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L’uomo è ciò che mangia. Dalla gastroteologia feuerbachiana alla nutrigenomica

Autore


Teresa Caporale

Università di Napoli Federico II

Dottore di Ricerca in Scienze Filosofiche e Cultrice della materia in Filosofia morale

Indice


  1. Feuerbach e Moleschott tra antropologia e fisiologia
  2. L’uomo è ciò che mangia. Difficoltà di interpretazione
  3. Necessità di un chiarimento: la gastroteologia
  4. La Nutrigenomica tra opportunità e rischi
  5. Conclusioni

 

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S&F_n. 28_2022

Abstract


Man is what he eats. From Feuerbachian gastrotheology to nutrigenomics

The first part of the contribution will aim to briefly reconstruct the socio-historical context in which the relationship between Feuerbach's anthropology and Moleschott's physiology was consolidated, in order to analyse the meaning behind the famous slogan 'man is what he eats'. In the second part, it will be shown how Feuerbach's idea that our food choices testify important characteristics of our modus essendi has found further scientific validation in today's Nutrigenomics, which since the 2000s has emerged as an independent field of research that has brought about major changes in food production, processing and consumption. The idea I intend to develop is that the Feuerbachian analysis of food can be useful in framing the conceptual cornerstones of nutrigenomics and in providing tools for framing and understanding this discipline.

 

  1. Feuerbach e Moleschott tra antropologia e fisiologia

Gli anni tra il 1848 e il 1875 costituiscono quella che Eric Hobsbawm circa un secolo dopo ha definito l’«era del borghese trionfante»[1], ossia un’età che vede la massiccia avanzata dell’economia capitalistica su scala mondiale e dell’ordine sociale da essa rappresentato. La fiducia nella ragione, nel progresso, nella scienza, nel liberalismo sembra essere il fattore trainante di quest’epoca in cui mutano radicalmente le basi materiali e culturali della vita umana. Progresso è la parola chiave che caratterizza tale arco di tempo: «massiccio, illuminato, sicuro di sé, soddisfatto di sé, ma soprattutto inevitabile. Nessuno degli uomini dotati di potere e di influenza, almeno nel mondo occidentale, sperava più di poterlo arrestare»[2].

In tale contesto, non solo l’uomo d’affari, ma anche lo scienziato rappresenta una figura sociale di notevole prestigio, nonché in rapida evoluzione, le cui teorie possono essere applicate alla vita concreta. Evitando incaute generalizzazioni, si può asserire che una fitta schiera della comunità scientifica del tempo considera di propria pertinenza anche i problemi economici e richiede pertanto una razionale organizzazione del lavoro scientifico: innanzitutto laboratori in cui poter armonizzare lavoro teorico e pratico, ma anche università, dove l’accesso al sapere sia aperto a tutti e non più riservato a una ristretta élite di intellettuali come avveniva nel chiuso delle accademie.

All’interno di questa atmosfera culturale – in cui la filosofia non vede certo diminuire la sua influenza, avendo cultura e scienza profonde radici filosofiche – il pensiero scientifico assiso in cattedra risulta fortemente messo alla prova dall’allora emergente pensiero materialistico, che volge le proprie armi teoriche e polemiche nei confronti di ogni oscurantismo culturale impregnato di dogmatismi e funzionale all’ordine religioso e politico costituito. L’azione svolta da tale pensiero materialistico «non è solo formulazione di antitesi filosofiche o programmazione di itinerari scientifici alternativi; essa è soprattutto milizia ideologica, battaglia di promozione e liberazione culturale»[3]. In altri termini, il materialismo tedesco della metà dell’Ottocento rappresenta sul piano culturale la continuazione della lotta politica fallita sul terreno della rivoluzione sociale.

Una delle figure più rappresentative di tale materialismo scientifico[4] ottocentesco fu senz’altro Jacob Moleschott, medico e fisiologo olandese, che proprio nel clima di entusiasmo libertario dell’anno 1848 pubblica nell’Archivio per la medicina fisiologica un articolo di denuncia del sistema universitario olandese. Più nello specifico si tratta di uno scritto in cui egli critica il modo in cui venivano assegnate le cattedre in quell’università dove non si conosceva l’istituto della libera docenza e «dove bisognava far valere l’influenza potente dei cugini, delle cugine e delle amicizie»[5]. Quando il testo comincia a circolare e a fare scalpore nell’ambiente universitario olandese, il suo autore ha già lasciato Utrecht, deluso dall’Olanda, alla volta di Heidelberg. Presso l’università di Heidelberg intraprenderà l’insegnamento di fisiologia sperimentale, attorniato da un valido gruppo di giovani ricercatori che contribuiranno a trasformare quell’università filosofica in un’università dedita alla ricerca scientifica. Tra i fattori che consentono di raggiungere un tale risultato c’è senz’altro «la grande libertà del singolo scienziato d’usare la sua posizione universitaria per perseguire i propri interessi di ricerca e la natura competitiva del sistema dell’università tedesca, basato sull’esistenza di una vivace domanda da parte delle università, di ricercatori che producono risultati»[6].

Accade così che quella che fino a quel momento si era presentata come una “comunità di potere” diventa, sotto gli occhi di Moleschott, una “comunità di sapere”, strutturata per aree di competenza e formata non più da una élite di professori di ruolo, bensì da un professore titolare di cattedra e da ricercatori abilitati attivi intorno a un laboratorio, diretto non necessariamente dal professore titolare della cattedra, ma anche da un ricercatore o un libero docente che si fosse particolarmente distinto per capacità, impegno e bravura. In questo contesto di lavoro e di ricerca, Moleschott matura il suo interesse e la sua ammirazione per il materialismo antropologico di Ludwig Feuerbach[7], con la sua riscoperta dell’uomo inteso – alla maniera protagorea – quale misura di tutte le cose. Questo stesso amore per l’uomo è alla base del materialismo di Moleschott dal quale si irradia un elemento di religiosità naturale che sembra ricalcare la religione umanitaria di Feuerbach[8].

Quest’ultimo gli avrebbe chiarito una volta per tutte il rapporto che sussiste tra l’uomo e la natura, inteso quale dipendenza del primo termine dal secondo. La natura è infatti il luogo della materia e della vita. Generato dalla natura, l’uomo si riproduce appropriandosi di essa, dei suoi prodotti, ma nello stesso tempo questi ultimi sono prodotti dalla mano dell’uomo: da ciò deriva - in un rapporto di continuo, reciproco scambio - che l’uomo ha bisogno della natura così come, viceversa, la natura ha bisogno dell’uomo. Proprio da questa affinità col naturalismo feuerbachiano, pieno di rimandi alla fisiologia dell’alimentazione, Moleschott deriverà il suo scritto del 1850, Trattato dell’alimentazione, per il popolo, il cui carattere peculiare sarà messo in luce proprio da Feuerbach, che ne scriverà una celebre recensione dal titolo La scienza naturale e la rivoluzione, pubblicata nel novembre dello stesso anno sul periodico Blätter für literarische Unterhaltung[9]. Feuerbach presenta il testo di Moleschott riuscendo a cogliere l’ispirazione profonda che lo animava, ma che a tanti era sfuggita e la rese nei seguenti termini:

questo scritto ci comunica con intendimento e linguaggio popolari o gentilmente umani, il che vuol dire lo stesso, i risultati della chimica moderna sopra gli alimenti, i loro componenti, le loro qualità, l’azione e le modificazioni del nostro corpo: esso ha dunque veramente soltanto scopo e tema gastronomico, eppure è uno scritto che agita in massimo grado mente e cuore, uno scritto importantissimo, anzi rivoluzionario tanto sotto rapporti filosofici che etici e persino politici[10].

 

Dunque, Feuerbach mettendo in luce l’importanza non solo scientifica, ma anche filosofico-culturale e in ultima istanza politica, del trattato di Moleschott, ne fa emergere il carattere materialistico e socialistico, facendo sì che la discussione sul libro ottenesse una eco maggiore del libro stesso.

L’intensità del rapporto tra i due è testimoniata dallo stesso Moleschott che citando la recensione di Feuerbach la commenta, confermando che il suo trattato era stato pensato proprio in senso “materialistico” (in quanto gli alimenti di cui parla ci forniscono la materia che in noi si muove e si scompone, che in noi pensa e sente e da cui siamo assolutamente dipendenti) e in senso “socialistico”, poiché al centro del discorso vi è l’idea che alla sostanza nutritiva che assumiamo corrisponde la forza che prestiamo nel nostro lavoro e in generale in ogni attività fisica e psichica[11]. Si tratta di un principio che è alla base di ogni regola socialistica della vita:

soltanto se prospera l’operaio, può prosperare il lavoro. E il padrone che dà scarso nutrimento ai suoi operai, perde più forza delle loro braccia di quanto gli costino i mezzi d’alimento, coi quali egli potrebbe innalzare il valore dell’opera loro nel medesimo tempo che la dignità della loro persona. […] a ognuno che attende a lavoro faticoso, spetta dieta nutriente[12].

 

Sono queste analisi di Moleschott a far sì che il suo trattato abbia una grande risonanza non solo in ambito medico e filosofico, ma anche in seno alla società[13]. In esso, infatti, vengono gettate le basi di quell’idea secondo la quale la scienza può non solo penetrare e modificare la natura, ma persino interpretare e trasformare l’assetto sociale e che proprio l’alimentazione rappresenti il superamento di quel dualismo tra corpo e anima presente nel cartesianesimo e radicato nel Cristianesimo.

Quest’ultima tesi era stata ben espressa da Feuerbach stesso nella sua recensione, quando dichiara esplicitamente che «il principium essendi è anche il principium cognoscendi. Ma il principio dell’esistenza è la nutrizione: la nutrizione è dunque il principio della sapienza; perché tu introduca qualcosa nel tuo cuore e nella tua testa, prima condizione è che tu metta qualcosa nel tuo stomaco»[14]. Da ciò il principio di Molechott che egli riprende e fa suo: «senza fosforo non v’ha pensiero»[15] e che gli ha suggerito quella mirabile sintesi tra l’essere e il mangiare espressa nella celebre frase L’uomo è ciò che mangia, la cui vasta eco negli anni successivi ha avuto l’effetto paradossale di metterne in ombra il significato autentico.

 

  1. L’uomo è ciò che mangia. Difficoltà di interpretazione

La difficoltà di cogliere il significato profondo del celebre aforisma feuerbachiano era stata già messa in luce dallo stesso Moleschott, il quale nel commentare la recensione di Feuerbach al suo trattato sull’alimentazione insiste proprio sul carattere facilmente equivocabile dell’espressione L’uomo è ciò che mangia.

Certo questa è una parola che poteva essere molto fraintesa, che anzi provoca forse il malinteso, come la denominazione di materialista, per la quale si scambiò spesso e volentieri il materialismo della vita col materialismo della scuola, sia per ignoranza, sia (e non precisamente di rado) per consapevole malignità. […] L’uomo è ciò che egli mangia. È tanto più facile fraintendere una simile parola che approfondire il suo significato; è tanto più dilettevole giuocare leggermente col suono di essa che riflettervi; tanto più seducente prender di mira l’idea della gozzoviglia che assuefarsi al pensiero di considerare la nostra dipendenza dalla natura come naturalmente necessaria; […] e non bisogna stupirsi se la moltitudine, dotta e indotta, si balocca con quella sentenza di Feuerbach, invece di penetrare nel significato che doveva avere per un simile pensatore, allorché si espresse così breve e conciso[16].

 

Eppure, Feuerbach stesso, sebbene non potesse meglio riassumere se non nello slogan in questione l’essenza profonda dello scritto moleschottiano, tuttavia si sentì in dovere – dodici anni dopo la pubblicazione della tanto discussa recensione – di chiarirne il senso in un ulteriore scritto dal titolo Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia. Fin dalla Premessa a questo saggio egli insiste sulla pregnanza di quella frase che aveva suscitato così tanta contrarietà nei suoi lettori definendola in questi termini:

è l’unica proposizione dei miei scritti, notoriamente da lungo tempo dimenticati, che ancor oggi risuona nelle orecchie di certa gente, ma soltanto come una dissonante violazione dell’onorabilità della filosofia e della cultura tedesca. Proprio questa discordanza mi ha però messo così di buon umore, che non ho potuto tralasciare di fare di questo famoso gioco di parole il tema di uno studio specifico[17].

 

Il timore manifestato da Feuerbach in quegli anni era di poter essere ricordato nella letteratura tedesca solo come l’autore di questa famosa, ma disonorevole frase. Da ciò la necessità da lui avvertita di trasformare questo gioco di parole in uno scritto serio e profondo.

Il contesto in cui egli matura questa convinzione è quello del decennio immediatamente successivo agli anni 1848-50 che lo avevano visto diventare ormai una sorta di pietra d’inciampo generazionale: per lo più disprezzato dagli anziani, dai conservatori, ma assai applaudito e ammirato dai giovani studenti del tempo. Sebbene di indole meditativa e solitaria, Feuerbach tra il 1845 e il 1848 fu preso da un interesse vivace, seppur momentaneo, per le questioni sociali che sfociarono nella Rivoluzione di marzo[18]. Egli venne travolto dagli eventi della grande depressione del 1847-1848 che ebbero quale immediata conseguenza il tracollo finanziario della fabbrica di porcellana di Bruckberg: ciò significò la progressiva perdita dell’intero patrimonio ereditato dalla moglie. In particolare, il ‘48 fu per lui un anno cruciale: quando scoppiò la rivoluzione, trasferitosi a Francoforte, si lasciò coinvolgere nella vita politica della città, accettando la candidatura per l’elezione al parlamento, prendendo parte al congresso dei democratici e partecipando in prima persona alle discussioni politiche. In quegli stessi anni venne richiamato a Heidelberg da una delegazione studentesca che lo invitò a tenere delle lezioni e, poiché l’università gli negò un’aula, egli tenne, in una sala del consiglio comunale, un corso durato un intero trimestre davanti a una platea mista di intellettuali, studenti e operai. Feuerbach, in quel contesto di crisi e fermenti politici, sentì il bisogno di ricercare un contatto con il popolo, del quale apprezzava in particolare la sete di conoscenza.

Le sue lezioni finiscono così per esercitare una profonda influenza sui letterati, artisti e scienziati di quel periodo, tra cui Gottfried Keller e Jakob Moleschott. In particolare, gli anni successivi alla rivoluzione, segnati dalla repressione, furono caratterizzati da uno stretto rapporto con gli scienziati naturalisti e materialisti dell’epoca[19], grazie alla profonda amicizia che egli stabilì proprio con Moleschott. Basti pensare che quest’ultimo, nel suo corso di fisiologia di Heidelberg, inserirà a pieno titolo l’insegnamento dell’Antropologia e avrà come sua guida teorica proprio il pensiero di Feuerbach, che così sintetizza

la verità – così scriveva Feuerbach nell’anno 1846 – la verità non è né il materialismo, né l’idealismo, non la fisiologia, non la psicologia; la verità è soltanto l’Antropologia, la verità è solo il punto di vista della facoltà sensitiva, del modo di vedere, perché unicamente questo punto di vista mi dà la totalità e individualità. Né l’anima pensa e sente perché l’anima è solo la funzione o l’apparizione del pensiero, del sentimento e della volontà, personificata e mutata in un essere; né il cervello pensa e sente, perché il cervello è un’astrazione fisiologica, un organo strappato dal cranio, dal viso, dal corpo, fissato in se stesso. Ma il cervello resta organo del pensiero soltanto finché è congiunto alla testa umana e al corpo[20].

 

 

  1. Necessità di un chiarimento: la gastroteologia

Tra gli elementi che in quegli anni accomunavano l’antropologia di Feuerbach alla fisiologia di Moleschott[21] vi era senz’altro l’interesse mostrato da entrambi per la condizione delle classi lavoratrici europee, dei contadini e degli operai malnutriti da diete povere di proteine. In particolare, la crisi di sussistenza generò un po’ ovunque in Europa tutta una serie di disordini popolari che resero la situazione così insostenibile per i governanti da mettere completamente in forse l’ordine assolutista sancito dal Congresso di Vienna.

Riflettendo sugli eventi del ’48, Feuerbach, insiste sulla necessità di risolvere gli urgenti problemi dell’epoca individuandone la causa proprio nelle condizioni materiali del popolo. Egli è convinto che esista un legame assai stretto tra la scorretta alimentazione e la crisi imperante, che ha portato al fallimento dei moti rivoluzionari dell’epoca.

L’idea di fondo che Feuerbach sosterrà in quegli anni è che per risolvere la crisi culturale, politica e sociale dilagante occorreva riconoscerne la vera causa nella fame e nella denutrizione e agire nel senso di un miglioramento delle condizioni alimentari dell’intera popolazione. Egli arriverà a sostenere che se si vogliono porre le basi per una vera rivoluzione occorre partire da una riforma del nostro stile alimentare: «se volete migliorare il popolo, dategli, invece di declamazioni contro il peccato, cibi migliori».[22] Solo il cibo, infatti, è in grado a suo giudizio di infondere quell’attivismo, quell’energia vitale che invece la teologia ostacola, inculcando l’idea dell’uomo come ente incorporeo, separato dalla natura, indipendente, pago nel suo distacco dal mondo e dagli altri uomini.

Bisogna invece ripensare l’uomo a partire dal suo essere corpo, sensibilità, natura e non mero pensiero, come voleva far credere l’idealismo hegeliano. I bisogni del corpo, la loro soddisfazione misurata – e non i desideri della mente che proiettano l’uomo oltre la dimensione umana, finita, naturale e la cui realizzazione è in potere di un Dio altrettanto sovraumano - sono il baricentro della filosofia di Feuerbach, nell’ambito della quale anche le metafore alimentari acquisiscono un valore e un significato tutt’altro che accessorio. Così l’aforisma secondo il quale “l’uomo è ciò che mangia”, non appena si abbandona la superficialità della battuta a effetto, mostra subito la sua complessità simbolica.

Innanzitutto, tale frase rimanda a quello che è sempre stato il chiodo fisso, l’oggetto principale degli scritti feuerbachiani, ossia – come dichiara lui stesso – il suo ostinato ritornare sulla «soluzione dell’enigma della religione[23]». Non a caso proprio la trasformazione dell’oggetto della teologia in quello dell’antropologia apre le porte a una nuova disciplina che Feuerbach chiama gastoteologia. Infatti, come nel fenomeno religioso, in particolare nel simbolo del dio-uomo cristiano, si può cogliere il duplice movimento della proiezione e del rispecchiamento dell’essere umano che si è alienato nell’oggetto-Dio e che in lui si riconosce, così il medesimo meccanismo di riconoscimento in ciò che ci sta di fronte avviene in quell’attività di assimilazione dell’altro che è il mangiare[24].

L’atto gastronomico si rivela così come lo «spazio metaforico in grado di esemplificare il funzionamento del dispositivo antropologico di proiezione, rovesciando la teologia, che aliena il bisogno in immagine, in, appunto, gastroteologia, che riconduce l’immagine alla concretezza del bisogno»[25]. L’oggetto del bisogno, che è corpo fuori di noi, diviene dunque il corpo che siamo, cosicché il senso ultimo della metafora gustosa feuerbachiana risulta essere proprio l’assimilazione, nel suo significato del rendere simile a sé l’altro da sé.

A tal proposito Feuerbach fa notare che l’uomo nel mangiare non assimila solo ciò che è altro da sé, bensì anche se stesso: l’uomo si ciba anche di sé, della sua propria carne, o meglio di ciò che diventa, attraverso la digestione, carne e sangue umano. Egli fa l’esempio dell’assunzione da parte del bambino del latte materno, che non è altro che

sangue umano in forma mediata, a sé stante, quindi un fluido, ma un fluido identico all’essenza della madre e alla nostra propria essenza, infatti noi stessi siamo appunto in questo periodo ancora, per così dire, essenze fluide, liquide, non solide, salde, ossute. […] Il bimbo consuma la sua propria madre succhiando al suo petto: egli nel latte assume in sé il sangue, l’essenza della madre […] egli è ciò che mangia e mangia ciò che è, è quindi antropofago. Tuttavia questa antropofagia, questa unione tra bimbo e madre, fra soggetto e oggetto, fra godimento e oggetto del godimento non viene eliminata quando l’uomo passa dal consumo del latte materno al cibo vegetale e animale, piuttosto essa corrisponde ora all’organismo mutato e sviluppato, è un’assunzione critica, capace di distinguere solido e fluido, cibo e bevanda, prima uniti nel latte, un’assunzione mediata e complicata dal lavoro delle mani e dei denti[26].

 

Dunque, per Feuerbach la vita è continuo ricambio di materia tra noi e la realtà esterna, è un continuo consumare che, se ostacolato, comporta la progressiva estinzione della vita stessa. Pertanto, anziché affidarsi ai precetti e ai miracoli della dogmatica cristiana, per i quali l’essenza dell’uomo è indipendente dal mangiare e bere, occorre volgere uno sguardo ai risultati delle scienze naturali che hanno posto in primo piano il corpo e i suoi bisogni nel loro legame indissolubile con il mondo esterno. A tal proposito Feuerbach si domanda

come può accordarsi però questa visione dell’uomo con la concezione cristiana dell’uomo e del mondo? Infatti qual è il nocciolo essenziale della dottrina cristiana o, almeno, dogmatico-cristiana? È “che noi potremmo esistere soltanto con Dio, anche se non esistessero né spazio, né materia, giacché la nostra essenza non include in sé il concetto dell’esistenza delle cose esterne”, che l’uomo è immagine di Dio, ossia dell’ente che sussiste soltanto in sé e da sé, cioè soltanto nel pensiero e attraverso il pensiero, e non ha bisogno per esistere né del mondo, né della natura, né della materia, che quindi l’uomo esiste anche quando il suo corpo e il mondo in generale si dissolvono. E, nondimeno, i nostri governi, pur essendo “buoni cristiani” tollerano nello stato cristiano le scienze naturali, in particolare la scienza più radicale, corrosiva e distruttiva di tutte, la chimica, che da tempo ha dissolto nella sua acquaforte i misteri della concezione cristiana del mondo? Che mostruosa contraddizione![27]

 

Il corpo e non più lo spirito è al centro dell’antropologia feuerbachiana ed esso va inteso quale elemento costitutivo della propria e dell’altrui soggettività: «il nostro io “non è attraverso se stesso”, in quanto tale, ma attraverso se stesso in quanto essere corporeo […] “aperto al mondo”. […] Essere nel corpo significa essere nel mondo. Quanti sono i sensi, tanti sono i pori, tante le parti aperte al mondo; […] In esso [nel corpo] sono presenti nello stesso tempo soggetto e oggetto, io e mondo»[28].

Dunque, uno dei maggiori lasciti della riflessione feuerbachiana al nostro tempo è proprio l’invito a una maggiore attenzione rivolta al corpo, ai suoi bisogni, al suo essere non solo la sede delle passioni e delle volizioni, ma anche il terreno di maturazione dei vizi e delle virtù che ci contraddistinguono.

I vizi, così come le virtù, sostiene Feuerbach, si fondano sul corpo: la morale ha un fondamento materialistico. Pertanto, a suo giudizio, basta possedere una piena autocoscienza corporea per individuare i giusti rimedi alle nostre inclinazioni più violente, che, se non represse, finiscono per condurci ad azioni delittuose[29].

Da ciò egli deduce che l’alimentazione sta a fondamento della sapienza e della virtù umana: ciò che l’uomo fa è il risultato del cibo da lui ingerito, per cui una cattiva alimentazione non è in grado di infondere nel popolo l’energia necessaria ad attuare una vera rivoluzione.

Feuerbach dopo aver criticato la dieta a base di patate che ha condannato il popolo tedesco a soccombere, arriva a individuare una sostanza alimentare garante di un futuro migliore, punto di partenza per un graduale e solido atto di rinnovamento: «è la legumina. Essa è caratterizzata dalla sua ricchezza di fosforo e il cervello, come già sappiamo non può sussistere senza grassi contenenti fosforo. Inoltre, essa è un corpo albuminoide e tale da superare nettamente non soltanto il contenuto glutinoso del pane, ma anche la fibrina contenuta nella carne».[30]

Emerge in questo modo la valenza pratica dell’affermazione feuerbachiana L’uomo è ciò che mangia, che significa anche appello a un cambiamento effettivo che può essere realizzato in questa vita, anziché posposto in una dimensione ultraterrena.

 

  1. La Nutrigenomica tra opportunità e rischi

L’intuizione feuerbachiana, secondo la quale il modo di alimentarsi svolge un ruolo di prim’ordine sullo stato di salute di ciascun individuo e costituisce la prima condizione per il suo sviluppo psicofisico, faceva già parte della medicina medievale. Quest’ultima, sulla base dello schema ereditato da Ippocrate, poneva non a caso la dietetica tra le sue branche, insieme alla farmacologia e alla chirurgia, rispettivamente l’arte di ripristinare la salute con i composti e l’arte di ripristinarla con l’opera delle mani. Eppure, si tratta di un’intuizione che ha trovato conferme empiriche solo nel secolo scorso, grazie allo studio sistematico delle funzioni del DNA e all’avvento della biologia molecolare[31].

I progressi nell’analisi della struttura del DNA e nel sequenziamento del genoma umano hanno portato nel corso del tempo a un’analisi più approfondita delle interazioni tra specifici geni e nutrienti. È nato così un nuovo campo di ricerca che si è imposto a partire dagli anni 1999-2000 e che prende il nome di Nutrigenomica[32]. Quest’ultima rappresenta, in qualche modo, la validazione scientifica dell’intuizione di Feuerbach, secondo la quale le nostre scelte alimentari attestano importanti caratteristiche del nostro modus essendi. Regimi alimentari specifici sono, infatti, in grado di interferire nel funzionamento dell’organismo a livello molecolare, condizionando il suo modo di stare al mondo.

Stando ai risultati della nutrigenomica è possibile, in seguito a un intervento nutrizionale mirato, produrre dei cambiamenti nell’espressione genica di un individuo e dunque migliorare le sue condizioni di salute, se non addirittura prevenire malattie quali il diabete, l’obesità, le patologie cardiovascolari e il cancro. Questa presa di consapevolezza avvicina sempre più il mondo della salute al mondo dei consumi. Diventa infatti plausibile l’elaborazione di diete personalizzate specifiche per il corredo genetico dei singoli soggetti e la diffusione su larga scala dei cosiddetti alimenti funzionali, i functional foods, che riflettono l’attuale attenzione degli individui nei confronti del proprio corpo e della propria salute, quella stessa attenzione alla quale si richiamava Feuerbach e che oggi si traduce in una sempre maggiore ricerca del benessere fisico. Il cibo diventa così veicolo per il benessere, scelta individuale del soggetto nella ricerca dello star bene, laddove star bene vuol dire fare ciò che fa del bene al nostro corpo e che previene l’insorgere del malessere, della malattia.

In questo senso sono considerati functional foods «non solo gli alimenti che incidono naturalmente sulla salute del soggetto, ma anche quei cibi che modificati, o creati, in laboratorio vengono arricchiti di sostanze che aiutano a prevenire e combattere le malattie»[33]. L’emergere e la diffusione di tali alimenti, dimostra come la nutrigenomica abbia determinato grandi cambiamenti nella produzione, trasformazione e consumo di cibo, all’interno di una società in cui i functional foods

sono il sostegno, l’aiuto, affinché ogni azione individuale, il vivere del soggetto nella quotidianità migliori in modo continuo, così da farlo sentire a posto con se stesso, nel tentativo di cancellare il più rapidamente possibile i problemi, le disfunzioni, le anomalie percepite in vista del miglior livello di benessere possibile[34].

L’avverarsi del destino inscritto nei nostri geni può essere così rallentato o anticipato dal nostro stile alimentare, dal momento che i nutrienti – come attestato dai risultati della nutrigenomica – possono avere un effetto diretto e indiretto sull’espressione genica di ciascun individuo. Un esempio su tutti è quello relativo alla dieta mediterranea[35] che «apporta un vantaggio alla nostra salute condizionando la risposta trascrittomica dei geni che influenzano il rischio cardiovascolare. È in grado di agire positivamente sui processi infiammatori e prevenire l’insorgenza dell’obesità e del diabete»[36].

Tuttavia, sebbene esistano dei prodotti naturali dalle proprietà benefiche e curative, i progressi in materia di functional foods hanno contribuito alla diffusione su larga scala di prodotti artificiali, creati in laboratorio[37], che forniscono direttamente all’organismo le molecole di cui avrebbe bisogno per svolgere una sua data funzione: «non più cibo semplice e naturale, ma un cibo iperreale, svuotato del suo tradizionale valore, e apprezzato per i componenti additivi che arricchiscono l’alimento e che danno benefici al corpo»[38]. Da ciò deriva che la principale motivazione che spingerebbe al consumo di tali alimenti è esclusivamente la ricerca del benessere fisico e che un soggetto sempre più interessato alla tutela del proprio stato di salute possa essere facilmente esposto al rischio di voler migliorare ulteriormente e costantemente le sue prestazioni, le sue capacità, in un’ottica di competizione continua con gli altri e con se stesso.

Nello stesso tempo la nutrigenomica solleva una serie di questioni etiche relative alle diete e agli interventi nutrizionali personalizzati che rimandano in primo luogo ai costi potenzialmente elevati dei nuovi alimenti funzionali e in secondo luogo alla natura e all’attendibilità dei test genici, nonché alla loro rapida e capillare commercializzazione. Quanto alla prima questione rendere gli alimenti sani facilmente disponibili, oltre che accessibili a tutti, rimane una sfida per la nutrigenomica, mentre determinare per chi e in che misura un test genetico sia considerato clinicamente utile è una questione ancora controversa e i criteri di divulgazione dei risultati dei test, come pure la loro riservatezza, sono motivo di preoccupazione e di attenta considerazione da parte della comunità scientifica[39]. Il principio di precauzione potrebbe essere un mezzo efficace per gestire situazioni del genere, in cui abbiamo una conoscenza ancora limitata delle conseguenze che possono derivare dalle azioni intraprese in materia di nutrizione. Sulla base di tale principio si dovrebbe prestare attenzione a evitare azioni delle quali non è possibile prevedere i rischi e limitarsi a fornire delle diete personalizzate solo quando vi sono evidenti prove scientifiche dei loro vantaggi sulla salute e un’attenta valutazione degli effetti comportamentali e psicologici imprevisti.

Dovremmo, dunque, tornare a fare nostra quell’acuta osservazione feuerbachiana sulla salute intesa come bene supremo, il presupposto di ogni altro bene[40] e tornare a riflettere sul concetto stesso di benessere, intendendolo in un senso più ampio, ossia come qualcosa che riguarda la nostra identità sociale e culturale, che è una conseguenza anche delle nostre scelte e dei nostri comportamenti alimentari. Accade così che «al benessere del corpo nutrito si aggiungono il movente sociale dello stare insieme, la curiosità conoscitiva e affettiva della comunicazione, il piacere della conversazione, […] ma anche tutti i motivi culturali connessi al gusto»[41], cosicché quell’atto, apparentemente solo fisiologico, del nutrirsi si mostra connesso a una dimensione storica e culturale, fatta di codici, abitudini, gesti, ritualità, prescrizioni e divieti.

Questa prospettiva fa emergere immediatamente la posizione opposta nella quale si trovano i functional foods, cibi salutisti che incrementano il benessere del corpo, ma che rischiano di allontanare il soggetto dal concetto di salute intesa feuerbachianamente, per abbracciarne uno nuovo fortemente legato alla dimensione estetica. Il cibo diventa sempre più – stando alla definizione di Debora Viviani – un «cibo immaginato»[42], ossia che si trova nel luogo dell’immaginario, che non è per questo un non-luogo sganciato dalla realtà, ma semplicemente frutto del processo creativo del soggetto e dunque di un contesto specifico con proprie regole e relazioni, l’immaginario appunto. L’immagine diventa il meccanismo che attiva il consumo del cibo, che viene prima di tutto gustato sul piano visivo e diventa capace di sedurre il soggetto, mostrandosi spesso per ciò che non è. Nello stesso tempo il corpo che lo assume diventa anch’esso un corpo immaginato, ossia che ha perso la sua peculiarità - che gli è data anche dalle sue imperfezioni e dall’essere esposto alle malattie - e che insegue la performance migliore. Esso risponde ai canoni dettati da questa spettacolarizzazione degli alimenti, la cui composizione può essere alterata con l’aggiunta di sostanze che ne modificano la struttura, trasformando il cibo stesso in una realtà ad hoc.

Eppure, al di là dei limiti di tale spettacolarizzazione del cibo, il bene consumato assume in questo modo un valore comunque fortemente legato al suo aspetto materiale, quello sul quale Feuerbach ha insistito maggiormente – fino alle pagine lucidissime uscite postume di Etica e felicità – sostenendo che l’uomo quando mangia attiva tutti i sensi, compresa la vista e persino l’udito[43], oltre al fatto che il cibo tiene uniti anima e corpo, stomaco e cervello e sta a fondamento della vita stessa e della morale. Quest’ultima ha dunque la sua sede nel corpo, nel sensibile. Non a caso, nella sua celebre recensione al testo di Moleschott, Feuerbach scriveva che «la dieta è fondamento di saggezza e virtù, di una virtù virile, muscolosa, dai nervi saldi. Senza saggezza e virtù nessuna rivoluzione può prosperare»[44]. Sarebbe pertanto auspicabile che gli studi in materia di nutrigenomica tenessero conto di questa lungimirante lezione feuerbachiana.

 

  1. Conclusioni

Da quanto detto finora emerge che stabilire l’efficacia degli interventi legati alla nutrizione rimane una sfida per la salute pubblica. Bisogna infatti considerare gli impatti etici di tali interventi, nonché valutare quanto la nutrigenomica enfatizzi l’importanza del cibo in termini di salute e di cura – e dunque come mezzo di prevenzione delle malattie – trascurando gli aspetti sociali, conviviali, culturali, legati alla sua fruizione e al piacere da esso procurato[45].

Si tratta di aspetti che rispondono tutti a un concetto più ampio di salute intesa come lo stato di completo benessere psicofisico e sociale e non solo come assenza di malattia. Il cibo in questo senso è elemento che nutre, ma anche che racconta un territorio, elemento di socialità, espressione di uno stile di vita sempre più orientato alla ricerca del piacere. Da sempre esso è un modo per nutrire, come insegna Feuerbach, oltre il corpo anche lo spirito.

Invece, nel caso dei functional foods molti di questi aspetti passano in secondo piano, poiché viene a cadere la contestualizzazione storico-sociale degli alimenti e ciò che conta diventa la loro funzionalità, ossia le sostanze aggiunte a quell’alimento in vista di un dato obiettivo, che generalmente è quello di ottimizzare il corpo.

Dunque, il consumo di tali cibi funzionali colloca il soggetto in una sfera soprattutto individuale, facendo venire meno la dimensione comunitaria e conviviale che è propria dell’atto del cibarsi. Se Feuerbach sosteneva che «mangiare e bere – secondo un detto tedesco tanto triviale quanto vero – tengono assieme anima e corpo, ma non solo anima e corpo, anche Dio e uomo, tu e io»[46], oggi si può costatare che mangiamo sempre più da soli, condividendo al massimo virtualmente ciò che mangiamo, il che implica che la convivialità risulta sempre più sottratta alla consumazione degli alimenti. Di ciò sono in qualche modo responsabili anche i progressi in materia di nutrigenomica che mettono a disposizione del soggetto una serie di informazioni relative all’interazione gene-dieta-salute, che lo chiamano a una responsabilità individuale. Egli, infatti, si trova a dover scegliere in prima persona il tipo di alimentazione giusta e dunque a dover svolgere un ruolo fondamentale nella prevenzione delle malattie. L’individuo diventa così il primo, vero responsabile della propria salute e allo stesso tempo il cibo viene sempre più medicalizzato, assumendo il ruolo di strumento per ritardare la comparsa di possibili malattie.

Ma si può veramente calcolare un certo rischio di contrarre una data patologia attraverso un mirato stile di vita alimentare? Gli interventi in questo senso sono ancora oggi soggetti a incertezze[47] ed è facile che la nutrigenomica finisca con l’essere utilizzata quale strumento di commercializzazione e di marketing con indicazioni sulla salute non sempre giustificate[48]. Non va trascurato che le incertezze non riguardano solo il rapporto tra cibo e geni, ma anche i confini tra cibo e farmaci e tra salute e malattia, che andrebbero in qualche modo riscritti.

La nutrigenomica, in particolare, dovrebbe ampliare la sua concezione di cibo sano verso quella di cibo buono, di un’alimentazione piacevole che abbia sì come condizione il miglioramento della salute, ma che nello stesso tempo non perda di vista lo stretto rapporto che intercorre tra cibo, salute, gusto e istinto di felicità, che – come insegna Feuerbach – fa tutt’uno col vivere e col mangiare[49].

Una maggiore interazione tra scienza, etica e stili alimentari potrebbe senz’altro garantire risultati fruttuosi in questo senso, tanto più se si tiene conto del fatto che la dimensione etica e più in generale quella degli stili alimentari non possiede sempre quel rigore e quel carattere di oggettività – e dunque universalità e necessità – che è proprio della scienza e dei risultati cui essa ambisce. A tal proposito le analisi di Feuerbach esposte in Etica e felicità risultano illuminanti: egli sostiene che non esiste un criterio oggettivo, essendo quello di felicità un concetto relativo, soggettivo, legato al contesto specifico in cui ciascuno si trova a vivere.

Pertanto, al di là della sfera comune dei valori di autoconservazione in cui ciascun uomo si riconosce, a prescindere dal suo modo di essere e di affrontare la vita, esistono dei criteri soggettivi per conseguire una propria personale felicità, che ogni uomo può trovare dentro di sé, ossia nella propria costituzione naturale:

a seconda di come uno è conformato per natura, allo stesso modo è fatta e definita la sua felicità. […] L’essenza dell’uomo funge ancora una volta da termine di riferimento. La felicità dell’ansioso, esemplifica Feuerbach, non può manifestarsi che come continua ansia per la possibile sventura, quella dell’invidioso nell’avidità del bene altrui che gli allevia il dolore della privazione, e così via. Ma se esiste una felicità dei rospi e dei serpenti è appunto una felicità da rospi o da serpenti. C’è persino - scrive ironicamente Feuerbach in un aforisma – una felicità da professori universitari che aspirano a una cattedra[50].

Dunque, Feuerbach insiste sul carattere poliedrico dell’istinto di felicità che «varia a seconda del paese, del popolo, del tipo d’uomo»[51] e che dipende strettamente da come ciascuno è conformato per natura, facendo emergere che quella stessa poliedricità si manifesta nell’atto del nutrirsi: «com’è il cibo, così è l’essenza, com’è l’essenza così è il cibo. Ciascuno mangia appunto ciò che è conforme alla sua individualità o natura, alla sua età, al suo genere, al suo ceto o professione, al suo grado»[52].

In questo senso potrebbe essere utile, anche per la ricerca in materia di nutrigenomica, un ritorno all’etica feuerbachiana che pone al centro del discorso la conoscenza di sé, del proprio corpo e dei suoi bisogni, senza trascurare l’importanza del legame con gli altri e la necessità di emanciparsi dalle illusioni, contenendo i propri desideri pretenziosi.


[1] E.J. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia 1848-1875 (1977), Laterza, Roma-Bari 2021, p. 5.

[2] Ibid., p. 7.

[3] G. Cosmacini, Il medico materialista. Vita e pensiero di Jakob Moleschott, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 93.

[4] La dizione “materialismo scientifico” con riferimento al pensiero di autori come Moleschott è adottata da Arrigo Pacchi in Materialisti dell’Ottocento, Il Mulino, Bologna 1978.

[5] G. Cosmacini, op. cit., p. 17.

[6] Ibid., p. 22.

[7] «L’antropologia è la bandiera che Feuerbach ci schiera dinanzi. Questa bandiera riuscirà vincitrice, purché seguitiamo ad analizzare la materia e i suoi movimenti. Io non mi stancherò di ripeterlo: il perno su cui si aggira lo scibile moderno è lo studio delle metamorfosi della materia» (ibid., p. 46).

[8] A proposito del rapporto tra l’umanesimo di Moleschott e il materialismo antropologico di Feuerbach, Frederick Gregory sostiene che «sarebbe difficile ignorare la grande affinità esistente tra la religione umanitaria che Moleschott creò dal suo materialismo scientifico e quella che Feuerbach fece nascere dal suo materialismo filosofico» (F. Gregory, Scientific Materialism in Nineteenth Century Germany, Reidel Publishing Company, Dordrecht-Boston 1977, p. 210). Come Feuerbach prima di lui, Moleschott vuole sostituire alla falsa religione, fondata sulla trascendenza divina, la religione vera, fondata su una «trascendenza della specie al di là dell’individuo» (ibid.). Eppure, come sottolinea ancora Gregory «l’umanesimo moleschottiano resta distante dall’antropologia di Feuerbach laddove ignora la contraddizione tra richiamo alla responsabilità etica e visione deterministica del mondo» (ibid., p. 217).

[9] La recensione Die Naturwissenschaft und die Revolution di Feuerbach fu pubblicata in «Blätter für literarische Unterhaltung», 269, 1850. Tra le edizioni italiane del testo La scienza naturale e la rivoluzione si rimanda alle più recenti: L. Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia (1862), a cura di F. Tomasoni, Morcelliana, Brescia 2015, pp. 25-52 e in L. Feruerbach, L’uomo è ciò che mangia (1862), a cura di A. Tagliapietra, Bollati Boringhieri, Torino 2020, pp. 42-72.

[10] L. Feuerbach, Die Naturwissenschaft und die Revolution, cit., p. 1074.

[11] «Nessun esercito affamato ne ha mai vinto uno parimenti forte ma ben nutrito che gli stesse di fronte in circostanze analoghe. Ma quando si viene alla chiusa generale e al pensiero generale, […] che dal nulla si ha nulla, che le materie nutrienti sono la fonte per il nostro lavoro muscolare e per la nostra attività psichica, se si concentra questo concetto nel breve detto – tutto si realizza soltanto colla materia – oppure in quello più efficace – “senza fosforo non v’ha pensiero” – allora tutti i pensatori a rimorchio, tutti i poeti, pur annuenti che un bicchier di vino attizza il loro entusiasmo, tutti gli oratori, che pur sentono più pronta la loro attività cerebrale quando un sorso di caffè ha eccitato i movimenti molecolari delle loro cellule corticali…si levano ribelli insieme a coloro che giuocano a nascondino colla propria intelligenza, o a quelli soprattutto i quali tacciono credendo di pensare» (J. Moleschott, Dell’alimentazione. Il «Trattato popolare» di Jacob Moleschott tra Feuerbach e il nostro tempo, Volumnia editrice, Perugia 2016, pp. 28-29).

[12] G. Cosmacini, op. cit., p. 27.

[13] «In modo originale, Jacopo Moleschott al posto della prefazione inserisce una lettera indirizzata al padre con la quale spiega la filosofia del trattato dedicato al popolo che definisce un’idea plastica dell’insieme. E si scusa di non poter descrivere in modo approfondito gli esperimenti da cui trae le sue convinzioni né citare gli Autori a cui si deve il progresso scientifico: “Per il popolo, il merito dell’individuo scompare, e la più gloriosa ricompensa pel dotto si è di vedere le sue scoperte diventare le cosa e la proprietà di tutti”» (G. Fatati, Dell’alimentazione: commento di un clinico della nutrizione, in J. Moleschott, op. cit., p. 94).

[14] Ibid., p. 30.

[15] Ibid., p. 31.

[16] L. Giacchè, La recensione di Ludwig Feuerbach al Trattato dell’alimentazione per il popolo, in J. Moleschott, op. cit., p. 29.

[17] L. Feuerbach, Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia, in J. Moleschott, op. cit., p. 35.

[18] Per un approfondimento dell’impegno politico di Feuerbach e delle implicazioni politiche insite nella sua opera cfr. A. Schmidt, Für eine neue Lektüre Feuerbachs, in L. Feuerbach, Anthropologischer Materialismu, Europäische Verlagsanstalt, Frankfurt a.M. 1967, vol. I, pp. 5-64; W. Schuffenhauer, Feuerbach im Revolutionsjahr, in Philosophie – Wissenschaft – Politik, Akademie Velag, Berlin 1982, pp. 189-205; Id., Vorbemerkung, in L. Feuerbach, Gesammelte Werke, hrsg. W. Schuffenhauer, vol. 19, Akademie Verlag, Berlin 1993, pp. X-XXVII; F. Tomasoni, L. Feuerbach: il borghese e il popolo, «Rivista di storia della filosofia» XLIII, 2 (1988), pp. 349-359; U. Kern, “Individuum sein heißt …Kommunist sein”. Zum kommunistischen Wesen des Menschen bei Ludwig Feuerbach, in L. Feuerbach (1804-1872). Identitität und Pluralismus in der globalen Gesellschaft, hrsg. U. Reitemeyer et alii, Waxmann, Münster 2006, pp. 85-103; K. Schneider (Hrsg.), Der politische Feuerbach, Waxmann, Münster 2013; Id., “Wege in das gelobte Land”. Politische Bildung und Erziehung in Vormärz, Regeneration und Deutscher Revolution 1848/1849, Klinkhardt, Bad Heilbrunn 2016, pp. 175-190.

[19] Relativamente all’interesse per le scienze naturali manifestato da Feuerbach dopo il 1848 cfr. W. Lefèvre, Wissenschaft und Philosophie bei Feuerbach, in Sinnlichkeit und Rationalität. Der Umbruch in der Philosophie des 19. Jahrhunderts: Ludwig Feuerbach, hrsg. W. Jaeschke, Akademie Verlag, Berlin 1992, pp. 81-100.

[20] J. Moleschott, Per gli amici miei. Ricordi autobiografici, Sandron editore, Palermo-Milano 1902, p. 201.

[21] Per un approfondimento dei rapporti tra il materialismo psicofisiologico di Moleschott e il materialismo antropologico di Feuerbach, cfr. G. Cosmacini, op. cit., p. 73-75.

[22] L. Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia, a cura di F. Tomasoni, op. cit., p. 50.

[23] Id., L’uomo è ciò che mangia, a cura di A. Tagliapietra, cit., p. 3.

[24] Non a caso Feuerbach sosteneva già nell’Essenza del Cristianesimo che l’atto di «mangiare e bere sono […] effettivamente in sé e per sé atti religiosi»; (L. Feuerbach, L’Essenza del Cristianesimo (1841), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2003, p. 287).

[25] A. Tagliapietra, La metafora gustosa. Feuerbach e la gastroteologia, in L. Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia, a cura di A. Tagliapietra, cit., p. XXXVII. Tagliapietra nella sua Prefazione al testo di Feuerbach, insiste proprio su come «la gastrologia o gastroteologia ha lo scopo di ricondurre alla dimensione diretta della vita, del piacere e del bisogno, e alla singolarità di ciascun uomo concreto, il percorso di disalienazione teologica dell’antropologia» (ibid., p. XLIII).

[26] L. Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia, a cura di F. Tomasoni, cit., pp. 83-84.

[27] Ibid., pp. 37-38.

[28] A. Schmidt, Il materialismo antropologico di Ludwig Feuerbach, tr. it. De Donato, Bari 1975, p. 130.

[29] A proposito del nesso tra corporeità e moralità si rimanda a L. Feuerbach, Spiritualismo e materialismo (1866), tr. it. Laterza, Bari 1972, pp. 112-114.

[30] Ibid., p. 51.

[31] Cfr. M.D. Grmek (a cura di), Storia del pensiero medico occidentale, vol. III, Laterza, Roma-Bari 1998.

[32] Il termine è stato introdotto nel 1999 da Dean Della Penna. Per un approfondimento del tema si rimanda a R. De Caterina, J. A. Martinez, M. Kohlmeier, Principles of nutrigenetics and nutrigenomics. Fundamentals for individualized nutrition, Academic Press, Cambridge 2019.

[33] V. Grassi, D.Viviani, Il cibo immaginato tra produzione e consumo, Prospettive socio-antropologiche a confronto, Franco Angeli, Milano 2016, p. 119.

[34] Ibid.

[35] Cfr. V. Teti, Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea, Meltemi, Roma 2019, pp. 64-86.

[36] G. Fatati, L’uomo è ciò che mangia: dall’empirismo alla nutrigenomica, in J. Moleschott, op. cit., pp. 137-138.

[37] «Si pensi ad esempio che Activia, che tutti considerano uno yogurt (e che si presenta come tale), non è uno yogurt, ma la composizione di questo prodotto fa sì che questo sia un latte fermentato e non uno yogurt, ma gli slogan pubblicitari di questi anni relativi a questo prodotto hanno fatto in modo che Activia sia stato associato a uno yogurt, anche se in realtà non lo è. In questo caso, il consumatore ritiene di consumare un prodotto che ha sempre consumato (yogurt, appunto), ma in verità ciò che mangia non solo non lo è, ma è creato in laboratorio con ingredienti che sono inseriti con una finalità ben precisa. È chiaro, quindi, che il cibo è potenziato, alterato nella sua struttura per essere migliorato per agire sul benessere del corpo» (V. Grassi, D. Viviani, op. cit., pp. 123-124).

[38] Ibid., p. 124.

[39] «Per rispondere a queste preoccupazioni etiche, la NuGo (European Nutrigenomics Organisation: Linking Genomics, Nutrition and Healt Research), una rete di eccellenza europea finanziata a titolo del Sesto programma quadro per la ricerca (6 PQ) dell’Unione Europea, ha elaborato una relazione che riporta 19 linee guida in materia di bioetica. Gli orientamenti in questione riguardano aspetti quali il consenso informato, le informazioni relative al genotipo (tra cui i criteri di divulgazione dei risultati del genotipo ai partecipanti), le biobanche, nonché l’utilizzo e lo scambio di campioni di dati. Sono inoltre accompagnati da riferimenti a documenti ufficiali e giuridici pertinenti dell’Unione Europea e dei singoli paesi europei. La relazione include inoltre un elenco di definizioni, una serie di documenti standard scelti quali esempi della buona pratica in operazioni, come la richiesta del consenso informato, e un elenco dei corsi di formazione di bioetica disponibili. Le linee guida si fondano su principi oggetto di intesa generale all’interno dell’Unione Europea e si conformano alle norme giuridiche stabilite in diverse direttive comunitarie. Tuttavia, gli autori sottolineano che esse non costituiscono un documento con validità giuridica e che l’approvazione etica per la ricerca nutrigenomica dipenderà dalle norme giuridiche dei singoli Stati membri. Le linee guida della NuGo potrebbero, però, essere impiegate quale punto di partenza per i ricercatori e le parti interessate ai principi etici inerenti la ricerca genomica basata sulla popolazione. La NuGo invita inoltre gli utenti ad aggiungere esempi e commenti basati sull’esperienza di ciascuno al fine di indirizzare gli ulteriori sviluppi delle linee guida» (G. Fatati, L’uomo è ciò che mangia: dall’empirismo alla nutrigenomica, in J. Moleschott, op. cit., p. 127).

[40] Cfr. L. Feuerbach, Etica e felicità, tr. it. Guerini e Associati, Milano 1992, p. 25.

[41] L. Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia, a cura di Tagliapietra, cit., p. XXVII.

[42] Cfr. D. Viviani, Il cibo che non si consuma, in V. Grassi, D. Viviani, op. cit., p. 109.

[43] «Ebbene sì, l’uomo è ciò che mangia. Ma egli non mangia solo attraverso i “canali” alimentari, egli mangia anche attraverso i “canali” respiratori, che addirittura hanno la precedenza su quelli. Respirare è mangiare o, per così dire, “bere aria”. […] L’uomo, tuttavia, non mangia solo con l’apparato respiratorio, ma anche con i sensi, specialmente con i più nobili: occhi e orecchie. “Mangiare con gli occhi” significa vedere, “mangiare con le orecchie” significa udire. Questo modo di mangiare è attestato, per esempio, in espressioni come “divorare qualcosa con gli occhi”, “saziare lo sguardo”, oppure, tramite gli occhi, “riempirsi di qualcosa”, “dare in pasto alla vista”, ma anche, sia in greco sia in tedesco, “delizia per le orecchie”, e la formula ebraica “parole dolci come il latte e il miele”; e poi le espressioni come “divorare, mandar giù, bere le parole, i discorsi, gli ordino” di qualcuno. Soprattutto l’uomo “divora” un oggetto con tutti i propri sensi “per amore”» (L. Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia, a cura di Tagliapietra, op. cit., pp. 34-35).

[44] Ibid., p. 71.

[45] A tal proposito, cfr. C. Petrini, The pleasures of slow food: celebrating authentic traditions, flavors and recipes, Chronicle Books, San Francisco 2002.

[46] L. Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia, a cura di Tagliapietra, cit., p. 29.

[47] Per l’analisi di tali incertezze si rimanda a M. Korthals, R. Komduur, Uncertainties of Nutrigenomics and Their Ethical Meaning, in «Journal of Agricultural and Environmental Ethics», 23, 2010, pp. 435–454.

[48] A proposito dei risvolti commerciali e mistificatori della nutrigenomica si rimanda a E. Del Toma, Le premesse realizzabili della Nutrigenomica, in Atti del 9º Concorso Annuale ADI Marche, Ancona 24-11-2006.

[49] L’istinto di felicità, a giudizio di Feuerbach, è nient’altro che l’amore per la vita terrena e per tutto quanto a essa appartiene, compreso il mangiare: «Bios in greco, vita in latino significano perciò non solo vita, ma anche mezzi di vita, alimenti e maniera di vivere condizionata da essi, proprio come in tedesco si dice con lo stesso significato: vivere di qualcosa e nutrirsi di qualcosa» (L. Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia, a cura di F. Tomasoni, cit., p. 76).

[50] L. Feuerbach, Etica e felicità, cit., p. 126.

[51] Ibid., p. 28.

[52] Id., L’uomo è ciò che mangia, a cura di F. Tomasoni, cit., p. 57.

 

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