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Busso alla porta della pietra: a proposito di domande senza risposta

Autore


Fabiana Gambardella

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1.  L’Occidente tra natura e cultura
  2.  La vita degli animali tra stordimento e abbondanza
  3.  Natura e cultura agli occhi di un osservatore perplesso

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S&F_n. 26_2021

Abstract


I knock at the stone’s front door: about unanswered questions

This essay intends to investigate the way western philosophical tradition construes the relationship between nature and culture. From Platone to Heidegger, from Baudelaire to Italo Calvino, natural world has been described as mute, unable to signify. The Human being has built his supremacy over the natural environment on the certitude of representation. However this representation turns the other being into an object. And yet, if any question and any answer about nature are the result of a limited perspective, the request that man poses to nature is destined to stay unresolved.

[…] Eppure, dall’interno della specie,

ognuno tenta di lenire il proprio male con una scheggia,

con le prove concepite fuori da ogni possibile

orizzonte di stupore.

  1. De Alberti, Dall’interno della specie

 

 

  1. L’Occidente tra natura e cultura

In quel grande capolavoro filosofico-letterario che è il Fedro, una delle affermazioni che Platone mette in bocca a Socrate avanti che si accinga a fornire la sua descrizione dell’amore come divina mania e dell’anima come immortale, riguarda il mondo naturale.

Fedro e Socrate si avviano fuori le mura della città, camminano lungo l’Ilisso alla ricerca di un luogo tranquillo e ombroso in cui sostare, Fedro per recitare il discorso appena ascoltato da Lisia e Socrate «che ha la malattia di ascoltare discorsi»[1], per seguirne scrupolosamente il filo.

Raggiunta la tranquillità Socrate non fa che apprezzare con sincera meraviglia la bellezza del paesaggio, l’ombra del platano e la fresca fonte che vi scorre sotto, la dolce brezza, il profumo dei fiori e il coro delle cicale.

Lo schernisce Fedro: Socrate si comporta come uno straniero, un turista diremmo oggi, affascinato da una natura che sorge subito fuori le mura della città, luogo domestico che dovrebbe essergli familiare e che invece il pensatore guarda e descrive con lo stupore della prima volta.

La risposta che Socrate fornisce allo scherno di Fedro è la sintesi cristallina della relazione che l’Occidente sin dai suoi esordi stabilisce con la physis, ancor di più essa è l’emblema di quell’antropocentrismo a fondamento della grande narrazione filosofica dell’Occidente:

Perdonami, ottimo amico! Io sono uno che ama imparare, e la campagna e gli alberi non vogliono insegnarmi nulla, mentre gli uomini nella città invece sì. Però tu sembri aver trovato il farmaco per farmi uscire; infatti, come coloro che si portano dietro degli animali affamati, agitando davanti a loro della verdura o un frutto, così tu, tendendomi davanti dei discorsi scritti nei libri, mi farai girare per tutta l’Attica o per qualunque altro luogo a tuo piacimento[2].

 

La natura dunque, si presenta muta, incapace di racconto, privata del privilegio della narrazione che solo all’umano spetta. Risorsa indispensabile alla vita, nutrimento di quella zoé che l’uomo condivide con gli altri animali, essa non è tuttavia in grado di insegnargli nulla, non alimenta la sua vita biografica. Per quella ci vogliono gli altri uomini e le loro parole. Altri uomini e altri luoghi, diversi da quello in cui Socrate e Fedro si stanno intrattenendo.

Lo spazio umano, della parola e del discorso che si fa insegnamento, è lo spazio della città, dove la natura si fa da parte affinché parli la pietra; una pietra che in questo caso non è senza mondo, non è quella che un filosofo campestre guardava a passeggio fra i boschi, non è la pietra che giace sul sentiero e tocca la terra senza sapere di farlo[3].

L’uomo è formatore di mondo dirà più tardi Heidegger, e lo è, anche secondo Socrate, perché modella la pietra e costruisce case, villaggi e templi per i suoi culti. In questo caso la pietra ha mondo è anzi lo specchio e l’espressione di tutti i significati che l’umano va costantemente producendo.

Potremmo dire che l’uomo nello spazio narrativo della città infonde la parola alla pietra.

Infatti sono Gli uomini nella città, avverte Socrate, coloro che insegnano, coloro dai quali ho da imparare qualcosa.

E ancora in questo breve ma intenso preludio al tema centrale dell’opera, continua la forse non voluta comparazione tra i gradi dell’organico: l’unico modo per allontanare Socrate dallo spazio urbano della significazione e indurlo a indugiare nell’ottusa stasi degli elementi è attirarlo con un’esca: così come si sprona l’animale al cammino mostrandogli del cibo, allo stesso modo Fedro ha indotto Socrate a seguirlo al di fuori del perimetro magico dei simboli della città, tendendogli davanti dei discorsi scritti nei libri.

L’animale, sapeva già Socrate, è dunque povero di mondo poiché per esso il mondo va limitandosi alla dimensione del bisogno, della verdura e del frutto che gli vengono mostrati per spronarlo al cammino; l’animale, dirà molto più tardi Heidegger nelle lezioni del ‘29, entra in contatto col mondo come con un disinibitore che scatena la sua risposta.

L’uomo, sapeva Socrate prima di Scheler, si presenta al contrario come l’asceta della vita[4], capace di correre per tutta l’Attica, saltando i pasti magari, soltanto per seguire una pagina scritta, perché sapeva già Socrate, esso non vive di solo pane.

Ne Le peintre de la vie moderne Baudelaire inasprisce i toni rispetto alla frattura natura-cultura: il poeta fa il verso a una certa estetica, quella di chi non pensa e non pensando va sostenendo che la natura abbellisce la bellezza, cioè dunque che la semplicità abbellirebbe la bellezza.

Per Baudelaire la frase equivale a dire che il niente abbellisce ciò che è, e, riprendendo la frase che Socrate pronuncia in compagnia di Fedro, essa non ha nulla da insegnare, anzi costringe l’uomo nelle strette maglie del bisogno: dormire, bere mangiare, difendersi dalle ostilità ambientali. Al punto che essa è sede di ogni male e di ogni crimine: spinge l’uomo fino ad uccidere il proprio simile, poiché essa, altro non è che la voce ancestrale dei nostri gretti interessi vitali, relativi alla mera sopravvivenza.

Tutto quanto è buono e nobile, continua Baudelaire, «altro non è che il risultato della ragione e del calcolo», poiché nulla vi è di più artificiale della virtù. Infatti «Il male si compie senza sforzo, naturalmente, per fatalità, il bene, al contrario, è sempre prodotto di un’arte»[5].

La natura dunque è penuria d’essere, indigenza, è il negativo che va costantemente superato attraverso l’arte e l’ingegno umani, attraverso la cultura e la capacità di significazione. La natura, come di nuovo sosteneva Socrate, va addomesticata, modellata.

Ancora più esplicito, se è possibile, nella poesia Reve pariesien, che esprime tutta la meraviglia di un sogno nel quale finalmente la natura viene completamente eliminata per lasciare spazio all’opera dell’uomo:

 

Le sommeil est plein de miracles!

Par un caprice singulier,

J'avais banni de ces spectacles

Le végétal irrégulier,

Et, peintre fier de mon génie,

Je savourais dans mon tableau

L'enivrante monotonie

Du métal, du marbre et de l'eau.

Non d'arbres, mais de colonnades

Les étangs dormants s'entouraient,

Où de gigantesques naïades,

Comme des femmes, se miraient[6].

 

Di nuovo come in Platone, sono palazzi e fontane a insegnarci qualcosa, l’opera dell’uomo che quella natura violenta e addomestica, spogliandola degli elementi perturbanti.

 

  1. La vita degli animali tra stordimento e abbondanza

Se ci si sposta dal locus amoenus dei dialoghi platonici all’accogliente stanzetta e al tepore del fuoco davanti al quale va dipanandosi il racconto della nascita dell’autocoscienza moderna, notiamo che l’antropocentrismo occidentale va rafforzandosi, affina le sue argomentazioni e perfeziona le sue ragioni.

Cartesio elabora la formula magica della modernità, semplice ma gravida di conseguenze: cogito ergo sum e nel far coincidere pensiero ed esistenza, o meglio, pensiero razionale ed esistenza, va relegando tutto quanto non rientri in questa particolare e tutta umana forma di conoscenza, cioè l’immensa varietà della vita, di cui l’uomo è parte esigua e minoritaria, nel regno dell’indistinto, nella muta acquiescenza delle cose:

In questo concetto tuttofare, nel vasto campo dell’animale, al singolare generale, nella stretta morsa dell’articolo determinativo, sarebbero chiusi, come in una foresta vergine, in un parco zoologico, in un territorio di caccia e di pesca, in un territorio d’allevamento o in un macello, in uno spazio per l’addomesticamento, tutti i viventi che l’uomo non riconosce come suoi simili, prossimi o fratelli. E questo nonostante l’infinita distanza che separa la lucertola dal cane, il protozoo dal delfino[7].

 

Il nascente soggetto, in grado di rappresentare, cioè di porre innanzi a sé l’altro da sé, che dunque incontra nella veste di oggetto, va stabilendo su di esso un loquace dominio.

In effetti l’equazione è semplicissima e stabilita in origine da quel maestro tremendo e venerabile che, identificando l’essere col pensiero e col linguaggio, stabilisce una volta e per tutte il dominio incontrastato della ragione entro i confini del mondo occidentale che va gettando le proprie fondamenta a partire da un sillogismo semplice e necessariamente ineccepibile: la fattura dell’universo è razionale, Dio stesso è ente di ragione, l’uomo dunque in quanto essere razionale partecipa dell’essenza di dio.

La ragione dell’uomo pensa e dice di dio, conosce e dunque partecipa delle leggi razionali dell’universo. La vita e cioè il resto dell’ente quelle leggi si limita a subirle.

Ma c’è un vizio di forma all’interno di questo ragionamento, che ci induce a sostenere che sebbene il sillogismo sia corretto dal punto di vista della logica formale, tuttavia non sia veritiero, perché fondato su una premessa fallace o quantomeno arbitraria, espressa perfettamente dalla protagonista de La vita degli animali di Coetzee, la scrittrice Elisabeth Costello, che, invitata a una conferenza di letteratura, decide di trasgredire ogni bon-ton, per parlare in vece degli animali, di una natura che oppone alle prassi dell’uomo il suo ostinato silenzio:

La ragione […] non è né l’essenza dell’universo né l’essenza di Dio. Al contrario, mi pare che la ragione assomigli in modo sospetto all’essenza del pensiero umano; peggio ancora, all’essenza di una tendenza del pensiero umano […] E se è così, se è questo ciò che credo, perché mai dovrei inchinarmi alla ragione, e accontentarmi di ricamare sul pensiero dei grandi filosofi del passato?[8].

 

Elisabeth Costello nel proseguire la sua perorazione a favore dell’animale, oppone al pensiero, ai travagli della cogitazione, quella che definisce come “pienezza d’essere”, che non è la grigia autoconsapevolezza di una «fredda macchina calcolante che produce pensieri», bensì la sensazione viva e pulsante, pesantemente affettiva, di essere. Ma di essere cosa? E soprattutto come? Di essere, continua Elisabeth, un corpo con arti che si estendono nello spazio, di essere vivi e aperti al mondo[9]. Derrida nella sua critica a Cartesio mette in evidenza proprio la perdita di questa pienezza del sentire e dell’abbracciare il mondo in prima istanza a partire da un corpo vivo e pulsante; sostiene in merito alla coscienza cartesiana: «Ciò che provo non è tanto che io respiro, ma che io penso di respirare»[10].

 

  1. Natura e cultura agli occhi di un osservatore perplesso

Eppure da sempre l’uomo interroga la natura, pare porsi all’ascolto di essa, chiede conto dei suoi progetti e del suo procedere; si ha l’impressione tuttavia che si tratti spesso di domande retoriche, di cui l’interrogante conosce già le risposte. L’interrogante in questo caso risponde al posto dell’interrogato, ne fa le veci, abbozza il discorso, che il silenzio ostinato dell’ente non riesce a far emergere.

Palomar, protagonista a tratti naïf dell’ingegno di Calvino, è uno di quelli che interroga le cose, un osservatore timido e attento di quanto lo circonda, piante, animali, la volta celeste, e come vuole un’inveterata tradizione il suo domandare alle cose che non rispondono è sempre al contempo un domandare sull’uomo. Nel protagonista della penna di Calvino tuttavia, la contrapposizione forte e netta uomo-natura, che si traduce spesso in estraneità, o quantomeno in volontà di addomesticamento, risulta molto attutita, addirittura spesso dubbiosa di sé. I toni si abbassano, le partizioni nette si sfumano, così come le nette gerarchie e la domanda intorno alle cose diventa ancora più urgente.

Palomar non fa che reiterare quel continuo, ostinato e tutto umano bussare alla porta della pietra, per parafrasare la poetessa Szymborska; Palomar, come tutta una tradizione vuole, oppone al mutismo dell’altro una domanda, nella perenne dialettica che contrappone parola a silenzio.

Le incursioni di Palomar allo zoo ci mostrano un campionario delle domande e delle risposte che l’Occidente pone alla natura e risolve più o meno a proprio favore.

Nello zoo di Barcellona ad esempio, Palomar ha modo di incontrare l’unico esemplare al mondo di gorilla albino, “Copito di neve”, un gigante triste, il cui sguardo è pieno di desolazione, pazienza e noia, uno sguardo – sottolinea Calvino, dando inizio a una meravigliosa danza di proiezioni–:«che esprime tutta la rassegnazione a essere come si è, unico esemplare al mondo di una forma non scelta, non amata, tutta la fatica di portarsi addosso la propria singolarità, tutta la pena di occupare lo spazio e il tempo con la propria presenza così ingombrante e vistosa»[11], insomma direbbe qualcuno, tutto il peso della propria gettatezza. Anche l’uomo, unico esemplare al mondo di animale malato, porta da sempre tutto il peso di una singolarità che pare sporgere dalla costanza muta delle leggi naturali.

C’è un continuo oscillare del processo descrittivo, un gioco di specchi e rimandi, di avvicinamento-allontanamento tra il soggetto narrante e l’oggetto narrato; una contiguità perturbante tra ciò che chiamiamo natura e ciò che chiamiamo cultura, una prossimità tra due sforzi diversamente falliti di esprimere l’indicibile, un mescolarsi, uno scambiarsi di posto che inquieta l’osservatore e la supremazia del suo sguardo.

Copito meno degli altri gorilla somiglia all’uomo, mani pelose e poco articolate, che sono in realtà zampe che il gorilla usa per camminare appoggiandole al suolo come un quadrupede. Nessun privilegio della stazione eretta, Copito non può elevare il suo sguardo verso l’alto e mirare le stelle. E tuttavia accanto alla consolante certezza di una differenza che non può colmarsi si dipana un contemporaneo percorso di vicinanza al gigante triste: le braccia-zampe di Copito stringono contro il petto un copertone d’auto; nell’enorme vuoto delle sue ore Copito non abbandona mai il copertone. Palomar si chiede cosa rappresenti quel copertone per il gorilla e la sua tristezza: Un giocattolo? Un feticcio? O piuttosto un talismano per esorcizzare l’angoscia di esserci, di stare senza averlo scelto e per di più con lo stigma della diversità, albino fra gli scuri. Deve essere così, Palomar va convincendosene: la prova sta nel fatto che anche la femmina possiede il suo copertone e tuttavia, come tanta parte dell’etologia ci spiega, essa lo utilizza come uno strumento, semplicemente se ne serve come di un artefatto che aumenta il suo comfort: ci sta seduta dentro come una poltrona a prendere il sole spulciando il figlioletto. La sua relazione con l’oggetto è spensierata, pratica e priva di problemi. Da buon primate la femmina possiede un’intelligenza strumentale che le consente di utilizzare le cose come utensili. Copito pare trascendere questa condizione, un abbozzo di simbolo è quel copertone per Copito, l’albeggiare, dice Calvino, della cultura nella lunga notte biologica, «la ricerca d’una via d’uscita dallo sgomento di vivere: l’investire se stesso nelle cose, il riconoscersi nei segni, il trasformare il mondo in un insieme di simboli»[12].

Eppure Copito, il diversamente-gorilla, costituisce, nel variegato caleidoscopio di una natura che immediatamente sa, che silenziosamente e senza indugiare perpetua se stessa, l’eccezione alla regola, o meglio, il patologico, l’anormale, l’anello che non tiene. In altre parole patologica è la natura quando evoca tratti umani, quando pare imitare il disagio di una condizione incerta, il dubbio, il tentennamento, quando non procede ciecamente alla riproposizione di schemi e leggi stabilite. Il diversamente-gorilla è come l’uomo, animale-malato perché interrompe la beata Benommenheit, l’appagante e adattivo stordimento della vita che si espande senza saperlo. La natura che imita l’uomo, che perde la sua sicurezza, il suo sano e cieco istinto a preservarsi e va cercando talismani per esorcizzare l’angoscia del suo stare, è una natura malata.

Lo specchio gorilla alla fine pare riflettere un’impossibilità all’origine di tutto ciò che è, sia che esso dica sia che opponga il rifiuto del silenzio, poiché in fondo, pensa Palomar: «Tutti rigiriamo tra le mani un vecchio copertone vuoto mediante il quale vorremmo raggiungere il senso ultimo a cui le parole non giungono»[13]. In fondo allora, a prescindere dalla copiosità del discorso, l’ottusità della natura è la stessa dell’uomo; il linguaggio appare allora conatus, tentativo mai veramente a lieto fine di accogliere e decifrare il segreto dell’altro.

E in effetti uno dei miti che permea la nostra tradizione descrive una natura che sa, anzi si stratta invero di una natura che fa e fa bene senza sapere, procede in maniera efficace e adattiva senza dire, fa a meno del perenne chiacchiericcio interiore ed esteriore che fa da sfondo all’esistenza precaria del sapiens sapiens. Persino quando le sue forme appaiono improbabili e bizzarre, inadatte allo scopo, come le giraffe da cui ancora lo sguardo di Palomar allo zoo pare ipnotizzato, essa va dritto al punto.

«Il signor Palomar non si stanca d’osservare la corsa delle giraffe, affascinato dalla disarmonia dei loro movimenti»[14], le zampe anteriori dinoccolate, si srotolano fino a terra e il loro movimento è assolutamente eterogeneo e scoordinato rispetto a quelle posteriori, molto più corte e rigide che tengono dietro a balzi, come se fossero gambe di legno o stampelle che arrancano. La giraffa, pensa Palomar, sembra un meccanismo costruito mettendo insieme pezzi provenienti da macchine eterogenee, ma che pur tuttavia funziona perfettamente. A questo punto emerge di nuovo il gioco di specchi, la prossimità inquietante che paradossalmente segna però al contempo la distanza abissale tra le due dimensioni ontologiche: l’armoniosa disarmonia delle giraffe evoca a Palomar il disordine e la discordanza del suo mondo; l’armonia che pare fiorire malgrado i movimenti scoordinati degli animali induce Palomar a pensare che anche presso di sé debba esserci un disegno, seppur ben celato, che si imponga malgrado l’apparente mancanza di senso delle cose.

Ancora doppio movimento e aporia intrinseca nello sguardo dell’osservatore: all’apparente apologia dell’armonia perfetta e inconsapevole della natura - che in ogni sua forma, anche la più atipica e improbabile, procede senza remore e senza errori, di contro al costante dubbio nevrotico dell’uomo - fa da contraltare l’orgoglioso e in fondo felice crogiolarsi dell’uomo nella sua condizione di animale malato di autoconsapevolezza e dunque per questo, ontologicamente superiore.

Una visita allo zoo che si rispetti non può evitare una sosta al settore che potremmo definire delle origini, il rettilario, dove sostano gli squamati: qui la natura pare essersi sbizzarrita, la forma sovrasta la funzione: più pelle del necessario: pieghe, borse sbuffi, «troppa roba per trovarsi tutta addosso a una sola bestia, cosa ci sta a fare? Serve a mascherare qualcuno che ci sta guardando da lì dentro?»[15].

Impossibile dunque che la natura giochi, come al contrario l’umano da sempre fa, alla seduzione priva di scopi; un altro topos emerge da questa descrizione: la silenziosa austerità della natura che non fa nulla senza un fine preciso, che non si abbiglia per il solo vezzo di colpire l’occhio dell’osservatore: qualcosa, un mondo al di là di ciò che appare, un senso deve celarsi dietro tutta quell’accozzaglia di squame, aculei e concrezioni. Quanto più la natura si maschera, tanto più il segreto che cela deve essere grande.

E in quest’atmosfera immobile di «calore umido e molle […] di puzzo acre, greve e fradicio che obbliga a trattenere il respiro» in cui «l’ombra e la luce stagnano in una mescolanza immobile di giorni e di notti», non può non affacciarsi, nella mente di Palomar, la domanda metafisica: «sono queste le sensazioni di chi s’affaccia fuori dell’umano? Al di là del vetro di ogni gabbia c’è il mondo di prima dell’uomo, o di dopo, a dimostrare che il mondo dell’uomo non è né eterno né l’unico»[16].

L’uomo bussa dunque alla porta della pietra e del rettilario, prova, come dice Heidegger a trasporsi nella pietra, nell’animale; cerca di capire come Thomas Nagel più tardi, cosa si provi a essere qualcos’altro[17], un pipistrello, per esempio, ma la verità è che da tutti questi mondi egli è escluso. L’ottusità della pietra allora, che sfugge con l’ostinazione del proprio silenzio alla domanda che l’uomo pone, è la stessa ottusità dell’umano, che malgrado l’insistente chiacchiericcio delle sue interrogazioni quel silenzio non riesce a penetrare, perché, come pensa Palomar, da quei mondi è escluso.

Non solo: lo scenario che l’uomo incontra e per il quale conia il nome generico di natura, o come voleva Derrida quello al singolare generale di animale, nulla ha in fondo a che fare col fuori. Si tratta piuttosto di un’ipotesi della mente, di una narrazione, di un racconto arbitrario, perché viziato all’origine dalla limitatezza del punto di vista, che estrapola, proprio come nello zoo visitato da Palomar, elementi a caso da un continuum vitale, per donargli il talismano del nome. Ciò che chiamiamo natura allora, opponendola da sempre alla cultura, al segno e in generale alla possibilità di significazione, si rivela un costrutto umano, troppo umano. Ecco perché per Palomar ogni esemplare osservato è in fondo tenuto in vita artificialmente dal produttore di artefatti simbolici, quasi, continua Calvino «fosse un’ipotesi della mente, un prodotto dell’immaginazione, una costruzione del linguaggio, un’argomentazione paradossale intesa a dimostrare che il solo mondo vero è il nostro»[18].

Palomar, come un’intera tradizione ha tentato di fare, desidera guardare le cose dal di fuori, è alla ricerca di quel punto di Archimede dal quale scrutare con nitidezza adamantina la loro verità.

E tuttavia la sua ricerca è necessariamente votata allo scacco, poiché ogni qualvolta il protagonista si protende verso questo sforzo di suprema astrazione, va facendo capolino l’invadente tracotanza dell’io, presenza indiscreta «che sta affacciato ai propri occhi come sul davanzale di una finestra e guarda il mondo che si distende in tutta la sua vastità»[19].

Ma se c’è una finestra che si affaccia sul mondo, pensa Palomar, vorrà dire che di là della finestra c’è il mondo; e di qua? Mondo decide Palomar, ché sempre di mondo si tratta, mondo che guarda, di contro a mondo che è guardato, pezzo di mondo che guarda altro pezzo di mondo.

Ma adesso viene l’esperimento più difficile, pezzo di mondo che prova a guardare dal di fuori e non dal di dentro l’altro pezzo di mondo.

Nulla, non accade nulla: nessuna rivelazione, nessuna trasfigurazione delle cose, non c’è verso. Quell’io pare rimanere caparbiamente avvinghiato al davanzale, è esso stesso davanzale e allora deve esserci un’altra soluzione: Palomar bussa alla porta della pietra, perché «è dalla cosa guardata che deve partire la traiettoria che la collega alla cosa che guarda. Dalla muta distesa delle cose deve partire un segno, un richiamo, un ammicco: una cosa si stacca dalle altre con l’intenzione di significare qualcosa… che cosa?» Si chiede Palomar; la risposta è poco consolante: Se stessa e nient’altro, «in mezzo alle cose che significano se stesse e nient’altro»[20].

Non c’è nulla da fare, la pietra non risponde e all’uomo non è dato decifrare il suo silenzio.

 


[1] Platone, Fedro, tr. it. Feltrinelli, Milano 2016, p. 45.

[2] Ibid., p. 51.

[3] M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo-finitezza-solitudine (1929), tr. it. Il Melangolo, Genova 1999, p. 256.

[4] A tal proposito si cfr. M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo (1928), tr. it. Franco Angeli, Milano 2007.

[5] C. Baudelaire, Le Peintre de la vie moderne, XI, Éloge du maquillage (1868), in Œuvres completés II, Gallimard, Paris 2004, p. 715.

[6] Id., Rêve parisien (1861), in Œuvres completes I, Gallimard, Paris 2004, pp. 101-102.

[7] J. Derrida, L’animale che dunque sono (2002), tr. it. Jaca Book, Milano 2006, p. 73.

[8] J.M. Coetzee, La vita degli animali (1999), tr. it. Adelphi, Milano 2000, p. 32.

[9] Ibid., pp. 44-45.

[10] J. Derrida, op. cit., p. 133.

[11] I. Calvino, Palomar, Einaudi, Torino 1983, p. 92.

[12] Ibid., p. 94.

[13] Ibid., p. 95.

[14] Ibid., p. 89.

[15] Ibid., p. 97.

[16] Ibid., p. 99.

[17] T. Nagel, What is it like to be a bat?, in «The Philosophical Review», 83, 4, 1974, pp. 435-450.

[18] I. Calvino, op. cit., p. 99.

[19] Ibid., p. 127.

[20] Ibid., p. 128.

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