti domande, ad esempio: «Che cosa significa soffrire per la morte di una persona amata? Che cosa significa sentire che la sofferenza provata non ha una via di uscita? Che cosa significa provare malinconia? Che cosa significa provare disperazione?». E la ragione per la quale possiamo interrogarci nel modo citato è che condividiamo qualcosa di essenziale con l’autore della poesia: siamo esseri umani. La poesia di Poe risulta da qualcosa di specifico, cioè da un essere umano come noi, che, come noi, interroga il senso della sua esperienza, che è l’esperienza dell’esistenza umana. Allora, la ragione per la quale possiamo interrogarci nel modo citato è che, quando siamo di fronte alla forma che coincide con la poesia di Poe, siamo di fronte alla condizione alla quale la comprensione di senso è possibile – siamo di fronte alla condivisione di senso tra un essere umano (che è l’autore della poesia) che riflette sull’esistenza umana ed esseri umani (che siamo noi) che riflettono in modo analogo sull’esistenza umana.
Se l’obiezione è che la condivisione di senso non è necessaria alla comprensione di senso, la direzione della risposta possibile è la seguente: quando è in gioco il senso dell’esistenza umana, fare domande a un agente non umano, e in particolare alla computazione di un’intelligenza artificiale, non è come quando, da turisti, domandiamo indicazioni stradali ad autoctoni (cioè, non è come quando non condividiamo una competenza specifica, ma condividiamo comunque le sue condizioni di comprensione, dal modo nel quale ci orientiamo al modo nel quale ci muoviamo), ma è come quando, da turisti, domandiamo una comparazione tra la nostra città e la città che visitiamo ad autoctoni che non hanno visitato la nostra città (cioè, è come quando non condividiamo non solo una competenza specifica, ma anche le sue condizioni di comprensione, che sono le esperienze delle due città). In modo analogo, quando siamo di fronte alla forma che coincide con Edmond de Belamy, siamo di fronte non a qualcosa che condivide con noi l’esperienza dell’esistenza umana, ma a qualcosa che non ha le sue condizioni di comprensione. Domandare a Edmond de Belamy che cosa significa provare malinconia è come domandare a chi non ha visitato Milano che cosa significa visitare Milano. Possiamo fare un’esperienza estetica di Edmond de Belamy: siamo in grado di dire, ad esempio, che i contorni tra la sua figura e lo sfondo sono sfumati, i colori sono scuri e l’espressione è sfuggente. Ma non possiamo fare un’esperienza artistica di Edmond de Belamy, se è vero che parlare di arte significa parlare di comprensione di senso. E la ragione per la quale non possiamo parlare di comprensione di senso è, ancora, che la forma di Edmond de Belamy è casuale in un modo estraneo alla forma creata da Poe. Nel secondo caso, un agente umano mette in forma la sua esperienza di esistenza umana. Nel primo caso, un agente artificiale mette in forma la sua esperienza di processo automatico dei 15.000 ritratti reali di partenza – e, ancora, sia da una prospettiva etimologica sia da una prospettiva filosofica, un processo «automatico» è un processo «casuale», nel senso che le ragioni per le quali la forma risultante è Edmond de Belamy e non un’altra forma sono non solo imperscrutabili, ma anche, e soprattutto, estranee alla creazione di un senso che parte dalla ricerca di una comprensione di senso (messa in atto dal suo autore) e arriva alla ricerca di una comprensione di senso (messa in atto dal suo fruitore).
Potremmo introdurre la parola seguente per sintetizzare l’idea argomentata: «meta-senso». Unire il prefisso di derivazione greca meta (μετά) che indica posteriorità, ulteriorità, con la parola «senso» potrebbe identificare con una precisione sufficiente la ragione per la quale Edmond de Belamy può darci un’esperienza estetica, ma non può darci un’esperienza artistica: potremmo dire che Edmond de Belamy non può offrirci un «meta-senso», cioè un senso che è posteriore, ulteriore, perché non è dato dalla forma in sé, ma dalla sua ulteriorità, cioè dall’umanità che, attraverso la forma, riflette su sé – potremmo dire che Edmond de Belamy non può offrirci una comprensione di senso che risulta dalla messa in forma dell’esperienza di un essere umano che interroga l’esistenza umana, che è l’esistenza condivisa sia dall’autore sia dal fruitore.
Proviamo a passare dalla forma della poesia di Poe alla forma di qualcosa di più analogo a Edmond de Belamy, cioè alla forma di un ritratto: La Celestina di Picasso. Affidiamoci alla sua descrizione data da una storica dell’arte: «Picasso’s La Celestina had one good eye and one bad eye. […] Celestina’s gaze was a punishing one. It operated, like the gaze of the Medusa, as the symbol for a devouring female whose power could petrify its victim. […] Along with many others around the Mediterranean, Picasso shared a fear of the evil eye, seeing it as a destructive organ that could wound, devour, rob or bite. Using it in his daily life as a reminder to carry out tasks was a constant acknowledgment of its magic power. Celestina bristles with this aura of special knowledge and power as much because of her appearance as because of the name, with all its associations, that Picasso gave her»[22]. Ho scelto La Celestina di Picasso come occasione di estensione della riflessione perché credo che sia un capolavoro artistico straordinario. La sua descrizione citata corrisponde a qualche riga estratta da pagine e pagine di analisi, data la straordinarietà della sua capacità simbolica. Ma, anche da qualche riga, emergono comunque questioni complesse attarverso le quali comprendere il suo senso: la storia passata e presente della cultura sociale e individuale, la storia passata e presente della cultura artistica, la storia esistenziale dell’artista, il potere rappresentativo et cetera. Potremmo dire che il dialogo tra La Celestina di Picasso e la storica dell’arte che firma la sua analisi deve la sua profondità straordinaria al fatto che la prima può offrire alla seconda un «meta-senso» altrettanto straordinario. Usare La Celestina come simbolo di un potere divorante capace di pietrificare un essere umano, cioè per comprendere che cosa significa un potere divorante capace di pietrificare un essere umano, è possibile se offre un «meta-senso» straordinario dato da un essere umano capace di mettere in forma la sua esperienza di interrogazione dell’esistenza umana, che è fatta di storia culturale, storia artistica, storia esistenziale, potere rappresentativo et cetera, e che è l’esistenza condivisa, nella sua umanità, sia da Picasso sia dalla storica dell’arte. In altre parole, La Celestina non ha dettaglio formale che sia «casuale» – La Celestina non ha dettaglio formale che sia «automatico»: qualsiasi suo dettaglio formale, in pagine e pagine di analisi (e in esperienze infinite di fruizione da parte di un numero infinito di fruitori), offre una comprensione profonda di un senso altrettanto profondo, a partire dalla comprensione di che cosa significa un potere divorante capace di pietrificare un essere umano.
Nel caso di Edmond de Belamy, potremmo dire qualcosa di analogo? In particolare, potremmo parlare di messa in forma di un’esperienza di interrogazione dell’esistenza umana, che è fatta di storia culturale, storia artistica, storia esistenziale, potere rappresentativo et cetera? Non credo che sia possibile dare una risposta affermativa. Ancora, Edmond de Belamy non ha dettaglio formale che non sia «automatico», cioè «casuale» nel senso argomentato. Anche se, per qualsiasi ragione, la sua espressione sfuggente ci facesse riflettere su qualcosa che ha a che fare con l’esistenza umana, la nostra riflessione sarebbe analoga a quando, ad esempio, ci capita di riflettere stimolati da un’alba, un tramonto, una strada, un semaforo. Riflettiamo sull’esistenza umana in occasioni numerose, che, da Edmond de Belamy ad albe, tramonti, strade e semafori, non hanno a che fare con l’arte. E la ragione per la quale non hanno a che fare con l’arte potrebbe essere sintetizzata, ancora, dall’idea argomentata di «meta-senso»: quando siamo di fronte a Edmond de Belamy, albe, tramonti, strade e semafori non possiamo dire, e soprattutto non possiamo immaginarci di potere dire, parole analoghe alle parole scritte dalla storica dell’arte di fronte a La Celestina di Picasso – di fronte a Edmond de Belamy, albe, tramonti, strade e semafori, cioè di fronte a oggetti privi di «meta-senso», dire, ad esempio, «It operated, like the gaze of the Medusa, as the symbol for a devouring female whose power could petrify its victim» è sic et simpliciter insensato.
Il dibattito recente sulla relazione tra arte e intelligenza artificiale risponde di frequente alla proposta di Boden di servirci di una versione variata del test di Turing: «I will assume that the human carrying out the TT [Turing test] contemplates (looks at, listens to, and sometimes also interacts with) the result produced by the computer for five minutes or so, and then gives their opinion on it. And I will take it that for an “artistic” program to pass the TT would be for it to produce artwork which was: 1) indistinguishable from one produced by a human being; and/or 2) was seen as having as much aesthetic value as one produced by a human being»[23]. Secondo Boden, l’artisticità di un artefatto prodotto da un’intelligenza artificiale è possibile a due condizioni (anche se riconosce l’emersione di questioni filosofiche più complesse): la sua indistinguibilità da un artefatto prodotto da un agente umano e l’equivalenza tra il suo valore estetico e il valore estetico di un artefatto prodotto da un agente umano. La proposta citata ci porterebbe a dire che basta non distinguere Edmond de Belamy da un ritratto reale e giudicare i loro valori estetici equivalenti per attribuire artisticità al primo. Ma la controargomentazione possibile potrebbe essere la seguente. Da un lato, dovremmo allora attribuire artisticità anche alla copia di un ritratto reale – ma potremmo immaginare di attribuire artisticità e, in ultimo, un valore economico equivalente, alla copia di La Celestina di Picasso? Dall’altro lato, dovremmo allora dire che bastano indistinguibilità ed equivalenza di valore estetico per creare arte – ma potremmo immaginare di dire che la copia di La Celestina di Picasso è arte anche se è priva di «meta-senso», perché risulta sic et simpliciter da una copiatura, e non da una messa in forma di un’esperienza di interrogazione dell’esistenza umana, che è fatta di storia culturale, storia artistica, storia esistenziale, potere rappresentativo et cetera?
In modo quasi paradossale, è un’artista che lavora con l’intelligenza artificiale a darci una risposta interessante: «L’intelligenza artificiale è in grado di copiare e di suggerire, ma in ultima analisi tutto inizia e finisce con me. Non mi preoccupa molto l’idea di macchine che dipingano o di GAN che realizzino quella che è essenzialmente carta da parati – arte priva di intenti. Non mi interessa tentare di insegnare a una macchina a disegnare come un essere umano o a produrre immagini che sia impossibile riconoscere come prodotte da una macchina. […] A me […] interessa proprio il contrario – partire da qualcosa di freddo, sterile, “algoritmico” e reintrodurvi l’elemento umano – e ritengo di aver trovato una modalità per farlo servendomi dell’intelligenza artificiale come combinazione di materiali e procedure»[24]. Le parole citate sono interessanti per due ragioni, se non altro. La prima ragione è la distinzione degli artefatti prodotti dall’intelligenza artificiale dagli artefatti prodotti dagli artisti che lavorano anche attraverso l’intelligenza artificiale (priva, allora, di un grado alto di autonomia dall’agente umano), dei quali Ridler fa parte («servendomi dell’intelligenza artificiale come combinazione di materiali e procedure»). La seconda ragione, che per la nostra riflessione è ancora più interessante, è l’affermazione dell’essenzialità dell’agente umano nell’arte. Se il caso è il primo (artefatti prodotti dall’intelligenza artificiale), il risultato «è essenzialmente carta da parati», cioè «arte priva di intenti» – che significa dire che, se non ci sono «intenti», cioè, e ancora, «meta-sensi», il grado di artisticità dell’artefatto non supera il grado di artisticità di una «carta da parati». Se il caso è il secondo (artefatti prodotti dagli artisti che lavorano anche attraverso l’intelligenza artificiale, priva, allora, di un grado alto di autonomia dall’agente umano), il risultato è che «tutto inizia e finisce con me» – che significa dire che l’intelligenza artificiale non è altro che uno strumento, e in particolare una «combinazione di materiali e procedure», attraverso il quale l’artista, nel presente come nel passato, mette in forma la sua esperienza di interrogazione dell’esistenza umana per altri esseri umani, perché «tutto inizia e finisce con» l’essere umano.
Ma Edmond de Belamy è stato venduto a 432.500 dollari, e non al prezzo di una «carta da parati». Allora, la domanda più importante alla quale rispondere è la seguente: a quale destino della forma porta l’idea secondo la quale una «carta da parati» possa essere venduta al prezzo di un’arte nella quale, al contrario, «tutto inizia e finisce con» l’essere umano?
4. «Meta-senso» e destino della forma
Per provare a rispondere, può essere significativo tornare a Picasso, e in particolare alle sue parole, che, dette da uno degli sperimentatori più radicali della storia dell’arte, sembrano paradossali. Ma non sono affatto paradossali. Secondo Picasso, «L’arte astratta non esiste. Si deve sempre partire da qualcosa. Si può togliere, dopo, qualsiasi apparenza di realtà, ma l’idea dell’oggetto avrà comunque lasciato il suo segno inconfondibile»[25]. Allora, «Non si tratta di partire dalla pittura per arrivare alla natura: è dalla natura alla pittura che bisogna andare»[26]. Gli esempi offerti da Picasso sono chiarissimi. Da un lato, approva Las meninas di Velázquez per la realtà umana, in senso lato, che mette in forma: «Las meninas, che quadro! Che realtà!»[27]. Dall’altro lato, disapprova il Giudizio universale di Michelangelo per la realtà umana, in senso lato, che non mette in forma: «Guardate il Giudizio universale di Michelangelo! È forse finito? Ha forse “fatto” perfino le narici del naso del Cristo? Ma no, tutto ciò è “charme”. È decorazione. Quando voi riducete ciò ai suoi veri elementi, resta di che fare una graziosa cravatta»[28].
Se immaginassimo le parole possibili di Picasso di fronte a Edmond de Belamy, potremmo dire qualcosa di identico. Edmond de Belamy non ha la capacità di andare, e di farci andare, «dalla natura alla pittura», perché non risulta «dalla natura» (dall’esperienza umana dell’esistenza umana), ma dall’artificialità (dal processo automatico delle correlazioni statistiche tra i dati di partenza). Al contrario, Edmond de Belamy ha la capacità di partire, e di farci partire, «dalla pittura per arrivare alla natura», perché risulta in qualche modo, anche se casuale nel senso argomentato, «dalla pittura» (dal processo automatico delle correlazioni statistiche tra i dati di partenza, cioè tra i 15.000 ritratti reali di partenza) e, anche se ci facesse interrogare sulla relazione tra «pittura» e «natura» (tra la sua forma e l’esistenza umana), «non si tratt[erebbe]» di arte, ma di «charme» e «decorazione», perché sarebbe come chiedere a «una graziosa cravatta» qual è il senso dell’esistenza umana – ancora, sarebbe come chiedere a una «carta da parati» qual è il senso dell’esistenza umana.
Ma, ancora, a quale destino della forma porta l’idea secondo la quale una «carta da parati» e «una graziosa cravatta» possano essere arte? La risposta più logica è che possono essere arte se consideriamo l’arte come una cosa per la quale la capacità di andare, e di farci andare, «dalla natura alla pittura» (dall’esperienza umana dell’esistenza umana alla possibilità della sua comprensione attraverso la sua messa in forma) non è (più) essenziale – Edmond de Belamy può essere arte se consideriamo l’arte non (più) come la messa in forma dell’esperienza umana dell’esistenza umana, che, in ultimo, gli esseri umani possono comprendere, ma come forma e basta, cioè priva di «meta-senso».
Non a caso, la storia della divisione tra forma e «meta-senso» ha già qualche secolo, a partire dall’idea ottocentesca secondo la quale non c’è una relazione, ma una coincidenza, tra la prima e il secondo. E le coincidenze causano di frequente confusioni tra polarità, che dissolvono le loro distinzioni e, in ultimo, le loro esistenze (che le relazioni, al contrario, garantiscono). Allora, l’autonomia della morphe sia dall’eidos in particolare sia da qualsiasi altra dimensione non sensibile in generale sembra essere estremizzata dalle tecnologie contemporanee, attraverso le quali consideriamo una «carta da parati» e «una graziosa cravatta» arte.
Ma l’autonomizzazione estrema della forma caratterizza non solo la dimensione artistica, ma anche altre dimensioni nelle quali, ancora, sembriamo servirci delle tecnologie contemporanee per dissolvere sensi (e «meta-sensi») in forme autonomizzate. Ad esempio, quando siamo architetti e ci serviamo di software che ci fanno inserire una serie di dati e ottenere progetti quasi pronti all’uso, la forma dei quali comincia a risultare più dalla casualità argomentata che da altro[29]. Quando siamo scrittori e ci serviamo di software che ci fanno inserire una serie di dati e ottenere articoli quasi pronti all’uso, la forma dei quali comincia a risultare più dalla casualità argomentata che da altro[30]. Quando, anche se non siamo medici con competenze specifiche, facciamo self-tracking e ci affidiamo ai numeri ottenuti, cioè a forme, come se avessero senso (che, al contrario, non può esserci se non c’è la competenza necessaria alla loro lettura). Quando, anche se non siamo professionisti con competenze specifiche (dalla cucina al coaching et cetera), usiamo piattaforme digitali nelle quali ci attribuiamo le etichette di cuochi e coach et cetera, cioè forme, come se avessero senso (che, al contrario, non può esserci se non c’è la competenza necessaria alla loro attribuzione). E, ancora, in casi analoghi numerosissimi[31].
Allora, le tecnologie contemporanee in generale e l’intelligenza artificiale in particolare sembrano radicalizzare l’autonomia alla quale la forma è destinata di frequente. La perdita progressiva della competenza come sostanza irrinunciabile dei casi citati sembra essere analoga alla perdita progressiva del «meta-senso» come sostanza irrinunciabile dell’arte. Nel primo caso, chiediamo, ad esempio, ad app per attività di self-tracking qual è la nostra salute. Nel secondo caso, chiediamo, ad esempio, a Edmond de Belamy, cioè a una «carta da parati», qual è il senso della nostra esistenza.
E, se è vero che surroghiamo in modo progressivo competenze e «meta-sensi» con forme prive delle prime e dei secondi, è anche vero che la domanda filosofica par excellence è la seguente: perché agiamo nel modo descritto? Non credo che la risposta possibile possa essere a nostro svantaggio totale: è poco credibile l’idea secondo la quale facciamo di continuo cose dalle quali otteniamo più svantaggi che vantaggi. Gli svantaggi sono visibili, a partire dalla perdita di competenze (attraverso le quali potremmo ottenere risposte promettenti alla domanda sulla nostra salute) e «meta-sensi» (attraverso i quali potremmo ottenere risposte promettenti alla domanda sul senso della nostra esistenza). Ma quali sono i vantaggi, per i quali siamo addirittura disposti a perdere competenze e «meta-sensi»?
Un vantaggio possibile (al quale, qui, posso se non altro accennare, cfr. nota 32) sembra affiorare con forza: toglierci il peso del lavoro quotidiano a competenze e «meta-sensi», che sono tra le cose più pesanti delle quali, soprattutto nella cultura occidentale degli ultimi tre secoli, ci assumiamo la responsabilità individuale. Anche nella cultura classica, ma soprattutto a partire dalla nozione di autonomia sviluppata da Kant[32], ma anche dalla filosofia contemporanea (cfr. se non altro Dworkin, Frankfurt, Ekstrom, Friedman e Bratman[33]), il nucleo dell’identità umana è pensato come autonomia – il nucleo dell’identità umana è pensato come la nostra capacità di assumerci la responsabilità individuale sia delle nostre decisioni sia delle nostre azioni. E parlare di autonomia significa che a essere a carico nostro sono sia la qualità epistemologica delle nostre decisioni individuali (vere o false, sulla base delle quali ci giudichiamo e siamo giudicati dagli altri) sia la qualità etica delle nostre azioni individuali (giuste o sbagliate, sulla base delle quali ci giudichiamo e siamo giudicati dagli altri). Pensare il nucleo dell’identità umana come autonomia è, insieme, un’occasione enorme e peso altrettanto enorme – potremmo dire che è un’occasione umanistica straordinaria (perché esalta la possibilità che a qualsiasi essere umano deve essere riconosciuta di autodeterminare il suo destino) e, insieme, un peso umano altrettanto straordinario (perché esalta la possibilità che a qualsiasi essere umano deve essere riconosciuta di essere responsabile del suo destino, non solo quando è una costellazione di successi, ma anche, e soprattutto, quando è una costellazione di insuccessi).
Se torniamo alla forma e alla varietà delle sue articolazioni citate, quanto può pesare la responsabilità individuale di architetti, scrittori, non professionisti che devono comunque decidere e agire e, in ultimo, artisti che devono mettere in forma l’esperienza umana dell’esistenza umana per mettere la sua comprensione a disposizione di altri esseri umani? Il peso della loro responsabilità individuale è di sicuro notevole – ed è possibile che sia insopportabile. Allora, l’autonomia estrema alla quale l’intelligenza artificiale può destinare, per la prima volta nella storia, la forma può essere il sintomo di un fenomeno più esteso, che ha a che fare con lo sforzo disperato di spostare dall’essere umano alla tecnologia pesi insopportabili – e, nel caso dell’arte, l’autonomia estrema della forma può essere la risposta allo sforzo disperato di spostare dall’essere umano all’intelligenza artificiale il peso insopportabile della significazione, dalla comprensione dell’esistenza umana da parte dell’artista, alla sua messa in forma e alla comprensione dell’esistenza umana da parte del fruitore.
Surrogare l’autonomia umana con l’automazione tecnologica ci dà svantaggi notevoli, a partire dalla perdita di competenze e «meta-sensi», ma anche un vantaggio notevole: caricare sulle nostre spalle, sia da artisti sia da fruitori, la leggerezza di morphe prive di eidos – che significa che, di fronte a Edmond de Belamy, possiamo anche non interrogarci affatto, e surrogare la pesantezza di un’esperienza artistica con la leggerezza di un’esperienza che è estetica e basta.
[1] Cfr. se non altro Tatarkiewicz, che specifica anche le articolazioni delle due nozioni di forma (W. Tatarkiewicz, Storia di sei idee. L’arte, il bello, la forma, la creatività, l’imitazione, l’esperienza estetica (1975), tr. it. Aesthetica, Palermo 1993).
[2] R.W. Ingarden, Ricerche sull’ontologia dell’arte. Musica, plastica, architettura, cinema (1962), in L’arte senza muse. L’architettura nell’estetica contemporanea tedesca, a cura di R. Masiero, G. Pigafetta, Clup, Milano 1988, pp. 285-302, qui p. 288.
[3] Ibid.
[4] Ibid.
[5] Il riferimento è, ad esempio, a Kant, secondo il quale l’arte «dà occasione all’immaginazione di diffondersi su una quantità di rappresentazioni imparentate, che fanno pensare più di quanto si possa esprimere in un concetto determinato mediante parole e danno un’idea estetica che serve, in luogo di un’esibizione logica, a quell’idea della ragione, ma propriamente per vivificare l’animo, aprendogli la vista in un campo di rappresentazioni imparentate, a perdita d’occhio», I. Kant, Critica della facoltà di giudizio (1790), a cura di E. Garroni, H. Hohenegger, Einaudi, Torino 1999, p. 195.
[6] I. Goodfellow, NIPS 2016 tutorial. Generative adversarial networks, in «Arxiv», 1701.00160, 2016, pp. 1-15, qui pp. 16-17.
[7] Obvious, La Famille de Belamy e i Sogni elettrici di Ukiyo. Reinterpretazioni e accelerazioni, in A. Barale (cura di), Arte e intelligenza artificiale. Be my GAN, Jaca Book, Milano 2020, pp. 166-193, qui p. 180.
[8] Ibid., p. 168.
[9] M. Beardsley, The aesthetic point of view. Selected essays, a cura di M.J. Wreen, D.M. Callen, Cornell University Press, Ithaca-London 1982.
[10] J. Levinson, Music, art, and metaphysics, Cornell University Press, Ithaca 1990.
[11] N. Carroll, Historical narratives and the philosophy of art, in «The journal of aesthetics and art criticism», 51, 3, 1993, pp. 313-326.
[12] G. Dickie, The art circle. A theory of art, Haven Publications, New York 1984.
[13] Cfr. anche B. Gaut, The cluster account of art, in Theories of art today, a cura di N. Carroll, University of Wisconsin Press, Madison 2000, pp. 25-45 e D. Davies, Art as performance, Blackwell Publishing, Malden 2004.
[14] A.C. Danto, La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte (1981), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2008.
[15] E.A. Poe, Filosofia della composizione (1846), in G. Manganelli, a cura di, Opere scelte, tr. it. di E. Chinol, Mondadori, Milano 1971, pp. 1307-1322, qui p. 1398.
[16] Sull’imperscrutabilità algoritmica, cioè sugli algoritmi come black box, cfr. se non altro F. Pasquale, The black box society. The secret algorithms that control money and information, Harvard University Press, Cambridge 2015 ed E. Finn, What algorithms want. Imagination in the age of computing, MIT Press, Cambridge 2017.
[17] J.L. Borges, Il manoscritto di Brodie (1970), tr. it. Mondadori, Milano 1985, p. 370.
[18] Qui e di seguito, cfr. il vocabolario greco-italiano a cura di L. Rocci.
[19] Soprattutto a partire dal 1947, quando la Ford Motor Company istituisce un dipartimento di automazione, cfr. J. Rifkin, La fine del lavoro. Il declino della forza globale e l’avvento dell’era post-mercato (1995), tr. it. Baldini & Castoldi, Milano 1996.
[20] Qui e di seguito, cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/intelligenza-intelligenza-artificiale-e-reti-neurali_%28Dizionario-di-Medicina%29/ (accesso: ottobre 2022).
[21] Cfr. ancora, il vocabolario greco-italiano a cura di L. Rocci.
[22] M. Holloway, Making time. Picasso’s Suite 347, Peter Lang Publishing, Bern-New York 2006, pp. 118-119.
[23] M.A. Boden, The Turing test and artistic creativity, in «Kybernetes», 39, 3, 2010, pp. 409-413, qui p. 409.
[24] A. Ridler, Set di dati e decadenza. Fall of the house of Usher, in Arte e intelligenza artificiale. Be my GAN, a cura di A. Barale, Jaca Book, Milano 2020, pp. 110-127, qui p. 127.
[25] P. Picasso, Scritti, a cura di M. De Micheli, Feltrinelli, Milano 1964, p. 21.
[26] Ibid., p. 11.
[27] Ibid., p. 66.
[28] Ibid., p. 71.
[29] Cfr. ad esempio, https://academy.archistar.ai/top-ten-design-software-for-architects (ultimo accesso: ottobre 2023), che registra la lista dei «top ten design software for architects»: «design software automates common processes. This allows you to save time. You can get designs to clients quicker and enjoy a more efficient workflow. […] Its key feature is automation. […] the software offers several tools for automating complicated processes. For example, it has an inbuilt library of stair and rail designs. […] You only need to enter a number into your variable to create the desired number of elements».
[30] Cfr. ad esempio, https://hostingtribunal.com/best/article-generator-software/#gref (ultimo accesso: ottobre 2023), che registra la lista dei «best article generator software»: «WordAi understands your source material – whether it’s in English, Spanish, French, or Italian – and rephrases it as a human would. It’s a smart, accurate, and easy-to-use content generator, great for spinning scrapped articles or generating fresh articles for SEO. […] SEO Content Machine is a full-featured app that helps you generate, illustrate, and publish high-ranking content. Built with SEO in mind, this AI also provides link building tools and impressive integrations with popular software. […] Just give Articoolo a topic, and it will generate a unique article for you. The AI gathers sources online and structures a piece for any niche – all at the click of a button. Plus, Articoolo can also help you spin old content for an SEO boost or summarise articles to pack value for readers».
[31] Ho sviluppato le questioni citate soprattutto in S. Chiodo, Technology and anarchy. A reading of our era, Lexington Books-The Rowman & Littlefield Publishing Group, Lanham-Boulder-New York-London 2020 e Technology and the overturning of human autonomy, Springer, Cham 2023.
[32] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi (1785), tr. it. Bompiani, Milano 2017 e Critica della ragion pratica (1788), tr. it. Bompiani, Milano 2017.
[33] G. Dworkin, The theory and practice of autonomy, Cambridge University Press, Cambridge 1988; H. Frankfurt (a cura di), The importance of what we care about, Cambridge University Press, Cambridge 1988; L.W. Ekstrom, A coherence theory of autonomy, in «Philosophy and phenomenological research», 53, 1993, pp. 599-616; M. Friedman, Autonomy, gender, politics, Oxford University Press, Oxford 2003 e M.E. Bratman, Structures of agency. Essays, Oxford University Press, Oxford 2007.