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La morte alla luce della tensione vitale. Narrazioni e responsabilità

Autore


Francesco Pio Leonardi

CESPES (Centro Studi su Pascal e il Seicento) Università di Catania

insegna nella Scuola Secondaria, e svolge attività di ricerca presso il CESPES (Centro Studi su Pascal e il Seicento) Università di Catania

Indice


  1. La questione base: cos’è la morte?
  2. La domanda di senso come approccio filosofico
  3. Oltre la morte: narrazioni religiose nella teologia cristiana contemporanea
  4. Il senso comune: paura di cosa?
  5. Ars moriendi come ars vivendi: tensione vitale e dialettica 6. Breve conclusione

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S&F_n. 29_2023

Abstract


Death in the Light of Vital Tension. Narratives And Responsibility

Death narratives are always within our thoughts, even if this is not always highlighted. Whichever way you look at it, death remains an unsolved question, and the main objective of this work is to reflect on the importance of caring, through the tool of narrative captured in a balanced way. Death will always remain a mystery, but our approach to its idea pursues the goal of respectful adaptation to the irregular and jagged edges of its profound essence. This brief survey consists of two parts: in the first, more substantial part, we will attempt to expose the way in which the question of death is thought of in certain cultural contexts; in the second, on the other hand, as a brief systematic conclusion, we would like to briefly highlight the vital tension present in the different narratives of death, with the perspective of an ethical approach in order to indicate the principle of responsibility as the privileged way to fully live the time of choices. Responsibility cannot be interpreted as a hermetic stopper over the black hole of non-sense, but rather as the way towards the production of a concrete reason, not as a projection of illusions, but as a reflection on each person’s history.

1. La questione base: cos’è la morte?

  1. Quando discutiamo della morte, ci riferiamo necessariamente a un momento che viene considerato parte dell’esistenza. L’intervallo entro il quale la vita si dispiega giace tra la nascita (inizio) e la morte (fine). La questione principale riguarda l’ipotesi che i due estremi di quest’intervallo, specialmente il secondo nel nostro caso, possano essere inclusi pienamente sotto il raggio luminoso dell’esistenza. Potremmo rispondere all’impatto primario, con una serie di ragioni ben costruite sulla base del vissuto di ciascuno, ma non si può escludere, allo stesso tempo, che la negazione di quest’assenso sia evidentemente presente, con altrettante ragioni suscitate dalle contraddizioni della vita. Ciò supporta chiaramente la domanda sull’appartenenza della morte, a quale realtà essa afferisca, se essa faccia parte dell’esistenza in positivo oppure no.

    L’introduzione di narrazioni possibili, per far fronte al problema del negativo, persegue lo scopo di rendere ragione della dialettica presenza-assenza nell’oscurità.

    Ci soffermeremo brevemente su tre differenti tipi di narrazione: l’approccio filosofico; la credenza dell’eternità come realtà escatologica nella teologia cristiana occidentale; il senso comune. Bisogna precisare che la lettura che tenteremo di offrire è relativa solo ad alcuni aspetti delle tradizioni occidentali che abbiamo citato, ma nonostante ciò immaginiamo che esse possano essere considerate paradigmatiche; non nel senso di universalmente valide, ma nell’ottica della funzionalità, per l’espressione di un’idea significativa di ciò che tali narrazioni rappresentano a partire dal nostro punto di vista.

     

     

2. La domanda di senso come approccio filosofico

  1.  

    Sous une lumière blafarde/ Court, danse et se tord sans raison/ La Vie, impudente et criarde./ Aussi, sitôt qu’à l’horizon/ La nuit voluptueuse monte,/ Apaisant tout, même la faim,/ Effaçant tout, même la honte,/ Le Poète se dit: «Enfin! […]»[1].

     

    Questo brano, tratto da una poesia di Charles Baudelaire, supporta l’idea del riposo, della quiete dell’oscurità, contro la luce del desiderio colmo di dolore e pena. In questo senso, l’oscurità della notte estingue le vanità della vita; da qui il poeta esclama: «Finalmente!», perché comprende che tutti gli sforzi dell’uomo nel perseguire desideri e bisogni è come se si dissolvessero nel nulla. Queste immagini aiutano a capire come osservare due differenti sviluppi o, se vogliamo, come distinguere due tipi di narrazione filosofica della morte che spesso sono pensate insieme.

    Da un lato, abbiamo la morte nella sua connotazione tragica, che favorisce la ribellione contro la caduta nel non senso: l’oscurità, infatti, riduce al silenzio non solo il dolore, ma anche affezioni e progettualità. Dall’altro, l’arrendersi a quest’evento, sempre letto all’interno dello stesso movimento di desiderio, può essere letto come la principale interpretazione della vita stessa. Sebbene nelle parole di Baudelaire possiamo riscontrare la presenza di questa seconda interpretazione, l’anelito alla ricerca di una risposta prodotto dalla dicotomia vita-morte è pur sempre avvertito, quasi in modo istintuale.

    L’approccio filosofico alla domanda sul senso della morte è nato praticamente con la filosofia stessa. La paura dello sconosciuto, mista alla meraviglia, ha prodotto poi le altre questioni come tentativo di dare forma a ciò che non ce l’ha. L’idea della morte, dunque, sembra costituire un dispositivo filosofico per esorcizzare la stessa, quindi trasformarla in energia di senso. Franz Rosenzweig, nell’incipit della sua opera principale, La stella della redenzione, scriveva:

    Dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto. Rigettare la paura che attanaglia ciò ch’è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente, di questo si pretende capace la filosofia. […]. A tutta questa miseria la filosofia rivolge il suo vacuo sorriso e alla creatura, che è squassata in tutte le membra dalla paura del suo aldiquà, mostra con l’indice teso un aldilà di cui essa nulla vuol sapere. Perché l’uomo non vuol affatto sottrarsi a chissà quali catene, vuol rimanere, vuole vivere[2].

     

    L’uomo e tutte le creature vogliono vivere, esprimere mediante diversi linguaggi il desiderio di rimanere oltre la possibilità dell’oblio, anche nei casi più difficili. La ragione, in accordo con le sue potenzialità, può muoversi per cercare una o più narrazioni che le permettano di costruire un ponte sulla confusione generata e generante la paura. La possibilità della filosofia dipende dalla volontà di costruire un passaggio sicuro. In questo modo, risulta evidente lo scarto tra le possibilità dell’indagine filosofica e quest’abisso profondo, ma, nonostante ciò, la ricerca tenta di muoversi nell’introdurre le persone alla coscienza dello scopo sotteso alla loro vita. Usiamo volutamente, in questo contesto, la parola scopo e non il termine senso perché quest’ultimo potrebbe significare una comprensione onnipervasiva della realtà, sulla falsariga di una dialettica dalla sintesi già annunciata. Nella nostra riflessione, invece, vorremmo essere cauti e, se possibile, raggiungere un certo grado di acquisizioni solo a partire dalla forza affascinante che emana dal reale stesso. Lo scopo, poi, produce il movimento attraverso l’itinerario che conduce alla direzione delle scelte. La filosofia, fin dall’inizio, può essere considerata uno strumento peculiare nella lettura della vita con le sue implicazioni. I due aspetti della paura di ciò che è sconosciuto e del passaggio a una possibile pienezza si fondono, pur rimanendo forte e permanente la loro distinzione. Michele Federico Sciacca, nel suo libro Morte e Immortalità, affermava:

    è “dommaticamente” “vero” che l’uomo muore, e la vita sarebbe «falsa» se non morisse: infatti è contraddittorio che un mortale non muoia; d’altra parte solo morendo può sperare di compiersi nella sua pienezza […]. Permane però la verità del memento mori e la consapevolezza della miseria dell’uomo che non può non morire[3].

     

    La paura, dunque, non viene cancellata, quanto piuttosto può diventare l’indice di risoluzione del problema: la questione è sempre aperta, ma proprio quest’apertura può rivelare un passaggio nella lettura della vita in modo consono alla stessa.

    A ben vedere, quest’idea contiene molti punti in comune con la filosofia heideggeriana, che si pone come pietra di sostegno o pietra d’inciampo nel solco della tradizione filosofica contemporanea. Non ci soffermeremo primariamente sulla possibilità, nel pensiero di Heidegger, dell’esperibilità della morte a partire da quella altrui, ma su come quest’evento dipenda dalla stessa vita e ne orienti la fenomenologia (Sein zum Tode): «La morte, in senso latissimo, è un fenomeno della vita. […]. Resta da chiedersi come dall’essenza ontologica della vita, si determini quella della morte»[4]. In questa visione, la narrazione della morte può essere ricondotta al concetto di cura: solo questa soluzione offre ragioni accettabili che possano unificare la dicotomia tra l’esistenza e il suo negativo. In questa prospettiva la cura non è una mera conseguenza di reazione contro l’autorità della morte, bensì la principale narrazione che può esprimere meglio il nucleo principiale della realtà stessa[5]. Si tratta dello stesso movimento del reale, che contiene dentro sé la positività delle azioni e la possibilità della loro negazione. In Essere e Tempo, Heidegger riporta la favola di Igino, che aiuta a comprendere il senso della narrazione, mediante l’evidenziazione del valore originario della cura:

    Un giorno la “Cura”, traversando un fiume, vide del terriccio argilloso: sovrappensiero lo prese in mano e cominciò a modellarlo. Mentre rifletteva su ciò che aveva fatto, si fa avanti Giove. La “Cura” lo prega di infondere al pezzo di fango da lei modellato lo spirito. Cosa che Giove di buon grado le concede. Ma quando poi essa volle dare alla sua opera il proprio nome, Giove glielo proibì pretendendo che le si dovesse dare il proprio. Mentre la “Cura” e Giove litigavano sul nome, saltò anche la Terra esprimendo il desiderio che le venisse dato il proprio nome, visto che essa gli aveva offerto una porzione del proprio corpo. I litiganti presero a giudice Saturno. E Saturno diede loro questa sentenza apparentemente equa “Tu Giove, che le hai dato lo spirito, avrai alla morte lo spirito, e tu Terra, che le hai donato il corpo, il corpo avrai. Ma poiché la Cura ha per prima formato questa creatura, essa per tutta la durata della sua vita sarà in preda alla Cura. E siccome discutete sul suo nome, chiamatela ‘homo’, perché è fatta di humus (terra)”[6].

     

    Seguendo questa traccia, l’atto del morire non è semplicemente il terminus ad quem la vita si compie, ma anche e soprattutto il terminus a quo la stessa esistenza umana procede. Il compito della filosofia, in tal senso, deve condurre alla fuga dalla trasformazione dell’angoscia in ansia da mancanza di serenità, con le sue ovvie conseguenze impersonali e deturpanti. L’angoscia, nel pensiero di Heidegger, può rivelare la natura propria degli enti come principio di posizione della domanda sull’essere. Quest’idea, chiaramente mutuata dal pensiero di Schelling di matrice gnostica, che concepisce la generazione della luce intellegibile da un oscuro principio di finitudine originaria[7], induce al pensiero che la finitudine, dunque il pensiero produttivo che di essa si può avere, sia originaria: il negativo si mostra e realizza come presenza nel mondo dalla sua costituzione.

    Se vogliamo evidenziare il passaggio successivo, troviamo che il problema è sempre il medesimo e le diverse narrazioni che la filosofia elabora procedono dal rapporto all’universale e, allo stesso tempo particolare, vocazione dell’essere umano. Qual è la nostra speranza? Si tratta, a ben vedere, della domanda kantiana relativa agli indici peculiari di teoresi e di azione concreta[8]. La direzione della speranza potrebbe essere letta come il termometro proprio che segna l’atteggiamento umano riguardo all’identità e alle sue conseguenze nell’azione presente. In accordo a quest’idea, la coscienza dei limiti dipende anche dalla “larghezza” della visione e del peso della dimensione progettuale. Differenti attribuzioni di significato alla finitudine producono differenti livelli di auto-percezione: quando si tenta di dire qualcosa riguardo alla finitudine, ci si riferisce a un concetto instabile, in quanto esso non viene interpretato in modo uguale da tutti. Forse, potremmo chiedere come la presenza del limite possa influenzare le scelte, ma la loro posizione può essere dispiegata solo osservando la tensione sottesa tra l’universalità della direzione e l’identità chiusa nelle circostanze. Cercheremo di sviluppare questo punto nell’ultima parte di questa indagine, ma ora ne evidenziamo l’importanza per tutta la storia della filosofia. Le narrazioni filosofiche, in questa prospettiva, vogliono rendere ragione a questo movimento: dalle origini ai nostri giorni, la questione principale è quella del movimento e della tensione, individuata come il nucleo di esso. La filosofia hegeliana, ad esempio, può essere interpretata come un tentativo di narrazione, sistematica senza dubbio, con l’obiettivo di comprendere il reale nello sviluppo dialettico. Sebbene il compito di questa narrazione sia l’elevazione della coscienza individuale al rango dell’universalità, la dialettica, che permette lo stesso atto intellettuale, permette nel medesimo istante di individuarne i confini. Procedendo da ciò, il sentire che viene dalla morte può essere indagato seguendo la chiusura “senza respiro” dell’individualità:

    La inadeguatezza dell’animale alla sua universalità è la sua malattia originale; ed è il germe innato della morte. La negazione di questa inadeguatezza è appunto l’adempimento del suo destino. […]. Ma, nell’idea della vita, la soggettività è il concetto; ed essa è quindi, in sé, l’essere in sé assoluto, e l’universalità concreta. […]. La natura è, per tal modo, trapassata nella sua verità, nella soggettività del concetto, la cui oggettività stessa è l’immediatezza negata dell’individualità, l’universalità concreta[9].

     

    Hegel si riferisce al concetto di universalità concreta per evidenziare la grande intuizione, o grande tentativo concettuale, di mettere in luce il ruolo della linea di orizzonte e della sua causa universale. Se prestiamo attenzione a questo dato, possiamo anche volgere lo sguardo ai prodromi della grande storia del pensiero: la stessa nascita della metafisica può essere intesa come la lettura della fenomenologia degli eventi (scelte e azioni umane comprese) da un altro punto di vista (oltrepassamento), quello dell’orizzonte e del movimento; ciò si nota nell’affascinante vicenda dell’ordine ermeneutico delle opere aristoteliche di fisica e metafisica.

     

     

3. Oltre la morte: narrazioni religiose nella teologia cristiana contemporanea

  1. In questa parte porremo la nostra attenzione su un particolare tipo di narrazione che possa supportare lo sviluppo del nostro punto di vista sulla questione fino al completamento. Tenteremo di compiere la breve disamina di alcune parti del pensiero teologico cristiano in epoca contemporanea. Com’è ovvio, abbiamo dovuto fare delle scelte, dettate dalla necessità appena esposta.

    Il cristianesimo può essere individuato come componente essenziale e influente nell’evoluzione delle narrazioni sulla morte nel mondo occidentale, comunque la si pensi riguardo alla fede nella rivelazione. In questa prospettiva, gli studi cristiani del XX secolo sembrano rappresentare una sorta di sintesi della tradizione cristiana dall’epoca patristica ai giorni nostri, non solo a causa dell’ingente quantità di produzioni teologiche, ma anche per il tentativo in sé di rendere ragione del problema e della sua risoluzione. È possibile scoprire come la teologia cristiana di tutti i secoli interpreti sé stessa come “specchio” della tradizione, ma il XX secolo in modo particolare vive nella memoria di molte persone della generazione attuale come il confine di passaggio a un’altra visione dell’essere umano, in tutte le discipline (si pensi, ad esempio, agli inizi delle ermeneutiche trans-human e post-human), e il cristianesimo ha tentato di tradurre la propria visione in modi diversi, più che in alcune epoche del passato.

    Il pensiero teologico, in special modo quello di confessione cattolica, dal medioevo, passando per il Concilio di Trento, alla fine del XIX secolo era basato su trattati relativi ai diversi ambiti della dottrina; seguiva, inoltre, uno schema specifico dettato dal tomismo nella maggior parte dei casi. Le narrazioni della morte erano affidate alla matrice del trattato specifico De Novissimis, che era primariamente una speculazione sulle realtà escatologiche presenti nella Bibbia e nel magistero ecclesiastico, poi tradotte dai sacerdoti nel catechismo e nella predicazione alle persone semplici. È importante evidenziare quest’aspetto, perché il catechismo offriva, di per sé, una narrazione propria della vita oltre la morte ed essa è ancora presente a diversi livelli di comprensione e di adesione nella cultura occidentale, nel senso comune. La teologia cristiana pensa la morte come il passaggio a una nuova condizione, differente da quella immanente, ma relativa a questa. Si tratta di una realtà definitiva che può essere interpretata come la fine di tutto e l’avvento del regno di Dio. Questa connotazione di completamento è stata supportata anche dalla visione dantesca dell’aldilà e dallo sviluppo medievale degli studi sull’escatologia. Il trattato De Novissimis sottolineava quattro passaggi, perché le principali realtà escatologiche sono quattro: morte, giudizio, inferno, paradiso. Questi quattro indici sono quelli definitivi, infatti il purgatorio viene escluso come realtà transitoria. Non andiamo oltre, perché quanto detto serve al fine di costituire una solida base per comprendere la nascita del pensiero teologico contemporaneo.

    Nel XX secolo, il pensiero cristiano avverte che il bisogno di rinnovamento è urgente: le narrazioni della morte non possono essere chiuse in uno “schema d’acciaio perenne”, a causa della nascita delle nuove interpretazioni del reale. Le riflessioni teologiche di questo periodo, infatti, sono caratterizzate dal rapporto tra il mondo finito e la Grazia divina:

    Cristo è uomo-Dio. Tutta l’importanza sta nel prendere questo concetto fondamentale del pensiero cristiano nella pienezza della sua energia. Dio non ha solo pervaso religiosamente; afferrato per farne un profeta, legato a sé nel destino un uomo; ma “si è fatto”, è “divenuto” uomo, ha formato con lui un’unità esistenziale – in modo tale che l’‘io’, che qui si pronuncia, è nel senso più rigoroso il suo, l’atto di vita che qui è compiuto e il destino che qui è sperimentato, nel senso più semplice, sono suo atto e suo destino. Ciò però non ‘privatamente’, in una sfera di esclusività che concerna solo Lui e la creatura prescelta, ma quale Redentore di tutto il creato[10].

     

    La questione che Guardini cerca di dirimere riguarda il modo in cui la Grazia di Dio possa offrire la vita eterna agli uomini e il punto nodale è quello dell’incarnazione. Infatti, uno dei principali modi mediante i quali la teologia cristiana contemporanea tenta di esporre il senso della fede è quello dell’incarnazione. Questo perché solo percorrendo l’itinerario tracciato dal Dio fattosi uomo è possibile perseguire l’idea di eternità nell’immanenza. In quest’ottica, la morte resta un passaggio, come nei trattati della Scolastica, ma questo passaggio viene creato dal basso. La missione di Cristo e la sua risurrezione accettata dai credenti aprono il passaggio per la creazione di senso sul tragico abisso della morte; questa ragione, poi, viene avvertita solo alla fine (a posteriori): tra la negazione del positivo e la possibile vita eterna vi è solo la Grazia divina in forma d’amore, nei concreti episodi della vita:

    I farisei gli domandarono: “Quando verrà il regno di Dio?”. Egli rispose loro: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: “Eccolo qui”, oppure: “Eccolo là”. Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi!”[11].

     

    «In mezzo a voi» permette di interpretare la presenza e l’immanenza del regno di Dio e aiuta a comprendere l’esperienza degli uomini e delle loro scelte. Se la vita eterna fosse la sola significativa, quale senso per il presente? Il tentativo dell’unificazione delle due dimensioni costituisce il compito della teologia cristiana contemporanea. In accordo a ciò, la tensione tra individualità e la narrazione dell’eternità è il tema principale. I teologi, infatti, hanno indagato sulla trasformazione dell’elemento tragico. La questione resta pur sempre irrisolta, ma questo tentativo ermeneutico ha influenzato i modi di percepire non solo la fede, ma anche il pensiero filosofico. Karl Rahner, ad esempio, ha evidenziato come la vita eterna sia la condizione di pienezza della vita attuale: «questa vita eterna non è altro, infatti, se non la definitività (salvata o smarrita) della nostra storia terrena e del soggetto che l’ha realizzata nella libertà»[12]. In questa maniera, la libertà viene data agli uomini in una condizione di limitatezza, ma che dev’essere necessariamente rivolta all’eternità. Sembra di ricordare una dei postulati kantiani della ragion pratica e, in effetti, gli studi di Rahner si rifanno al tomismo trascendentale di Joseph Maréchal. Ciò che qui interessa è l’evidenziazione del modo in cui la libertà umana raggiunga la dimensione eterna e la questione rimane aperta. Forse questa dimensione non viene specificata al meglio nell’opera del gesuita tedesco.

    Sebbene l’approccio sia differente, Hans Urs Von Balthasar tenta di spiegarne il modo. Il teologo svizzero sembra essere d’accordo con l’idea del punto definitivo, ma la coscienza umana del desiderio di eternità può essere raggiunta solo ex-post. In questo modo, la coscienza può divenire tale solo attraverso la narrazione evangelica o, in una parola, attraverso l’evento Cristo:

    Naturalmente la risposta di Dio – che suona in ultima analisi: Gesù Cristo – sarà alla fine l’adempimento della nostalgia di Adamo (e in tal modo ogni proposizione “teologica” è proposizione “antropologica”), ma ogni costruzione previa della Parola di Dio da parte dell’uomo che è alla ricerca di questo adempimento non potrà che condurlo, come già menzionato, in errori sempre più profondi. La forma della Parola di Dio lo dimostra nel più chiaro dei modi: essa è quale Logos tou staurou, come la Parola crocifissa dagli uomini […][13].

     

    Se esiste un’eternità, essa dev’essere narrata. Il passaggio dalla fine della vita, vissuto per la finitudine, bisogna che venga costruito dalla base dell’esistenza rivelata nell’incontro col Cristo, la cui possibilità porta dentro di sé il tratto dell’universalmente valido. La questione irrisolta, in ciò, riguarda il modo in cui la narrazione evangelica dell’eternità (universale), data in un evento particolare, possa assurgere al rango di principio significativo. Nel medesimo punto von Balthasar scriveva:

    E se questa cosa impossibile, che l’assoluto non soltanto si rivela nel suo splendore alla finitezza, ma diventa lui stesso finito, si adempie, allora si può avverare anche la cosa inconcepibile per l’esistenza umana stessa: che il finito come tale venga inserito nella realtà definitiva ed eterna. […]. Che ci sia questa parola-risposta di Dio, che si è calata nel finito e perituro, chiamato “carne”, costituisce il centro della fede cristiana[14].

     

    La domanda, dunque, resta senza risposta a causa della sua propria direzione, che è quella della fede. Evidentemente lo scarto tra la possibile saldatura dei due poli e la domanda che li posiziona è assimilabile alla distanza che intercorre tra filosofia e teologia cristiana. La fede, che viene garantita dalla discontinuità della croce, viene considerata luogo di scandalo anche e soprattutto per la stessa positività del linguaggio. D’altra parte, bisogna dire che essa sorge proprio da questo dramma insoluto, con la pretesa di esser suscitata dall’alterità totale: Dio.

     

     

4. Il senso comune: paura di cosa?

  1. Quello che definiamo con l’espressione “senso comune” indica le espressioni, per così dire, semplici della cultura nella quale siamo immersi, ma non è indipendente dalle prime due istanze che abbiamo tentato di evidenziare nei paragrafi precedenti. Cos’è il senso comune riguardo alla morte? Che valore ha la sua narrazione? Possiamo parlare di un solo paradigma di senso comune?

    Risulta difficoltoso enunciare una definizione di esso, se non impossibile; infatti dipende dalla situazione concreta che l’uomo vive. Tuttavia, sebbene non abbiamo una definizione precisa, possiamo tentare, nel nostro ambito d’indagine, di spiegare brevemente quali attributi esso possieda nella nostra area occidentale.

    Abbiamo intitolato il paragrafo “paura di cosa?” perché la paura sembra essere l’elemento principale nelle storie umane. Essa può controllare gli uomini e, a causa di ciò, sorgono imponenti le strutture, siano esse strutture di pensiero oppure politiche in senso lato. Se guardiamo, dunque, alla politica e, più in generale, al potere dell’uomo sull’altro uomo, la paura è uno strumento per ottenere la resa. Nonostante ciò, può essere letta in modo ambivalente: da un lato, essa crea il potere di potere (possibilità), dall’altro permette di fuggire da questo. Chi soffre il potere, infatti, ha paura, ma chi usa questo strumento, può darsi lo faccia per mettere a tacere la propria. In un modo o nell’altro serve per regolare la coesistenza.

    Questa particolare sensazione, poi, può avere un oggetto: ciò che è sconosciuto? La morte? Non solo. Torna qui in gioco il problema del negativo: l’uomo chiede, seppur mediante atteggiamenti diversi, quale sia il reale posto dell’oscurità. Egli cerca di dare un nome all’innominabile, seppur ci si rende conto dell’impossibilità dell’impresa. In certi casi, la paura diventa addirittura paranoia e diminuisce la possibilità di libera scelta. Le narrazioni qui possiedono la forza di trovare una strada per rendere ragione della complessità, in modo semplice e comprensibile ai più. Il problema, oggi, è quello della frammentazione delle narrazioni classiche, o meglio della capacità di ascolto di esse, con la rispettiva necessità di trovare nuovi canali narrativi.

    È necessario stabilire una certa continuità tra le vecchie e le nuove narrazioni, essendo capaci di leggere il loro centro e il loro scopo. In poche parole, bisogna leggere le narrazioni passate non avendo il timore dei nuovi punti di vista. Per essere concreti, bisogna saper maneggiare le riflessioni tradizionali storicizzandole, al fine di evidenziarne ciò che bisogna trattenere nel presente e cosa, in fin dei conti, lasciare indietro. In questa prospettiva, la letteratura può aiutare a scorgere come la tensione vitale permei il nostro tempo e come una narrazione sia, in fin dei conti, una ribellione orientata contro la debolezza impersonale nella quale gli eventi sembrano porre le nostre esperienze:

    Islandese: Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?

    Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia, che appena ebbero la forza di mangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui disseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città d’Europa[15].

     

    Questa narrazione è certamente pessimistica[16], ma nonostante la morte sia descritta come una forza debordante che alla fine vince su tutto, il brano può essere letto come un tentativo di dirimere la questione, innanzitutto come coscienza del problema. La risposta viene data, ma si ha come l’impressione che il punto non sia definitivo; essa sembra porre in risalto anche l’anelito dell’uomo che pur sempre rimane. In quest’ottica la visione storicizzante può aiutare a contestualizzare la riflessione, che viene influenzata dalla vita personale dell’autore, e a estrarne la comunicabilità per il presente.

    Ci si rende conto che, in ogni caso, alla fine l’essenza delle narrazioni sia legata alla vita stessa, letta e interpretata dalla luce della coscienza. Più si padroneggia la complessità e più si è capaci di intercettare le nuove generazioni, oggi definite in modo diverso.

    La vita chiama la vita e il principio di responsabilità, vissuto in mezzo a essa, può essere l’arma migliore contro la resa.

     

     

5. Ars moriendi come ars vivendi: tensione vitale e dialettica

  1. La morte rappresenta un non senso che può essere letto come l’elemento più rilevante dell’eccedenza del movimento che caratterizza la vita. Individuiamo l’eccedenza come tale innanzitutto per offrire una ragione alla presenza del limite che portiamo. La distinzione tra gli oggetti che ci circondano e la nostra identità è il prodotto di questo confine, e questa condizione può essere indagata solo dopo averla vissuta. La vita concreta viene prima del pensiero, non per forza in senso cronologico, bensì come pensiero di esperienza fattuale che salda gli opposti di moto e identità. Hegel, a tal proposito, scriveva: «La dialettica, in quanto movimento che nella sua immediatezza è negativo, appare inizialmente alla coscienza come qualcosa di estraneo di cui essa è preda»[17], ma alla fine il pensiero trova la sua appartenenza relativa al movimento, dunque alla produzione di una narrazione. Per Hegel ciò rappresenta la via privilegiata per fare filosofia. Nel pensiero di Kant, invece, l’essenza del movimento o, più precisamente, della realtà non può essere indagato in modo puro (noumeno); l’unica possibilità sta nella morale come approccio pratico alle cose. La definizione d’identità traccia sempre una barriera tra una cosa e l’altra e la negazione è lo specchio che permette di definirne l’immagine. In questa prospettiva, la morte definisce la vita e gli itinerari che la circondano, ma risulta in sé stessa inafferrabile, eccedente appunto. La luce della vita è la sola via che abbiamo per rendere ragione del reale e modificarlo con le nostre scelte: forse si tratta di una piccola funzione, è vero; ma la ricerca di senso non può che partire dalle proprie possibilità, seppur minime. A questo punto le religioni, oppure le altre percezioni del sacro, possono essere uno strumento per interpretare il mistero, orientando tradizioni e scelte sulla vita. Bisogna, tuttavia, ricordare che le prescrizioni non possono eliminare la libertà, ma solo indicare un percorso che il soggetto, in quanto tale, dev’essere in condizione libera di seguire o meno.

    Il mysterium tremendum et fascinosum[18] genera paura e, al medesimo istante, attrazione, desiderio. La vita genera il desiderio, ma nonostante il possibile raggiungimento di esso come coscienza piena, si tratta pur sempre di una grandezza incommensurabile. L’assenso alla vita come tale (responsabilità), oltre la capacità di comprensione, ma con serena fiducia, sembra l’unica possibilità che abbiamo di intravedere un’intelligenza della negazione. In questo modo si realizza la tensione dialettica della vita.

    Lo scatto dell’assenso che la mette in moto è l’umiltà, non primariamente intesa nel significato morale, ma come idea tratta dalla narrazione originaria che procede dalla terra (humus). Le narrazioni della morte sembrano essere la trasmissione di spazi e di tempi, illuminati dalla tensione vitale a esse sottesa. Costituiscono un metodo povero, ma unificatore in quanto offrono concretezza. Le narrazioni migliori (e la filosofia migliore) sono le più povere, per il sigillo di verità che la semplicità porta con sé; bisogna, tuttavia, evidenziare che la semplicità è espressione delle cose, non superficialità soggettiva.

    La simpatia per la vita e la responsabilità da esercitare, dunque, non possono essere lette come la resa al dispositivo di qualsivoglia sacralità, bensì come la risposta alla concretezza immanente, anche se non arbitraria, dell’universo delle cose. Questo ritorno alle cose può essere indice della scoperta di un oltre incondizionato, di un Bene, quindi di un valore morale:

    Il valore morale non si trova, dunque, nell’effetto che ci si attende da essa, e neppure, quindi, in un qualsiasi principio dell’azione che possa trarne motivo da questo effetto atteso. Tutti gli effetti, infatti (gradevolezza di uno stato proprio, o anche promozione dell’altrui felicità), possono essere prodotti anche da altre cause, senza che sia necessario l’intervento della volontà di un essere razionale: in cui, pure, solo si può trovare il bene supremo e incondizionato[19].

     

    Il formalismo kantiano non è una semplice legge, bensì la suprema bontà della realtà che viviamo. Anche per questo la responsabilità significa la risposta come presenza dell’assoluto nel relativo. Le narrazioni della morte o, più in generale, i tentativi d’intelligenza di quest’evento, sono prodotti in vista di una maggiore serenità. La coscienza della tensione vitale e dialettica può essere un itinerario per raggiungerla, anche se spesso si presenta debole. Si tratta, volgendo lo sguardo alle origini della tradizione filosofica, del metodo platonico di ascolto e dialogo in senso largo.

     

     

6. Breve conclusione

  1. Le narrazioni della morte possono essere un esempio di evidenziazione della totalità. Il metodo narrativo è la strada privilegiata per esporre la dialettica, che rappresenta la tensione vitale come fedeltà alla terra e alla coscienza di ciascuno. In tutti i tentativi di indagine di questo problema, dal cristianesimo alla filosofia, il punto chiave è l’ascolto delle esperienze, che spesso sono fallimentari, ma che pongono la tensione come domanda.


    [1] C. Baudelaire, La Fin de la journée, in Les fleurs du mal, Newton Compton, Roma 2019, p. 306.

    [2] F. Rosenzweig, La stella della redenzione (1921), tr. it. Vita e Pensiero, Milano 2005, pp. 3-4.

    [3] M. F. Sciacca, Morte e Immortalità, L’Epos, Palermo 1990, pp. 24-27.

    [4] M. Heidegger, Essere e tempo (1927), tr. it. Mondadori, Milano 2012, pp. 348-349.

    [5] Vedi A. Papa, Identità esposta. La cura come questione filosofica, Vita e Pensiero, Milano 2014.

    [6] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 282-283.

    [7] Vedi Id., Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana (1971), tr. it. Guida, Napoli 1998.

    [8] Cfr. I. Kant, Critica della Ragion Pura (1781, 1787), tr. it. Laterza, Bari 2017, p. 495.

    [9] G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1827), tr. it. Laterza, Bari 1951, pp. 342-343.

    [10] R. Guardini, Mondo e Persona, Morcelliana, Brescia 2000, p. 121.

    [11] Lc 17, 20, 21.

    [12] K. Rahner, Il morire cristiano (1976), tr. it. Queriniana, Brescia 2009, p. 45.

    [13] H.U. Von Balthasar, L’azione, in Teodrammatica (1971-1983), tr. it. Jaca Book, Milano 1986, vol. 4, p. 109.

    [14] Ibid., p. 123.

    [15] G. Leopardi, Dialogo della Natura e di un Islandese, in Operette morali, Feltrinelli, Milano 2020, p. 123.

    [16] Si veda, a tal proposito, l’ingente produzione di studi sul pessimismo leopardiano.

    [17] G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito (1807), tr. it. Bompiani, Milano 2017, p. 301.

    [18] Si veda, sul senso proprio di quest’espressione, R. Otto, Il Sacro (1917), tr. it. SE, Milano 2009.

    [19] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi (1785), tr. it. Bompiani, Milano 2017, p. 73.

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