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L’umiliazione di Darwin. Le radici biologiche degli sviluppi non-antropocentrici dell’etica ambientale contemporanea

Autore


Matteo Andreozzi

è dottore di ricerca in filosofia e si occupa di etica ecologica. Ha svolto attività di ricerca e insegnamento presso le Università degli Studi di Milano, Torino, Bologna e presso il Politecnico di Milano

Indice


  1. Le tre umiliazioni inferte al narcisismo umano
  2. L’estensione della comunità morale all’intera comunità biotica
  3. Il rifiuto della “superiorità” umana
  4. Dall’enorme unicità degli esseri umani all’enorme responsabilità dell’essere “umani”

 

 

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S&F_n. 28_2022

Abstract


The Humiliation by Darwin. Biological Roots of Non-Anthropocentric Developments in Contemporary Environmental Ethics

In a 1916 essay, the famous founder of psychoanalysis Sigmund Freud compares his theory to the discoveries of Nicolaus Copernicus and Charles Darwin, talking about three severe humiliations inflicted by scientific investigation on human narcissism. The main aim of this paper is to show how some of the most famous non-anthropocentric environmental ethics are rooted in the humiliation inflicted by Darwin further developments of his theory. The paper focuses on authors such as Aldo Leopold, John Baird Callicott, Paul Taylor, and Holmes Rolston III. Leopold and Callicott’s land ethic claims that moral community will sooner or later correspond to the entire biotic community, following a process of social-ethical evolution characterized by the gradual extension of that same moral feeling of communitarian altruism of which Darwin discusses great evolutionary advantages. Taylor brings a famous epigram wrote by Darwin – in which he recommends himself to never define “superior” or “inferior” the structure of an organism – to its extreme ethical consequences, to the point of founding a biocentric ethics articulated around the intrinsic value of every living organism. Rolston’s Earth ethic pick up a humanity “humiliated” by Darwin’s discoveries and their further developments and offer a chance to redeem itself, moving from its great uniqueness to its great moral responsibility. Through an analysis of the main thesis of the theories of the above cited authors, the paper shows how, in order to found a non-anthropocentric environmental ethics, we should not deny, but rather put in dialogue – and thus highlight – both human natures: the one of a biological organism that lives adapting to the world, and the one of a moral agent who decides how to live his life.

  1. Le tre umiliazioni inferte al narcisismo umano

In un articolo del 1916, il celebre fondatore della psicoanalisi Sigmund Freud compara la propria teoria alle scoperte di Copernico e di Darwin, parlandone come di «tre gravi umiliazioni» inferte dall’indagine scientifica «al narcisismo universale» e «all’amor proprio dell’umanità»[1]. L’«umiliazione psicologica» inferta dalle scoperte freudiane «colpisce probabilmente nel punto più sensibile», perché afferma che l’Io non è mai davvero «padrone a casa propria», in quanto guidato da processi psichici di per se stessi inconsci e costretto a subire le pulsioni dell’inconscio senza poterle controllare[2]. All’opera di Niccolò Copernico si deve invece l’«umiliazione cosmologica»: affermando che la Terra non fosse affatto il centro dell’universo, ma solo una minuscola particella in uno spazio infinito, egli tolse di fatto all’essere umano una visione che, oltre a ben concordare con il suo sentirsi un essere privilegiato, svolgeva il ruolo di importante garanzia per le sue aspirazioni e pretese al dominio[3].

L’uomo, nel corso della sua evoluzione civile, si eresse a signore delle altre creature del mondo animale. Non contento di tale predominio, cominciò a porre un abisso fra il loro e il proprio essere. Disconobbe a esse la ragione e si attribuì un’anima immortale, appellandosi a un’alta origine divina che gli consentiva di spezzare i suoi legami col mondo animale[4].

A contrastare questa illusione di supremazia umana, infierendo l’«umiliazione biologica», furono le scoperte di Charles Darwin. Egli non si limitò infatti soltanto a ipotizzare l’appartenenza umana al regno animale, ma rese ogni conquista culturale, tecnica o scientifica raggiunta o raggiungibile dalla specie umana del tutto ininfluente, e quindi incapace «di cancellare le testimonianze di una parità che è data tanto nella sua struttura corporea, quanto nella sua disposizione psichica»[5].

All’epoca in cui lo psicanalista austriaco scriveva queste parole, simili verità non solo sembravano molto lontane dall’esperienza diretta, ma apparivano persino di scarsa rilevanza. La situazione, ai giorni nostri, per quanto non sia cambiata di molto, presenta una cruciale differenza. Se possiamo infatti sopravvivere, in senso stretto, senza una piena consapevolezza delle conseguenze dell’umiliazione psicologica e cosmologica, non possiamo oggi dire altrettanto per quanto riguarda quella biologica. Le teorie di Darwin hanno certamente intaccato l’idea che l’umanità fosse per certi versi “speciale” o separata dalla natura, ma non hanno scosso le fondamenta della cultura occidentale quanto avrebbero potuto – e forse dovuto. Piuttosto che interrogarsi sulle implicazioni dell’unificazione del mondo biologico e dell’appartenenza della nostra specie alla natura, vennero evidenziati e abusati in ottica antropocentrica quasi esclusivamente i concetti di selezione naturale e di sopravvivenza del più adatto. Nulla, in sostanza, che fosse in grado di fermare lo stato di «guerra con i propri simili»[6] di cui parla il naturalista francese Jean-Baptiste Lamarck e i cui rischi per la sopravvivenza umana erano già chiari ben prima della pubblicazione delle opere di Darwin.

A causa della sua noncuranza per l’avvenire e per i propri simili, l’uomo sembra lavorare all’annientamento dei suoi mezzi di sussistenza e alla distruzione della sua stessa specie. Eliminando ovunque i grandi vegetali che proteggevano il suolo, per ricavarne oggetti che soddisfano la sua avidità del momento, egli conduce rapidamente alla sterilità il terreno che occupa, provoca il prosciugamento delle sorgenti […]. Si direbbe che, dopo aver reso il globo inabitabile, l’uomo si sia incamminato verso l’autodistruzione[7].

Questi stessi rischi sono oggi diventati più che mai reali, al punto che affrontarli ha ormai assunto il carattere della principale urgenza che contraddistingue la nostra epoca. A dircelo sono le ricerche di numerosi autorevoli scienziati contemporanei[8], i quali affermano che in un arco di tempo che va dal 2030 al 2080 la Terra avrà livelli di degradazione intollerabili e che, se non si vuole mettere a repentaglio la vita umana sul pianeta, il XXI secolo rappresenta il momento limite entro cui è indispensabile intervenire. È oggi dunque necessario intervenire, ma prima ancora di utilizzare la tecnologia e la conoscenza in nostro possesso o di pianificare l’azione di governi, imprese o istituzioni internazionali, occorre realizzare un radicale cambiamento del nostro modo di pensare la vita e l’ambiente, che faccia emergere in noi la necessità di attribuire alla natura valori morali in grado di guidare le nostre azioni[9]. È proprio in quest’ottica che, secondo alcuni filosofi dell’ambiente contemporanei, occorre tornare all’«umiliazione» che ci ha inferto Darwin. La questione è bene espressa dalle parole dello scrittore e poeta naturalista inglese Thomas Hardy

Poche persone sembrano avere finora percepito completamente che la conseguenza di maggior portata dell’istituzione dell’origine comune di tutte le specie è etica; ciò ragionevolmente implica una revisione delle morali altruistiche che, per necessità di esattezza, ampli l’applicazione di quella è stata chiamata «La Regola Aurea», non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, oltre la mera zona dell’umanità[10].

L’obiettivo di alcuni autori, in epoca recente, è dunque stato proprio quello di rinvenire all’interno del pensiero di Darwin le radici di una profonda rivoluzione etica da meglio comprendere, consolidare, formalizzare e infine tradurre in pratica. A raccogliere questa sfida sono stati in particolar modo autori come Aldo Leopold, John Baird Callicott, Paul Taylor e Holmes Rolston III: a Leopold si deve la prima vera formulazione di un’etica ambientale, da lui chiamata etica della terra (land ethic), che Callicott ha il merito di avere rivisitato e ulteriormente sviluppato; Taylor è il primo filosofo a elaborare un’etica biocentrica articolata attorno a un valore intrinseco della vita biologicamente fondato; mentre Rolston è il teorico di una ancora più ampia etica ecocentrica, chiamata etica della Terra (Earth ethic), la quale trova supporto nei più recenti sviluppi della teoria evoluzionistica.

 

2. L’estensione della comunità morale all’intera comunità biotica

In quanto «caso paradigmatico» di etica ambientale, l’etica formulata da Leopold, e in seguito ripresa da Callicott, è stata un indiscusso punto di riferimento e di avvio per l’intera etica ambientale con cui, di fatto, tutti gli autori successivi hanno dovuto confrontarsi[11]. Nel suo saggio intitolato The Land Ethic (L’etica della terra)[12] Leopold è infatti il primo autore a guardare alla questione ambientale da una prospettiva biologica, proponendo un nuovo ideale di umanità, fondato sul riconoscimento dell’esistenza di un rapporto simbiotico tra tutte le forme di vita e l’ambiente. Egli considera necessario avviare una rivoluzione culturale che stravolga il nostro modo di pensare, i nostri legami, i nostri affetti e le nostre convinzioni, ricucendo quel profondo senso di scissione tra l’essere umano e l’ambiente che contraddistingue il mondo contemporaneo[13]. I due pilastri intorno ai quali egli ritiene si debba fondare una simile rivoluzione rendono evidente l’influenza delle scoperte di Darwin: il riposizionamento dell’umanità in natura e la riconsiderazione della storia delle civiltà umane in ottica evoluzionistica.

Occorre anzitutto guardare alla natura come a una grande «piramide biotica» in cui tutte le specie, inclusa quella umana, sono solo un anello di un groviglio di circuiti di flussi energetici, detti «biota», fondati sulla cooperazione e competizione di tutte le componenti in gioco[14]. La terra, dunque, non è solo «suolo», ma «è una fonte di energia che scorre attraverso un circuito di suoli, piante e animali», mentre l’essere umano non è il «dominatore» della natura o il «pinnacolo della creazione», ma «una delle migliaia di specie» che «occupa un livello intermedio» all’interno della piramide[15]. In quest’ottica, però, anche molti avvenimenti storici solitamente spiegati in termini di iniziative umane, sono da rileggere come il risultato di una serie interazioni biotiche fra popolazioni e territori. Tali interazioni sono secondo Leopold determinate dai diversi «stadi» raggiunti dall’etica umana, che è in questo senso da intendere, in ottica biologica, come fondata «su un’unica premessa: che l’individuo è membro di una comunità di parti interdipendenti»[16]. Se si guarda alla storia umana come condizionata da un’etica intesa come a una sorta di «istinto di comunità» tramite cui l’essere umano auto-limita la propria libertà per vivere in armonia all’interno della società di membri interdipendenti di cui si riconosce parte, allora essa è dipesa dalla nostra capacità di riconoscerci parti di comunità sempre più vaste[17]. Se in un primo stadio il cosiddetto «cerchio dell’etica» si è limitato a comprendere solo le relazioni interpersonali tra gli individui e in un secondo si è dovuto estendere anche a quelle tra individuo e istituzioni sociali, manca secondo Leopold la piena realizzazione di un terzo stadio, il quale «semplicemente allarga i confini della comunità per includervi il suolo, le acque, le piante, gli animali; in una parola: la terra»[18]. L’estensione dell’etica a questo terzo stadio, che egli definisce «etica della terra», condurrebbe a un profondo rispetto per i singoli membri della comunità biotica e per la comunità in quanto tale che rappresenta, per l’autore, la «possibilità evolutiva» e al contempo la «necessità ecologica» di concretizzare una «evoluzione sociale» collettiva, intellettuale ed emotiva[19].

Riallacciandosi proprio a quest’ultima necessità evolutiva, Callicott rintraccia i fondamenti del pensiero di Leopold in un intreccio di scienze tra le quali la biologia spicca per la sua capacità di fare ricollegarsi direttamente a una precisa e ben fondata tradizione etica. Tra le diverse discipline scientifiche, la biologia, rendendoci consapevoli della «connessione diacronica» che ci lega a tutte le altre specie viventi e in generale alla natura, fornisce una «connessione concettuale tra l’etica e l’organizzazione e lo sviluppo sociali» che le consente di svolgere il fondamentale ruolo di anello di congiunzione tra scienza e filosofia[20]. Essa ci consente infatti di identificare la teoria morale del «sentimentalismo comunitario» come la corrente etica maggiormente «in linea con la biologia moderna»[21]. La teoria dei «sentimenti sociali» di Adam Smith[22] e in particolar modo quella dei «sentimenti morali» proposta da David Hume[23] sono state infatti riprese e meglio spiegate, «esclusivamente dal lato della storia naturale», proprio dallo stesso Darwin[24]. Il sentimentalismo morale di Hume, considerando l’altruismo quale fenomeno «fondamentale e originario nella natura umana quanto l’egoismo» (e non quale fenomeno proveniente da un successivo allargamento agli altri dell’egoismo stesso), intende il senso morale come una forma di espressione di sentimenti originariamente orientati anche verso gli altri[25]. Darwin ha invece illustrato anche i vantaggi evolutivi di un senso morale fondato sull’altruismo comunitario sviluppato in società: «siccome la relazione tra l’evoluzione sociale e quella del sentimento di orientamento all’altro, o sentimento morale, è una relazione di feedback positivo, l’etica si è sviluppata in correlazione all’evoluzione sociale»[26].

Sono proprio le radici darwiniane del pensiero di Leopold a consentire dunque a Callicott di parlare della land ethic come del «“gradino successivo” nel processo, attualmente in corso, dell’evoluzione etico-sociale»: solo l’intreccio tra biologia e filosofia permette infatti di intendere il concetto di “gradino” come un allargamento del concetto di «comunità sociale» a tutta la «comunità biotica», capace di tramutare il «patriottismo» in una sorta di «biofilia»[27].

 

3. Il rifiuto della “superiorità” umana

Il pensiero di Paul Taylor è un indiscusso punto di riferimento per ogni etica ambientale biocentrica. Partendo dalle basi offerte dalle più recenti scoperte biologiche e usando come perno di tutto il suo discorso una tesi già presente in un famoso epigramma con cui Darwin raccomandava a se stesso di non definire mai “superiore” o “inferiore” la struttura di un organismo, Taylor cerca di fornire ragioni morali coerenti e condivisibili per rispettare l’intera sfera del vivente, ripensando i criteri di demarcazione morale e allargando di conseguenza l’orizzonte etico. Il «mai dire superiore o inferiore» di Darwin, dal punto di vista biologico, derivava dalla constatazione «che il cambiamento organico conduce solo a un crescente adattamento degli organismi all’ambiente e non a un astratto ideale di progresso caratterizzato dalla complessità strutturale o da una crescente eterogeneità»[28]. Parallelamente, l’esigenza di riconoscere a tutti gli esseri viventi lo stesso valore intrinseco, per l’etica biocentrica, non mira a tutelare la vita non umana da quella umana o la natura dalla cultura, ma a farci comprendere che il rispetto umano non può essere propriamente esercitato a prescindere dalla consapevolezza del fatto che l’essere umano è, da sempre, una forma di vita inserita in natura.

Taylor elabora quattro principi filosofici su cui fonda la prospettiva biocentrica. Accumunati dall’essere tutti coerenti con le verità messe in luce, oggi, dalle scienze della vita, e in particolare dalla biologia, essi sono illustrati dall’autore cercando di dimostrare come ogni persona razionale, scientificamente informata e capace di analizzare la realtà in maniera perspicace sia portata ad accettare la visione filosofica del mondo e del posto che l’essere umano occupa in esso da essi derivabile[29]. I primi tre principi affermano, rispettivamente, che gli esseri umani sono membri della comunità di vita sulla Terra nello stesso senso e allo stesso modo di tutti gli altri organismi viventi non umani[30]; che sono parti integrate di una rete complessa di relazioni tra organismi, entità ed eventi naturali interconnessi[31]; e che ogni organismo è un individuo unico e insostituibile che insegue il suo bene proprio nella sua propria maniera[32]. A rappresentare il culmine e al contempo il risultato di questi primi tre principi è tuttavia il quarto principio, il quale è anche quello che richiama maggiormente l’epigramma di Darwin. In base a esso la credenza secondo cui la specie umana sarebbe una specie “superiore” alle altre, una volta che si sono fatti propri i principi precedenti, viene riconosciuta come priva di fondamento e, dunque, rigettata in quanto irrazionale pregiudizio in nostro favore[33]. Tutte le argomentazioni solitamente utilizzate per difendere questa presunta superiorità umana, oltre a rivelare, una volta approfondite, evidenti errori concettuali e contraddizioni in grado di invalidare le argomentazioni stesse (motivi per non accettarle), perdono di significato una volta che si sono fatti propri i principi precedenti (motivi per rifiutarle). L’errore concettuale più diffuso deriva dall’adottare le capacità con cui gli esseri umani perseguono il loro bene proprio (in un modo che è dunque valido soltanto per gli umani e agli occhi degli umani) quale metro di valutazione delle capacità con cui le forme di vita non umane perseguono il loro bene proprio[34]. Se si potrebbe infatti affermare che uno scoiattolo è “migliore” di un altro per quanto riguarda la capacità di arrampicarsi sugli alberi, non ha alcun senso affermare che un essere umano è “superiore” a uno scoiattolo in quanto dotato di capacità razionali.

La non accettabilità della superiorità umana, connessa e fatta derivare ai primi tre principi della prospettiva biocentrica, conduce secondo Taylor all’adozione della dottrina dell’imparzialità delle specie, la quale ci consente di considerare tutte le forme di vita come dotate dello stesso identico valore intrinseco e, al contempo, della stessa rilevanza inerente[35]. Se ciò accadesse, afferma l’autore

Un totale riordinamento del nostro universo morale avrebbe luogo. Ci vedremmo moralmente obbligati a bilanciare i nostri doveri nei confronti del “mondo” della natura con quelli nei confronti del “mondo” della cultura e della civiltà umana. […] Ora, questo cambio radicale della nostra visione del mondo naturale e del modo eticamente più appropriato di rapportarci alle altre cose viventi è esattamente ciò che comporta l’accettare la prospettiva biocentrica. Il quarto elemento della prospettiva non è nient’altro che il rifiuto della dottrina della superiorità della rilevanza inerente dell’essere umano. Questo rifiuto […] è la chiave per capire perché l’accettazione della prospettiva biocentrica renda intellegibile e supporti l’adizione da parte di una persona dell’atteggiamento del rispetto per la natura[36].

A sviluppare ulteriormente il discorso di Taylor sul valore intrinseco posseduto da ogni organismo vivente, radicandolo maggiormente nella biologia e nei più recenti sviluppi della teoria evoluzionistica di Darwin, è un altro indiscutibile punto di riferimento di tutta la riflessione etica relativa all’ambiente quale Holmes Rolston III. Se entrambi gli autori concordano sul fatto che ciò in cui si radica il valore intrinseco di ogni organismo vivente è la sua capacità di perseguire autonomamente e a modo proprio il suo bene proprio, tale bene trova tuttavia secondo Rolston il suo fondamento non negli organismi in sé, ma nel loro essere espressione fenotipica di un processo genetico vitale sempre attivo e produttivo. Secondo il filosofo, infatti, il valore intrinseco di ogni organismo vivente risiede in un’informazione che determina le modalità con cui le singole forme di vita perseguono il proprio bene nella loro propria maniera: «essa conferisce agli organismi un telos, un “fine”, una sorta di obiettivo»[37]. Questa informazione è contenuta nel DNA di ogni forma di vita: un set di informazioni «intenzionali» che conferiscono un «propositum» teleologico a ogni organismo, guidandone la vita e l’espressione fenotipica in direzione di un obiettivo biologico che è poi perseguito dal singolo vivente, a prescindere dal suo esserne consapevole[38]. Un pool genetico è infatti sempre anche un pool normativo, in quanto capace di distinguere tra ciò che è e ciò che deve essere, guidando gli organismi nel realizzare il proprio telos[39].

Sono dunque i geni, per Rolston, i veri depositari del valore intrinseco delle forme di vita: è il DNA a dirigere gli organismi nel loro perseguire alcuni stati e nell’evitarne altri e, quindi, a stabilire che certi stati sono da perseguire, mentre altri sono da evitare. In questo senso, i loro valori intrinseci sono in sostanza tali in quanto «traguardi storici» della natura incarnati in singoli organismi dotati (anche se non coscientemente) di un bene proprio, della capacità di perseguirlo e di quella di difenderlo nella loro propria maniera[40].

 

4. Dall’enorme unicità degli esseri umani all’enorme responsabilità dell’essere “umani”

Per Rolston, tuttavia, se si guarda all’etica come a quella disciplina che si interessa della nostra capacità di guardare al di fuori del nostro interesse personale, rispettando la vita umana, si deve allora ammettere che essa dipende largamente dalla nostra conoscenza di ciò che è realmente vitale, la quale a sua volta richiede un inedito mix di scienza e coscienza, biologia e filosofia[41]. In questo senso, la rilevanza morale delle più recenti scoperte evoluzionistiche è tale da rendere lecito sostenere che ogni etica è tanto meno antropocentrica quanto più «biogenica», e cioè coerente con la biologia: ciò di cui abbiamo oggi bisogno, secondo Rolston, è un’«etica che sondi la biologia» con lo scopo di divenire un’«etica fondata sulla biologia»[42]. Una simile etica non si può però limitare ad ammettere che ogni organismo vivente possiede valore intrinseco: essa deve anche riconoscere che se il pool genetico è normativo e dotato di valore intrinseco, allora tale valore è staticamente posseduto dai singoli organismi, ma dinamicamente radicato in processi biologici e sistemi ecologici che, in quanto di carattere genetico-evolutivo, trascendono i singoli individui. In questo senso, anche le specie e gli ecosistemi posseggono un valore intrinseco, il quale ha anche priorità rispetto ai valori individuali.

Il valore intrinseco delle specie è maggiore rispetto a quello delle singole forme di vita perché ogni individuo «rappresenta», o per meglio dire «ri-presenta», soltanto il DNA della propria specie: è solo «l’esemplare di un tipo, e il tipo è più importante dell’esemplare»[43]. È però per l’autore scorretto intendere le specie come semplici insiemi di organismi: l’identità delle specie e il loro valore intrinseco oggettivo risiedono, infatti, nel continuo processo di speciazione che viene esemplificato dagli insiemi di individui, e non negli insiemi stessi. Se la vita è generata dal processo di speciazione, essa è tuttavia anche selezionata dai sistemi naturali in un modo così determinante da rendere i due fenomeni non adeguatamente comprensibili se non considerati unitamente[44]. Visto che gli ecosistemi giocano una parte così cruciale nel conferire identità alle specie, non è soltanto il processo di speciazione a possedere valore, perché un ulteriore valore deve essere posseduto da tutti i sistemi naturali, compreso il pianeta Terra il quale, in quanto «casa» della vita e al contempo suo massimo «processo creativo», deve essere addirittura inteso come il sistema dotato di maggiore valore[45]. È in base a queste riflessioni che l’etica ecocentrica dell’autore si propone di superare l’etica della terra (land ethic), per divenire un’etica della Terra (Earth ethic).

In una natura così intesa, tuttavia, anche noi stessi umani necessitiamo, secondo Rolston, di essere ripensati e ricollocati, da una prospettiva ecocentrica. L’essere umano è infatti un terrestre come tutti gli altri organismi, ma si differenzia da tutte le altre forme di vita per la propria capacità di scegliere moralmente e consapevolmente quale sia il proprio ruolo in natura[46]. Per l’autore noi siamo «una specie unica in un pianeta unico», ma questa nostra «enorme unicità» comporta anche un’enorme responsabilità, data dal fatto che, nel nostro distanziarci dalla natura, ci siamo dimostrati capaci anche di definire dei limiti grazie alla nostra cultura: limiti che possono e oggi più che mai devono riconoscere anche nella natura dei soggetti e degli enti morali da rispettare[47]. Gli esseri umani, anzi, sono gli unici organismi che, in quanto sia unici che responsabili, possono persino incrementare questo loro già grande valore, tramutando l’«enorme responsabilità» in una «enorme dignità»[48]. Ciò accade infatti quando essi comprendono che, volenti o nolenti, hanno un ruolo di fondamentale importanza nel garantire la prosecuzione della grande storia del pianeta Terra e, di conseguenza, affinano ulteriormente la propria capacità di apprezzare i valori, riconoscendo il valore intrinseco e sistemico delle altre realtà naturali: «se noi esseri umani sapremo attribuire il giusto valore alla natura selvaggia, sarà stato raggiunto un ulteriore e ancora più raffinato traguardo storico»[49].

Nonostante tutti gli autori qui citati abbiano saputo cogliere la necessità, oggi sollecitata da numerosi scienziati[50], di attribuire valori morali alla natura e sebbene tutti abbiano preso le mosse dalle più recenti scoperte biologiche e dalla teoria evoluzionistica, solo Rolston sembra essere in grado di tornare all’umiliazione che ci ha inflitto Darwin ristabilendo e rifondando, proprio a partire da essa, una sorta di unicità umana. Pur restando all’interno di una visione non-antropocentrica della natura in base alla quale gli esseri umani non sono definibili “superiori” e in cui non soltanto tutte le forme di vita, ma anche le specie, gli ecosistemi e persino l’intero pianeta Terra, posseggono valore intrinseco, egli è infatti l’unico autore che sembra portare il lento processo di assimilazione filosofica e di rielaborazione etica del pensiero di Darwin agli esiti auspicati, tra gli altri, dal già citato Hardy[51]. All’interno di questo percorso, Leopold è stato il primo a reinserire l’essere umano all’interno della comunità biotica a lungo studiata dal naturalista britannico, e Callicott ha avuto il merito di riprendere la concezione leopoldiana del cerchio morale destinato a estendersi all’intera comunità vivente radicandola tanto nel pensiero del biologo inglese, quanto in quello di due autorevoli filosofi, anch’essi inglesi, quali Smith e soprattutto Hume. Taylor ha esteso la riflessione su un famoso epigramma di Darwin fino a fondarvi un’etica biocentrica articolata attorno al valore intrinseco di ogni organismo vivente. Rolston ha illustrato come la biologia moderna possa supportare una simile teoria del valore intrinseco, mostrando come essa, per essere maggiormente allineata con i più recenti studi evoluzionistici, debba riconoscere valore anche alle specie, agli ecosistemi e all’intero pianeta Terra, cui addirittura spetta priorità morale. A Rolston va riconosciuto però anche il pregio di avere raccolto un’umanità “umiliata” dalle scoperte di Darwin e dai loro ulteriori sviluppi e di averle offerto una possibilità per riscattarsi. Poiché culturalmente consapevole di quale sia il bene proprio di tutte le forme di vita, dei processi biologici, dei sistemi ecologici e di quello geologico, nonché moralmente capace di impostare la propria condotta nel rispetto di queste sue conoscenze, l’essere umano si riappropria infatti con l’autore di un’unicità dettata dal fatto che il suo valore intrinseco è l’unico che potrebbe persino incrementare ulteriormente, se solo egli cercasse di ottimizzare il rapporto tra valori umani e naturali. Questo auspicato traguardo ci permetterebbe non soltanto dunque di diventare più umani, ma anche, e allo stesso tempo, di riscoprici selvaggi[52]. Non si tratta di negare, ma anzi di porre in dialogo e di fare così risaltare entrambe le nature umane: quella di organismo biologico che vive adattandosi al mondo e quella di agente morale che decide come vivere la propria vita.


[1] Cfr. S. Freud, Una difficoltà della psicoanalisi (1916), in S. Freud, Opere di Sigmund Freud, vol. VIII, (Opere 1915-1917: Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti), a cura di C. L. Musatti, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1989, pp. 657-664, qui p. 660.

[2] Cfr. ibid., p. 663.

[3] Cfr. ibid., p. 660.

[4] Ibid., pp. 660-661.

[5] Cfr. ibid., p. 661.

[6] Cfr. G. Barsanti, Una lunga pazienza cieca. Storia dell’evoluzionismo, Einaudi, Torino 2005, p. 161.

[7] Ibid., pp. 160-161.                                       

[8] Cfr. D.H. Meadows, D.L. Meadows, J. Randers, W.W. Behrens III, I limiti dello sviluppo: rapporto del System dynamics group, Massachusetts institute of technology (MIT) per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità, a cura di F. Macaluso, tr. it. Mondadori, Milano 1972; D.H. Meadows, D.L. Meadows, J. Randers, Oltre i limiti dello sviluppo, a cura di F. Macaluso, tr. it. Il saggiatore, Milano 1993; Millennium Ecosystem Assessment, Ecosystems and Human Well-being: Synthesis, Island Press, Washington DC 2005; D.H. Meadows, D.L. Meadows, J. Randers, I nuovi limiti dello sviluppo. La salute del pianeta nel terzo millennio, a cura di M. Riccucci, tr. it. Mondadori, Milano 2006.

[9] Cfr. Millennium Ecosystem Assessment, Ecosystems and Human Well-being: Statement of the MA Board, Island Press, Washington DC 2005, pp. 22-23.

[10] A. West, Introduction: Hardy’s «Shifted ... Centre of Altruism»: An Ethics of Encounter and Empathy (2017), in A. West (ed.), Thomas Hardy and Animals, Cambridge University Press, Cambridge 2017, pp. 1-14, qui p. 1, traduzione mia.

[11] Cfr. J.B. Callicott, Animal Liberation: A Triangular Affair, in «Environmental Ethics», Vol. 2, n. 4, 1980, pp. 311-338, qui p. 311.

[12] Cfr. A. Leopold, The Land Ethic, in A. Leopold, A Sand County Almanac and Sketches Here and There, Oxford University Press, New York 1949, pp. 201-226, tradotto parzialmente in italiano in A. Leopold, L’etica della terra (1949), in M. Tallacchini (a cura di), Etiche della terra. Antologia di filosofia dell’ambiente, tr. it. Vita e Pensiero, Milano 1998, pp. 131-141.

[13] Cfr. A. Leopold, L’etica della terra, cit., pp. 131-135 e 139-141.

[14] Cfr. ibid, pp. 136-137.

[15] Cfr. ibid.

[16] Ibid., p. 132.

[17] Cfr. ibid., pp. 131-133.

[18] Cfr. ibid., pp. 132-133.

[19] Cfr. ibid., pp. 132-133 e 139-140.

[20] Cfr. J.B. Callicott, The Conceptual Foundations of the Land Ethic, in J.B. Callicott (ed.), Companion to A Sand County Almanac: Interpretive and Critical Essays, The University of Wisconsin Press, Madison 1987, pp. 186-217, tradotto in italiano in J.B. Callicott, I fondamenti concettuali della Land Ethic (1987), in R. Peverelli (a cura di), Valori selvaggi. L’etica ambientale nella filosofia americana e australiana, tr. it. Medusa, Milano 2005, pp. 87-137, qui pp. 102-103.

[21] Cfr. J.B. Callicott, Non-anthropocentric Value Theory and Environmental Ethics, in «American Philosophical Quarterly», Vol. 21, n° 4, 1984, pp. 299-309, tradotto in italiano in J.B. Callicott, Teoria non-antropocentrica del valore ed etica ambientale (1984), in M. Tallacchini (a cura di), Etiche della terra, cit., pp. 243-263, qui pp. 258-260.

[22] Cfr. A. Smith, The Theory of the Moral Sentiments (1790), Cambridge University Press, Cambridge 2002.

[23] Cfr. D. Hume, A Treatise of Human Nature. Being an Attempt to introduce the experimental Method of Reasoning into Moral Subjects (1739-1740), Oxford University Press, Oxford 1975.

[24] Cfr. C.R. Darwin, The Descent of Man and Selection in Relation to Sex (1871), J.A. Hill, New York 1904.

[25] Cfr. J.B. Callicott, I fondamenti concettuali della Land Ethic, cit., pp. 106-110.

[26] Cfr. J.B. Callicott, Teoria non-antropocentrica del valore ed etica ambientale, cit., p. 259.

[27] Cfr. ibid., pp. 260-262.

[28] Cfr. S.J. Gould, Questa idea della vita. La sfida di Charles Darwin (1977), tr. it. Editori Riuniti, Roma 1984, p. 28.

[29] Cfr. P.W. Taylor, Respect for Nature: a Theory of Environmental Ethics, Princeton University Press, Princeton 1986, pp. 47-53.

[30] Cfr. P.W. Taylor, The Ethics of Respect for Nature, in «Environmental Ethics», Vol. 3, n° 3, 1981, pp. 197-218, qui pp. 207-209 e Id., Respect for Nature, cit., pp. 101-116.

[31] Cfr. P.W. Taylor, The Ethics of Respect for Nature, cit. p. 209 e Id., Respect for Nature, cit., pp. 116-119.

[32] Cfr. P.W. Taylor, The Ethics of Respect for Nature, cit., pp. 210-211 e Id., Respect for Nature, cit., pp. 119-129.

[33] Cfr. P.W. Taylor, The Ethics of Respect for Nature, cit., pp. 211-218 e Id., Respect for Nature, cit., pp. 129-156.

[34] Cfr. P.W. Taylor, The Ethics of Respect for Nature, cit., pp. 211-213 e Id., Respect for Nature, cit., pp. 130-131.

[35] Cfr. P.W. Taylor, Respect for Nature, cit., pp. 155-156.

[36] Ibid., p. 134, traduzione mia.

[37] Cfr. H. Rolston, Challenges in Environmental Ethics, in M.E. Zimmerman, J.B. Callicott, G. Sessions, K.J. Warren, J. Clark (eds.), Environmental Philosophy: From Animal Rights to Radical Ecology, Upper Saddle River, Prentice Hall, 1998, pp. 124-144, qui p. 130, traduzione mia.

[38] Cfr. H. Rolston, Genes, Genesis and God: Values and Their Origins in Natural and Human History, Cambridge University Press, Cambridge 1999, p. 38, traduzione mia.

[39] Cfr. H. Rolston, Challenges in Environmental Ethics, cit., p. 131.

[40] Cfr. H. Rolston, Values Gone Wild, in «Inquiry», Vol. 26, n° 2, 1983, pp. 181-207, qui p. 192, traduzione mia.

[41] Cfr. H. Rolston, Challenges in Environmental Ethics, cit., qui p. 125.

[42] Cfr. H. Rolston, Values in and Duties to the Natural World, in F. Bormann, S. Kellert (eds.), Ecology, Economics, Ethics: The Broken Circle, Yale Univeristy Press, New Haven 1991, pp. 73-96, qui p. 73 e H. Rolston, Challenges in Environmental Ethics, cit., pp. 127 e 131, traduzione mia.

[43] H. Rolston, Challenges in Environmental Ethics, cit., p. 134, traduzione mia.

[44] Cfr. H. Rolston, Value in Nature and the Nature of Value, in R. Attfield, A. Belsey (eds.), Philosophy and the Natural Environment. Royal Institute of Philosophy Supplement 36, Cambridge University Press, Cambridge 1994, pp. 13-30, qui p. 24.

[45] Cfr. H. Rolston, Challenges in Environmental Ethics, cit., p. 141; Id., Conserving Natural Value, Columbia University Press, New York 1994, pp. 203-236; Id., Environmental Ethics: Duties to and Values in the Natural World, Temple University Press, Philadelphia 1988, pp. 192-201: Id., Value in Nature and the Nature of Value, cit., pp. 25-28, traduzione mia.

[46] Cfr. H. Rolston, Values Gone Wild, cit., pp. 198-202.

[47] Cfr. H. Rolston, A New Environmental Ethics: The Next Millennium for Life on Earth, Routledge, New York 2012, p. 196, traduzione mia.

[48] Cfr. H. Rolston, Human Uniqueness and Human Dignity: Persons in Nature and the Nature of Persons, in E.D. Pellegrino, A. Schulman, T.W. Merrill (eds.), Human Dignity and Bioethics, University of Notre Dame Press, Notre Dame 2009, pp. 129-153, qui p. 139, traduzione mia.

[49] Cfr. H. Rolston, Values Gone Wild, cit., p. 207, traduzione mia.

[50] Cfr. Millennium Ecosystem Assessment, Ecosystems and Human Well-being, cit., pp. 22-23.

[51] A. West, Introduction: Hardy’s «Shifted ... Centre of Altruism»: An Ethics of Encounter and Empathy, cit., p. 1.

[52] Cfr. H. Rolston, Values Gone Wild, cit., p. 207.

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