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Abstract
Zero death’s society and social legitimacy between thought, technology and future of democracy
The interview attempts to articulate some of the key points that emerged over the long pandemic months. First, the relationship with the Death of our society, absorbed hiding and concealing its presence. This does not lead philosophy to think about some issues of our time such as trust in the scientific institution, the crisis of its legitimacy and the political fallout of such conceptions.
Gentile professor Costa, in primis grazie a nome mio e della redazione di S&F per aver accettato questo scambio: è un piacere poterle dare la parola.
Siamo ancora nella morsa di una pandemia che sta ridisegnando i contorni politici, sociali e, azzarderei, psichici della nostra struttura sociale. Questo grande rimosso dalla scena pubblica – il morire – è rientrato prepotentemente nello spazio della convivenza civile. Come descriverebbe sinteticamente il rapporto contemporaneo della società occidentale con la morte? Possibile che, nella sua radicale algofobia, il distrarsi della società occidentale rispetto alla finitudine – finanche “censurando” la morte d’altri – non sia altro che un’epocale opera di rimozione della morte, rimozione però del tutto paradossale dato che l’intero campo delle decisioni pubbliche è ormai basato sul “dato” stesso della morte?
V.C.: Partiamo dal dire che, per quanto riguarda l’approccio contemporaneo al morire, nell’ultimo mezzo secolo circa ci siamo costituiti, come dice Baudrillard, in una società a morte zero. Ciò significa che la morte, come la malattia, dev’essere tenuta nascosta; essa è disdicevole, vergognosa. Come se ci fosse da vergognarsene in quanto la morte non sarebbe altro che un segno di sconfitta, lo stigma che marca i perdenti. Morire giovani, poi, sarebbe una sconfitta doppia, peggiore ancora, come foriera di riprovazione sociale. Un segno di sconfitta in una competizione: vivere a lungo è essere riusciti, quasi come fosse lo stigma positivo della predestinazione. Un segno di successo, un bene di posizione. In una società basata sul successo, anche gli anni di vita divengono quindi segno di distinzione, un marchio di rivincita. Dall’ottica delle élites, la morte nei ceti meno abbienti è diventata un segno della loro natura inferiore; al contrario, nella longevità del popolo, si potrebbe pensare a una rivincita di “classe”: anche per questo, comunque la si guardi, la morte è diventata qualcosa da tenere a bada. Quando ho scritto Fenomenologia della cura medica[1] mi ha colpito moltissimo un aspetto: studiando la disintegrazione dell’identità nelle persone che hanno avuto un ictus, un danno neurologico o erano affette da malattie neurodegenerative, ciò che risultava era che queste persone avevano paura della percezione sociale della malattia più che della malattia stessa. E non era solo un problema di auto-percezione, perché addirittura molta gente era stata rimossa dal lavoro in quanto avrebbe danneggiato l’immagine di successo dell’azienda di appartenenza, la quale non poteva certo permettersi la “pubblicità negativa” dell’essere rappresentata da persone “non sane”.
Anche da questi segni si vede il nascondimento della morte in una società che vuole coprire le proprie patologie interne. Uno stigma: si è malati, ci si avvia a morire? Allora non si è riusciti. D’altronde, il sistema semiotico in cui noi viviamo è tutto basato sulla presunta efficienza, sulla gioventù e sul relativo mito dell’eterna giovinezza. La struttura della società a morte zero, d’altronde, non determina solo come le persone muoiono ma, ovviamente, anche come vivono: mi viene in mente il caso di Sergio Marchionne, che nascose la propria malattia, magari per non spaventare i mercati. Qualche personaggio pubblico ogni tanto fa outing, annunciando la gravità della propria malattia, ma è raro, e riconferma il carattere di stigma, la struttura di segno della morte.
S&F: Non possiamo negare che la situazione sia estremamente fluida riguardo la pandemia e che ogni discorso sembra potersi smentire dopo poche ore, immersi come siamo nel flusso informativo - anzi, questo cambiamento perenne sembra addirittura una caratteristica strutturale dell’infodemia/sindemia.
In una cronologia della pandemia, agli inizi la morte ha ossessionato i nostri sensi tramite una copertura mediatica senza precedenti, tra incancellabili scene drammatiche e la negazione del conforto finale a migliaia di persone spentesi nella più insostenibile solitudine. Ora, invece, sembra che la redenzione dalla paura della morte si sia affidata a strumenti tra il burocratico e il taumaturgico.
Lei crede di poter notare un cambiamento rispetto all’inizio della pandemia per quanto riguarda l’apparizione sulla scena pubblica – ma è davvero pubblica?! – della morte?
V.C.: Per continuare il ragionamento, diciamo subito che la pandemia è stata affrontata in primis sulla base del concetto di morte zero. Bisognava nascondere il morire, come se essa non facesse parte della società. Ovviamente questo non significa che si sarebbe dovuti affidare a uno spirito da “viva la muerte”, o che andasse da subito riaperto tutto; si sta semplicemente dicendo che, da subito, nel caso del lockdown, il terrore regnava essenzialmente sulla base di questo “tutto pur di evitare la morte”. Ovviamente nessuno di noi desidera morire, capiamoci: il punto è che la società a morte zero implica dei valori e delle pratiche correlate, tutte guidate da una costante nota di sottofondo che suggerisce che “tutto è meglio piuttosto che morire”.
Ma una domanda già incalzava, perché subito ci si è chiesti quanto tempo fossimo disposti a tollerare un lockdown, una chiusura generalizzata, e sulla base della percezione di questi timori nella società ci si è giocati qualsiasi popolarità politica – pensiamo ai politici che hanno detto tutto e il suo contrario, perdendo qualsiasi credibilità.
La pandemia ci ha posto una domanda: se è chiaro che bisogna curare la salute pubblica – nessuno direbbe il contrario, almeno pubblicamente – quali valori di fondo guidano l’approccio politico-sociale a tali questioni? È per questo che dobbiamo sottolineare come, anche da un punto di vista storico-prospettico, noi siamo la prima società della storia umana che abbia posto come proprio principio il fatto che qualsiasi cosa sia meglio che morire. Nessuna società umana ha mai ragionato così, solo il Noi contemporaneo è stato capace storicamente di portare la malattia fino allo sfinimento. La pandemia, non ha “creato” questo, ma lo ha senz’altro esacerbato. In più, ha portato tutto ciò nella sfera pubblica, ha de-confinato la morte dal privato e l’ha rimessa al centro tramite il racconto dei media.
Eppure, anche qui, la cornice pubblica non ha reso questa morte più reale.
Ricordiamo tutti le famose immagini dei camion che trasportavano i morti della terribile prima ondata, ma, capiamoci, in un certo senso neanche lì era una morte reale. Era anch’essa una rappresentazione: senza negarne il dolore o alludere in alcun modo a qualche complotto, l’impressione che si aveva davanti a quelle immagini era che ci fosse un elemento di fortissima e palese ricostruzione, dal sapore quasi cinematografico. Anche lì, insomma, per fare accettare la morte bisognava comunque rappresentarla, mediarla, darle un filtro spendibile, estetizzarla.
Ricordiamo inoltre tutti gli “Andrà tutto bene”, il tentativo di ricostruzione di un Noi collettivo, i discorsi intorno all’idea che la morte è una livella, ossia che il virus non avrebbe fatto differenza tra ricchi e poveri. Ma questo è falso: perché, d’accordo, senz’altro, quando si è morti, la livella agisce; ma il morire non è una livella, non si è tutti uguali. La differenza è semplice: molti sono morti senza la presenza di nessuno, soli. Al di là delle statistiche che è inutile richiamare, ad esempio negli USA l’impressione è che la morte abbia colpito molto più i ceti meno abbienti e che, anche da noi, la morte reale sia stata diversa per tanti: chi non aveva nessuno e niente, è morto da solo. Chi aveva assistenza privata, ha potuto fare altrimenti.
Questo fa la differenza: chi sa di dovere morire da solo, chiude la propria vita in maniera diversa. Nella morte, oggi, c’è una differenza di classe e questa distanza si acuirà sempre più se non si interviene socialmente.
Ecco, queste erano questioni filosofiche profondissime, da affrontare politicamente; il Covid poteva essere quantomeno la possibilità di ridiscutere di tutti questi termini, ma purtroppo si è passati alla questione dei “No vax”, che ha coperto tutto.
S&F: Passiamo allora, nella ricostruzione, alla seconda fase della pandemia. Arriviamo ai vaccini, alla reazione che hanno scatenato, alla resistenza che hanno trovato: che scenari apre la discussione intorno a essi?
V.C.: La seconda fase pone senz’altro altri problemi. In primis: che rapporto vogliamo stabilire con la scienza, in particolare con lo sviluppo farmacologico e tecnologico? È qui che si giocherà e si attualizzerà il rapporto umano con la morte; esso cambia a ogni epoca, non è lo stesso in un mondo ancora non secolarizzato o nella società a morte zero.
Come si rapporta la morte con la medicina che si sta facendo strada oggi? L’epistemologia che potremmo chiamare “No Vax” si basa su anacronismi: difatti, la medicina del futuro sarà basata sulla biologia molecolare, che permette più efficienza, modalità più mirate. Anche i vaccini di Pasteur erano sperimentali all’inizio, va da sé; o si pensi alle controindicazioni dei vaccini contro la poliomielite, o pensiamo a farmaci come la tachipirina, che possono avere, in rarissimi casi, effetti indesiderati devastanti. La scienza sperimenta ma ciò che non vuol dire che le sue sperimentazioni siano complotti o che ci si possa fermare: c’è una quota di rischio ineliminabile.
Tutto questo è legato a questioni dirimenti: che rapporto vogliamo avere con la Scienza? Che relazione vogliamo intrattenere con la biologia molecolare, con i suoi enormi sviluppi? Anche chi non si pone esplicitamente come antiscientista spesso non è al passo con le novità.
Questo, attenzione, non vuol dire che non ci siano dei problemi posti alla democrazia, perché è chiaro che delle zone d’ombra ci siano. In primis, un problema di controllo pubblico, relativo non tanto allo sviluppo scientifico in sé, ma al controllo e alla gestione dello stesso.
Ci sono gigantesche questioni democratiche e di classe legate allo sviluppo scientifico. Pensiamo, per fare un esempio tra tanti, agli sviluppi delle protesi che potranno tentare di bypassare i problemi alla spina dorsale e rendere mobili anche i paraplegici: questi strumenti hanno dei costi enormi, che nessun Sistema Sanitario Nazionale può accollarsi. Ecco il problema vero oggi: l’accesso democratico alle cure, da quelle di base a quelle più elaborate. Biopolitica, senz’altro, ma in questo senso, e non nella direzione posta da molti pensatori oggi, dei quali non ho problemi a dire che spesso non capisco neanche i termini delle questioni, tanto mi sembrano lontani dal reale.
Il problema biopolitico, oggi, è di chi vive e chi muore – chi deve vivere e può vivere e può curarsi – ed è un problema politico neanche minimamente sfiorato dalla questione dei riottosi ai vaccini. Come ripartiamo socialmente il rischio? Anche sui vaccini si è posto: ogni cura ha un rischio, per quanto basso. Nessuno può escludere che tra 15 anni si sviluppino gravi patologie inabilitanti, mettiamo anche solo un 2% della popolazione, che, per inciso, sarebbe un impatto che nessun SSN potrebbe gestire. E tuttavia, senza vaccini, ci sarebbe stato un collasso assoluto, economico e sociale, e la ricaduta sarebbe stata “di classe”. Il margine di rischio dei vaccini – che c’è, innegabilmente – in questa fase è estremamente più basso del rischio di collasso di un mondo.
Queste sono le questioni: le domande razionali intorno a problemi stile “come ripartiremo i costi? Come evitare di scaricarli sui ceti meno abbienti? Come gestiremo il futuro?”. In questo senso, anche l’affidamento a un governo nato in maniera “assai particolare” è stata la presa d’atto che non ci fossero altre soluzioni semplici e che bisognava agire di forza.
In questa fase, non c’è addirittura neanche più bisogno di ipotesi fantascientifiche. Pensiamo, come puro esperimento mentale, al prolungamento della vita a 120 anni, 150 anni addirittura. Potremmo arrivarci, e il punto sarebbe precisamente questo: i prodotti della nuova scienza saranno costosissimi, addirittura per pochissime persone sul pianeta. Questo deciderebbe chi vivrebbe e chi no.
Questo problema già si pone, anche senza ipotesi “fantasiose”. E su questo si gioca davvero il problema della morte, e rafforza la concezione della morte come stigma del non riuscito. Essere lasciati indietro significherà morire. E questo non può che porre un problema riguardo al Pubblico, alla Salute e al Sociale, con l’emergere di frustrazioni estreme.
Il problema dell’opposizione ai vaccini ha schiacciato tutto, ha fatto tabula rasa dei problemi sociali. Si è dimenticato quasi che senza medicina, senza farmaci, la popolazione umana sarebbe minore di quella che è oggi.
S&F: Cosa ne pensa della presenza ricorsiva di alcuni concetti foucaultiani nelle discussioni intorno ai provvedimenti governativi al tempo della pandemia, almeno nel campo della discussione filosofica? E, più in generale, come interpretare allora certi provvedimenti? Il lockdown, il Green Pass, addirittura la (cosiddetta) “Dittatura sanitaria”?
V.C.: Sarò onesto, mi sono sempre chiesto cosa fosse davvero per Foucault un dispositivo disciplinare. E ammetto che, rispetto a questi temi, ho spesso trovato in Foucault un’ossessione che sfiorava la follia.
Mi chiedo: allora, spingendo al limite il concetto, anche andare a scuola sarebbe un dispositivo disciplinare? Imparare un minimo di disciplina collettiva, leggere, scrivere? Ma come la organizziamo una società senza disciplina? Ovviamente, un dispositivo come descritto da Foucault ha aspetti interessanti ed è ovvio che il problema dell’autorità vada affrontata in chiave politico-filosofica, ma se tutto è un dispositivo disciplinare, allora si arriva alla follia. Per vivere insieme bisogna trovare una mediazione sulle regole. Se anche la mascherina diventa “dittatura sanitaria” o se, come anche ho letto, per alcune persone questi dispositivi di protezione mirano a produrre un “senso di colpa”, come organizziamo una società che deve affrontare una pandemia?
Con ciò non dico che, a livello politico, tutto sia stato affrontato perfettamente, assolutamente no, o che sia tutto scevro da dubbi. Ad esempio, personalmente sarei stato per l’obbligo vaccinale: uno Stato deve sapere mirare al bene comune, anche con responsabilità e senza mediazioni, alle volte. Per me quello che è intollerabile non è tanto il Green Pass, quanto la “teoria del nudge” a esso sotteso, la “spintarella”, la concezione comportamentistica che c’è dietro e l’idea di una democrazia gestita in questo modo, che si adatta a un pollaio e non a una società di cittadini.
Altre misure sono state semplicemente dei tentativi, più o meno riusciti, di fronte a uno spaesamento, perché la verità è che non si sapeva cosa fare, si era del tutto impreparati. Erano tutti tentativi, dunque si poteva fare meglio? Sì, probabile, ma non si devono minimizzare le difficoltà di una situazione del genere.
A me sembra che però il punto vero sia un altro: l’emergere di una clamorosa frammentazione degli interessi sociali, interessi che non mirano al bene comune ma alla salvaguardia delle categorie. Si pensi, dapprima, a quelli delle Case Farmaceutiche, che certo non sono composte da filantropi. Si pensi alla Lombardia che “non si ferma”, all’interesse delle industrie della zona della bergamasca e a cosa questo abbia comportato nella prima fase. Ma anche solo ai piccoli commercianti, che è ovvio che abbiano certi interessi: non sono certo dei “Luridi piccolo-borghesi”, bensì, semplicemente, gente che fallisce se non apre.
Questo è un punto importante, perché ha posto il problema delle nuove forme di governo. Le contraddizioni delle scelte emergono anche a causa della frammentazione sociale a cui le nuove forme di governo sono legate. Pe fare un esempio, il Parlamento è oggi svuotato, e questo non può essere tollerato per lungo tempo, ma è anche vero che i tempi del Parlamento non sono quelli della crisi, serviva agilità; bisognava convincere molti settori della popolazione a fare cose difficili da accettare e, allo stesso tempo, non scatenare il panico. Anche sui vaccini, sono stati fatti calcoli e questi calcoli hanno portato a fare cose che non possiamo accettare in toto, e tuttavia qualcosa bisognava fare e se non fosse stato fatto ci troveremmo in una situazione drammatica
S&F: Pensa ci siano stati errori nelle forme di comunicazione scientifica? Esse hanno esacerbato la radicalizzazione delle posizioni o, invece, la frammentazione sociale cui assistiamo avrebbe in qualche modo trovato in ogni caso il modo di “incanalarsi” e farsi radicale rifiuto della gestione scientifica e politica della pandemia?
V.C.: Prima di rispondere a questo, bisogna capire come le nuove tecniche di governo di cui parlavo sopra emergono anche per altri elementi ormai inaggirabili. Siamo di fronte a due crisi di legittimazione quasi epocali: la crisi di legittimazione della Politica e la crisi di legittimazione della Scienza.
La crisi di legittimità della politica istituzionale aveva già portato al nascere dei movimenti populisti, che non hanno mantenuto le attese. Molti politici di grido sono stati eletti per sostenere esattamente il contrario di ciò che sostengono ora; anche per questo tali partiti o movimenti sono ora nuovamente parte del processo di delegittimazione: eletti come risposta alla crisi di legittimazione della politica, hanno per breve tempo rianimato la sfera pubblica morente, per poi cadere nelle stesse contraddizioni che li avevano generati. Questo fa sì che, a soli quattro anni circa dalle elezioni, il Parlamento attuale non rappresenti realmente la società italiana, e questo crea disaffezione enorme, alla quale aggiungere un governo nato com’è nato e vicino a certi interessi non esattamente popolari.
E così crolla la fiducia. Ma la fiducia è, in primis, per ricordare Luhmann, una questione sociale e politica, non morale. E senza fiducia - perché ora non c’è, in nessun ambito – viene meno il legame tra mondo della vita e mondo delle istituzioni: questo è successo, e la domanda ora è “come si ricuce?”.
Accanto a questo, parallelamente, c’è la crisi di legittimazione del sapere scientifico. Nel contemporaneo (o, se preferisci, nel postmoderno) gli scienziati erano i grandi portatori di legittimità, ma la pandemia ha messo in crisi questa dinamica.
E questo è un problema grave perché noi viviamo in un mondo della vita che non è più “un mondo della vita in cui si usano tecniche”, bensì è “un mondo della vita tecnicizzato”. La tecnica è il nostro mondo della vita. Questo pone una serie di problemi enormi, perché significa che il mondo della vita ed i legami stessi sono tenuti in piedi dalla Tecnica, ed è chiaro che le forme della legittimazione devono fare i conti con questo, e mandando in crisi la fiducia alla legittimazione tecnico-scientifica si possono produrre pesanti cortocircuiti.
D’altronde, il mondo del sapere tecnico-scientifico, nella sua versione medica, si è sovraesposto. Non ha discusso nella comunità scientifica e con i mezzi della stessa, bensì ha posto pubblicamente un mantra che suonava come un “ti devi fidare di me perché io sono competente. Non te lo spiego, fidati: è così, punto”. Questo, ovviamente, ha creato delegittimazione, perché in una situazione così fluida, dall’inizio della pandemia non c’è stato uno scienziato che non abbia smentito continuamente le proprie stesse affermazioni (a mo’ di esempio: “è solo un’influenza” “i vaccini durano nove mesi”, “con i vaccini nessun contagio” etc.). Gli scienziati che sono andati in giro a dire che, nei vaccini, non c’era alcun rischio, hanno pronunciato frasi epistemologicamente assurde. Ovvio che tutto questo destabilizzi. Così come il conflitto tra scienziati stessi – in Germania, ad esempio, è emersa una lotta tra virologi ed epidemiologi –, o si pensi al vaccino per i più giovani, o a come si abbia comunque generalmente la percezione che tutte le risposte siano influenzate da questioni politiche ed economiche.
Questo ha creato una crisi di delegittimazione, in un momento in cui la Legittimità era ed è fondamentale.
Al contrario, bisognerebbe ricordare che un aspetto fondamentale è il sapere comunicare il dubbio, piuttosto che lo spacciare certezze ingiustificabili. A tal fine, bisogna spiegare meglio come i vaccini fossero fondamentali ma non taumaturgici. Insomma, dire cose ragionevoli. Si è invece puntato a legittimare la scienza in maniera mitica, ricadendo nel Mito. Innanzitutto, la trasformazione degli scienziati in sacerdoti della competenza: personaggi mitologici che avrebbero un rapporto segreto con il Sapere, un contatto unico con la verità. Cioè, gli scienziati sarebbero i buoni, e la Scienza sarebbe il Bene che sostituisce la Teologia, sconfigge la morte e porta alla Salvezza. Ricordo scene fortissime quando il primo carico di vaccini arrivò in Italia. Una reliquia che girava il paese, a metà tra le spoglie di un santo ed una torcia olimpica. Questa è stata una ricerca del consenso assolutamente stupida: si vedeva anche solo da lontano come quelle scene fossero posticce, fasulle, forzate, ed hanno nutrito il complottismo. Tutto ciò ha ingigantito le questioni della legittimità, le ha riempite di scorie.
S&F: Vorrei in conclusione chiederle se potremmo dire che siamo ora di fronte a un tipo particolare di morte, ossia alla scomparsa di un’intera stagione politica; in questo senso, di fronte alla sparizione dal campo del visibile istituzionale della tradizione social-comunista, non possiamo chiederci il perché di tale sconfitta storica.
Forse che il problema della morte delle istituzioni abbia a che fare con il depotenziamento del mondo della vita dovuto alle radicali diseguaglianze esistenti? Muoiono anche le istituzioni perché non sono più agite da spirito vitale, muoiono le spinte alla lotta sociale? Se non si ripensa la partecipazione dei subalterni alla vita comune e alle "forme" del vivere partecipato - se non si dà alle persone il diritto minimo a una vita degna, materialmente e simbolicamente - il campo dello spazio comune sociale potrà solo riempirsi di violenza e irrazionalismo?
V.C.: Questo si riallaccia al problema della risposta delle fasce popolari al disorientamento di fronte a eventi di tale portata e alla loro gestione. Oggi larghe frange di sinistra si sono saldate con la destra, prendendo forme di vero e proprio luddismo, pienamente regressivo come già lo era quando il “luddismo storico” nacque: al grido di “distruggiamo le macchine” emersero durante la prima industrializzazione tensioni settarie e corporative, e così anche oggi. La questione già all’epoca poneva problemi enormi e la grandezza del movimento socialista fu proprio quella di svoltare rispetto a certi approcci, teorizzando che il problema non fossero le macchine bensì i rapporti di produzione. Il luddismo andava abbandonato, non apriva scenari storici, era socialismo reazionario, come diceva Marx nel Manifesto.
Ecco, penso che, in parte, valga ancora oggi. E noi dobbiamo invece affrontare la vera sfida, il vero problema: chiamiamolo il problema del rapporto tra Tecnica e Democrazia. La tecnica oggi ci pone un problema enorme di democrazia, che non possiamo affrontare solo rifiutando la tecnica. Pensiamo anche solo ai social, i quali mostrano insidie enormi, tra cui la profilazione tramite big data o la creazione di bolle “personalizzate” in cui gli stessi argomenti sono continuamente sottoposti all’utente – per un esempio, si guardi a fenomeni come il “Daily me”, di cui parla anche Sunstein. Assistiamo così alla continua costruzione di “bolle” informative e relazionali nelle quali l’algoritmo ripropone ossessivamente argomenti con i quali sa già che l’utente concorderà, portandolo a relazionarsi solo con le persone che la pensano come lui – magari poche persone, ma scambiate per tantissime – con gravi effetti sulla percezione della realtà sociale.
Il problema è anche di controllo istituzionale: la pandemia lo ha mostrato, pensiamo ai vaccini. La soluzione è chiara: se vogliamo ripristinare la fiducia verso i vaccini, non potremmo farlo fin quando i vaccini saranno prodotti e gestiti per fini privati da soggetti che hanno interesse privato. Per ripristinare la fiducia nella scienza bisogna togliere il sospetto che nel vaccino alberghi un interesse privato, e ripristinare così fiducia e legittimità nel rapporto con la scienza e con il proprio corpo.
Tecnica e democrazia, allora: come concepirle, e come metterle insieme. Da una parte, sennò, il rischio è il rifiuto della tecnica nei settori popolari, con conseguenze regressive; dall’altro, che le élite possano dire che, se il popolo non capisce la tecnica, bisogna silenziarlo, e che dunque la democrazia non è più un buon modo di governo.
La sfida che abbiamo davanti è, allora, di pensare Tecnica e Democrazia insieme, e per tornare alla tua domanda il movimento socialista deve chiedersi come far dialogare queste due parole, come metterle in contatto. Senza questo lavoro avremo un pezzo di società elitario, lontano e sospettoso della partecipazione, e un altro risentito e arrabbiato in quanto impotente. Noi pensiamo che la rabbia sia un sentimento di reazione all’ingiustizia ma io non penso sia così: penso che la rabbia sia una reazione all’impotenza. La rabbia nasce quando non c’è un progetto di emancipazione o trasformazione.
Lo spazio è stretto: ma io penso che se c’è o non si sviluppa una proposta socialista non è solo perché tutti i media sono di Regime, né sia solo colpa dell’UE o del Neoliberismo.
Non si sviluppa un movimento socialista oggi perché le sue parole d’ordine sono ancora parole dell‘800. A rischio di essere banale: una volta si diceva “abolire la proprietà privata” e “socializzare i mezzi di produzione”. E oggi, invece? Cosa vuol dire oggi Socialismo? Cosa rappresenta e pretende oggi, in positivo, una proposta socialista?
Ecco, per ripartire almeno da un punto di vista teorico, uno dei primi temi deve essere quello del rapporto tra Tecnica e democrazia.
[1] V. Costa, L. Cesana, Fenomenologia della cura medica. Corpo, medica, riabilitazione, Morcelliana, Brescia 2019.