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Esteriorizzazione e immaginazione nell’era dell’Intelligenza Artificiale Generativa. Le IA generative e la nascita di una immaginazione artificiale

Autore


Federico Simonetti

Centro Studi su Ragion di Stato e Democrazia

ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Scienze Filosofiche presso l’Università Federico II di Napoli, e collabora con il Centro Studi su Ragion di Stato e Democrazia

Indice


1. Che cos’è un’Intelligenza Artificiale Generativa
2. Il ruolo dell’immaginazione (umana) in Kant
3. L’immaginazione come motore della comprensione
4. L’immaginazione artificiale come estensione dell’immaginazione umana
5. Immaginazione artificiale tra umanizzazione e demonizzazione

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S&F_n. 30_2023

Abstract


Externalization and imagination in the era of Generative Artificial Intelligence. Generative AI and the birth of artificial imagination

Generative AIs are one of the latest, most amazing and exciting developments in AI technology. Indeed, these AIs have the ability to autonomously create original contents such as images, texts, sounds and videos: starting from a prompt – a description provided by the user – these machines are able to ‘generate’ audiovisual contents in an almost completely indistinguishable from a human operator. Perhaps the time has come for philosophy to question about these tools and the effect they are able to have on their human users – a potentially disruptive effect, to the point of pushing the Hong Kong philosopher Yuk Hui to speak of “artificial imagination” in relation to the creative capacity of these machines. Facing Kant’s thought about Imagination and its role in the process of understanding, we will try to explore the boundaries and characteristics of these machines, in order to be able to understand both their potential and the risks for human imagination.

  1. Che cos’è un’Intelligenza Artificiale Generativa

Le intelligenze artificiali generative sono uno dei più recenti, sorprendenti e interessanti sviluppi nella tecnologia dell’intelligenza artificiale. Queste IA, infatti, hanno la capacità di creare autonomamente contenuti originali come immagini, testi, suoni e video: partendo da un prompt – una descrizione fornita dall’utente – queste macchine sono in grado di “generare” contenuti audiovisivi in maniera quasi del tutto indistinguibile da un operatore umano. Ciò che distingue le intelligenze artificiali generative dalle altre IA, infatti, è la loro capacità di creare autonomamente: invece di limitarsi a eseguire soltanto i comandi che ricevono, queste IA introducono variazioni e producono dunque contenuti originali, che non si limitano a eseguire in maniera pedissequa gli “ordini” (anche detti “prompt”) definiti dagli utenti, ma riescono addirittura a inserire delle differenze non marginali, senza la necessità di istruzioni specifiche.

L’aspetto più interessante di queste macchine è che esse possono “imparare” senza necessità di una supervisione, grazie a una serie di algoritmi di apprendimento autonomo, chiamati in gergo deep learning: usando questi algoritmi, l’IA può analizzare dati e informazioni, disponibili sulla rete o forniti dagli stessi utenti, per migliorare continuamente i propri risultati. Ciò significa che, con il tempo, l’IA diventerà sempre più competente nella creazione di contenuti, fornendo risultati che vengono alimentati dagli stessi prompt inseriti dagli utenti, oltre che dalla massa di informazioni e contenuti disponibili su Internet.

Le intelligenze artificiali generative rappresentano un’innovazione tecnologica che inizia ad avere un enorme impatto sulla società, sulle nostre vite e sulla nostra capacità di produrre contenuti: nel giro di poco tempo artisti, creativi, studenti e studiosi hanno colto l’enorme potenziale di queste macchine, mettendole alla prova e servendosene per creare immagini, articoli, testi.

Sono ormai diversi anni che la filosofia ha iniziato a interrogarsi in maniera strutturata su questi strumenti e sugli effetti che sono in grado di ottenere nei loro utilizzatori umani - un effetto potenzialmente dirompente, al punto da spingere il filosofo hongkonghese Yuk Hui[1] a parlare di “immaginazione artificiale” in relazione alla capacità creativa di queste macchine

 

2. Il ruolo dell’immaginazione (umana) in Kant

Per rispondere a diverse questioni riguardanti l’esistenza o meno di una immaginazione artificiale, è buona norma cercare di chiarire a cosa ci riferiamo quando parliamo di immaginazione. Come hanno sottolineato tanto Yuk Hui che Galit Wellner[2], la descrizione più estesa del tema dell’immaginazione si può rintracciare nel percorso critico kantiano: Kant fa dell’immaginazione una delle principali caratteristiche specifiche dell’essere umano, attraverso la quale è possibile per l’uomo avere accesso alla conoscenza. Eppure, il modello kantiano di immaginazione rischia di non essere più un’esclusiva umana e di essere messo in crisi proprio dall’evoluzione delle IA generative: per Kant, infatti, la meccanica specifica dell’immaginazione ha come motore il giudizio riflettente, che appare oggi artificialmente riproducibile ed efficacemente simulato da questi strumenti di calcolo. Le IA generative sono incredibilmente capaci di emulare questo particolare aspetto del nostro modo di pensare e lo fanno a una velocità e con una qualità sorprendenti. E tuttavia, a differenza di quanto avviene nel progetto kantiano, ciò che le IA non sono capaci di fare è conoscere e comprendere. Il punto è che, per come queste macchine sono pensate e progettate, questa loro incapacità rischia di essere un pericoloso precedente per gli attori umani che le usano tutti i giorni o sono semplicemente esposti ai contenuti da esse generati.

Ciò non può non avere un impatto sul nostro modo di immaginare: per Wellner, in particolare, l’evoluzione dell’immaginazione è, in realtà, fortemente guidata dall’evoluzione tecnologica e segue le capacità che le tecnologie stesse, man mano che evolvono, ci conferiscono. L’emergere di una galassia di strumenti digitali e di sistemi di connessione in parte autonomi arriva a formare una “immaginazione digitale” che conferisce nuovi punti di vista e nuovi orizzonti all’immaginazione umana, estendendola in nuove direzioni, che possiamo sfruttare per esprimerci e creare.

Filosoficamente, l’immaginazione è un tema estremamente fecondo, ma anche in buona misura “spaventoso”. Non a caso, Kant fu in qualche modo “terrorizzato” dalla potenza e radicalità del proprio concetto di immaginazione trascendentale – tema che sarebbe poi stato ripreso da Fichte e posto come base del sistema dell’idealismo tedesco: l’immaginazione come creazione di mondo, una facoltà capace cioè di settare autonomamente le regole della ragione, spaventava il filosofo di Königsberg al punto che, nella seconda edizione della Critica della Ragion Pura[3], risulta «respinta nell’ombra e misconosciuta[4]».

Nonostante questo tentativo di obliterazione da parte di Kant, nel pensiero successivo il concetto di immaginazione è indissolubilmente legato alla trattazione kantiana: in un primo momento, nella Prima Edizione, Kant identifica l’immaginazione come una facoltà strettamente umana, ciò che qualifica l’essere umano come differente dagli altri enti. In seguito, essa viene identificata come soltanto uno degli aspetti della ragione, un aspetto che precede non solo l’esperienza singola, ma anche ogni possibile esperienza in generale. Nella versione finale della prima Critica, per Kant l’immaginazione sarà infine la capacità di rappresentare un oggetto anche senza che vi sia una sua presenza reale[5].

Il tema dell’immaginazione si intreccia, nell’elaborazione kantiana, con quello centrale della conoscenza modale, cioè la capacità di distinguere il sensibile dal necessario: questa nostra capacità di separare il reale dal contingente è forse uno dei temi cardine della filosofia occidentale, ma è solo con Kant che l’analisi gnoseologica si intreccia con lo studio della facoltà di immaginare. Per il filosofo di Königsberg l’immaginazione è innanzitutto la facoltà di rappresentarsi un oggetto nell’intuizione anche senza la sua presenza immediata nella percezione: essa è fondamentale per la conoscenza, in quanto intreccia in maniera determinante la sensazione e la comprensione. Per produrre conoscenza dunque, secondo Kant, è necessario immaginare un ponte tra la realtà e la possibilità, passando per la comprensione.

Kant sostiene che percezione e comprensione siano reciprocamente irriducibili l’una all’altra e per questo contesta la visione empirista secondo la quale le rappresentazioni sensibili e quelle intellettuali (cioè le intuizioni sensibili e i concetti) siano omogenee tra loro e differiscano solo in base alla chiarezza e definizione delle rappresentazioni dell’uno o dell’altro ‘campo’: per Kant esiste certamente una differenza di definizione tra concetti e intuizioni sensibili, ma essa va rintracciata all’interno dei domini specifici dei due tipi di rappresentazione. Le rappresentazioni di ciò che sentiamo coi sensi (le intuizioni sensibili) sono per Kant qualcosa di totalmente eterogeneo rispetto alle rappresentazioni intellettuali (i concetti): le prime sono rappresentazioni singolari che rappresentano i loro oggetti in maniera immediata, mentre le seconde sono rappresentazioni generali che non si riferiscono ai propri oggetti direttamente, bensì mediatamente[6] cioè portando con sé alcune caratteristiche generali provenienti dalle intuizioni sensibili. Come conseguenza di una simile distinzione tra intuizioni sensibili e concetti, non è possibile ignorare la sensibilità (cioè la facoltà di produrre rappresentazioni sensibili) e la comprensione e le rispettive funzioni per interpretare il mondo, passando dall’una all’altra: insomma, per Kant, la sensibilità, da sola, non sarà mai sufficiente ad “afferrare” gli oggetti dati e produrre giudizi su di essi – per farlo, serve necessariamente la comprensione concettuale. D’altra parte, la comprensione, da sola, non è in grado di fornire una cognizione degli oggetti reali. Per questa ragione, sensibilità e comprensione - per quanto eterogenee – devono collaborare, al fine di rendere possibile l’Erkenntnis, la conoscenza: senza questa cooperazione non avremmo gli strumenti per produrre una credenza sul mondo che sia vera e giustificata, ma neanche avremmo le rappresentazioni mentali dirette verso oggetti reali che ci conferiscono un criterio per stabilire la correttezza di quello che pensiamo.

La facoltà di immaginare è essenziale proprio perché consente a sensibilità e comprensione di cooperare, favorendo dunque l’elaborazione di una conoscenza sul mondo. La sua funzione primaria è quella di mediare tra rappresentazioni sensibili e rappresentazioni mentali, tra intuizioni e concetti – una mediazione che sensibilità e comprensione da sole non possono svolgere, perché come abbiamo visto non sono omogenee. Questa mediazione per Kant si svolge attraverso un doppio movimento: sia la comprensione che la sensibilità hanno infatti bisogno dell’immaginazione per svolgere la propria funzione, in quanto per funzionare correttamente, per produrre conoscenza, devono attingere l’una ai risultati dell’altra. Il tramite, che porta i risultati dall’una all’altra, è appunto l’immaginazione che funziona così da “radice comune” di entrambi.

Per Kant, il primo ruolo dell’immaginazione è quello di consentire alla comprensione un accesso alle possibilità della realtà esterna. Questo primato non è casuale: per Kant, infatti, il mero pensare non è in grado di produrre conoscenza della realtà, altrimenti si correrebbe il rischio di giustificare l’intuizione intellettuale: pensare, insomma, non è certamente abbastanza per cogliere cosa realmente succede nel mondo. Kant va tuttavia avanti nel ragionamento, sostenendo che in realtà il pensiero, da solo, non basta neppure a capire cosa potrebbe accadere, in termini di plausibilità o di verosimiglianza: insomma «la cosa il cui concetto è possibile non è per questo una cosa possibile [...] altrimenti rimane sempre e solo un pensiero perpetuamente incerto sul fatto se a quel concetto corrisponda un oggetto, o se sia vuoto, ossia possa servire in generale alla conoscenza finché quell’oggetto non sia mostrato in un esempio»[7]. Secondo Kant le possibilità logiche, cioè non supportate da un confronto con la realtà, non bastano a giustificare la loro realtà: se è logicamente o concettualmente possibile che esista un oggetto A, ciò vuole soltanto dire che il nostro concetto di A non esclude la sua esistenza – ad esempio non ci sono apparenti contraddizioni nel concetto di A. Il fatto che il concetto di A sia logicamente possibile, però, non vuol dire che A esista realmente nel mondo, poiché potrebbero esserci delle condizioni, indipendenti ed esterne al nostro concetto, che ne precludono l’esistenza o la presenza. Pertanto, dal momento che gli oggetti che corrispondono al nostro concetto di A devono esserci dati dall’intuizione, dobbiamo cercare di trovare traccia di A solo attraverso di essa per essere sicuri che esista o possa esistere e solo quando ciò accadrà sapremo, cioè avremo Erkenntnis, che l’esistenza di uno o più oggetti è realmente o metafisicamente possibile. Kant chiama Darstellung questa attività di continua validazione reciproca tra intuizione e pensiero, un’operazione che «consiste nel porre accanto al concetto un’intuizione corrispondente»[8].

 

3. L’immaginazione come motore della comprensione

Se è certamente possibile pensare un modello di cognizione umana nel quale la facoltà passiva della sensibilità sia, da sola, responsabile di renderci consapevoli a livello percettivo degli oggetti particolari sui quali, in un secondo momento, produciamo dei giudizi attraverso l’attività della comprensione, per Kant tale modello manca comunque della possibilità di produrre una conoscenza: nel modello kantiano, infatti, anche la mera percezione degli oggetti implica una qualche attività razionale da parte del soggetto della percezione, senza la quale non saremmo effettivamente coscienti di alcun oggetto nella percezione. Kant chiama questa attività «sintesi del molteplice dell’intuizione sensibile»[9]. La ragione principale per la quale Kant sostiene la necessità di tale sintesi per la percezione riguarda proprio la molteplicità delle intuizioni provocate dalla percezione degli oggetti: essi sono complessi composti di numerose caratteristiche e qualità, il risultato di strutture temporali e spaziali. Sebbene la nostra sensibilità passiva ci possa dotare di singole rappresentazioni di tutte queste caratteristiche individualmente differenti, non è abbastanza per renderci consapevoli del fatto che tutti questi stimoli riconducano a un oggetto unitario: ad esempio, la sensibilità da sola potrebbe darci rappresentazioni delle diverse componenti temporali del movimento di un corpo, ma non restituircene la rappresentazione come parte di un tutto, non potrebbe cioè rappresentare l’intero processo di movimento come esteso nel tempo. Per fare un esempio concreto, potremmo dire che, per Kant, senza l’intervento della sintesi dell’intuizione sensibile, favorita dall’immaginazione, saremmo in grado soltanto di percepire singoli frame di un’immagine in movimento, ma la sua composizione in una serie di eventi connessi ci rimarrebbe oscura. Se non fossimo in grado di mantenere queste variazioni nel tempo, di legarle tra loro attraverso la capacità di riprodurle – cioè di produrre immagini di queste rappresentazioni, immaginandole come qualcosa di unitario – non potrebbe sorgere nella nostra mente una rappresentazione complessiva. Questa attività di riproduzione di contenuti mentali che non sono più percepiti attivamente è, per Kant, il compito principale della facultas imaginandi che opera non solo a livello delle percezioni empiriche, ma anche delle percezioni pure, come sono quelle dello spazio e del tempo – che sono a priori.

Kant distingue tra una immaginazione riproduttiva, che opera su una molteplicità empiricamente data, e una produttiva, che sintetizza le molteplicità di spazio e tempo a priori[10]: pur essendo “produttiva” essa è comunque condizionata dall’attività di riproduzione degli oggetti percepiti in precedenza. La differenza tra queste due “immaginazioni” è che l’immaginazione produttiva non riproduce semplicemente la molteplicità precedentemente percepita, quanto piuttosto una sintesi di quella molteplicità prodotta in maniera originale dall’immaginazione stessa, introducendo cioè variazioni “creative” non presenti nella percezione originaria. Ma anche questa immaginazione ha delle regole di ingaggio e funzionamento: opera cioè attraverso schemi che ne regolano il funzionamento e attraverso cui essa supera la distanza tra la sensibilità, con le sue intuizioni singolari, e la comprensione, con i suoi concetti generali[11]. La distanza tra sensibilità e comprensione è figlia dell’impossibilità di applicare un concetto generale in astratto: senza fare riferimento a un triangolo materiale, non sarebbe possibile spiegare il concetto del triangolo in astratto. Risulta dunque necessario che tra sensibilità e comprensione esista una distanza, ma è altrettanto necessario che esse siano collegate.

Avere uno schema di un concetto vuol dire sapere come esporre (Darstellen) questo stesso concetto: per esempio, avere lo schema del concetto di cane, vuol dire sapere come immaginare un oggetto specifico, un cane specifico, che abbia le caratteristiche contenute nel concetto di cane. Ed è questa conoscenza il modo attraverso cui la competenza concettuale è costruita, almeno in parte: lo schema riduce le distanze tra sensibilità e comprensione, poiché da una parte stabilisce una regola generale che, come il concetto stesso, può essere applicata a casi diversi, ma d’altra parte ha la capacità di tradurre le intuizioni particolari e di dare la regola per ri-produrle. In questo senso, lo schema è lo strumento ideale per la facoltà di immaginare.

L’idea che gli schemi siano regole per l’immaginazione è importante per Kant, poiché sostiene l’idea che la nostra immaginazione debba compiere atti di sintesi produttiva e riproduttiva perché noi possiamo divenire fenomenicamente consapevoli della molteplicità del sensibile in quanto tale. Per Kant, infatti, al fine di adempiere a questa funzione, la produzione e riproduzione delle rappresentazioni sensibili deve essere in qualche modo guidata dai concetti, come fossero regole della sintesi, ed è possibile sostenere che gli schemi adempiano anche alla funzione di tali regole. La capacità di percepire il molteplice sensibile in quanto molteplice implica che le forme che noi percepiamo dipendano in qualche modo dalla nostra capacità di modulare la percezione stessa, di orientarla: osservando un’illusione ottica, come la celebre anatra-coniglio, è chiaro come non sia l’immagine in sé a “rappresentare” qualcosa, ma come sia la nostra percezione a rappresentare la “realtà” di una delle due figure e, se non avessimo i concetti a governare la nostra percezione del molteplice in quanto molteplice, non potremmo passare da una visione all’altra. Il cambiamento di prospettiva non consiste semplicemente nel produrre giudizi diversi sul medesimo oggetto percepito, giacché il cambio nel carattere fenomenico rende chiaro che è anche il contenuto visivo a cambiare, tanto che è impossibile percepire le due immagini simultaneamente. Per Kant in questo cambiamento prospettico noi sintetizziamo lo stesso molteplice sensibile seguendo regole differenti, schemi differenti: la differenza tra le due modulazioni si palesa nel fatto che procediamo diversamente quando completiamo l’immagine nella nostra immaginazione e “costruiamo” il resto dell’animale per come esso corrisponde al concetto che ne conosciamo.

Per Kant, l’immaginazione funziona con e attraverso una sintesi delle intuizioni in accordo con le categorie: essa dapprima convoglia la molteplicità delle intuizioni e dunque applica a quella molteplicità uno schematismo dei concetti. In questo processo, l’immagine prodotta dall’immaginazione è sempre legata a uno schema che la genera: tuttavia, anche se l’immagine e lo schema che l’ha generata sono intimamente legate, i due elementi sono chiaramente distinguibili, ed è dunque possibile distinguere lo schema che ci consente di generare un’immagine di un cane dall’effettiva immagine del cane che ci siamo fatti. In questo senso, l’immaginazione funziona sfruttando gli schemi come regole per la determinazione del contenuto delle nostre immagini mentali: essa è la capacità di rappresentare un oggetto anche senza la sua presenza nell’intuizione. Ciò non vuol dire, però, che essa operi senza alcun riferimento all’intuizione: al contrario, l’immaginazione per Kant funziona con e attraverso una «sintesi delle intuizioni in accordo con le categorie»[12]. Essa dapprima convoglia la molteplicità delle intuizioni e in seguito applica a questa molteplicità uno schematismo dei concetti: in questo modo l’immagine prodotta dal processo (dall’immaginazione, appunto) non è qualcosa che emerga come “puro”, a partire da una qualche “intuizione intellettuale”, ma viene generata a partire dalle intuizioni e modulata attraverso gli schemi, che funzionano come regole per la determinazione delle intuizioni, in conformità con un concetto generale di cui seguono le indicazioni. Gli schemi funzionano, insomma, come una sorta di denominatore comune per un certo numero di immagini: grazie ad essi Kant attribuisce all’immaginazione il compito di congiungere la percezione con la comprensione. Attraverso il lavoro dell’immaginazione, che si realizza per mezzo degli schemi, i semplici stimoli provenienti dall’intuizione sensibile, le semplici percezioni, possono essere analizzate e comprese, finendo per rappresentare la base della nostra conoscenza: l’immaginazione è dunque, per Kant, il fondamento della nostra capacità di sapere.

Ma il ruolo dell’immaginazione non è soltanto quello di permetterci di organizzare i “dati in entrata” della nostra mente: per questo Kant distingue l’immaginazione riproduttiva da quella produttiva. La prima consente alla mente di connettere le diverse esperienze e impressioni dei sensi, congiungendo percezioni precedenti e successive, mettendole così in serie e generando una sequenza: in questo modo l’immaginazione riproduttiva fa lavorare insieme le due facoltà che sono percezione e memoria, producendo i ricordi. A farle da corredo, l’immaginazione produttiva che ha il ruolo di sintetizzare i contenuti sensibili dell’intuizione, raccogliendoli in un tutto dotato di senso: essa cioè opera una selezione del materiale in ingresso dai nostri sensi e dalle nostre percezioni, dandoci così un punto di vista preferenziale per costruire la nostra percezione della realtà. Compito dell’immaginazione produttiva è quello di settare le regole in base alle quali certe combinazioni di percezioni possano essere preferite ad altre: la selezione di quali regole usare per darci un’idea di ciò che sta fuori di noi è infatti per Kant una scelta libera, nel «libero gioco dell’immaginazione»[13].

In questo libero gioco un ruolo fondamentale è quello della schematizzazione, per lo meno nella prima Critica, ovvero la riduzione di un oggetto alle caratteristiche che condivide con altri oggetti simili che abbiamo già visto, cioè di cui abbiamo già fatto esperienza attraverso l’intuizione sensibile, e ai quali possiamo “ridurlo”, a livello di categorie come forma, colore, peso, etc. Questo processo fa sì che l’immaginazione funzioni, e dunque inneschi tutti i processi e le facoltà che rendono possibile la conoscenza umana: il punto è che il processo di schematizzazione, per come lo descrive Kant, è precisamente ciò che mettono in campo oggi le Intelligenze Artificiali Generative che, nell’identificare le regole di base con le quali l’immaginazione umana schematizza le percezioni, simulano il “libero gioco” delle facoltà umane – in maniera non poi tanto dissimile da quello con cui un rendering 3D simula la tridimensionalità, dandoci l’impressione di un ambiente spaziale: queste immagini tridimensionali, che vengono spesso usate dagli architetti per dare un’idea anche iperrealistica di come saranno realizzate le loro opere, hanno delle caratteristiche che simulano in maniera dettagliata gli elementi reali, comprendendo la resa dei materiali, dell’illuminazione, la loro resistenza e la loro capacità di riflettere la luce. L’immagine così generata appare reale e sembra avere una profondità, ma ovviamente è tutto soltanto simulato perché appaia tale.

 

4. L’immaginazione artificiale come estensione dell’immaginazione umana

Se oggi una IA generativa riesce a emulare il comportamento dell’immaginazione kantiana, ciò vuol dire che l’immaginazione umana non ha più alcuna utilità? Oppure che l’immaginazione artificiale può distruggere quella naturale? Probabilmente è opportuno riflettere su quali siano i possibili effetti e rischi di queste macchine. È urgente concentrarsi sugli effetti che l’immaginazione artificiale può avere su quella umana, giacché da sempre la nostra immaginazione subisce l’influenza e l’effetto degli strumenti che siamo in grado di produrre, specie quelli che in qualche modo potenziano la nostra capacità di acquisire dati sensibili.

Un primo elemento di riflessione, qui, è che abbiamo a che fare – forse per la prima volta nella storia della nostra evoluzione – con una immaginazione “inumana”, ovvero con la capacità di produrre immagini che non sono, strettamente parlando, frutto dell’intenzionalità di un essere umano, qualcosa il cui senso profondo ci sfugge completamente – ammesso che qualcosa come un “senso profondo” possa essere identificato nei risultati dell’operare delle IA. Questo incontro con una immaginazione inquietante dovrebbe forse spingerci a cercare di pensare un nuovo senso e un nuovo ruolo per l’immaginazione umana che possa conformarsi alla nuova situazione contemporanea, un nuovo modo di operare per questa facoltà, negli ambienti influenzati o prodotti grazie e attraverso le IA.

Diversamente da quanto avviene nel classico modello kantiano, per Don Ihde[14] l’immaginazione non comporta solo la schematizzazione di quanto avviene nella percezione: per Ihde, essa non opera solo retroattivamente su quanto abbiamo già percepito, ma in qualche modo opera anche predisponendo la percezione prima ancora che essa si verifichi, nell’atto cioè di produrre le variazioni nello schema attraverso cui la nostra mente “processerà” i dati della percezione. Ihde chiama questo processo «imaginative projection-reflection»[15]: la comprensione umana non funziona, infatti, soltanto accettando passivamente ciò che arriva dalla percezione, ma anche in qualche modo aspettandosi determinati oggetti, cioè ponendo l’autocomprensione in attesa di qualcosa, in un tempo che non è il presente. Per Ihde, attraverso questa aspettativa, gli esseri umani proiettano la propria autocomprensione in un tempo diverso dal presente, in qualche modo irrealistico, immaginato appunto: questa analisi preventiva e ipotetica ci consente di sviluppare nuove possibilità per il nostro futuro, formate a partire dall’immaginazione che è a sua volta formata dal nostro ambiente. Ma il nostro ambiente è fatto sia di oggetti naturali che di oggetti tecnici e dunque le aspettative e le possibilità che riusciamo a immaginarci sono dipendenti dall’insieme di questi elementi: futuri diversi possono essere immaginati da società che hanno livelli e tipi di tecnologia diversi perché il loro modo di schematizzare la percezione è offerto non solo da schemi categoriali fissi, ma anche e soprattutto da schemi che evolvono attraverso tecniche e tecnologie differenti.

Per Ihde la caratteristica peculiare delle tecnologie digitali è quella di aggiungere livelli alla “realtà” percepibile con i sensi: un essere umano non riesce “realmente” a vedere un buco nero o il traffico sulla tangenziale, ma può percepirli grazie al telescopio spaziale James Webb o grazie a un navigatore satellitare. Queste entità non possono essere realmente “viste” con i miei occhi biologici, ma questo non le rende meno reali, non possono cioè essere definite come “non-attualità” o pure fantasie. Proprio come l’immaginazione e la percezione, lavorando insieme, producono la conoscenza, queste quasi-percezioni non solo coinvolgono nuovi punti di vista sulla realtà, ma aprono a interi nuovi domini, aggiungono cioè nuovi livelli sopra la semplice percezione, estendendo le nostre capacità immaginative e quindi le nostre conoscenze. Lo sviluppo di nuove tecnologie comporta la possibilità di immaginare cose nuove, il che porta a sua volta allo sviluppo di tecnologie ancora più nuove, in un loop potenzialmente infinito: questo processo condiziona fortemente lo sviluppo dell’immaginazione: è grazie a telescopi di inedita potenza che possiamo immaginare com’è fatto un buco nero anche se, senza queste tecnologie e senza una enorme potenza di calcolo, non potremmo mai “vederlo”. Le nostre facoltà tecniche e in qualche modo anche il nostro essere esseri tecnici si compie, insomma, anche in base alla facoltà di immaginare in maniera sempre diversa, basando la nostra immaginazione su aspettative che cambiano in base alle potenzialità tecniche a nostra disposizione.

In questo senso, un autore che ha lavorato lungamente sulla strettissima relazione che lega umanità e tecnologie è Bernard Stiegler, soprattutto attraverso il concetto di epifilogenesi[16], neologismo coniato a partire dai termini filogenesi ed epigenesi: la filogenesi è la genesi di una specie (o più in generale del phylum), mentre l’epigenesi designa tutti i fattori dello sviluppo biologico individuale che non sono strettamente legati alla sfera genetica (che non sono quindi “scritti” nel DNA). Con epifilogenesi Stiegler designa quindi i fattori dell’evoluzione della specie – in questo caso umana – che non sono genetici, ma che finiscono per agire sul modo in cui la specie agisce e si comporta. Questo processo di “ominizzazione” – cioè il processo in base al quale la specie agisce su se stessa, sul proprio modo di essere – è in effetti una esteriorizzazione tecnica, un processo nel quale l’elemento biologico persegue la vita con mezzi diversi da quelli propri, da quelli biologici, attraverso cioè gli strumenti tecnici. A differenza di quanto avviene per Ihde, interessato alle tecnologie digitali che operano nel quotidiano e nella ricerca scientifica (come appunto il CAD o i telescopi), Stiegler si concentra maggiormente sulle tecniche e tecnologie dei media, come la televisione e il cinema e il rapporto che essi instaurano con la memoria, ossia all’estremo opposto rispetto alla percezione, nella macchina dell’immaginazione disegnata da Kant. Nel contesto kantiano, infatti, l’immaginazione necessita di entrambe le facoltà ed è a esse strettamente legata: da una parte, come abbiamo visto, recepisce e schematizza i dati della percezione; dall’altra, sfrutta la facoltà della memoria nel portare al pensiero qualcosa che non è immediatamente presente – evoca cioè le ritenzioni, per usare un lessico stiegleriano. Ma, come ci suggerisce Stiegler, tali ritenzioni non sono necessariamente interne alla nostra mente: esse vengono anche esteriorizzate con diversi strumenti come il segno, la scrittura, il disegno, fino ad arrivare ai media di massa. Per questa ragione, per Stiegler è impossibile riflettere sull’immaginazione senza parlare anche di tecnologia e di media: il filosofo francese usa questa relazione tra media, memoria e immaginazione come base per una critica della «industrializzazione della memoria»[17], ovvero quel processo di progressivo indebolimento della proprietà umana sulla formazione e il mantenimento dei propri ricordi. Per Stiegler, l’esternalizzazione della memoria ha portato anche a uno sfruttamento di essa da parte delle industrie culturali che lavorano attivamente sui meccanismi di formazione dell’immaginazione, sfruttando tanto le ritenzioni quanto le protenzioni individuali e collettive: se le ritenzioni sono ciò che la nostra memoria – interna o esteriorizzata che sia – trattiene dello scorrere del tempo, le protenzioni sono ciò che, sulla base di quei ricordi, ci aspettiamo che accada, in qualche modo orientati tanto dalle ritenzioni quanto dal nostro desiderio.

Le industrie culturali, in particolare il cinema di Hollywood, ma anche i network televisivi e più di recente le aziende che sfruttano le reti sociali digitali, contribuiscono allo sfruttamento e la messa a profitto del «tempo di cervello umano disponibile»[18] attraverso una colonizzazione delle ritenzioni e delle protenzioni umane: non è il medium in sé a costituire un bersaglio della critica stiegleriana, insomma, quanto il modo in cui il suo uso viene organizzato e sfruttato. I conglomerati mediatici, ci dice Stiegler, canalizzano l’immaginazione degli spettatori producendo memorie condivise, ma già codificate, già quindi schematizzate, sulle quali imprimono un punto di vista singolo poiché esse sono registrate a partire da un singolo punto di vista e successivamente distribuite su una scala massiva. Questo processo, fondamentalmente creato per rispondere a una precisa esigenza di business – quella di vendere pubblicità – rischia di impoverire l’immaginazione singolare e collettiva.

Nel saggio del 1986 Technologies de la memoire et de l’imagination[19] il filosofo francese parte proprio dall’immaginazione trascendentale kantiana per confrontarla con la trattazione husserliana: per Stiegler tanto Kant quanto Husserl, pur dedicando molta attenzione al tema dell’immaginazione e della memoria mancano un punto cruciale che è il processo di esteriorizzazione della memoria, che è rappresentato dall’elemento tecnico. La memoria è, per Stiegler, profondamente basata sulla tecnica: che si tratti della scrittura o dell’iscrizione di un processo manuale nell’automazione di un meccanismo, la tecnica ha un ruolo cruciale nella conservazione delle ritenzioni, finendo in qualche modo per fungere da estensione esosomatica degli schemi kantiani. Questo processo ci permette di acquisire dati sulla realtà attraverso nuove categorie fornite o integrate dagli strumenti tecnici e di produrre ricordi che sfruttano quei medesimi strumenti tecnici come supporto, producendo delle ritenzioni terziarie – termine che riprende il lessico husserliano, dove le ritenzioni primarie sono i flussi di pensiero cosciente e quelle secondarie sono i ricordi stabiliti.

Per Stiegler l’immaginazione rappresenta una sorta di supplemento della memoria, che si attiva nel momento in cui quest’ultima vacilla: si tratta di una sorta di memoria “di ultima istanza”, sempre in qualche modo artificiale – cioè costituita da un “artificio” operato sulle percezioni e già di per sé un’alterazione dell’ambiente esterno da cui estrae le sue rappresentazioni. Dal momento che per Stiegler l’immaginazione comincia a lavorare quando la memoria presenta inciampi o malfunzionamenti, possiamo notare che nel suo lavoro la memoria ha sempre un certo primato sulle altre facoltà. Tuttavia, nell’opus magnum dell’autore, e in particolare nei primi due volumi di La technique et le temps[20], l’immaginazione gioca un ruolo cruciale nel processo di ominazione: seguendo la trattazione dell’antropologo e paleontologo André Leroi-Gourhan, Stiegler sostiene che l’immaginazione è una condizione necessaria per lo sviluppo della tecnologia, e dunque anche per lo sviluppo delle tecnologie della memoria, così come una condizione necessaria per lo sviluppo dell’umano: se esiste un “momento” nel passaggio tra animale e umano, per quanto sia impossibile indicarlo con un punto nel tempo e nello spazio, esso è connesso con lo sviluppo e l’uso di strumenti. Leroi-Gourhan chiama questo processo esteriorizzazione, dal momento che esso comprende l’attività di portare al di fuori di sé la memoria e le facoltà umane, demandandole a qualcosa che non è più strettamente proprietà del corpo che le ha prodotte: si tratta di un processo che necessita dell’immaginazione poiché gli strumenti prodotti dai primi ominidi sono stati in qualche modo immaginati prima di essere esteriorizzati. Allo stesso modo, la loro esteriorizzazione, per Stiegler, apre nuove possibilità per l’immaginazione che, basandosi sulle possibilità a disposizione grazie a questi nuovi strumenti, può immaginare nuove articolazioni e nuove soluzioni tecniche e dunque nuovi regimi di esteriorizzazione. L’umano, in fondo, per Stiegler «is essentially constituted by the co-evolution of its dreams and its technics»[21].

I legami dell’immaginazione non si limitano al suo rapporto con l’evoluzione e l’invenzione, ma anche con l’innovazione. Seguendo il percorso filosofico tracciato da Gilbert Simondon, Stiegler descrive l’immaginazione come un processo che non va analizzato partendo dall’umano, ma va compreso a partire dall’immagine: in Imagination et Invention[22] Simondon scrive infatti che le immagini mentali, di cui l’immaginazione è composta, vengono riunite in gruppi e svolgono un’attività organizzata dalla vita psichica, funzionando in qualche modo come un organo. Di questo processo organico, sarà possibile distinguere diverse tappe: dapprima quella della crescita pura e spontanea, nella quale ogni immagine si sviluppa autonomamente come embrione dell’attività motoria e percettiva; in seguito, produrre immagini diventa un modo specifico per ricevere informazioni provenienti dall’ambiente esterno e una fonte di schemi di risposta a questi stimoli; infine, l’impianto timico aggiunge organizzazione alle immagini inserendole in una serie di collegamenti, evocazioni e comunicazioni. Per Simondon, dunque, si va da un’immagine “pura” a un’organizzazione più complessa che cambia sia la funzione che le potenzialità dell’immagine, finendo per creare un vero e proprio codice comunicativo. Simondon analizza l’immaginazione come modello e come strumento di concettualizzazione per il processo di invenzione: come il processo di formazione e progressiva organizzazione delle immagini, anche il processo di invenzione è ricorsivo, torna ad agire su se stesso così che ogni stadio serva come base allo stadio successivo. Questo accade non soltanto perché condividono lo stesso modo di funzionamento, ma anche perché sono strettamente legati, come processi: l’immaginazione, infatti, non è solo l’attività di produrre o evocare immagini, ma anche la facoltà di ricevere immagini concretizzate in un oggetto, ritraducendole nell’oggetto da cui l’immagine è tratta: insomma, conclude Stiegler nella sua analisi del testo di Simondon[23], l’immaginazione è l’attività di scoprire il significato di quelle immagini.

Ovviamente non tutte le forme di esteriorizzazione sono un bene per gli esseri umani: per Stiegler le tecnologie dei media, nella loro peculiare essenza di tecnologie immaginifiche, rappresentano un potenziale problema che devia dalla traiettoria teorica tracciata da Leroi-Gourhan. Se è chiaro che ogni oggetto tecnico, in quanto comporta una memoria dell’esser stato prodotto e del modo in cui si usa, è sempre un oggetto di memoria, a partire dall’Ottocento sono apparse delle specifiche “mnemotecnologie” (fotografia, fonografia, cinema), che si sono evolute fino al punto di diventare supporti essenziali della vita, nell’epoca industriale. Stiegler sostiene che la forte insistenza sulla matrice audiovisiva di tecnologie come il cinema o la radio, così come la televisione e internet, comporta un ritorno all’informazione visiva e alla letteratura orale, senza passare attraverso nessuna forma immaginaria: si ha l’impressione che, sentendo l’audio o vedendo il video di un qualche evento, si sia proprio lì, si abbia esperienza della cosa stessa senza nessun filtro, ma non è affatto così. Sebbene queste immagini passino attraverso una esteriorizzazione delle capacità umane comune a tutte le tecnologie, esse mettono in pericolo altre capacità, in particolare l’immaginazione. Infatti, laddove l’immaginazione serve come condizione di esistenza per le tecnologie, avviene anche il contrario, ovvero che le tecnologie funzionano come condizione per la memoria, retroagendo sulla facoltà di immaginazione. Per Stiegler, il punto dolente è che, fornendo delle informazioni audiovisive già modulate, sostanzialmente uguali per tutti e richiamabili all’infinito, identiche a se stesse, la facoltà di produrre delle variazioni, dei ricordi alterati e dunque personali che differiscono dall’originale, di fatto si impoverisce: è questa, per Stiegler, la grande capacità dell’immaginazione, quella cioè di generare dei vuoti imprecisi lasciati dalla percezione e riempire quegli stessi vuoti con elementi nuovi, producendo delle variazioni immaginarie dell’originale. Secondo Stiegler questo fenomeno di «variation imaginaire»[24] è qualcosa di intimamente antropologico e antropogenico: nella misura in cui introduce una variazione e dunque una differenza rispetto al percepito, essa suppone una differenza tra l’accidentale e l’essenziale che si traduce in un’opposizione tra la physis in quanto “dato” e la techne in quanto “prodotto”. L’immaginazione gioca quindi su una tensione tra la physis, che risulta in qualche misura “selvaggia” e sulla quale non può esercitare un controllo diretto, e l’elemento della techne che essa può organizzare, calcolare, pianificare. In questo senso, l’immaginazione non è dunque soltanto una forza libera e selvaggia, ma una tensione tra invarianti e varianti che riguarda non solo ciò che ci circonda, ma anche noi stessi.

Questa tensione tra il dato e il prodotto è alla base della definizione dell’uomo come “essere sensazionale” di Stiegler, un essere che è in grado di “esclamarsi” fuori da una sensibilità espressa in maniera noetica – capace, cioè, di “chiamarsi fuori” dal modo razionalizzato e ordinato di presentare i dati sensibili. L’essere sensazionale può chiamarsi fuori dalla fondazione transindividuale e preindividuale, del contesto sociale, biologico e storico del quale è erede: per effettuare una simile esclamazione, però, è necessaria una esteriorizzazione originaria che è rappresentata dall’espressività. Gesto e linguaggio sono i primi esempi della nostra capacità di “chiamarci fuori” da ciò che è dato. Tuttavia, se la techne in quanto esteriorizzazione è una forma di memoria concretizzata (di “ritenzione terziaria” per usare il lessico di Stiegler), allora l’immaginazione, come facoltà umana, ha bisogno di essa ancor prima che cominci a operare: solo in quanto è possibile produrre una variazione, tirarsi fuori, “esclamarsi” dal contesto, è possibile produrre la variation imaginaire, ma è possibile esclamarsi solo in quanto è possibile esteriorizzare la propria attività noetica, attraverso un linguaggio e un gesto che siano in qualche modo oggettivati e conservati: ecco perché le mnemotecniche sono, per Stiegler, un prerequisito dell’immaginazione. 

Ma cosa succede quando le mnemotecnologie prendono il sopravvento nella nostra capacità di produrre memoria? Nel 21° secolo, attraverso le numerose invenzioni e innovazioni digitali, le mnemotecnologie hanno assunto una funzione primaria nelle società iperindustriali. Se l’immaginazione ha bisogno di una varietà di opzioni per poter funzionare, di un certo grado di libertà nel produrre la variation imaginaire, cosa rischiamo attraverso tecnologie che non ci portano a percepire la possibilità di infinite variazioni, ma finiscono per schiacciare la percezione su un’unica variazione possibile? In questo modo, per Stiegler, l’orizzonte delle possibilità si chiude e una sola possibilità di realtà prende il sopravvento su ogni altra realtà possibile: se l’immaginazione funziona nella misura in cui esiste la possibilità che la realtà sia altrimenti da come l’ho percepita e da come la ricordo, in quanto invarianza che resiste alla finzione, essa può essere produttiva solo nella misura in cui c’è una dialettica tra realtà e finzione. Se invece la finzione è soltanto una, come avviene nell’alta fedeltà delle trasposizioni digitali, il reale e il fittizio divengono uno e le infinite potenziali variazioni evaporano, lasciando non il possibile, ma solo il probabile.

Il terzo volume di La Technique et le Temps[25] è dedicato al tempo del cinema e alla questione del malessere. In esso Stiegler affronta l’analisi di ciò che definisce le “industrie dell’immaginario”[26]: le mnemotecnologie come il cinema, la radio e la televisione non pongono dei filtri tra la realizzazione tecnica e l’immaginazione, poiché essa è già direttamente ‘immaginata’ in forma audiovisiva. Se l’immaginazione è la facoltà di produrre immagini mentali, è tuttavia impossibile produrne senza avere come base delle immagini oggettive ed è dunque lecito aspettarsi che ci sia un qualche legame tra questi due tipi di immagine: le immagini oggettive sono appunto oggetti nel duplice senso, in quanto risultano in qualche modo “imparziali”, ma anche allo stesso tempo “artefatte”. Le immagini oggettive prodotte dall’industria culturale hanno dunque la duplice valenza di apparire insieme come neutrali e fuori dal controllo dei loro creatori umani, quando allo stesso tempo sono pur sempre create da qualcuno per qualche scopo e dunque ben lontane dall’essere una rappresentazione imparziale della realtà. Ciò accade in particolare quando l’immaginazione diviene l’oggetto preferenziale della produzione industriale di immagini e suoni distribuiti su larga scala attraverso i mezzi di comunicazione di massa: in quanto «teratological exteriorisation of the transcendental imagination»[27] è un artefatto che rischia di proporre una versione mostruosa dell’immaginazione, una versione nella quale il suo funzionamento viene fortemente limitato e che produce un corto circuito. Questo corto circuito non produce effetti nefasti soltanto a livello dell’organizzazione sociale, ma anche a livello dello sviluppo tecnologico stesso: seguendo le analisi di Adorno e Horkheimer[28], infatti, è possibile evidenziare come le mnemotecnologie producano un corto circuito nell’immaginazione sia a causa del loro contenuto, sia a causa delle caratteristiche stesse della tecnologia a cui fanno capo – una tecnologia che, nel caso del cinema, rende impossibile «distinguer perception et imagination, réalité et fiction»[29] e che finisce per produrre disordine mentale. Stiegler allarga la riflessione sulle tesi della Dialettica dell’Illuminismo in due direzioni: innanzitutto, questo effetto di confusione non è limitato solo al cinema, ma coinvolge tutte le mnemotecnologie che in qualche modo operano con l’immaginazione (cioè con la produzione di immagini), come la realtà virtuale e i videogiochi; in secondo luogo, è importante notare che esiste una progressiva convergenza delle industrie che operano sull’immaginazione, da una parte con le industrie che producono informazione, dall’altra con quelle che si occupano della memoria.

Questa progressiva convergenza «suscite le fait et le sentiment d’un gigantesque trou de mémoire, d’une perte de rapport avec le passé, et d’une déshérence mondiale noyée dans une bouillie d’informations d’où s’effacent les horizons d’attente que constitue le désir»[30]. La convergenza, quindi, indebolisce progressivamente il rapporto dell’immaginazione con la memoria: l’eccesso di informazioni, infatti, causa un corto circuito nella formazione delle aspettative e, indirettamente, nella formazione del desiderio. Per Stiegler, infatti, è possibile desiderare solo nel momento in cui si crea un orizzonte di anticipazione, ma senza memoria – o peggio nel contesto di un perenne presente – le aspettative e le pulsioni non hanno possibilità di essere sublimate in desideri e spingono verso una immediatezza nella soddisfazione dei bisogni che per Stiegler è bestiale. Tuttavia, malgrado la progressiva convergenza delle industrie culturali e di quelle dell’informazione con le tecnologie digitali causi anche una potenziale confusione tra realtà e immaginazione, non ha alcun senso proporre una totale separazione di queste ultime: come sarebbe infatti possibile l’innovazione tecnica o il cambiamento sociale se dovessimo effettivamente tenerli separati? La questione, per Stiegler, è molto più complessa e una possibile soluzione va ricercata nel considerare le mnemotecnologie, come in fondo tutte le tecnologie, alla stregua di un pharmakon - potenzialmente un veleno e una cura. Come ogni pharmakon che si rispetti, il punto non è quanto sia benefico o venefico, ma il fatto che ci si debba interrogare sulla sua posologia, sul modo di potersene servire per ampliare le nostre possibilità senza esserne danneggiati.

 

5. Immaginazione artificiale tra umanizzazione e demonizzazione

Laddove per Kant l’immaginazione era la sintesi di sensazione e comprensione – facoltà che egli considerava intimamente ed esclusivamente umane – nell’era digitale gli sviluppatori di intelligenze artificiali cercano il modo di replicare queste facoltà all’interno di complessi algoritmi, il cui obiettivo esplicito è proprio quello di simulare o emulare le capacità di comprendere e sentire proprie degli esseri umani: la stessa memoria umana può essere in fondo interpretata come l’insieme dei dati estratti da un database e le cui percezioni possono essere rappresentate come i singoli dati forniti da sensori e organizzati in base a categorie e schemi forniti dal sistema. Queste categorie e questi schemi sono in realtà le regole in base alle quali funzionano gli algoritmi che simulano la percezione e la memoria, ma non è detto che – una volta simulati – essi forniscano emulazioni credibili dei risultati di una memoria o di una percezione umane. Le intelligenze artificiali generative, infatti, producono una serie enorme di variazioni e combinazioni dei loro dati, una serie cioè di infinite variazioni possibili a partire da un compito specifico definito dall’utente – un prompt, in gergo tecnico – che automatizzano il “libero gioco” dell’immaginazione kantiana. L’enorme potenza di calcolo messa a disposizione di questi apparati permette di esaminare più opzioni contemporaneamente e scartare quelle statisticamente meno rilevanti: l’output che si presenta all’utente è, in genere, il risultato unico di un calcolo di probabilità, lasciando talvolta la possibilità di scelta tra diverse opzioni simili tra loro, che l’utente giudicherà migliori: ciò che viene chiesto di fare all’utente, in sostanza, è di determinare la correttezza dell’output generato, attribuendogli un significato. Il nostro ruolo come esseri umani, in sostanza, è quello di generare (o rivelare, in qualche modo) il significato tra i vari livelli di realtà coinvolti nel processo (realtà materiale, realtà sociale, dati a disposizione, etc.) e stabilire nuovi legami tra i differenti livelli. In questo senso, scegliendo di dare credito a un output, stiamo creando delle relazioni tra le entità all’interno della macchina e stiamo consentendo alla macchina di creare nuovi schemi. Il tema non è tanto la veridicità di quello che la macchina sta producendo, ma il potenziale effetto di veridizione che i suoi risultati producono, unito a una quasi totale assenza di responsabilità nei confronti di tutto questo potere. Il punto è che le intelligenze artificiali non hanno, al momento, una comprensione concettuale del mondo paragonabile a quella degli esseri umani: come abbiamo visto, al netto di una semplice analisi delle sensazioni, la conoscenza umana pone un valore dirimente non solo alla conoscenza basata sull’esperienza e sui sensi, ma alla vera e propria comprensione basata sul contesto culturale e su altre variabili complesse, laddove i prodotti delle intelligenze artificiali sono basati principalmente su dati e algoritmi matematici. Quando le intelligenze artificiali elaborano testi o immagini, esse operano principalmente basandosi su statistiche e pattern di testo presenti nei dati forniti in fase di addestramento. Questo significa che possono generare risposte coerenti e a volte persino convincenti, ma senza una vera comprensione del significato. Le intelligenze artificiali possono associare parole o frasi a determinati concetti in base a come questi concetti sono stati presenti nei dati di addestramento, ma non hanno una comprensione profonda del significato concettuale delle frasi. Inoltre, le intelligenze artificiali possono essere influenzate da problemi come l’ambiguità semantica, la mancanza di contesto o la comprensione delle sfumature del linguaggio umano, come l’ironia, il sarcasmo o il contesto culturale. Anche la comprensione delle emozioni umane può risultare difficile per le intelligenze artificiali, poiché spesso richiede un’intuizione e una comprensione emotiva che le macchine non possiedono.

Pertanto, anche se le intelligenze artificiali possono essere molto utili in molte applicazioni, come il riconoscimento vocale, la traduzione automatica o la generazione di testo, non hanno una comprensione profonda del significato delle frasi come gli esseri umani, poiché mancano di un’autentica comprensione concettuale del mondo.

Le conseguenze di questa mancanza di comprensione profonda pongono dei potenziali limiti che, tuttavia, la presenza di un risultato convincente può mettere in ombra. Esteriorizzare la capacità di immaginare, farlo in un contenitore automatico di cui per lo più non conosciamo i parametri né possiamo effettivamente controllarli è certamente comodo, veloce e affascinante, ma ci espone al rischio non banale di creare un corto circuito che alla lunga rischia di impoverire la nostra capacità autonoma di comprendere e interpretare il mondo: in più, l’uso prolungato di un sistema che ci permette di esternalizzare l’onere di immaginare, può in qualche modo disabituarci a immaginare. Se diventa sempre più complesso immaginare in maniera autonoma per gli attori umani, è possibile che ne venga compromessa anche la nostra stessa capacità di pensare altrimenti e, alla fine, di pensare di poter cambiare il mondo autonomamente, di compiere salti e «variazioni immaginarie» che magari potrebbero rivelarsi statisticamente improbabili, ma potenzialmente più giuste e meritevoli.

Nel discutere e analizzare le intelligenze artificiali generative come forme di esternalizzazione della nostra facoltà di immaginare, tuttavia, dovremmo evitare di incorrere in due rischi, egualmente presenti e problematici: da una parte, l’eccessiva “umanizzazione” delle IA, dall’altra la loro “demonizzazione”. Umanizzare l’IA significa riconoscere a queste macchine elementi tipicamente umani come volontà, finalità, creatività, etc. Si tratta di una tendenza rischiosa, in primo luogo perché normalizza e rende familiari e disponibili per un vasto pubblico dei processi che sono governati, controllati e decisi da aziende ed elite economico-finanziarie attraverso strumenti potentissimi, su cui gli utenti non hanno alcun potere decisionale e, spesso, nessuna conoscenza, nemmeno teorica, dei meccanismi di funzionamento. Inoltre, questo enorme potere di influenzare i comportamenti e di “cortocircuitare” potenzialmente l’immaginazione umana attraverso l’immaginazione artificiale, arriva senza che ci sia alcun tipo di responsabilità politica o morale[31] – e all’interno di un quadro in cui c’è ben poca responsabilità economica e finanziaria[32]. In questo senso, umanizzare l’IA generativa, usando espressioni come “l’IA impara” o “l’IA conosce” o addirittura “l’IA crea” è rischioso poiché ci spinge a pensare come dato e dunque inevitabile qualcosa che dato non è, ma è anzi frutto di scelte e finalità specifiche da parte di chi progetta, produce e vende questi sistemi, in termini di design e di contenuto. Le macchine sono certamente parte dell’umano e ne condizionano l’evoluzione, ma il modo in cui sono fatte e il modo in cui si evolvono sono anche frutto di decisioni e opportunità che, a seconda delle conseguenze che esse provocano e del loro impatto sulla vita delle persone andrebbero problematizzate e discusse: si tratta di world-shaping technologies, strumenti e mezzi in grado di rimodellare l’intera società con una portata potenzialmente imprevedibile.

Spingere per una ridiscussione dei parametri e dei valori sulla base dei quali simili tecnologie sono sviluppate, diffuse e commercializzate non vuol dire, però, opporsi alla loro esistenza né demonizzarle: volendo dare al termine “demone” un doppio significato, quello di forza del male, ma anche di operatore invisibile tra umano e inumano, possiamo dire che queste tecnologie hanno certamente un potenziale demoniaco, ma non necessariamente nefasto. Su questo tema sembra esserci una doppia tendenza in atto: da un lato, critici che si riferiscono alle Intelligenze Artificiali come a una sorta di operatore imparziale, capace di dirimere o giudicare l’operato degli attori umani o di risolvere problemi complessi[33], dall’altro ipotesi di eventi catastrofici (i cosiddetti existential risks) e futuri distopici nei quali l’IA distruggerà il mondo del lavoro o il mondo in quanto tale[34]. Al di là della facile messa al muro dell’IA come pericolo per lo sterminio della specie umana (compito nel quale, a dire il vero, pare che l’umanità eccella ampiamente anche senza l’aiuto di questi strumenti), le critiche principali si concentrano sui rischi che esse presentano per il ruolo della creatività umana e per il futuro del lavoro. Critiche e timori che pur avendo un loro fondamento, non giustificano un processo di demonizzazione, che rischia di diventare più pericoloso della parallela umanizzazione dell’IA: demonizzare queste macchine vuol dire, infatti, perdere ancora più contatto con i processi in base ai quali esse vengono progettate e sviluppate, perdere di vista la possibilità e l’occasione di studiare questi strumenti e incidere sulla loro evoluzione. Demonizzare le IA vuol dire concentrarsi non sui danni potenziali di questi strumenti, quanto piuttosto su paure che ignorano tanto i benefici che esse potranno portare quanto i possibili effetti di mitigazione o minimizzazione dei rischi che è possibile escogitare.

Tanto umanizzare quanto demonizzare l’immaginazione artificiale vuol dire, una volta di più, fare di una serie di oggetti e progetti concreti, degli attori astratti – benefici o malefici – dotati di un’aura di intangibilità. Ma lo sforzo collettivo, tanto dei tecnici quanto dei filosofi, dovrebbe essere quello di capire che abbiamo a che fare con qualcosa di nuovo: con un’immaginazione inumana nei suoi effetti ultimi, poiché questi sistemi possono attingere a una potenza di calcolo e di produzione inarrivabile per un cervello umano, ma anche incredibilmente umana nelle sue premesse, giacché siamo noi a creare, noi a scegliere, noi ad agire e retroagire su di essa.

Anche nella loro capacità di produrre una immaginazione artificiale le IA generative saranno sempre una parte di noi, una parte esternalizzata o eso-somatizzata, ma starà sempre a noi stabilire che genere di parte saranno e quanta parte prenderanno nella immaginazione del futuro.


[1] Y. Hui, On the Limit of Artificial Intelligence, in «Philosophy Today», 65, 2, 2021, pp. 339-357.

[2] G. Wellner, Digital Imagination, Fantasy, AI Art, in «Foundations of Science», 27, 4, 2022, pp. 1445-1451.

[3] I. Kant, Critica della ragion pura (1787), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2020.

[4] M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica (1929), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2006, p. 140; più recentemente il tema è stato ripreso da R.-P. Horstmann, Kant’s Power of Imagination, Cambridge University Press, Cambridge 2018.

[5] Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 121.

[6] Ibid., p. 53.

[7] I. Kant, Sul tema del concorso bandito dalla Reale Accademia delle Scienze di Berlino: Quali sono i reali progressi compiuti dalla metafisica in Germania dai tempi di Leibmz e di Wolff? a cura del Dr. Friedrich Theodor Rink (1788), in Scritti sul criticismo, tr. it. Laterza, Roma-Bari 1991, p. 217.

[8] Id., Critica della ragion pura, cit., p. 65.

[9] Ibid., pp. 120-121.

[10] Ibid.

[11] Cfr. Ibid., pp. 136-141.

[12] I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 65.

[13] I. Kant, Critica del giudizio (1790), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2006, p. 143.

[14] D.  Ihde, From da Vinci to CAD and beyond, in «Synthese», 168, 3, 2009, pp. 453–467.

[15] Id., Technology and human self-conception, in «The Southern Journal of Philosophy», 10(1), 1979 pp. 23–34.

[16] Cfr. B. Stiegler, La technique et le temps 1. La Faute d’Epiméthée, Galilée, Paris 1994, ora in La technique et le temps, Fayard, Paris 2018.

[17] B. Roberts, Cinema as mnemotecnics. Bernard Stiegler and the industrialization of memory, in «Angelaki. Journal of the Theoretical Humanities», 11, 1, 2006, pp. 55-63.

[18] B. Stiegler, De la Misère symbolique. 2. La «catastrophe» du sensible, Galilée, Paris 2005, p. 125.

[19] Id., Technologies de la mémoire et de l’imagination, in «Réseaux. Communication – Technologie – Société», 16, 1986, pp. 61-87.

[20] Id., La technique et le temps, 1. La faute d’Épiméthée e La technique et le temps, 2. La désorientation, ora in Id., La technique et le temps, cit.

[21] Id., Organology of Dreams and Archi-Cinema, in «The Nordic Journal of Aesthetic», 47, 2014, p. 33.

[22] G. Simondon, Imagination et Invention, PUF, Paris 2008.

[23] Cfr. B. Stiegler, États de choc: Bêtise et savoir au XXIe siècle, Fayard, Paris 2012.

[24] B. Stiegler, La technique et le temps, cit., p. 476.

[25] Id., La technique et le temps, 3. Le temps du cinema et la question du mal-être, ora in B. Stiegler, La technique et le temps, cit.

[26] Cfr. Id., Le concept d’«Idiotexte»: esquisses, in «Intellectica», 53-54, 2010, pp. 51-65.

[27] Id., Organology of Dreams and Archi-Cinema, cit., p. 27

[28] Cfr. T.W. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo (1944), tr. it. Einaudi, Torino 1966.

[29] B. Stiegler, La technique et le temps, cit., p. 634.

[30] Ibid., p. 676.

[31] Cfr. S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza (2019), tr. it. Luiss University Press, Roma 2019.

[32] Cfr. B. Stiegler, Dans la disruption, Les Liens Que Libèrent, Paris 2016.

[33] Cfr. D. Susskind, A World Without Work, Metropolitan Books, New York 2020.

[34] Cfr. K. Vold, D.R. Harris, How Does Artificial Intelligence Pose an Existential Risk?, in The Oxford Handbook of Digital Ethics, a cura di C. Véliz, The Oxford Handbook of Digital Ethics, Oxford University Press, Oxford 2021.

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