Autore
Indice
- Intro
- Il vitalismo come arcipelago
- Viventi e inanimati
- Vitalismo e metafisica
- Vitalismo e metafisica 2.0
- Conclusione
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S&F_n. 25_2021_APPENDICE
Abstract
Vitalism and the metaphysics of life: understanding Enlightenment vitalism
In what follows I examine a series of conceptual constructs of Life, some of which we might call “vitalist”, in the period roughly going from Descartes, Leibniz and Stahl (the mid to late seventeenth century) to La Mettrie, Diderot and the Montpellier vitalists in the 1740s-1770s. I shall argue for a conceptual reconstruction of this “family” of medico-theoretical views in terms of a broad distinction between “substance” and “function” claims in vitalism, i.e., between substantival and functional vitalism. The former articulates claims about life as a substance (soul, vital force, etc.) while the latter, in different strengths and varieties, presents claims about life as a function of organized beings. However, unlike in earlier work, I no longer think it is possible to strictly separate metaphysical from non-metaphysical vitalism. How fruitful and/or reasonable is vitalism reconstrued in a science-friendly form? Must the latter be a non-metaphysical vitalism? I conclude with some considerations on how a typology of forms of vitalism might impact our understanding of the emergence of biology as a science.
Ai miei amici di Venezia[1]
- Intro
Nei miei lavori sul vitalismo del diciottesimo secolo, ho spesso cercato di mettere l’accento sui suoi aspetti ragionevoli, naturalistici ed euristici, opponendo il “vitalismo sostanziale” al “vitalismo funzionale”. Nella prima categoria ho incluso, per esempio, il lavoro di Georg-Ernst Stahl (chimico, filosofo, avversario di Leibniz), secondo il quale la vita (o l’anima) è una vera e propria sostanza, separata dal resto dell’universo fisico. Alla seconda categoria appartengono, invece, i lavori di autori che hanno tentato di cogliere le proprietà funzionali della vita senza tuttavia fare ricorso a essenze metafisiche[2]. Le mie ultime riflessioni – in parte legate a un costante confronto con il lavoro di Georges Canguilhem (e in particolare con il suo importante saggio Aspetti del vitalismo[3]) – mi hanno spinto a ripensare l’utilità e la coerenza di questa distinzione. Non penso che il vitalismo di Montpellier debba essere collocato nuovamente nella categoria del vitalismo sostanziale, ma non sono più certo che sia possibile operare una netta divisione tra vitalismo metafisico e vitalismo non-metafisico. In questo saggio cerco di spiegare perché.
Chi decide di parlare di “vitalismo” rischia di collocarsi su un terreno scivoloso. Tale termine delimita uno spazio discorsivo contestato, e, forse, designa testi, teorie e concetti che non appartengono a una stessa categoria; tuttavia, per parafrasare Wittgenstein, tali testi condividono solamente delle “somiglianze d famiglia”. Per alcuni autori anglosassoni, specialmente quelli che appartengono a quel campo trans-disciplinare che è sovente chiamato “Theory”, il “vitalismo” sarebbe una dottrina della «vita insondabile», che tenta di trattare una «esperienza grezza, non verbale, vissuta» in grado di resistere «alla pietrificazione delle forme e delle personalità sociali [...] delle categorie e degli schemi sedimentati»[4]. Per gli studiosi della filosofia della prima età moderna, in particolare anglofoni, il vitalismo designa, invece, una teoria che riguarda una materia che vive, o, perlomeno una materia dinamica che si organizza autonomamente; il termine è talvolta usato, in maniera imprecisa, per rilevare la presenza della “mente”, o della “vita”, nella materia. Non mi trovo d’accordo con nessuna di queste tesi.
Prendiamo un esempio celebre. Margaret Cavendish è un’autrice che, oggi, è considerata come una “vitalista,” ma, al contempo, anche come una “materialista.” Per giustificare tali asserzioni, gli studiosi citano passaggi della sua opera come il seguente: «perché non dovrebbe essere ugualmente probabile che Dio abbia dato alla materia il potere di muoversi da sola, o che abbia creato un’altra creatura per governarla? La natura non è certo “un infante o un fanciullo, che ha bisogno di una nutrice spirituale, che gli insegna a camminare o a muoversi»[5]. Molti studiosi parlano oggigiorno di vitalismo per designare la posizione secondo la quale la natura ha dei poteri, in questo caso, il potere di muoversi autonomamente. Si tratterebbe dunque di animismo universale e non certo di vitalismo. Riconosco, tuttavia, che Cavendish menzioni anche la vita, giacché, come scrive, “non c’è parte della Natura che non ha vita e conoscenza”. Confondere la “mente” con la “vita”, considerati come motore di auto- dei poteri auto-organizzanti nella materia, crea una notevole confusione concettuale, poiché le affermazioni sulla natura della vita organica e sulla differenza tra esseri viventi e inanimati (i due “assi” del vitalismo, per così dire) non dovrebbero essere confuse con il panpsichismo. Come affermava il fisico britannico James Jeans, secondo i panpsichisti, l’universo è, «più simile a un grande pensiero che a una grande macchina», e aggiungeva che, se adottiamo questa prospettiva, «la mente non appare più come un intruso accidentale nel regno della materia»[6]. Certo, non è possibile controllare l’uso impreciso dei termini, e si potrebbe dire che termini come “vita”, “vitale” e “vitalismo” implicano tutti una nozione di “mente” o “coscienza” – in effetti, alcuni autori della prima epoca moderna legano la vita alla mente. Leibniz, per esempio, dopo aver affermato che le macchine della natura non possono mai essere completamente distrutte, ma diminuiscono o aumentano, aggiunge che «esse conservano in un certo grado di vita [vitalitas] o, se preferite, un certo grado di attività primitiva [actuositas]»[7].
Per fare un po’ di chiarezza, adotterò la distinzione tra vitalismo cosmico e vitalismo immanente, una distinzione che Kevin Chang propone in un articolo sulla chimica e il vitalismo moderni[8]. A rischio di generalizzare, potremmo dire che, siccome presenta l’universo come vivo, o senziente o cosciente, il “vitalismo cosmico” tende a offuscare il divario tra “vita” e “mente”; un esempio è la confusione tra sentimento e vita in Diderot: «Il sentimento e la vita sono eterni. Ciò che ha vissuto, vivrà sempre, senza fine. L’unica differenza che conosco tra la vita e la morte è che ora, viviamo come aggregati e in vent’anni, saremo dissolti in molecole sparse». In modo simile, «i termini “vita” e “morte” non sono più assoluti; si riferiscono semplicemente a stadi successivi della stessa entità». In effetti, Diderot aggiunge che «dall’elefante […] alla molecola vivente sensibile, non c’è un singolo punto in tutta la natura che non provi sofferenza o piacere»[9]. Di fronte a questo seducente quadro che implica animazione, energia, tensione, e una sorta di generalizzazione cosmica dei sentimenti di “sofferenza o piacere”, perché, oggi, dovremmo lamentarci di un uso un po’ libero di questi termini? Perché dovremmo cercare un senso più preciso di “vitalismo”? Per dare una risposta immediata, mi sembra che quando parliamo di vitalismo, dobbiamo assolutamente distinguere le concezioni secondo le quali l’universo sarebbe animato, da precise affermazioni che riguardano i corpi viventi.
- Il vitalismo come arcipelago
Anche se il periodo storico che m’interessa è differente – si tratta il diciottesimo secolo, un periodo in cui il “vitalismo” è strettamente connesso alle scienze sperimentale – penso che la distinzione di Chang tra vitalismo cosmico e vitalismo immanente sia veramente utile. Il vitalismo cosmico, che diventerà più tardi panpsichismo, è una visione più antica. Secondo il vitalismo cosmico uno “spirito universale” permea e ravviva «tutte le cose nel geocosmo»[10]. Tale tesi risale alla teoria platonica all’anima, alla nozione stoica di pneuma, resa popolare da Ficino durante il Rinascimento. Ora, l’idea che la materia percepisca e senta universalmente in ogni parte dell’universo (idea la quale, come abbiamo visto sopra con gli esempi di Cavendish o Diderot, non è limitata al Rinascimento), può essere considerata come una forma di vitalismo cosmico. Al contrario, citando Chang, il vitalismo immanente «presumeva l’esistenza di un principio di vita intrinseco alla materia», «spesso concepito nella forma di un “seme” impiantato nell’unità base della sostanza vivente» (ibid.); un esempio ben noto, che Chang non discute, è l’idea lucreziana in Gassendi di “semina rerum”[11].
Potremmo considerare questo “vitalismo immanente” come una condizione necessaria – ma non sufficiente – per lo sviluppo di vitalismo specificamente organico, di cui parlerò in un attimo. In effetti, secondo Chang, Georg-Ernst Stahl, che è comunemente considerato come un “animista”, è un autore che «ha tracciato un confine tra il cielo e la terra e tra la materia senza vita e l’essere vivente»[12]. Questa distinzione disloca alcune distinzioni operate in seno al perimetro del vitalismo; infatti, secondo Chang, “dopo Stahl, i vitalisti non hanno più rivendicato il mondo inorganico come il loro territorio. Da allora, il principio vitale è stato collocato nell’organismo e il vitalismo si è limitato alle scienze della vita” (ibid.). Pertanto, basandomi sul suggerimento di Chang, propongo di definire differentemente “vitalismo”, limitando l’estensione del concetto: il vitalismo è un arcipelago di teorie legato alla storia delle scienze biomediche. Contrariamente alle teorie iatromeccaniche, che trattano l’organismo come una macchina, il vitalismo non è solo una tesi riguardo alla vita, ma è una specifica teoria incentrata sulle proprietà irriducibili dell’intero organismo. Ciò è vero, anche se i profani spesso omettono che l’opposizione tra vitalismo e meccanicismo dovrebbe essere compresa in seno a una “triangolazione” che mette in relazione tra queste due posizioni con una terza, l’“animismo”, che spiega il funzionamento dell’organismo in termini di anima. Il caso paradigmatico di questa terza posizione è Stahl – che non posso trattare qui – secondo il quale «l’anima è direttamente responsabile delle strutture corporee»[13].
- Viventi e inanimati
Se limitiamo il vitalismo alle scienze della vita, la situazione è più chiara, ma dobbiamo ancora precisare gli aspetti operativi di questo termine. Bisogna dunque isolare una definizione, riconsiderando la portata e i limiti dell’uso di questo termine durante il diciottesimo e diciannovesimo secolo. Charles-Louis Dumas, Decano della Facoltà di Medicina di Montpellier fu tra i primi (anche se non il primo) a utilizzare il termine. Dumas distinse il vitalismo, la dottrina professata dal gruppo di medici di Montpellier di cui faceva parte, dallo “spiritualismo” (ovvero l’animismo) e dal “materialismo”; secondo lui i vitalisti si sarebbero impegnati a spiegare i fenomeni viventi attraverso…
un principio intermedio che possiede proprietà [facultés] diverse dall’uno e dall’altra [tanto dallo spirito che della materia] e che regola, dispone e ordina tutti gli atti di vitalità, senza essere spinto dagli impulsi fisici del corpo materiale o dagli affetti morali e dalla lungimiranza intellettuale del principio pensante[14].
Nonostante la sua vaghezza, la definizione di Dumas è utile, giacché lo separa nettamene dall’animismo (ovvero, le spiegazioni basate sull’anima); non si tratta soltanto di scegliere tra “anima” e “materia”, come faceva T.S. Hall quando presentava la presunta polarizzazione epistemologica determinata dall’eredità cartesiana, e aggiungeva che «interpretare il corpo senza invocare un’anima ha richiesto un’estensione compensativa del ruolo assegnato alla materia, poiché la materia ora deve portare il pieno carico esplicativo»[15].
La definizione che suggerisco – una definizione che è dunque stipulativa – implica chiarire quale sia il criterio secondo il quale le entità sarebbero viventi e, di conseguenza, opposte alle entità inanimate. Ciò significa che, al fine di stabilire se un autore è vitalista, dobbiamo prendere in considerazione i testi in cui questi tratta specificatamente quest’opposizione, tanto i casi in cui tratta questa distinzione incidentalmente, nel quadro di un’indagine empirica precisa, quanto i casi in cui tratta questa distinzione sostanzializzandola, o, se preferiamo, ontologizzandola. Questo criterio finisce per restringere la portata storica del termine, perché la preoccupazione esplicita nei confronti della natura delle entità viventi opposte alla materia in generale non è sempre esistita, non si tratta di un’interrogazione una caratteristica universale, trans-temporale della filosofia. Anche se si tratterebbe ancora di dimostrarlo, sospetto fortemente che si tratti di un’interrogazione post-cartesiana, cioè, se adottiamo la prospettiva della storia delle scienze, posteriore alla rivoluzione scientifica. Un esempio importante in questa storia, anche se non coinvolge il vitalismo, è il dibattito tra Leibniz e Stahl, riguardo alla distinzione tra organismi e meccanismi. Sia Leibniz sia Stahl concordano sul fatto che gli organismi sono diversi dai meccanismi e che sia pertanto importante rendere adeguatamente conto di questa differenza; da parte mia sono (nettamente) in disaccordo con entrambe le posizione: Stahl fa appello a un concetto più sostanziale di vita e di organismo (ovvero l’anima), mentre Leibniz pone più enfasi sulla complessità organizzativa o sulla composizione degli organismi – in un modo che non è privo di affinità con la successiva enfasi “strutturale” di alcuni vitalisti di Montpellier. In alcuni altri casi in cui è trattata l’opposizione tra materia vivente e inanimata, o organismi e meccanismi, si tratterà di considerare se il vitalista consideri o meno tale opposizione come necessariamente metafisica. Una volta messe in atto tali restrizioni riguardo al termine “vitalismo”, lo spazio concettuale si riduce e diventa più gestibile: non è più possibile legare goffamente al vitalismo concetti disparati come l’anima aristotelica, la natura naturans di Spinoza, le forze di Leibniz, le idee di Hume, i dinamismi economici studiati da Smith, la vitalità della folla (Canetti) o il potere animistico della rete elettrica, del cibo o della spazzatura (Bennett)[16]; infine è possibile separare chiaramente il vitalismo dal panpsichismo. Il vitalismo diventa quindi un insieme di possibili affermazioni sugli esseri viventi, che può invocare meno un “principio vitale” o “forza vitale”. Ovviamente è possibile anche dividerlo in sottoinsiemi: il vitalismo medico avrà diversi obiettivi rispetto al vitalismo embriologico (come ad esempio suggerito da Canguilhem). Tuttavia questa distinzione tra vitalismo cosmico e immanente non è ancora pienamente sufficiente. In particolare, tale distinzione non rende conto della differenza tra il vitalismo metafisico e il vitalismo non-metafisico. Tuttavia, non avevo forse distinto proprio in questa maniera le teorie della materia vitale o auto-organizzante dalle teorie mediche (fisiologiche, biologiche)? Tuttavia non esiste una demarcazione così chiara. Innanzitutto, come abbiamo visto nella definizione di Dumas, se il problema è la vita, ma la vita non è né ridotta alla materia né è spiegata in termini di anima, cosa sarebbe il “principio vitale”, che verrebbe sostituire il concetto di anima e di materia? Il vitalismo – anche nel senso più stretto del termine – è spesso definito come una dottrina che spiega la vita in termini di un principio o una forza metafisica. Talvolta ciò è vero, ma sicuramente non sempre. Tanto quando parliamo di vitalismo “forte” in opposizione al vitalismo “debole”, quanto quando parliamo di vitalismo metafisico in opposizione a un vitalismo non metafisico, dobbiamo tenere a mente la differenza tra la vita intesa come una “sostanza” e la vita intesa come “relazione”, cioè considerata come un particolare tipo di organizzazione. Oppure, dovremmo chiederci se tale sostanza vivente richieda o no una metafisica della materia vivente.
- Vitalismo e metafisica
La figura di spicco del vitalismo di Montpellier, Paul-Joseph Barthez, sembrava confermare l’ipotesi del vitalismo come una dottrina di principi vitali metafisicamente specificati o connotati fino a quando non iniziò a produrre autocritiche, mirando specificamente all’idea di un principio vitale. Molto meno noto, ma altrettanto geniale e senza dubbio molto più originale, Jean-Joseph Ménuret de Chambaud (autore di un numero impressionante di voci mediche nell’Encyclopédie da Diderot e D’Alembert) rinuncia completamente a tali entità, poiché descrive la vitalità in termini interamente strutturali, senza appellarsi a un principio (o sostanza) fondamentale. Idee simili sono state avanzate anche da Théophile de Bordeu, di cui parlerò brevemente. Barthez ha esitato a adottare l’idea di un principio vitale nella prima edizione dei suoi Nouveaux éléments de la science de l’homme (1778; rivisto nel 1806), ma vi ha successivamente rinunciato – almeno quasi totalmente . Dopo aver inizialmente affermato la sua esistenza, ha aggiunto un capitolo alla seconda edizione del suo libro, intitolato Considerazioni scettiche sulla natura del principio vitale[17]. In tale capitolo, Barthez giustifica il suo personale uso del termine “principio vitale” (che considera avere un’estensione più ampia che i concetti di enormon o impetuum faciens); lo definisce come «la causa che produce tutti i fenomeni vitali nel corpo umano»[18]. Tuttavia Barthez si è lamentato per esser stato ingiustamente preso di mira per aver «personifica[to] il principio vitale», quando in realtà non lo ha mai “affermato”; piuttosto, Barthez ha fatto appello a questo principio per spiegare i nuovi risultati e i nuovi fenomeni osservati[19]. Barthez ha riconosciuto di aver usato il termine, ma non lo ha mai inteso nel senso di “entità indipendente” (Nouveaux éléments, cit., p. 97, n. 18). In verità, ha avvertito che, quando si tratta del principio vitale, si dovrebbe seguire un «invincibile scetticismo» (ibid., p. 27; nota, p. 98, n. 18), un «ragionevole pirronismo» (ibid., p. 226). Come lui stesso lo spiega chiaramente, Barthez aveva “personificato” questo principio soltanto per facilitare la discussione (ibid., p. 107). In una frase molto bella, egli afferma: «Sono indifferente quanto posso esserlo riguardo all’ontologia considerata come la scienza delle entità» (ibid., p. 96, n. 17). Barthez discute lungamente il problema della “sostanzializzione” del principio vitale, che implicherebbe il ritorno a una sostanza, e non l’adozione di un approccio newtoniano, secondo il quale il “principio vitale” non sarebbe nient’altro che ad esempio, un principio sconosciuto newtoniano. Il suo approccio scettico non implica, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, un atteggiamento demistificante e deflazionistico nei confronti dei fenomeni vitali; in realtà Barthez vuole attribuire al principio vitale proprietà che risultano immediatamente dall’esperienza (ibid., p. 107). Ora, la critica dell’equivalenza fra principio vitale e metafisica non si limita soltanto all’epoca di Barthez; tutto il vitalismo si basa sul suo rifiuto di essere una metafisica. È difficile decidere qui se essere a favore o contro Barthez, visto che si tratta di un soggetto molto contestato, ma farò due osservazioni, una più critica, l’altra più diplomatica. Innanzitutto è innegabile che il linguaggio di Barthez possa essere apparentato a quello dei difensori del principio vitale, anche quando precisa che non lo sta “personificando” o ontologizzando. Il suo caso è esemplare: mentre alcuni altri vitalisti di Montpellier come Bordeu (o Ménuret) furono più cauti, più vicini al materialismo e più inclini a considerare il principio vitale o il linguaggio della “forza” come uno strumento euristico, altri, tra cui Jacques Lordat, il protetto di Barthez, ipostatizzarono ancora di più il principio, in diretto contrasto con il cosiddetto “sperimentalismo” che la scuola di Parigi professava. In secondo luogo, mi sembra un po’ dogmatico escludere automaticamente i riferimenti a un principio esplicativo (che molti hanno la prudenza a non chiamare “entità”), un principio il cui obiettivo è quello di raggruppare fenomeni apparentemente disparati, o almeno qualitativamente diversi. Come è noto, l’esempio spesso invocato è quello dell’attrazione newtoniana. Newton non aveva forse formulato l’ipotesi dell’esistenza di una variabile sconosciuta, la quale, tuttavia, aveva un ruolo chiave nella formazione di una teoria più ampia, che coinvolgeva fenomeni quali le maree e il moto planetario? Di conseguenza, perché altre scienze non potrebbero ipotizzare variabili sconosciute come fece Newton?
Anche se è vero che i vitalisti (e altri autori, come Albrecht von Haller) fecero ampio uso delle analogie newtoniane, ciò non significa che non vi fosse nessuna traccia di metafisica nelle loro opere: Barthez sembra nascondere la dimensione metafisica delle sue teorie sul principio vitale aggiungendo, nella seconda edizione della sua opera, argomentazioni scettiche e deflazionistiche; Barthez non manca anche di dichiarare a diverse riprese che le sue conclusioni derivano da un approccio che è integralmente empirista. Ciononostante tali dichiarazioni non debbono mascherarci delle affermazioni che sono senza dubbio metafisiche. Ménuret, invece, mi sembra appartenere a un vitalismo non-metafisico. L’autore non difende l’idea di una forza vitale indipendente e/o ontologicamente unica; al contrario rivolge tutta la sua attenzione sulla struttura specificamente organica del corpo – una dimensione che tanto i meccanicisti quanto gli animisti avevano trascurato... Ménuret afferma «Non hanno mai prestato attenzione alla struttura organica del corpo umano che è la fonte delle sue proprietà principali»[20]. Il vitalismo strutturale, così inteso, non implica la necessità di adottare una prospettiva strettamente anatomica, e neppure la necessità di invocare un misterioso principio vitale immateriale. Al contrario tale prospettiva si concentra sull’articolazione esistente tra le parti di un organismo (gli organi) e sulle loro proprietà[21].
Questo aspetto specificamente strutturale è evidente se prendiamo in conto il modo in cui Ménuret e Bordeu trattano la relazione tra parti e tutto: entrambi evitano tanto il riduzionismo quanto l’olismo integrale. Certo si tratta di olismo, visto che tale approccio si concentra su proprietà che non sono presenti esclusivamente nelle parti, tuttavia non si tratta di un “olismo dall’alto verso il basso”, giacché considera la “vita” a partire dall’analisi delle relazioni tra le “piccole vite” (gli organi):
Il corpo dovrebbe essere considerato soltanto come un insieme infinito di piccoli corpi identici, ugualmente vivi [...] ognuno di essi possiede una vita, un’azione, una sensibilità - tanto una specifica, particolare interazione e movimento, quanto una vita e una sensibilità comuni. Tutte le parti contribuiscono a modo loro alla vita di tutto il corpo, comunicano e s’influenzano[22].
Potremmo definire “vitalismo debole” un vitalismo in cui l’analisi delle proprietà delle parti riveste un ruolo determinante (come ad esempio nell’analisi delle ghiandole in Bordeu). La spiegazione di Ménuret di come un’interazione stabile tra parti (“vite”, cioè singoli organi) sia ciò che costituisce la salute non necessita di una metafisica della vita.
Proprio come Barthez aveva dichiarato di non voler coinvolgere considerazioni ontologiche, essendo scettico riguardo al principio vitale, Bordeu, nel suo capolavoro, Recherches anatomiques sur la position et la fonction des glandes (1751), si distanzia da eventuali affermazioni “essenzialiste” quando riflette sulla spiegazione di Stahl così come su altre possibili spiegazioni della forza “autoconservatrice” negli animali (Barthez è molto più antropocentrico). Innanzitutto, Bordeu riconosce che non è possibile avere accesso diretto a tali forze:
Discuterò dell’ipotesi di Stahl altrove: egli ha affermato che l’anima dirige la totalità del corpo animale. In ogni caso, posso affermare che tutte le parti viventi sono dirette da una forza di auto-conservazione sempre vigile; questa forza appartiene, per certi aspetti, all’essenza di una parte della materia o è invece un attributo necessario delle sue combinazioni?[23]
In secondo luogo, Bordeu introduce – in maniera insolita per questo contesto, visto che comparato a simili opere di questo periodo – l’idea che tali proprietà debbano essere descritte attraverso metafore: «Questa è di nuovo una di quelle metafore che ci devono essere concesse [...]. Posso solo suggerire una maniera di concepire le cose, [utilizzando] espressioni metaforiche, paragoni» (ibid.). Da questo approccio deriva un accento messo sulla mediazione, che distingue nettamente la sua teoria dal vitalismo metafisico inteso in senso “forte”. L’enfasi posta sulle metafore implica che concetti quali quello di vita o di “vite” possono, o no, avere un valore funzionale a seconda di quanto efficacemente essi forniscono modelli utili a spiegare determinati fenomeni; tali concetti non implicano dunque l’esistenza di determinate “cose”. Se il passaggio dal vitalismo cosmico al vitalismo immanente implicava che l’oggetto designato non fosse più l’universo, concepito come vivente o agente, ma, piuttosto, il corpo vivente, un’ulteriore differenziazione all’interno del vitalismo immanente si ha tra le sue versioni forti, o metafisiche, e le versioni deboli, ovvero meno o addirittura non metafisiche. Queste ultime si concentrano su idee come ad esempio “la struttura organica”, cioè su particolari tipi di relazione tra parti e tutto (Ménuret, Bordeu)[24]. A questo punto potremmo chiederci se il vitalismo può sbarazzarsi completamente della metafisica se questa è, bene male, un elemento essenziale.
- Vitalismo e metafisica 2.0
La questione se il vitalismo sia o debba essere una metafisica è in realtà duplice. Da un lato, essa riguarda la nostra interpretazione, giacché ogni discussione su una forza o un principio vitale potrebbe equivalere a una questione metafisica sostanziale, in cui “la vita” è per così dire, una sostanza. D’altro canto, questa questione ha già occupato gli autori del passato che oggi studiamo. Gli autori del settecento volevano evitare che il loro interesse per la vitalità fosse percepito come un “vitalismo metafisico”, sebbene fosse per loro difficile sbarazzarsi di asserzioni che erano percepite come metafisiche. È in questo senso che devono essere comprese alcune controversie sulla legittimità scientifica, tanto quella tra Haller e Glisson[25], quanto quelle tra Bichat e la Scuola di Montpellier, o tra Bernard e Bichat…[26]
Potremmo moltiplicare gli esempi in cui un vitalista debole cerca disperatamente di trovare un vitalista forte come suo predecessore, al fine di presentare le proprie ricerche sulla vitalità (sull’irritabilità, l’istologia, l’omeostasi, il metabolismo, ecc.) sufficientemente naturaliste e integralmente non metafisiche. In una versione più lunga di questo saggio[27] discuto nei dettagli di come ciò si manifesti anche nelle storie della medicina prodotte durante il diciannovesimo secolo come, per esempio in Bouillaud, il quale si scusa per la presenza della metafisica nella voce “vitalismo” da lui scritta per un dizionario medico: «come si può scrivere un articolo sul vitalismo – si domanda – senza approfondire almeno in parte le oscure profondità della metafisica?»[28]. Il giudizio di Daremberg è ancora più duro; nel suo importante Histoire des sciences médicales, egli riduce l’animismo di Stahl e il vitalismo di Montpellier a una dottrina arcaica: «qualsiasi tentativo di spiegare la vita di qualche entità al di fuori dell’organismo stesso, è una concezione primitiva» – che attesterebbe il ritorno ai primordi della medicina[29].
Tuttavia, di fronte a questa situazione, in cui tanto i discorsi prodotti dai medici, quanto quelli prodotti dagli storici della medicina sembrano tutti mostrare una estrema diffidenza verso il vitalismo, dovremmo prendere atto del suggerimento provocatorio di Canguilhem: il vitalismo non può fare a meno della metafisica e senza tale vitalismo metafisico, le scienze della vita non avrebbero potuto progredire. È abbastanza facile distinguere tra teoria della materia vitale e dibattiti sull’organismo, è più complesso, invece, stabilire come separare Glisson da Haller (o Bichat da Bordeu). Esistono momenti vitalisti che sono difficili da sradicare. Spesso, quando gli scienziati affermano che il vitalismo è stato confutato, in realtà ciò che è confutato è soltanto un caso particolare di vitalismo. Di conseguenza la distinzione che propongo qui proviene da da una prospettiva diversa da quella che ho adottato nei miei lavori sulla distinzione tra vitalismo “funzionale” e vitalismo “sostanziale”[30].
- Conclusione
Ho cercato di dimostrare, in primo luogo, che il “vitalismo” dovrebbe riguardare soltanto teorie che coinvolgono delle definizioni che riguardano la vita, la vitalità e gli organismi e che oppongono la vita alla materia inanimata, la scienza della vita alla fisica, oppure nuovi modelli epistemologici al meccanicismo. Naturalmente, uno storico della cultura interessato a temi quali il culto del corpo nudo nella Scandinavia della fine del diciannovesimo secolo potrebbe voler parlare di “vitalismo”; giacché è difficile controllare l’uso dei termini e delle “etichette”, ci si potrebbe chiedere se, a partire dalla mia tesi, abbiamo veramente bisogno di un termine preciso per riferirci a delle teorie che si collocano all’intersezione tra scienze sperimentali della vita e filosofia e che si interessano specificatamente alla vita organica. Ora, tali teorie possono avere diversi punti di forza, e possono essere utilizzate in differenti maniere; ho sostenuto altrove[31] che è storicamente inesatto definire il vitalismo come la credenza in una forza vitale soprannaturale che trascende il mondo naturale. In genere, tali accuse di vitalismo sono sempre critiche, come per esempio quella di Descartes, quando dichiarò nel Mondo che la natura non è certo una dea[32] (chi l’ha pensato?): tali accuse tendono a rafforzare una certo tipo di riduzionismo – che può essere, a seconda del periodo, basato sull’atomismo, sulla biochimica, o su altre teorie – senza che nessun enunciato empirico sia effettivamente confutato. In secondo luogo, all’interno del perimetro concettuale entro il quale ho riunito le varie teorie vitaliste, ho distinto tra vitalismi “forti” e “deboli”. Il vitalista forte insiste che esiste una sostanza vivente e che la scienza che studia gli esseri viventi è ontologicamente separata da tutte le altre scienze; il vitalista debole s’interessa alle proprietà funzionali, o, se preferiamo strutturali, di determinate disposizioni della materia vivente, ma non le ontologizza. Un altro caso di vitalismo debole è, per esempio, quello di Claude Bernard. Il medico si espresse contro gli eccessi metafisici del vitalismo, ma considerò che il suo compito fosse quello di scoprire e definire, anche quantitativamente, le proprietà distintamente vitali – tale lavoro sfociò nella definizione di concetti quali quello di mezzo interno (milieu intérieur) e di omeostasi). Tali distinzioni, però, non sono né infallibili né definitive: la centralità dell’anima in Stahl sembra chiaramente un segno di “vitalismo forte”, ma la sua spiegazione della malattia sembra invece il chiaro segno di un “vitalismo debole”. È quindi semplicistico respingere i tentativi di definire la “vita” come ingenui o troppo metafisici, come fa per esempio Ernst Mayr quando scrive che i tentativi di definire la vita sono “piuttosto inutili, poiché è ormai chiaro che non esiste una sostanza, un oggetto o una forza speciale che possa essere identificata con la vita”[33]. In terzo luogo ho tentato di mostrare che il vitalismo vero e proprio non è presente nel progetto deflazionistico, spesso associato alla Rivoluzione scientifica. Questo significa che uno dei motivi per cui sembra strano descrivere Aristotele o Harvey come vitalisti è che lo spazio problematico al quale appartengono è estraneo a quello determinato da quello potremmo chiamare il “Vitalismus-Problem”. Il problema del vitalismo – ovvero la ragione della distinzione tra gli organismi o i corpi viventi e le entità fisico-meccaniche – non è un problema che ci si poneva durante l’antichità. Non è certo una coincidenza che il termine “vitalismo” fosse stato usato per la prima volta alla fine del diciottesimo secolo, ovvero nel momento in cui la scienza “biologica” acquisisce tale denominazione.
Riconosco che il mio approccio alla “metafisica” non sia univoco. Inizialmente, al fine di mantenere precisione e rigore, ho suggerito che le dottrine della materia attiva o il panpsichismo debbano essere separate dal vitalismo[34]... Alla fine, ho esaminato alcuni casi in cui la metafisica sembra inevitabile e ho menzionato alcuni casi in cui i vitalisti tentano di differenziarsi l’uno dall’altro accusando i loro predecessori o i loro colleghi per avere adottato un approccio metafisico.
Com’è possibile conciliare tutte queste distinzioni? Innanzitutto, la mia volontà di differenziare i sensi di un termine non implica una sorta di “demarcazione” netta tra metafisica e scienza. Ironia della sorte, tali tentativi di demarcazione sono presenti in tutti i testi che ho preso in esame: Haller o Bernard hanno prodotto analisi che potremmo definire come “debolmente” vitaliste, ma hanno denunciato i loro predecessori per essere stati dei vitalisti metafisici, dunque dei vitalisti “forti”. Sembra quindi difficile fare a meno del vitalismo; a sua volta, il vitalismo sembra non essere in grado di affrancarsi completamente dalla metafisica, perlomeno se escludiamo il progetto di Ménuret. Fatto sta che tali momenti vitalisti sono destinati all’auto-dissoluzione; come scrive Fox Keller: «L’aspetto più interessante della ricerca sull’essenza della vita, e sicuramente la sua più grande originalità, è che, pur concentrando l’attenzione sul confine tra il vivente e il non vivente, pur rilevando l’importanza di tale confine, questa ricerca contribuisce al contempo alla sua stessa dissoluzione»[35]. Ciò significa che i concetti e le entità studiate dalle “scienze della vita” vengono perpetuamente “de-ontologizzati”. Anche se il vitalismo si lascia facilmente definire, ed è stato definito, in termini euristici e/o funzionali, come in Bordeu e Ménuret, mi sembra difficile sbarazzarsi delle sue altre dimensioni. Questo avviene non tanto perché il vitalismo trasmetterebbe una “verità” o un messaggio segreto riguardo a una sostanza vitale speciale o, un’esperienza (Erlebnis) grezza e non mediata, ma perché il vitalismo resiste ostinatamente alla confutazione diretta.
Ringraziamenti
Questo articolo è il risultato di ricerche condotte nel quadro del progetto ERC GA n. 725883 ERC-EarlyModernCosmology (Unione Europea, Horizon 2020 Research and Innovation Programme).
[1] Una versione differente questo saggio, sarà prossimamente pubblicata in inglese (in S. James (a cura di), Life and Death in Early Modern Philosophy, Oxford University Press, Oxford 2021). Il lettore può riferirsi anche a C.T. Wolfe, Il fascino discreto del vitalismo settecentesco e le sue riproposizioni, in Il libro della natura, a cura di P. Pecere, vol. 1: Scienze e filosofia da Copernico a Darwin, Carocci, Roma 2015, pp. 273-299; Il problema del tutto e delle parti: il caso del vitalismo di Montpellier, in Morfologie del rapporto parti-tutto, a cura di G. D’Anna, F. Piro, M. Sanna, F. Toto, Mimesis, Milano 2019, pp. 257-270; e Vitalism in early modern medical and philosophical thought, in D. Jalobeanu & C.T. Wolfe (a cura di), Encyclopedia of Early Modern Philosophy and the Sciences, Springer, Cham 2020. Ringrazio miei cari amici Giuseppe Bianco, Giulia Gandolfi, Rodolfo Garau e Mariangela Priaorolo per la loro revisione linguistica di questo saggio.
[2] Cf. C.T. Wolfe, From substantival to functional vitalism and beyond, or from Stahlian animas to Canguilhemian attitudes, in «Eidos», 14, 2011, pp. 212-235; e Il fascino discreto del vitalismo settecentesco, cit.
[3] G. Canguilhem, Aspects du vitalisme, in La connaissance de la vie (1965), édition revue, Vrin, Paris 1980.
[4] D.V. Jones, The Racial Discourses of Life Philosophy: Négritude, Vitalism, and Modernity. Columbia University Press, New York 2010, p. 4.
[5] M. Cavendish, Philosophical Letters, or, Modest reflections upon some opinions in natural philosophy maintained by several famous and learned authors of this age, expressed by way of letters, London 1664, 2.6.
[6] J. Jeans, The Mysterious Universe, Cambridge University Press, Cambridge 1930, p. 137.
[7] G.W. Leibniz, scritto da maggio 1702, in Philosophischen Schriften, ed. G.J. Gerhardt, Olms Verlag, Hildesheim 1978, vol. IV, p. 396.
[8] K. Chang, Alchemy as Studies of Life and Matter: Reconsidering the Place of Vitalism in Early Modern Chymistry, in «Isis», 102, 2, 2011, pp. 322-329.
[9] Diderot a Sophie Volland, 17 ottobre 1759, in D. Diderot, Correspondance, éd. G. Roth & J.Varloot, Minuit, Paris 1955-1970, vol. 2, p. 283; D. Diderot, Naître (articolo dell’ Encyclopédie), in Œuvres complètes, éd. H. Dieckmann, J. Proust et J. Varloot, Hermann, Paris 1975, vol. VIII, pp. 47-48; Le Rêve de D’Alembert, in Œuvres complètes, cit., vol. XVII, p. 140.
[10] K. Chang, Alchemy as Studies of Life and Matter, cit., p. 324.
[11] O.R. Bloch, La Philosophie de Gassendi. Nominalisme, matérialisme et métaphysique, Martinus Nijhoff, L’Aia 1971, p. 252, n. 75.
[12] Ibid., p. 328.
[13] F. Duchesneau & J.E.H. Smith, Introduction, in Duchesneau e Smith, tr. & a cura di, The Leibniz-Stahl Controversy, Yale University Press, New Haven 2016, p. XVII.
[14] C.-L. Dumas, Principes de physiologie, ou introduction à la science expérimentale, philosophique et médicale de l’homme vivant, Paris, Crapelet, 1800, vol. 1, «Discours préliminaire», p. 66 ; cf. R. Rey, Naissance et développement du vitalisme en France de la deuxième moitié du XVIIIe siècle à la fin du Premier Empire, Voltaire Foundation, Oxford 2000, p. 386.
[15] T.S. Hall, Spallanzani on Matter and Life, with notes on the influence of Descartes, in L. Spallanzani e la biologia del Settecento. Teorie, esperimenti, istituzioni scientifiche, a cura di G. Montalenti & P. Rossi, Olschki, Firenze 1982, p. 69.
[16] Su Smith, cfr. C. Packham, Eighteenth-Century Vitalism: Bodies, Culture, Politics, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2012 ; altre determinazione “liberi” dell vitalismo in J. Bennett, Vibrant Matter: A Political Ecology of Things, Duke University Press, Durham 2010; Hume è descritto come vitalista in A. Cunningham, Hume’s Vitalism and Its Implications, in «Brit. Jour. Hist. Phil.» 15, 2001, pp. 59-73. Cfr. C.T. Wolfe, Smithian vitalism?, in «Journal of Scottish Philosophy» 16:3, 2018, pp. 264-271.
[17] P.-J. Barthez, Nouveaux éléments de la science de l’homme, 2e édition revue, 2 vols., Goujon & Brunot, Paris 1806, livre I, chapt. III, § XXVI, pp. 82-111.
[18] Ibid., vol. I, p. 47.
[19] Ibid., vol. I, Note, p. 4.
[20] J.-J. Ménuret de Chambaud, Œconomie Animale (Médecine), in Encyclopédie, cit., vol. XI, p. 364b, corsivo mio.
[21] Questo non coincide per forza il rifiuto del meccanicismo su basi metafisiche, ma sulla sua insufficienza empirica. Infatti, l’enfasi che Méneuret pone sulla struttura permette proprio di rendere conto tanto degli approcci strettamente vitalisti quanto di quelli esclusivamente vitalisti (con una interazione maggiore tra gli approcci vitalisti e meccanicisti).
[22] J.-J. Ménuret de Chambaud, Pouls (Méd. Econom. anim. Physiol. Séméiot.) in Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des arts et des métiers, a cura di D. Diderot & J. D’Alembert, Briasson, Paris 1765, vol. XIII, p. 240.
[23] T. de Bordeu, Recherches anatomiques sur la position des glandes et leur action (1751), § CVIII, in Œuvres complètes, 2 vols., Caille et Ravier, Paris 1818, vol. I, p. 163.
[24] Cfr. C.T. Wolfe, Il problema del tutto e delle parti: il caso del vitalismo di Montpellier, cit.
[25] G. Giglioni, What Ever Happened to Francis Glisson? Albrecht Haller and the Fate of Eighteenth-Century Irritability, in «Science in Context» 21, 2008, pp. 465-493.
[26] Si veda un miglior sviluppo della questione in C.T. Wolfe, La philosophie de la biologie avant la biologie: une histoire du vitalisme, Classiques Garnier, coll. «Histoire et philosophie des sciences», Paris 2019.
[27] Cf. C.T. Wolfe, La philosophie de la biologie avant la biologie, cit.
[28] J. Bouillaud, Vitalisme, in Dictionnaire de médecine et de chirurgie pratiques, a cura di G. Andral et al., tome XV, Méquignon-Marvis, J.-B. Baillière, Paris 1836, p. 759.
[29] C. Daremberg, Histoire des sciences médicales, 2 vols., Paris, J.-B. Baillière et Fils, 1870, vol. 2, p. 1022.
[30] Cf. C.T. Wolfe, From substantival to functional vitalism and beyond, or from Stahlian animas to Canguilhemian attitudes, cit.
[31] Ibid.
[32] R. Descartes, Le Monde, in Œuvres, éd. C. Adam et P. Tannery (AT), J. Vrin, Paris 1974, pp. 36-37.
[33] E. Mayr, The Growth of Biological Thought. Diversity, Evolution, and Inheritance, Harvard University / The Belknap Press, Cambridge 1982, p. 53.
[34] Anche perché forse il panpsichismo è una teoria “top down”, mentre il vitalismo è una teoria “bottom up”.
[35] E. Fox Keller, Making Sense of Life: Explaining Biological Development with Models, Metaphors, and Machines, Harvard University Press, Cambridge 2002, p. 292.