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Big data e medicina: gli effetti del nudging personalizzato

Autore


Lorella Meola

Università degli Studi di Salerno

Assegnista di Ricerca in Filosofia Morale e Docente a contratto in Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Salerno

Indice


  1. Medicina come informazione
  2. L’epistemologia dei big data
  3. Teoria del nudging
  4. Effetti del nudging in medicina

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S&F_n. 30_2023

Abstract


Big data and medicine: the effects of personalised nudging

Big data is finding a wide application in disease care and health management. The collection of massive amounts of data, gathered from multiple sources, and their conversion into useful information for the management of patient treatment allows for the personalization of therapeutic treatment. While such a marriage of big data and medicine can be advantageous in terms of precision of care, prevention of disease, patient participation in health and disease management, however, it may raise problems on the ethical and political level. Our aim is to highlight the risk that information conveyed from massive data collection may constitute an attempt to control and manipulate individual conduct. This hypothesis will be considered from the theory of nudging, advocated by Thaler and Sustein, according to which there is the possibility of intervening in the architecture of the decision-making process of agents, altering their behaviour in predictable ways, for longer, healthier and better lives.

  1. Medicina come informazione

L’impiego dei big data favorisce lo sviluppo della medicina personalizzata, vale a dire la capacità di raccogliere e connettere una vasta e varia gamma di informazioni – cliniche, ma anche ambientali e comportamentali – al fine di adattare il trattamento medico a ciascun paziente[1]. La personalizzazione della medicina sarebbe resa possibile dalla disponibilità di grandi quantità di dati forniti da tecniche automatizzate, elaborati mediante il ricorso alla bioinformatica e interpretati attraverso studi di associazione, che promettono di stabilire correlazioni tra dati, incidenza delle patologie e risposta ai trattamenti medici[2].

L’efficacia dell’intervento medico personalizzato si radicherebbe, in primo luogo, nell’opportunità di generare informazioni relative a ciascun individuo sia in condizioni di salute sia in uno stato di malattia. In secondo luogo, essa si baserebbe sulla possibilità di raccogliere e archiviare quanti più dati è possibile, sia di natura biomedica – come, per esempio, dati derivanti da esami di laboratorio, cartelle cliniche elettroniche, ma anche dispositivi di auto-tracciamento per la salute – sia non strettamente biomedica – come dati geo-spaziali o ambientali, riferiti allo stile di vita, ai contatti interpersonali e così via[3] –, in connessione con dati demografici, come quelli epidemiologici o legati alla salute pubblica.

Nella cornice di una medicina sempre più permeata dai big data, l’individuo sembra essere assunto come ingranaggio di un flusso informativo, ovvero di un meccanismo di produzione continua di dati relativi alla salute, all’interno del quale egli sarebbe produttore e, al contempo, consumatore di informazioni[4]. In altri termini, gli individui sarebbero incoraggiati ad assumere un ruolo attivo nella generazione e condivisione di informazioni relative alla propria salute mediante l’uso delle tecnologie digitali e, allo stesso tempo, le tecnologie digitali, con i dati di cui fanno incetta, risulterebbero funzionali alla formulazione di specifiche logiche di gestione della salute di individui e collettività[5].

I big data promettono di rendere possibile un intervento medico sartoriale, dal momento che la correlazione tra differenti set di dati permetterebbe di rivelare relazioni e percorsi causali altrimenti sconosciuti: all’applicazione, nella pratica clinica, di un sapere biologico preceduto da una teoria subentrerebbe una medicina a-teorica, che non procede più per ipotesi, ma funziona in forza della positività dei dati raccolti. Pertanto, l’incompletezza di una spiegazione biologica rispetto all’eziologia di alcune patologie, come quelle multifattoriali per esempio, potrebbe essere colmata dalla disponibilità di una esponenziale quantità di dati[6]. Detto altrimenti, l’indiscriminata raccolta di massicce quantità di dati, che fotografano ciascun individuo in maniera spontanea e continua, fornirebbe alla medicina una conoscenza oggettiva e accurata, capace di riequilibrare le lacune scavate dalle possibili debolezze delle differenti prospettive teoriche, che potrebbero non sempre assicurare una interpretazione completa dei meccanismi patologici.

Di fatto, tale approccio fondato sui big data consentirebbe, al livello della ricerca di base, l’individuazione dei bersagli molecolari e dunque l’identificazione preventiva dei pazienti che possono rispondere positivamente a interventi mirati o potrebbero sviluppare reazioni avverse; per quanto riguarda invece la ricerca clinica, l’uso dei big data promette di facilitare l’impiego di test clinici e predittivi e tecniche diagnostiche; in ultimo, nella pratica clinica, il ricorso ai big data renderebbe possibile la definizione precisa di diagnosi e terapie specifiche per il profilo molecolare e comportamentale del paziente, nonché l’individuazione di cure preventive efficaci attraverso una più accurata anticipazione dell’insorgenza della patologia[7].

Insomma, il volume, la varietà, la velocità, la veridicità, la volatilità, la validità e il valore dei big data[8] sembrerebbero agire laddove si interrompe la capacità dei sistemi teorici di fornire spiegazioni. Ciò segnerebbe l’approdo alla medicina intesa come informazione[9], ovvero articolata intorno alla quantificazione delle caratteristiche biologiche e comportamentali dei pazienti e la loro organizzazione in categorie precise, definite secondo correlazioni indipendenti, che generano criteri di previsione delle condizioni di salute e malattia e dunque di predizioni della condotta da adottare – o evitare – in vista del mantenimento e promozione della salute[10].

 

  1. L’epistemologia dei big data

La medicina, come le altre scienze o ancora come le discipline umanistiche, ruota intorno a un paradigma di ricerca scientifica che la filosofa della scienza Sabina Leonelli ha definito «datocentrico»[11], in virtù del quale la medicina fonda il proprio sapere non solo su una massiccia diponibilità di dati, ma, in particolare, su specifici metodi controllati di raccolta e di analisi dei dati. Tale modello datocentrico si articola intorno alla disponibilità di grandi quantità di dati, metodi innovativi di assemblaggio, integrazione e analisi di dati provenienti da fonti eterogenee e che promettono di rivoluzionare la ricerca scientifica ed estrapolare nuove conoscenze. In tale prospettiva, si evidenzia come la forza epistemologica dei big data risieda nella loro mobilità, ovvero la capacità di viaggiare attraverso contesti differenti, di essere posti in relazione con una esponenziale varietà di dati diversi e di poter essere riutilizzati. In particolare, i big data potrebbero essere gestiti in modi collettivi e tuttavia, allo stesso tempo, mantenere la capacità di essere reimpiegati in contesti particolari e individuali. In assenza di mobilità non ci sarebbero big data, vale a dire che, altrimenti, i dati rimarrebbero intrappolati nelle situazioni specifiche in cui sono generati e di conseguenza sarebbe impossibile operare delle correlazioni tra set di dati diversi e dunque rendere fruibili i dati stessi. Leonelli segnala come i big data non sono solo tanti dati, ma sono l’esito di forme differenti di produzione, correlazione e diffusione che conferiscono loro significato[12].

Tale definizione sembra frenare l’entusiasmo espresso da Chris Anderson quando, nel 2008, sulla rivista Wired, proclamava la fine della teoria e il superamento del metodo scientifico, in quanto l’abbondanza di dati renderebbe superfluo ogni modello teorico, che vorrebbe tracciare rapporti causali laddove invece basterebbe la sola correlazione[13]. Per Anderson, i dati parlano da soli e forniscono gli elementi da correlare tra loro per raggiungere una conoscenza completa e oggettiva. Lungo questa direzione, Mayer-Schonberger e Cuckier sostengono che i dati rispondono all’interrogativo: “cosa?” in luogo del “perché?”, ovvero non dobbiamo cercare le risposte alle domande, ma dobbiamo porre le domande giuste a una realtà riprodotta dai dati fedelmente e nella sua interezza[14].

Questa concezione dei big data sembrerebbe l’attuale punto di approdo di un empirismo radicale, che sostituirebbe la formulazione delle ipotesi con l’esplorazione di massicce basi di dati, concepite quali emanazione fedele della realtà: basterebbe osservare per conoscere e non già ricercare le cause; la realtà viene a noi immediatamente a partire dalla sola acquisizione di dati, senza formulare sistemi concettuali esplicativi.

Tuttavia, i dati grezzi, di per sé stessi, non hanno alcun significato e quand’anche lo avessero – magari individuando certe regolarità nella realtà riprodotta –, non potrebbero comunque dirci nulla sui meccanismi che producono tali regolarità. Perché siano dotati di significato, i dati devono essere caricati di teoria. Come ci ricorda ancora Leonelli, l’esplorazione dei big data comporta un impegno teorico, che incide sul senso dei dati: le tecniche impiegate per la produzione, il criterio di organizzazione e il formato attribuito ai dati, nonché l’oggetto di riferimento non sono strutture standardizzate e neutrali nella lavorazione dei dati, ma dipendono fortemente dal paradigma scientifico che esplora questi ultimi. Dal momento che nessun dato è indipendente dall’interpretazione proposta da una certa tradizione scientifica, la presunta verità che si vorrebbe derivare dalla correlazione dei dati altro non sarebbe che l’esito di modi di vedere il mondo, ovvero teorie sul mondo[15].

Inoltre, come sostengono Antoinette Rouvroy e Thomas Berns, i big data funzionano profilando gli individui – attraverso una mappatura e organizzazione statistica della vita di ciascuno – e dunque tracciando modelli di anticipazione delle condotte[16]. In particolare, Rouvroy definisce la profilazione come un comportamentismo dei dati, per cui il comportamento adottato dall’individuo sarebbe riproducibile in un rapporto di stimolo, che proviene dall’ambiente, e risposta da parte dell’agente; pertanto la condotta può essere descritta a partire dalla sola osservazione, senza dover ricercare cause profonde dell’agire. Tale interpretazione del comportamento umano quale unità osservabile permette di predire le condotte attraverso la quantità e l’estensione dei big data[17].

Insomma, i comportamenti degli individui sarebbero soggetti a un meccanismo di previsione e predizione determinato da una specifica concezione del mondo. A partire dai big data, la vita di ciascuno riceverebbe una interpretazione e un orientamento che sono sempre circoscritti e interessati.

Ora, se, come ricordavamo all’inizio della nostra analisi, la medicina personalizzata considera rilevanti i dati biologici quanto quelli legati allo stile di vita, allora le massicce quantità di dati variamente raccolte e integrate in una specifica concezione del mondo non si limiterebbero a vedere e rilevare, ma anche a modellare e modificare il comportamento secondo una prospettiva teorica peculiare[18]. I dati garantirebbero non solo una – specifica[19] – comprensione degli effetti biologici prodotti nell’interazione tra organismo e fattori epigenetici ed esposomici[20], ma consentirebbero anche l’identificazione dei cambiamenti da introdurre nella propria condotta, per ottimizzare la gestione di una patologia in corso oppure per reagire o rallentare l’insorgenza di una patologia, che è ancora allo stato potenziale[21].

La dipendenza della medicina di precisione dai big data potrebbe espandere quindi notevolmente la portata della ricerca e della pratica biomedica al livello della gestione delle condotte degli individui[22].

 

  1. Teoria del nudging

Le implicazioni di questo fenomeno potrebbero essere molto profonde, in quanto non solo verrebbero riconfigurati la pratica sanitaria e i ruoli di tutte le parti coinvolte, ma potrebbe estendersi il raggio di azione della medicina, producendo nuovi modelli di interazione tra medicina e strutture sociali e probabilmente inedite finalità della pratica medica.

Ciò pone con urgenza interrogativi rispetto all’uso dei dati, ovvero: «a quale scopo possono essere impiegati?» e «a beneficio di chi?»[23]. La risposta a tali punti di domanda ci potrebbe fornire una descrizione del ruolo che la medicina ha rispetto alla gestione della vita dei singoli individui come della collettività.

Una strada teorica percorribile per risolvere tali quesiti è rappresentata dalla concezione del nudge.

Il concetto di nudge è stato formulato per la prima volta da Richard Thaler e Cass Sunstein[24], che lo descrivono come ogni dettaglio che caratterizza il modo in cui la scelta viene presentata e che è pensato per condizionare il processo deliberativo degli agenti. Tale strategia farebbe leva sui biases cognitivi, vale a dire errori sistematici di cognizione o giudizio, che interferiscono con la correttezza del processo decisionale, distorcendo la valutazione della situazione da parte dell’agente e la capacità di quest’ultimo di formulare una decisone accurata[25]. L’assunto di partenza della teoria del nudge è che le persone non si comportano sempre razionalmente: esse presentano delle distorsioni cognitive, come pregiudizi, emotività, pigrizia, per esempio, che potrebbero interferire con il ragionamento condotto dall’agente e portare alla decisione sbagliata. Gli agenti sarebbero dotati di una razionalità limitata, per riprendere un’espressione di Simon, tale per cui, di fronte a informazioni incomplete o non analizzabili, tendono a trovare soluzioni adeguate più che compiere le scelte migliori[26]. Tali errori tendono a essere sistematici e dunque prevedibili; è proprio sulla possibilità di prevedere gli errori che gli agenti tendenzialmente commettono che si basa la teoria del nudge: esso interviene laddove la capacità razionale dell’individuo fallisce, ovvero nella discrepanza che viene a determinarsi tra l’atto da compiere e il giusto fine dell’azione.

Ciò che viene scelto, spesso, dipende da come viene presentata la scelta; pertanto, lo scopo di tale teoria è cercare di migliorare le decisioni degli agenti su denaro, salute e felicità, orientando le scelte a partire dalla struttura architettonica del contesto di valutazione, ovvero dagli elementi ambientali, che potrebbero influire sul processo decisionale, in quanto potrebbero rendere una opzione più o meno accattivante o più o meno semplice da adottare. Dal momento che nessuna scelta è completamente indipendente dall’influenza del contesto in cui essa viene assunta, i nostri Autori ritengono che sarebbe opportuno permettere agli individui di agire all’interno di un contesto predisposto in maniera corretta, cosicché gli agenti possano ottimizzare le loro deliberazioni, optando per le azioni più benefiche per se stessi e la collettività[27].

I big data rappresentano senza dubbio una risorsa preziosa per il nudging, che, all’interno della dimensione digitale, prende il nome di hyper-nudging e segue gli stessi principi e le stesse modalità del nudge in quanto tale, consentendo, tuttavia, una maggiore versatilità e opportunità per gli architetti di scelta grazie al carattere più dinamico, informativo e automatizzato dell’ambiente digitale[28].

Il nudge non prevede imposizioni né divieti, ma preserva la libertà di decisione di ciascuno, in quanto, pur predisponendo l’opzione di scelta migliore per gli agenti, tuttavia questi ultimi sono liberi di optare per una azione alternativa. In particolare, la spinta gentile, espressione coniata per tradurre il termine nudge nella lingua italiana, è il fulcro di un movimento teorico definito dai suoi promotori come «paternalismo libertario»[29], per intendere l’azione volta ad «aiutare le persone a fare come meglio credono»[30]. A dispetto dell’apparente ossimoro[31], tale espressione designa «un tipo di paternalismo relativamente tenue, indulgente e poco invadente, perché le scelte non vengono bloccate, impedite o rese eccessivamente onerose. […] Tuttavia, l’approccio che noi raccomandiamo può essere considerato paternalistico, perché gli architetti delle scelte pubblici e privati non cercano semplicemente di monitorare o avallare le scelte che gli individui potrebbero fare, ma piuttosto cercano attivamente di spingere gli individui in una direzione che possa migliorare la loro condizione di vita, pungolandoli»[32].

Il nudge orienta gli individui nella giusta direzione, secondo l’apprezzamento degli stessi soggetti agenti[33], «secondo il loro giudizio»[34], ovvero non già calando dall’alto, come fosse una legge, una concezione oggettiva di bene, ma lasciando a ciascuno la possibilità di individuare i propri fini.

In altri termini, Thaler e Sunstein ritengono che una corretta pianificazione dell’architettura di scelta consenta agli individui di agire in vista del benessere proprio e collettivo. L’individuazione del benessere quale obiettivo di tale strategia morale e politica si pretenderebbe oggettiva in quanto fondata su una ampia ricerca empirica: migliorare le scelte significa costruire quelle scelte su elementi misurati il più possibile oggettivamente[35]. In particolare, la teoria del nudge si basa su economia e psicologia comportamentali, al fine di esaminare i contesti e i valori emergenti delle parti interessate e disporre delle informazioni necessarie per tirare fuori da ciascun individuo il meglio di se stesso, individuando differenze e peculiarità: gli architetti della scelta hanno bisogno di sapere chi è diverso da chi e in che modo differisce, così da personalizzare la spinta[36]. Criticando l’immagine dello homo oeconomicus delle teorie economiche e sociali classiche, che riproduce l’agente come completamente razionale, capace di operare un corretto calcolo mezzi-fini e costi-benefici, Thaler e Sunstein sostengono come le scienze comportamentali hanno invece descritto un individuo dalla razionalità, dall’auto-interesse e dalla volontà limitati[37]. Come sopra ricordato, l’obiettivo del nudge è agire sulla «fallibilità degli esseri umani»[38], al fine di ripristinare le condizioni razionali di scelta. Nei fatti, si tratta di semplificare i processi cognitivi, rendendoli automatici, rispetto non già al fine dell’azione – che resta libero e inteso dall’agente –, ma al mezzo per raggiungere il fine, che è così reso prevedibile. Se l’individuo è giudice ultimo del proprio benessere, ciò che occorre tutelare e promuovere è la competenza rispetto alle situazioni in cui operare la scelta. Tale risultato è ottenuto facendo appello all’informazione e al controllo, vale a dire che, perché le persone agiscano in vista del proprio bene, secondo il loro giudizio, gli architetti della scelta dovrebbero tener conto di ciò che esse fanno quando sono ben informate, scelgono in modo attivo e soppesano tutti gli elementi rilevanti di una attività o prodotto; inoltre dovrebbero tener conto di come le persone agiscono quando non sono impulsive o imprudenti[39].

Tale prospettiva sembra presupporre che le scelte informate e ponderate rispettino davvero i valori dell’agente, quelli formulati quando si ha il pieno controllo del proprio comportamento. In tal modo, sottolinea Sunstein, non si persegue la realizzazione di forme di vita oggettivamente buone, ma il valore del benessere delle persone dipende dalle scelte che queste ultime assumono autonomamente[40]. Dunque, le descrizioni della condotta umana fornite dalle scienze empiriche e potenziate dal ricorso ai big data garantirebbero agli architetti della scelta gli elementi necessari per arredare un contesto di scelta ottimale.

La descrizione della condotta umana diventerebbe di per sé prescrittiva. Essa dirigerebbe la scelta di ciascuno di noi verso una concezione di bene estratta da una riduzione dell’individuo a un insieme di fatti quantificabili e dunque verificabili attraverso un apparato scientifico e tecnologico, che tenderebbe a semplificare e rendere oggettiva la complessità della vita individuale e collettiva.

 

  1. Effetti del nudging in medicina

Il nudge non è uno strumento moralmente e politicamente neutrale, pertanto, potrebbe produrre degli effetti sulle strutture sociali e istituzionali.

In primo luogo, infatti, il suo obiettivo è rendere più razionale la condotta degli agenti, conformandola al senso morale dominante. Ogni spinta fa parte di un più ampio sistema di valori, che definisce il punto di riferimento in virtù del quale un’azione può essere considerata ottimale oppure sub-ottimale. D’altra parte, i sostenitori del nudge ritengono che i comportamenti che gli agenti adottano incidono, positivamente o negativamente, sull’organizzazione della società e sul suo benessere. In particolare, l’implementazione del nudge per la salute sarebbe un metodo vantaggioso ed economico per la promozione di comportamenti desiderabili, ovvero salutari, e la conseguente riduzione di costi e problemi a carico della società per la cura degli individui malati. Tale prospettiva è particolarmente evidente nella gestione delle patologie croniche e del progressivo invecchiamento della popolazione[41]. I benefici sono evidenti ancora nell’uso del nudge per la prevenzione delle malattie e l’ottimizzazione della salute, che potrebbe risolvere la gestione della malattia come problema sociale a monte: ovvero affidando ai singoli individui il compito di agire sul proprio corpo e sulla propria condotta prima che e affinché la malattia non insorga, ma ancora perché si migliorino costantemente il proprio corpo e le proprie prestazioni[42].

Tale strategia potrebbe funzionare solo presupponendo una concezione di salute basata su elementi misurabili e che possono rispondere al soddisfacimento delle esigenze medie attese, ma che, tuttavia, potrebbero collidere con le preferenze o esigenze di individui considerati nella loro separatezza[43]. Il nudge sembrerebbe prendere una deriva collettivista, incapace di tener conto delle idiosincrasie degli individui: se il suo obiettivo è promuovere il benessere della società, esso non può considerare ogni agente nella propria specificità e quindi, rispetto alla salute, non può né presupporre né implementare una concezione personalizzata di salute. Tutto quello che può fare è definire, su base statistica –e in questo i big data forniscono materiale prezioso – una idea piuttosto vaga di salute, ma capace di mettere insieme il benessere della società. Una concezione di salute definita statisticamente sulla base dei dati raccolti è anche una concezione che tiene conto di tutti gli interessi e le parti coinvolte nella complessa organizzazione dei big data. In altri termini, la salute sarebbe parte di un ingranaggio più ampio volto al funzionamento efficace della società: individui che non gravano sui costi e sulle responsabilità collettive e che in tal modo si inseriscono in dinamiche proficue per lo sviluppo della società.

Per riprendere un esempio di nudging riportato da Barbara Prainsack[44], un’applicazione per smartphone che conta le calorie ingerite e premia coloro che ne riducono l’assunzione fornisce senz’altro una sollecitazione a mangiare in maniera corretta e quindi spinge verso una vita in salute a beneficio dell’individuo. Si tratterebbe, tuttavia, di una specifica concezione di salute, secondo la quale vi è una quantità di calorie che può essere considerata giusta perché una vita sia sana e che stabilirebbe una soglia al di sopra o al di sotto della quale non vi sarebbe una vita in salute. Dunque, per esempio, una persona che assume più calorie rispetto a quelle statisticamente considerate sufficienti sarebbe trattata come un individuo da ri-razionalizzare, senza prendere in alcun modo in considerazione una concezione olistica e specifica della persona e della sua salute. Inoltre, una persona che assume più calorie del dovuto potrebbe anche essere vista come un costo per la società, nella misura in cui le sue condizioni di salute potrebbero peggiorare a causa del suo stile di vita e richiedere interventi a spese della collettività.

In secondo luogo, il nudge esprime un criterio di adeguatezza delle forme dell’intervento politico; ma l’intervento che esso realizza è rivolto all’individuo: si tratta di correggere la condotta individuale, spostando l’asse della responsabilità rispetto alla salute collettiva sui singoli cittadini[45].

L’utilizzo dei dati sanitari per spingere le persone ad adottare stili di vita più sani potrebbe trasformare il modo in cui facciamo le cose nella nostra società e gradualmente cambiare la comprensione di come le cose dovrebbero essere fatte. Per esempio, gli individui potrebbero essere sollecitati a un uso massiccio delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per acquisire conoscenze e abilità nella gestione della propria salute, riducendo l’impegno e il costo connessi all’erogazione dell’assistenza sanitaria pubblica. In particolare, come ci ricorda ancora Prainsack, il nudge personalizzato sembrerebbe risolvere i problemi di ordine sociale, intervenendo sulla domanda e non sull’offerta; in altri termini, si tratterebbe di traslare impegno e responsabilità dalle strutture pubbliche verso l’intraprendenza e la responsabilità del singolo individuo[46], senza sviluppare, allo stesso tempo, una adeguata comprensione critica del concetto di salute e di benessere che esso veicolerebbe[47].

Insomma, a essere in gioco non sarebbe la tutela del benessere e della libertà dell’individuo, come i sostenitori del nudge sembrerebbero dirci, ma la possibilità di mettere in atto un automatismo delle scelte, tale da rivelarsi funzionale a una gestione semplice e mirata di individui e società. Da una parte, il nudge muove da una analisi empirica, che dovrebbe dirci chi è l’individuo, cosa fa abitualmente e dunque cosa potrebbe volere; d’altra parte, esso rielabora tali informazioni e veicola una scelta ideale, la soluzione ottimale, per un soggetto ideale, colui che agisce responsabilmente, ovvero in vista di una certa concezione di bene o, più precisamente, di salute.

La teoreticità dei big data – e le strategie predittive che essa dischiude[48] – potrebbe veicolare un concetto normativo della dicotomia salute e malattia, aperto all’influenza dei vari stakeholders, dei loro obiettivi e valori, che potrebbero addirittura non avere nulla a che vedere con la medicina. Insomma, l’impiego dei big data nella personalizzazione della medicina potrebbe produrre delle anticipazioni, ovvero obiettivi da perseguire, che potrebbero non avere un fondamento medico-scientifico e asservire interessi extra-scientifici, come, per esempio, ottenere finanziamenti, sostegno politico, interesse collettivo[49].

Gli effetti socio-politici del nudge per la promozione della salute sarebbero evidenti in quanto la spinta gentile non è semplicemente l’applicazione di conoscenze scientifiche neutrali e oggettive nella pratica clinica, ma una strategia di orientamento della condotta delle persone. Il vasto raggio di azione dei big data, la loro capacità di contenere l’intera realtà e di agire in maniera puntuale nella vita di ciascuno, potrebbe risultare particolarmente efficace attraverso l’automazione e dunque la perfetta prevedibilità di ogni singola condotta. La capacità dei dati di vedere diviene possibilità di prevedere e dunque modellare gli individui in accordo a finalità ed esigenze che non hanno più nulla di personale. Il comportamento sano verrebbe ingegnerizzato e diverrebbe funzionale al corretto funzionamento della società. Lo stile di vita che ciascuno è chiamato a realizzare per sé emergerebbe tra le pieghe di un coacervo di poteri, di cui la medicina potrebbe essere solo uno strumento privilegiato.

Ciò potrebbe significare che gli individui adattano il proprio comportamento in risposta agli incentivi, che sono parte integrante della progettazione dello spazio pubblico, vedendo la propria autonomia sovrapporsi all’automatismo, la propria libertà espropriata dalla prevedibilità e la personalizzazione una mera trovata teorica, strumentale alla gestione eteronoma degli individui per un presunto bene della società tutta.

 


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[35] R.H. Thaler, C.R. Sunstein, Libertarian Paternalism, cit., p. 175.

[36] Id., Impersonal Default Rules vs. Active Choices vs. Personalized Default Rules: A Triptych, in «SSRN Electronic Journal», 2013, <http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.217134>. 

[37] C. Jolls, C.R. Sunstein, R. Thaler, A Behavioral Approach to Law and Economics, in «Stanford Law Review», 50, 5, 1998, pp. 1471-1550.

[38] R.H. Thaler, C.R. Sunstein, Nudge. La spinta gentile, cit., p.46.

[39] C.R. Sunstein, The Ethics of Influence, cit.

[40] Ibid.

[41] H. Murayama et al., Applying Nudge to Public Health Policy: Practical Examples and Tips for Designing Nudge Interventions, in «Int J Environ Res Public Healt», 20, 5, 2023.

[42] N. Rose, op. cit.

[43] T. Schramme, Why Health-enhancing Nudges fail, in «Health Care Analysis», 2023.

[44] B. Prainsack, The value of healthcare data: to nudge, or not?, cit.

[45] Ibid.

[46] N. Rose, op. cit.

[47] L. Ledder et al., Nudging in Public Health Lifestyle Interventions: a Systematic Literature Review and Metasynthesis, in «Health Educ. Behav.», 45, 5, 2020, pp. 749-764.

[48] B. Prainsack, Through thick and Big: data-rich medicine in the era of personalisation, in J. Vollman, V. Sandow, S. Wäscher, J. Schildmann, The Ethics of Personalised Medicine, Farnham, Ashgate 2015, pp. 161-172.

[49] R. Tutton, Genomics and the Reimaging of Personalized Medicine, Routledge, London, New York 2014.

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