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La cella accanto: cinque figure del tempo che verrà

Autore


Emilia Marra

Dottore di Ricerca in Filosofia Teoretica

Dottore di Ricerca in Filosofia Teoretica ed è stata Research Fellow presso Center of Advanced Studies di Rijeka

Indice


  1. Marinetti, 1909: la guerra, sola igiene del mondo
  2. Nietzsche, 1962: l’intempestivo, o lo sradicamento dall’attualità
  3. Bergson, 1927: la materia è un presente che ricomincia incessantemente
  4. Musil, 1930: agire nel pensiero, agire nella pratica
  5. Pussy Riot, 2011: agire nella pratica, agire nel pensiero

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S&F_n. 29_2023

Abstract


The Next Prison Cell: Five Figures Of The Time To Come

This contribution takes the famous Prisoner's Dilemma as its starting point in order to think about generational responsibility to futures not yet present. The cell next door, a figure of otherness, is brought back to a temporal figure, defined as the unthought par excellence of the market economy. The movement to move from a thought of spatiality to a reflection on time, thus on duration and sustainability, is articulated in five moments (Marinetti's Manifesto, the Deleuzian reading of Nietzsche, Bergsonian indications of method, Musil's doubts, the action of Pussy Riot), whose role is to guide through the three syntheses of time. In order to move from the total war promoted by futurism to the need to build social horizons capable of duration (cfr. Braidotti, 2017), it is indeed necessary to move from the capitalist paradigm of accumulation to ethical thought, whose field of pertinence does not lay on a spatial perimeter, but is actually time. Only within this field in fact will the concept of vulnerability no longer lead to the paralysis of action, but rather to a thought of sustainability.

  1. Marinetti, 1909: la guerra, sola igiene del mondo

Il «dilemma del prigioniero», elaborato da Tucker negli anni ’50, deve buona parte della propria fama alla sua capacità di descrivere in modo semplice ed efficace la questione strategica fondamentale della Guerra Fredda: la corsa agli armamenti tra URSS e Stati Uniti. Nell’era atomica, questo modello sanciva che l’ottimo paretiano, ossia la situazione più efficiente dal punto di vista delle risorse a disposizione, si raggiunge nella convergenza della scelta verso l’opzione a costo minore – sebbene tale scelta implichi l’auto-esposizione al rischio della pena massima. L’iniziale contro-intuitività della scelta collaborativa, che rinuncia alla massimizzazione dell’istante in favore di una maggiore sostenibilità a lungo termine, si rispecchia in strategie di produzione, abitudini di consumo e politiche che, sebbene a tratti criticate in quanto «controprospettive detrattive di una responsabilità intergenerazionale»[1], continuano a favorire approcci dominanti. Secondo Menga, una possibile spiegazione a tale forma di miopia nasce da un punto cieco del contrattualismo e dell’utilitarismo, individuato nella loro necessità strutturale di riferirsi a soggetti reali; la proposta di questo contributo è che le istanze immaginarie di giocatori le cui scelte sono simultanee alle nostre possano essere assimilate a quelle di futuri non attuali, impensato per eccellenza dell’economia di mercato. In altre parole, poiché il dilemma del prigioniero è interamente giocato sull’esistenza di un altro a me totalmente ignoto, esso può fornire strumenti concettuali adeguati a «costruire collettivamente orizzonti sociali capaci di durata». L’analisi della reiterazione del gioco e delle sue diverse soluzioni può infatti offrire il modello descrittivo dei limiti delle prime due sintesi del tempo, lasciando emergere i vantaggi di una temporalità incentrata sul concetto di divenire, in cui il politico è il cantiere di produzione dell’a-venire. La terza sintesi del tempo si offre allora come strategia fondamentale per pensare il progetto di una etica della sostenibilità che non si fondi sullo stato di emergenza o sul presenzialismo, ma che al contrario si sottragga alla logica rappresentativa per lasciare spazio a pratiche di autodeterminazione, la cui prova selettiva sta precisamente nell’affermare la pienezza del proprio gesto, ridefinendo così un prima e un dopo. Inoltre, il progressivo ma irreversibile spostamento di segno che ha travolto la rivendicazione del futuro, strappandola alla retorica marinettiana, ha portato dalla pretesa di sottomissione violenta di ogni forma di alterità al riconoscimento del diverso come antidoto necessario contro il rischio dittatoriale di un unico possibile. «Il futuro è donna o non è affatto» è allora una presa di posizione etica e politica: al senso di vulnerabilità che il quotidiano offre, con la sua costante messa in dubbio della possibilità stessa della nostra durata nel mondo, come individui e come specie biologica, non basta rispondere con una amorfa panumanità basata sul timore dell’estinzione, ossia su un collante ottenuto a partire da passioni negative, ma occorre elaborare un pro-getto, la cui premessa fondamentale è la presa in carico collettiva di futuri possibili.

Dalla «sinistra promiscuità di tanti corpi che non si conoscono» del 1909, il progressivo e inesorabile cambio di voce nell’appropriazione del futuro porta a un necessario pervertimento dello stesso dilemma del prigioniero, travolto a sua volta dalla necessità del contingente. Una proposta più adeguata al nostro tempo potrebbe infatti essere la seguente: in una prigione ci sono due celle, nella prima ci siamo noi, nella seconda i nostri futuri. Con i futuri non possiamo comunicare, ma abbiamo una scelta da compiere: scegliere di massimizzare l’istante presente, rischiando l’autodistruzione, o rinunciare a una piccola parte di datità per consentire al virtuale di attualizzarsi. Tradire o collaborare con i nostri futuri. Il capitalismo ha preso la sua decisione, affermandosi come il divoratore di futuri per eccellenza. Rosi Braidotti adotta l’altra soluzione:

Se l’assiomatica del capitalismo distrugge i futuri sostenibili, resistergli vuol dire tentare di costruire collettivamente orizzonti sociali capaci di durata, ovvero di speranza e sostenibilità. Si tratta di una pratica politica di resistenza al presente che mobilita il passato per produrre speranze di cambiamento ed energie di attualizzazione. Tale pratica modifica le forze negative per impiegarle nella direzione potenziante dell’impegno per futuri alternativi. Perché portare avanti questo progetto? Per nessuna ragione in particolare. La ragione qui non c’entra nulla. Si tratta di agire per il gusto di farlo – per essere degne/i del nostro tempo resistendo al presente, per amore del mondo[2].

 

Tale pratica politica si allontana diametralmente da quella proposta, per esempio, da Roberto Esposito, il quale, di fronte alla constatazione di «un certo deficit di progettualità politica in larga parte della filosofia francese dell’Europa»[3], propone una riflessione intorno ai limiti spaziali dell’Europa stessa, sostenendo che «è attraverso le rappresentazioni spaziali che le teorie politiche formulano i propri concetti, li adattano alle istituzioni, ne riconoscono le dinamiche»[4] perché «fuori da un universo spaziale, la politica non potrebbe attivare le proprie logiche»[5]. Interrogare lo statuto ontologico del futuro significa allora tentare una riflessione politica e filosofica che renda lo spazio una funzione del tempo; si tratta, a ben guardare, di una eredità ben presente nella (rara) compattezza che il post-strutturalismo ha assunto nel protrarre l’impegno di una Nietzsche Renaissance, che in ultima istanza non è altro che un progetto di ripensamento radicale della temporalità.

 

  1. Nietzsche, 1962: l’intempestivo, o lo sradicamento dall’attualità

Già nel 1962, Deleuze avvertiva della radicalità dell’impresa nietzschiana[6], della severa critica ai presunti fondamenti del mondo contemporaneo; ed è proprio perché la scala valoriale della contemporaneità si è modificata rispetto a quella del classicismo e del romanticismo, non da ultimo in virtù di quella cesura chiamata era atomica, che occorre ripartire da una lettura degli effetti prodotti dal nostro sistema di riferimento per porre le basi per l’interrogazione. L’esperienza del post-strutturalismo ha sconfessato le alternative morali, svelandone il carattere arbitrario in favore di quell’indefinibile Medesimo differenziale per trattare del quale, forse o almeno fino ad ora, solo una ortografia volutamente errata - di derridiana memoria - sembra essere appropriata. Pluralizzazione, quantità di quantità: le forze, trama dinamica della sensibilità. Le differenze di quantità si incontrano tra loro nella forma dell’affezione, e nell’incontrarsi assumono una caratterizzazione qualitativa: «chiameremo gerarchia questa differenza di forze qualificate in conformità alla loro quantità: forze attive e reattive»[7]. La gerarchia diviene così processo dinamico, rinuncia alla datità come presenza a sé statica in favore di un movimento non dialettico in cui l’unico, semplicemente, non esiste in quanto tale. Ontologia processuale, in cui la ragione del sensibile non è lo spazio-tempo, bensì la disparatezza[8]. E come sussurra Clarisse a Walter, riportando al marito una conversazione avuta con Ulrich:

oggi è tutto disperso. Dice che tutto si è incagliato, non lui soltanto. Ma non se la prende come te. Una volta mi ha fatto un lungo discorso: se si scompongono i caratteri di mille persone si trovano appena due dozzine di qualità, di sentimenti, forme di sviluppo, principi costitutivi di cui tutti son fatti. E se si scompone il nostro corpo, si trova soltanto acqua e qualche dozzina di piccoli ammassi di elementi che vi nuotano dentro. L’acqua sale dentro di noi come dentro gli alberi e forma i corpi animali come forma le nuvole. Mi sembra molto bello. Solo non si sa più che cosa dir di noi stessi. E che cosa fare[9].

 

Molto bello, e al contempo destabilizzante. Ma se corpi animali e nuvole sono composti dalla stessa materia, se la nostra attenzione si rivolge solo alle intensità e se il dire di noi stessi diviene funzione del tempo a venire, accadrà che se qualcosa di noi infine sapremo dire, lo faremo a patto di rinunciare al compiacimento illuministico che vede nell’essere umano il custode del vero per accettare il nostro essere agenti solo a condizione di essere agiti. Ecco che dall’Antropocene si passa a un nuovo paradigma interpretativo, in cui quel che conta sono le forze e il modo in cui esse si compongono, indipendentemente dai corpi che investono. Il progetto della filosofia si conferma quindi una etica, come già affermava Spinoza, una etica che risponde del profondo legame tra vivente e non vivente, tra tempo dell’azione ed era geologica, che sia un «essere degni di ciò che ci accade», e in cui il luogo di tale accadere è in realtà il tempo.

La rivendicazione femminista del futuro scardina l’autorità, il privilegio, il diritto, la proprietà e la gerarchia, ponendo le basi per una etica affermativa, la cui forma attualizzata è, con le parole di Braidotti, una politica affermativa.

 

  1. Bergson, 1927: la materia è un presente che ricomincia incessantemente

Affinché i passaggi necessari a tale appropriazione del tempo che sarà potessero darsi, occorreva che l’intero protocollo teorico bergsoniano venisse messo in atto. In primis, si tratta di scovare ed eliminare i problemi mal posti, di smettere quindi di pensare il tempo in funzione dello spazio ma di compiere il movimento opposto di ridefinizione della materia stessa in base al tempo, per ridefinirne i contorni sulla base di un neo-materialismo radicale. Ogni forma di dualismo presupposto cede il passo alle forme del divenire e l’abito artificioso del coscienziale, generatore sommo di dualismi, viene infine dismesso, in favore della molteplicità delle forme del sensibile. La ricerca di una soluzione individuale ai problemi cede il posto a una alternativa percorribile collettivamente e che collettivamente dovrà essere creata. Ci si rivolge quindi all’immaginario sociale contemporaneo, non di rado definito nei termini di una teratologia, al fine di spostarne l’asse attraverso un movimento di rotazione e di traslazione che permetta di passare dalle rappresentazioni grottesche dei corpi obesi, di quelli distrutti dagli abusi di droghe e da malattie vecchie e nuove, a un pensiero dell’autodeterminazione. Deleuzianamente, quindi, la pars destruens si scatena contro le forme rappresentative che ci intrappolano ancora nel negativo e nella contraddizione, i cui tratti fondamentali sono oggi potenziati dalle nuove tecnologie. Infine, la terza indicazione di metodo che Deleuze ci offre ne Il bergsonismo[10]: porre i problemi dal punto di vista del tempo e non dello spazio, occuparsi della durata per fare filosofia senza cedere alla spazializzazione, generare un’inflessione lungo la curva del pensiero tale da rendere l’istante attuale il contenuto del presente e, contemporaneamente, del futuro.

Agli strumenti della tradizione teoretica francofona del Novecento, Braidotti affianca l’esperienza pratica e teorica dei femminismi: accanto all’intuizione bergsoniana, metodo della divisione in grado di analizzare i misti secondo le differenze di natura in essi presenti, di ottenere due parti non simmetriche lungo le direttrici dell’estensione e della durata, troviamo infatti nei suoi libri l’intelligenza critica della Haraway che, esattamente come l’intuizione, è «una sorta di simpatia»[11], che non opera lungo il fronte soggettivo-oggettivo, naturale-artificiale, ma che decodifica il quotidiano dividendolo per empatie e affinità. Braidotti ripete e reinterpreta dunque il movimento bergsoniano, offrendo un nuovo nome al suo esito: la sostenibilità, ossia la capacità di durare nel tempo.

 

  1. Musil, 1930: agire nel pensiero, agire nella pratica

Siamo incagliati, ci dice Ulrich, e probabilmente è vero. Ci siamo incagliati nel populismo, in Trump, nel consenso accordato a Marine Le Pen, ci siamo incagliati nella retorica anti-migranti e nelle pratiche autocelebrative, ci siamo incagliati in una allucinazione ottica attuata per mezzo di schermi che ci fa percepire tutto come distante e immediatamente presente al contempo, ci siamo incagliati nell’autocommiserazione, nello choc che ci offre l’incomprensione. Occorre però imparare a controeffettuare attraverso la costruzione di nuove strade, per atti creativi e non per politiche del “contro”. La sostenibilità si innalza dunque come una alternativa percorribile innanzi al terrore della vulnerabilità; fondandosi sulla durata, essa sarà inevitabilmente fonte di pluralizzazione, un indefinibile sempre già altrove che, ciononostante, ricalcherà il modello della reciprocità tra il gioco nudo delle differenze e i travestimenti delle ripetizioni. Conservazione e potenziamento del proprio vivere: terminologia nietzschiana per un conatus spinoziano. Solo il pensiero di un futuro sostenibile rende il presente vivibile, ci dice Braidotti. E il presente vivibile è il presente del posizionamento e della collocazione, il presente dell’azione politica possibile, e che diventa possibile nel momento stesso in cui accade. Istante più contratto dell’insieme del nostro passato, il presente mette in contatto la nostra esperienza vissuta con l’estrema estensione della materia, permettendoci di «pensare globalmente per agire localmente»[12]. L’esperienza chiamata qui in causa non è l’innocente susseguirsi di qui e ora vuoti che caratterizza la coscienza sensibile della Fenomenologia dello spirito, ma è al contrario l’esperienza dolorosa del corpo vissuto, del corpo ferito e del corpo escluso, del corpo che si sa come finito nello spazio e nel tempo. Corpo che, nel nostro millennio, è preso dal paradosso estrinseco di una «simultanea scomparsa e sovraesposizione»[13] e da quello, intrinseco, di essere corpo animale e tecno-mostro insieme. Finitezza, dunque, per ripensare la vulnerabilità come risorsa, perché è proprio attraverso il senso di finitezza che il corpo può quello che prima lo paralizzava: sperimentare, resistere, muoversi sul filo di quel confine incomprensibile tra il dentro e il fuori, tra la vita e la morte. Desiderio di resistere e memoria storica che agiscono non contro il presente nella forma della negazione, ma per il presente come attualizzazione di un virtuale la cui potenza non è affatto limitata dallo stato di cose. Occorre però in primo luogo che la memoria storica sia appunto per noi quel virtuale, insieme delle possibilità attualizzate e non, affinché l’eterno ritorno possa essere non solo ciò che fa ammalare Zarathustra, ma anche simultaneamente la strada che lo porterà alla convalescenza. Viceversa, a violenza subita si risponderà solo con violenza agita: ancora una volta è la politica americana a dimostrarci come nella logica della doppia negazione non ci siano vincitori ma solo altra perdita.

 

  1. Pussy Riot, 2011: agire nella pratica, agire nel pensiero

Il limite di un progetto politico che si arresta alla seconda sintesi del tempo è però emerso nell’esperienza del femminismo: come Braidotti ci ricorda infatti, le memorie collettive degli anni Settanta hanno finito con lo sclerotizzarsi in un blocco di creatività e in una conseguente ansia nei confronti del futuro, il cui sintomo più evidente è la forma ossessiva che ha preso la celebrazione delle icone. L’icona diventa feticcio (Che Guevara, Nelson Mandela, Lady Diana), e porta con sé tutta la simbologia quasi religiosa e certamente irrazionale del caso. Si ricostituisce così quel Medesimo innanzi al quale la moltitudine ripiomba nell’invisibilità, si recupera infine una forma di quell’Identico che non fa altro che confermare la visione egemone e il processo di visualizzazione del potere, attraverso il noto apparato di cattura della viseità. Il passaggio dalla politica al politico non sarà possibile fintantoché il tempo sarà subordinato al rapporto tra fondazione e fondamento, perché il fondamento è per sua natura relativo a ciò che fonda. In altri termini, la Memoria non ci consente di sfuggire al presenzialismo; di più, ci toglie la possibilità di creare il nuovo. Solo nella terza sintesi del tempo il ripetuto potrà affermarsi come avvenire e una politica affermativa sarà possibile. Già in Trasposizioni[14] e poi ne Il postumano[15] iniziava a emergere nella riflessione della Braidotti il bisogno di porre l’accento su una temporalità radicalmente diversa dal presente dell’emergenza, e che sempre più ha preso la forma di una temporalità del divenire. Se, a partire da quei testi, era lecito affermare che il politico era, per definizione, il cantiere di costruzione dell’avvenire, con Per una politica affermativa si può senz’altro ragionare sul politico come avvenire tout court, perché progetto ripetuto di una etica della sostenibilità. Emergono così pratiche di autodeterminazione la cui prova selettiva sta esattamente nell’affermare la pienezza del proprio gesto, nel farne la cesura che ridefinisce il prima e il dopo; il mascheramento delle Pussy Riot attraverso il passamontagna diviene allora ripetizione complessa che esclude la coerenza del rappresentativo permettendo così a una singolarità nomade di emergere: la singolarità politica. Che questo processo sia legato a doppio filo con la morte – dell’io, del mondo e di Dio - è proprio ciò che ne svela la tragicità e il peso, l’elemento problematico che non permette di liquidarlo frettolosamente come scelta contemplativa dell’anima bella. Che nel percorso delle Punk Women e delle Riot Grrrls il costo personale sia stato altissimo è un fatto, e chiamare il loro progetto a testimonianza della complessità dell’autodeterminazione e dell’aspetto al contempo gioioso e doloroso della trasformazione dell’auto-rappresentazione significa mostrare, ben distanti da una retorica del sacrificale, le istanze di un politico che sfugge alle politiche nei termini di una potentia che sfugge ad ogni potestas non solo esistente, ma persino pensabile. Per questa ragione possiamo dunque affermare che l’in-sé del politico non esiste, perché sfugge al rappresentativo: il politico è, come la potentia, per-sé, perché i movimenti di resistenza ce ne svelano il “per noi”. In altri termini, il politico è l’impensabile, ma si conserva per-sé in quello spazio virtuale che chiamiamo immaginario, e che ci permette di attualizzarlo nei “per noi” che l’attivismo femminista ci ha mostrato:

Le pratiche delle Pussy Riot meritano di essere prese sul serio non solo perché Putin e “i padri della Chiesa” le hanno mandate in galera, bensì perché in grado di funzionare come modello generale di politica radicale. Questa politica è a tutti gli effetti gioiosa, affermativa; ci mette le ali sotto i piedi, anche se le sue pioniere si trovano dietro le sbarre[16].

 

Tornando al nostro prigioniero, sembra quindi che la decisione da prendere dovrà essere assunta non sulla base di un essenzialismo, bensì a partire da una istanza immaginativa: non confessare significa affermare l’avvenire tutto intero a partire da un posizionamento, significa spogliarsi del ragionamento incentrato sulla potestas per insorgere, per resistere, per offrire futuro, sebbene il prezzo da pagare nell’immediato ci sia. Significa spogliarsi del proprio particolarismo e tendere la mano a un altro che, in fondo, non siamo neanche sicuri esista davvero, e che, qualora esistesse, potrebbe tradirci.


[1] Cfr. F.G. Menga, Lo scandalo del futuro. Per una giustizia intergenerazionale, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2016, p. 10.

[2] R. Braidotti, Per una politica affermativa. Itinerari etici – manca la data dell’edizione generale, non sono riuscito a trovarla, potrebbe essere anche un’operazione italiana di raccolta di saggi, ma non lo so, tr. it. Mimesis, Milano 2017, p. 40.

[3] R. Esposito, Da fuori. Una filosofia per l’Europa, Einaudi, Torino 2016, p. 227.

[4] Ibid., p. 228.

[5] Ibid.

[6] G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia e altri testi (1962), tr. it. Einaudi, Torino 2002, p. 3: «Nel suo significato più ampio, il progetto di Nietzsche consiste nell’introduzione dei concetti di senso e di valore in filosofia».

[7] Ibid., p. 61.

[8] Cfr. Id., Differenza e ripetizione (1968), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 288: «La ragione del sensibile, la condizione di ciò che appare, non è lo spazio e il tempo, ma il Disuguale in sé, la disparatezza così come è compresa e determinata nella differenza di intensità, nell’intensità come differenza».

[9] R. Musil, L’uomo senza qualità (1930), tr. it. Einaudi, Torino 2014, p. 70.

[10] Cfr. G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi (1966), tr. it. Einaudi, Torino 2001.

[11] R. Braidotti, op. cit., p. 57.

[12] Ibid., p. 68.

[13] Ibid., p. 29.

[14] Cfr. Id., Trasposizioni. Sull’etica nomade, tr. it. Luca Sossella Editore, Roma 2008.

[15] Cfr. Id., Il postumano. La vita oltre l'individuo, oltre la specie, oltre la morte, tr. it. DeriveApprodi, Roma 2014.

[16] Cfr. Id., Per una politica affermativa, cit., p. 85.

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