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Abstract
The Future of Bioethics between current Scenarios and new Horizons
Bioethics is a complex discipline whose contributions have marked a fundamental part of the philosophical and moral debate of the second half of the 20th century and early 2000s. Adriano Pessina, one of the protagonists of this debate, offers his analysis to shed light on some of these aspects and to reflect on the transformations taking place. The contribution examines issues such as the role of ethics committees, the relationship between bioethics understood as biomedical ethics and global bioethics, and whether it is possible to develop a universalist ethical model.
S&F_: Albert Jonsen, uno dei padri fondatori della bioetica, ha evidenziato, in un articolo poi molto citato (Why has bioethics become so boring?), che la bioetica, ormai istituzionalizzatasi, avrebbe perso, almeno in parte, il mordente che caratterizzava le prime battaglie contro il paternalismo medico e in favore dell’autodeterminazione. Questa tesi è stata ripresa e, in realtà, rilanciata da autori come Jonathan Baron e Steven Pinker i quali hanno visto nella bioetica uno strumento per rallentare o ostacolare la ricerca scientifica. Qual è la sua opinione al riguardo?
AP_: Come spesso capita, occorre chiarire i termini. Che cosa si intende per “istituzionalizzazione” della bioetica? Se il riferimento è ai vari comitati di bioetica nazionali creati, con funzioni differenti, nei diversi Paesi (penso in particolare all’Europa), si deve notare che, in realtà, stiamo assistendo alla scomparsa della bioetica come disciplina di stampo filosofico a favore di una bio-giuridica che, ovviamente, è purtroppo condizionata dalle leggi vigenti in ogni Stato e dal contesto politico. Per quanto riguarda, poi, l’accusa rivolta alla bioetica di essere di ostacolo alla ricerca scientifica, mi pare che sia un luogo comune praticato da quanti hanno una visione miope della filosofia morale. Da una parte la ricerca scientifica è una prassi che si articola in diversi ambiti e mi pare che il dibattito sulla sostenibilità della ricerca evidenzi come le stesse scienze si interroghino sui confini da porre ai loro sviluppi, dall’altra è, però, evidente l’artificio retorico connesso con la creazione del dilemma tra promozione o ostacolo della ricerca scientifica.
Posto in termini generali, o meglio generici, è chiaro che nessuno vorrebbe avere a che fare con un sapere che ostacola la ricerca scientifica che, nell’immaginario collettivo, ha una connotazione etica positiva, una sorta di neutralità assiologica che si identifica con il cosiddetto “progresso”. Ma se si entra nel merito delle possibilità dell’agire umano, potenziate dal nesso che lega tecnologie e scienze empiriche, allora è evidente che si apre la questione della responsabilità morale perché, come già ricordava Jonas, non si può giustificare a priori nessuna forma dell’agire. Se, come penso, la bioetica, da chiunque venga praticata, resta un’impresa di natura filosofica, allora il suo primo compito è quello di chiarire quali sono i “beni” messi in gioco nelle diverse prassi, sottraendosi ad una funzione ancillare nei confronti del contesto pratico-teorico in cui si inserisce. Si dovrebbe, anche alla luce del passato, capovolgere la prospettiva e chiedersi se si possa accettare uno sviluppo della ricerca che ignori le questioni etiche, così come già è avvenuto nel contesto del nazismo e come avviene, anche oggi, in alcuni Paesi che non riconoscono nemmeno i diritti dell’uomo.
S&F_: Rimanendo sulla scia della precedente riflessione vorrei ora esaminare un’altra questione che, soprattutto negli ultimi anni, è stata al centro di alcuni dibattiti. Mi riferisco al ruolo dei comitati etici nella regolamentazione della ricerca e della sperimentazione scientifica. Lei ritiene che nell’attuale forma tali comitati svolgano in maniera efficace questo compito o pensa ci siano dei correttivi che andrebbero implementati?
AP_: Se penso alla mia lunga esperienza all’interno dei Comitati etici ospedalieri e alla recente riforma, che recepisce indicazioni europee, penso di no. L’intreccio, inevitabile, tra la pressione economica delle grandi aziende, gli interessi, di per sé anche legittimi, dei singoli sperimentatori, la complessità di protocolli scientifici che coinvolgono migliaia di persone distribuite in vari territori, la riduzione delle tempistiche di valutazione, la generica attenzione alle questioni etiche connesse con il dovere di tutelare i pazienti, spesso ridimensionate attraverso consensi informati costruiti sulla base del criterio della libera scelta del paziente, rendono difficile un reale esercizio critico. In linea generale, ma la questione è complessa, occorre garantire la reale indipendenza dei valutatori, che devono avere un tempo congruo per la valutazione dei protocolli sperimentali: protocolli che devono essere esaminati in termini di efficacia, fattibilità e sicurezza, garantendo in modo sostanziale e non puramente formale che i benefici attesi, benché non possano essere garantiti, siano maggiori dei vari effetti collaterali a cui si sottopongono i pazienti. A ciò si aggiunga un fatto: benché siano definiti “ etici”, questi comitati si limitano, spesso e perlopiù, a formulare valutazioni di stampo strettamente giuridico-formali e sono formati da persone la cui competenza nel campo della filosofia morale è spesso assente, supplita da convincimenti personali. Vedremo se la situazione muterà.
S&F_: Storicamente si sono delineate due forme, per così dire, di bioetica: la cosiddetta etica biomedica che ha trovato nei Principles of biomedical ethics di Beauchamp e Childress un punto di riferimento e la cosiddetta bioetica ecologica di ascendenza potteriana. La prima forma è quella che si è maggiormente imposta anche all’attenzione pubblica, la seconda almeno in una prima fase è stata invece più in ombra e ha suscitato meno clamori in termini mediatici. Pensa che oggi la situazione sia cambiata?
AP_: L’opinione pubblica è alimentata dall’informazione di massa e di fatto quella che lei chiama etica medica investe direttamente la vita personale di molti cittadini, mentre le tematiche ecologiche appiano, sebbene, erroneamente, lontane temporalmente e geograficamente. Le due linee di ricerca, per quanto connesse, rispondono a quesiti differenti e richiedono, anche, competenze diverse. Penso che la questione principale sia però individuabile nella separazione e frammentazione dei saperi, a cui si può tentare di rimediare non soltanto aprendo interazioni reali tra le competenze specialistiche delle varie discipline, ma avendo chiaro che lo sfondo stesso di questi problemi non è puramente scientifico, ma etico, nella sua più vasta accezione.
S&F_: Alcuni autori hanno affermato che soprattutto in alcuni paesi lo scontro tra bioetica laica e cattolica abbia rappresentato e/o rappresenti il leit motiv del dibattito pubblico e accademico sui temi bioetici. Altri tuttavia hanno evidenziato i punti deboli dell’uso di questa dicotomia. Anche lei su questo tema si è espresso in diverse occasioni. Può ripercorrere brevemente le sue idee su questo tema?
AP_: Lo schematismo è sempre una forma di pigrizia mentale. La filosofia non ha aggettivazioni e le teorie filosofiche possono soltanto far valere i loro argomenti. Da un punto di vista descrittivo, il binomio bioetica laica e bioetica cattolica è fallace per diversi motivi. Il primo è che questa impostazione trasforma la bioetica in un territorio tematico e non in una disciplina con un proprio statuto epistemologico che, a mio avviso, rientra nelle forme del sapere filosofico. In secondo luogo, mentre è abbastanza facile individuare le posizioni cattoliche, perché esiste un Magistero unificato, è arduo definire quali siano le posizioni delle differenti forme del cristianesimo, che ha molte espressioni: le Chiese ortodosse non esprimono gli stessi convincimenti della Chiese “riformate”, luterani, protestanti, evangelici, valdesi, che anche tra di loro si diversificano a secondo dei luoghi e dei loro esponenti. In terzo luogo, questo schematismo emargina dal dialogo pubblico le varie confessioni non cristiane, dai mussulmani agli ebrei, ai buddisti o ai confuciani. In ultimo, ma non da ultimo, quale sarebbe la bioetica laica? In che consisterebbe la sua “ortodossia?”. Ci sono autori che si muovono nell’alveo dell’utilitarismo, altri seguono l’impianto kantiano, altri ancora si muovono sul terreno dell’antropologia filosofica, dell’assiologia o della fenomenologia. Chi si appella a questo binomio, magari pubblicando interi volumi, può, al massimo, fare della sociologia. Personalmente ho cercato di argomentare partendo da un’altra distinzione, tra la bioetica come disciplina filosofica e il contributo che le diverse teologie e religioni possono dare alla comprensione dei problemi che la bioetica, nella sua autonomia metodologica, affronta. Nello spazio pubblico è bene ascoltare le voci di tutti, siano credenti, atei, agnostici, ma in una bioetica filosofica alla fine valgono soltanto le argomentazioni. In questa prospettiva l’impresa bioetica non può dirsi mai del tutto conclusa, perché ha, tra i suoi compiti, quello di “far pensare”.
S&F_: Ritiene che il pontificato di Bergoglio abbia rappresentato un elemento di novità capace di avere un impatto di qualche tipo anche sul dibattito bioetico?
AP_: Un Pontificato porta sempre con sé l’impronta del Pontefice, della sua personalità, della sua storia e della sua formazione teologica. Penso che Papa Francesco abbia accentuato l’attenzione sulle questioni etiche connesse con la povertà, la crisi ecologica, l’ingiustizia sociale. Da una prospettiva filosofica, la questione centrale che, a mio avviso, Papa Francesco ha posto e che può realmente riguardare la bioetica, si trova nell’espressione, ricorrente, di “cambiamento d’epoca”, posta come correzione dell’espressione “epoca di cambiamento”. Penso che la bioetica debba prendere sul serio questa tesi, che condivido. Ritengo sia decisivo comprendere quali siano le profonde trasformazioni dell’esperienza umana introdotte dalle nuove tecnologie, in termini pratici e in chiave di autorappresentazione della condizione umana.
S&F_: Quali sono a suo avviso le linee di riflessione più interessanti al momento nell’etica applicata e perché?
AP_: Sono un po’ insofferente rispetto alla categoria di “etica applicata”. Per sua stessa struttura ogni riflessione etica riguarda un territorio dell’agire umano e solo se si viene da una impostazione formalistica si può separare l’etica, nella sua struttura fondamentale, dalla sua interazione con la storia, le scienze e la cultura in generale. Indubbiamente oggi si apre uno spazio nuovo di analisi, dedicato alla cosiddetta intelligenza artificiale e ai profondi cambiamenti che sta introducendo nella prassi umana.
S&F_: Oggi assistiamo a una proliferazione di etiche applicate, al punto che quasi a ogni settore di indagine scientifica sembra essere associata una relativa etica applicata. Ritiene che stante questo quadro la bioetica sia destinata ad essere marginalizzata (di fronte all’avanzare di sub-discipline come l’etica dell’informazione, l’etica delle biotecnologie, l’etica animale, etc.) oppure questa potrebbe essere l’occasione per la bioetica di svolgere un ruolo di meta-riflessione e coordinamento?
AP_: A mio avviso è la filosofia come sapere unitario che può fungere da punto di raccordo, o se si preferisce, da meta-riflessione nei confronti di saperi zonali che rispondono ad alcune questioni specifiche sollevate dalle trasformazioni delle esperienze umane.
S&F_: Ritiene che la contrapposizione tra analitici e continentali, che già Franca D’Agostino problematizzava e che oggi autori come Markus Gabriel e Quentin Meillassoux criticano, possa essere in qualche modo utile per comprendere il dibattito bioetico?
AP_: Tutto può essere utile, a condizione che non ci si imprigioni nelle scatole chiuse delle classificazioni di comodo. Ritengo, però, che l’impostazione strettamente analitica fatichi a render ragione delle complesse sfumature dell’esistenza umana che sono così rilevanti nell’approccio etico, mentre una certa linea “continentale” corra il rischio di perdere in rigore. Ma, ovviamente, sono pure annotazioni che andrebbero declinate concretamente.
S&F_: Quale impatto ha avuto la pandemia di Covid-19 sulla bioetica, in termini di visibilità pubblica e riflessione teorica? Pensa che i bioeticisti abbiano giocato un ruolo importante nei tre anni di pandemia o ritiene che, in linea di massima, ci sia stato un silenzio ingiustificato?
AP_: Rispondo con un’altra domanda, violando le regole della cortesia. Ma la bioetica ha una visibilità pubblica? Molti parlano di questioni bioetiche, ma con la stessa competenza di chi parla di calcio solo perché fa il tifo per una squadra. In generale è la stessa filosofia ad essere assente dal dibattito pubblico italiano. La pandemia ha evidenziato un fatto: i problemi non aspettano le soluzioni, le impongono e i decisori non è detto che abbiano le risposte più adeguate o che attingano a un patrimonio di conoscenze che resta in larga parte dimenticato.
S&F_: È verosimile immaginare nel futuro prossimo convergenze tali da favorire l’emergere di un’etica planetaria?
AP_: Un conto è un’etica universale, capace di valorizzare le differenze e permettere agli uomini di costruire i loro progetti di vita dentro relazioni che diano senso ai conflitti delle interpretazioni senza generare nemici, un altro è auspicare la creazione di un’etica formale che governi un gregge consenziente, addomesticato dagli interessi economici. In parte stiamo già vivendo dentro un’etica planetaria, che è poi quella del consumatore di massa. Non mi pare che sia la prospettiva migliore: il pluralismo, se intelligente e dialogico, è una risorsa irrinunciabile, perché, per usare l’espressione di un noto pensatore, la “verità è sinfonica”.