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Vitalismo come esigenza: Claude Bernard e l’indecisione epistemologica della tarda Modernità

Autore


Delio Salottolo

Università degli Studi di Napoli "L'Orientale"

Indice


  1. Con una buona selezione di citazioni possiamo far dire a Claude Bernard qualunque cosa
  2. Ma allora Claude Bernard era vitalista o meccanicista?
  3. Una questione umana troppo umana e il vitalismo come “esigenza”

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S&F_n. 25_2021_APPENDICE

Abstract


Vitalism as demand: Claude Bernard and the epistemological indecision of Modernity

Was Claude Bernard a mechanicist or a vitalist? What we intend to show first is that, with a careful choice of quotes, it is possible to prove both claims. Then is it a theoretical weakness and an epistemological indecision? The thesis of this essay is that Claude Bernard's indecision is the epistemological indecision of Modernity, which has developed a binary style of thinking, then producing a series of hybridizations that are both necessary and improbable. It is a question of attitudes and demands and the answer is to be found from both an epistemological and an anthropological point of view.

Je ne suis pas vitaliste non plus. (…) Moi, je dis: je n’affirme rien, je ne sais rien; c’est la vérité, et c’est cette ignorance où je suis qui me permet de faire des hypothèses, de poétiser, de broder sur mon sentiment et suivant ma nature[1].

C. Bernard

 

Abbiamo il sospetto che, se per fare della matematica sarebbe sufficiente essere degli angeli, per fare Della biologia, sia pure per mezzo dell’intelligenza, abbiamo bisogno di sentirci bestie[2].

G. Canguilhem

 

  1. Con una buona selezione di citazioni possiamo far dire a Claude Bernard qualunque cosa

Quando si leggono i quaderni e i manoscritti di Claude Bernard ci si rende immediatamente conto di quanto quello che è stato ricordato spesso come un “rude vivisettore” fosse attento a una serie di problemi di carattere generale, non soltanto dal punto di vista epistemologico, ma anche dal punto di vista filosofico e morale in senso stretto. Riflettendo sulla sua attività, nel manoscritto Philosophie, spiega che «lo scienziato ricerca sempre le cause prime e le cause finali», pur sapendo bene che «bisogna passare attraverso un’infinità di cause prossime» e che la sua costante ricerca «si fermerà soltanto quando entrerà in possesso della causa prima, cioè quando si troverà sulla cima della torre»[3]. Ma la conoscenza definitiva – afferma Claude Bernard nei Cahier de notes – conduce alla morte «poiché, se io sapessi tutto, non potrei più vivere»[4], ma non si tratta soltanto di una morte individuale: una volta raggiunta la conoscenza della causa delle cause «sarà la fine del mondo perché l’uomo saprà tutto» e se il senso profondo dell’esperienza umana è «il bisogno di sapere», non è di certo meno importante «il bisogno di ignorare per cercare di sapere»[5]. Nel momento in cui l’uomo sarà a conoscenza di ogni cosa, egli «sarà annientato» perché «come dice Pascal, l’uomo è fatto per la ricerca della verità e non per il suo possesso»[6]. Se, dunque, lo scienziato è sempre mosso dalla ricerca dell’ultima verità, quella definitiva, quella capace di spiegare in un sol colpo d’occhio tutta la complessità del reale, è anche vero che questo tipo di conoscenza è propria di un’entità superiore della quale possiamo avere coscienza, ma che non possiamo “dimostrare”: «noi abbiamo la coscienza di Dio» e «tutto concorre a farmi credere a un’intelligenza superiore, anche se non posso averne la prova materiale», e così tutto resta allo «stato di fede, di sentimento» ed è «ciò che mi rende felice»[7]. La ricerca della conoscenza, l’ignoranza da cui tutto muove, l’incertezza e la fragilità dell’intelletto umano rappresentano la migliore prova dell’esistenza di Dio, prova certamente non sperimentale o materiale, ma conducono anche alla più efficace spinta alla “felicità”. Claude Bernard, utilizzando un motivo se si vuole un po’ naïf, dice chiaramente che se si possiede la conoscenza, o, per meglio dire, il movimento esistenziale che spinge alla conoscenza, è perché Dio esiste, perché «questa conoscenza non può provenire dalla materia»[8]. E queste riflessioni non rappresentano una “debolezza” passeggera da parte dell’eroe del positivismo scientifico e clinico francese, perché, su queste questioni, ritorna più volte. In un altro passaggio, si chiede: «Dio, è una fantasia? – No, esiste, ma la forma è indeterminata», ed è un ragionamento che “deduce” logicamente da una riflessione di carattere fisico: «L’attrazione, è una fantasia? La teoria, è una fantasia? – No, esiste; soltanto la forma non ci è data»[9].

Avremmo potuto scegliere un altro incipit a questo breve intervento, mostrando un altro Claude Bernard. Avremmo potuto raccontare – attraverso le sue stesse parole – lo scienziato che si immerge nell’ambiente interno dei corpi, al quale non interessano le cause finali ma soltanto le cause efficienti, che ripone fiducia soltanto nella prossimità e non nella lontananza, che lavora sul determinismo fisico-chimico delle espressioni vitali, che produce sofferenze atroci negli animali per cercare di scoprire quello o quell’altro funzionamento di quello o di quell’altro organo. Come una sorta di “regola” valida per tutti i pensatori più sofferti, ma profondamente sinceri e combattuti, con una buona selezione di citazioni è possibile far dire a Claude Bernard qualunque cosa. È possibile forse far rientrare il fisiologo francese nella genia dei mancini zoppi[10], ma non è il caso di arrischiarsi fino a questo punto.

Claude Bernard, per alcuni il vero e proprio fondatore del metodo scientifico applicato alla fisiologia, non era certamente una personalità così semplice da definire – nonostante il modo con cui sia stato consegnato alla “storia della medicina”: troppo portati a semplificare e a trasformare in stereotipo qualunque espressione del positivismo di fine XIX secolo, a volte ci lasciamo sfuggire il portato di complessità filosofica e spirituale che determinate esperienze di pensiero, raggiunte attraverso determinate pratiche scientifiche, possono portare con sé. Un pensatore come il fisiologo Claude Bernard – perché di vero e proprio pensatore si tratta – sembra essere quanto mai sfuggente, per alcuni indeciso e non sempre coerente: il senso complessivo di queste brevi note sulla riflessione del fisiologo francese è, se vogliamo, semplice – quelle che potranno sembrare delle indecisioni epistemologiche da parte di Claude Bernard ci raccontano alla perfezione l’insieme di indecisioni epistemologiche epocali, delle quali, con ogni probabilità, non ci siamo liberati neanche adesso a distanza di un secolo e mezzo. Le incertezze di Claude Bernard rappresentano le incertezze della tarda modernità. Le nostre incertezze.

 

  1. Ma allora Claude Bernard era vitalista o meccanicista?

Il posizionamento della riflessione e della pratica medica di Claude Bernard all’interno delle classiche categorie di “vitalismo” e “meccanicismo” è stata a lungo dibattuta, così come una sua appartenenza al cosiddetto “neovitalismo”, se per quest’ultimo si può intendere – semplificando al massimo – l’idea per cui i fenomeni vitali sono sempre e comunque soggetti a leggi, anche se non necessariamente meccaniche e non in conflitto con i fenomeni fisico-chimici (laddove il “vitalismo” à la Bichat sarebbe caratterizzato dalla necessità di pensare una forza che si oppone e contrasta le forze fisico-chimiche, sospendendone le leggi). Per Claude Bernard il nodo fondamentale sarebbe nel fatto che la materia vivente, essendo una “materia naturale”, pur non “obbedendo” soltanto alle leggi fisico-chimiche, resta comunque nelle sue funzioni deterministica (laddove il determinismo, secondo Claude Bernard, deve essere distinto dal fatalismo):

Ciò che noi chiamiamo determinismo di un fenomeno non è nient’al­tro che la causa determinante o la causa prossima, cioè la circostanza che determina l’apparizione del fenomeno e che costituisce la sua condizione o una delle sue condizioni d’esistenza. La parola determinismo ha un si­gnificato del tutto differente da quello della parola fatalismo. Il fatalismo suppone la manifestazione necessaria di un fenomeno indipendentemente dalle sue condizioni, mentre il determinismo è soltanto la condizione ne­cessaria di un fenomeno la cui manifestazione non è inevitabile. Il fatali­smo è dunque antiscientifico allo stesso modo dell’indeterminismo[11].

 

In questo senso, il problema bernardiano riguarda innanzitutto la distinzione tra determinismo e fatalismo, l’ingiunzione è a non sovrapporne i dispositivi epistemologici. Il fatalismo rappresenta una dimensione antiscientifica, e portando alle estreme conseguenze il discorso bernardiano possiamo ammettere sia un fatalismo di tipo meccanicista che un fatalismo di tipo vitalistafatalismo significa che i fenomeni accadono secondo necessità e non possono non accadere, sia che li si interpreti secondo la serie delle cause efficienti, sia risalendo la serie delle cause finali. Il fatalismo sarebbe antiscientifico perché, qualora lo si ammettesse, tutto sarebbe immediatamente descrivibile, la ricerca diverrebbe un corollario. Il determinismo alla Bernard insegna – e questo può sembrare allo stesso tempo un paradosso e l’unica chiave di lettura possibile – che la necessità non basta, che – se proprio vogliamo arrischiarci nel territorio oltre il “come” del funzionamento – bisogna trovare il modo di definire il luogo di apparizione del caso. Della contingenza. Il lusso, l’eccedenza e l’eccesso della realtà vivente – il suo andare oltre ogni principio “razionale” ed “economico” di utilità – negano la possibilità di ogni forma di “fatalismo”, vale a dire di necessità. Il mancato “incontro” e “confronto” con il contemporaneo Charles Darwin non ha permesso al fisiologo francese di trarre tutte le dovute conclusioni da questa intuizione fondamentale[12]. Ma del resto l’intento di Claude Bernard era differente e del resto l’opera di Charles Darwin è stata, proprio per questi motivi, una delle più mistificate della tarda Modernità.

Ma c’è un aspetto ulteriore. La difficoltà di posizionamento del fisiologo francese e della nascente fisiologia clinica all’interno delle categorie classiche di “vitalismo” e “meccanicismo” può essere ritrovata sia all’interno degli scritti del fisiologo che all’interno dello spirito del suo tempo. Ed è un aspetto decisivo per comprendere certe tonalità della tarda Modernità.

Per quanto riguarda Claude Bernard, è possibile affermare che sia indubbiamente meccanicista quando, nella sua opera principale, afferma – proprio polemizzando con il vitalismo spontaneista – che «questa spontaneità dei corpi viventi è una semplice apparenza dovuta a certi meccanismi di relazione perfettamente determinati per cui sarà facile dimostrare che sia le manifestazioni dei corpi viventi che quelle dei corpi bruti obbediscono a un determinismo rigoroso che le fa dipendere da condizioni di ordine puramente fisico-chimico»[13]. Anche nei più personali Cahier sostiene che «è impossibile che le condizioni matematiche non siano rispettate nella natura; è impossibile che un animale non sia meccanicamente costruito per fare ciò che fa. Si trova qui una verità adeguata; noi non possiamo negarla»[14].

Per quanto concerne, invece, lo spirito del tempo, possiamo chiamare a testimoniare del meccanicismo di Claude Bernard addirittura Fëdor Michajlovič Dosto­evskij. La scena che presentiamo si svolge in uno dei momenti conclusivi de I fratelli Karamazov, quando Aleksej va a trovare il fratello Mitja, che si trova in prigione per l’uccisione del padre. Il confronto fra i due è particolarmente significativo: Mitja racconta di un incontro appena concluso con Rakitin, personaggio “inventato” ma ispirato alla figura di Sechenov, quello che potremmo definire il Claude Bernard russo. Nel dialogo che riportiamo, il primo a parlare è Mitja:

 

– Chi era, dì un po’, Charles Bernard?

– Charles Bernard?

– No, non Charles, aspetta, ho sbagliato: Claude Bernard. Che roba è? Chi­mica, mi pare?

– Deve trattarsi di uno scienziato – rispose Alëša – ma, ti confesso, anche di questo non so dirti granché. […]

– Mah, all’inferno anche lui: neppure io ne so niente. – imprecò Mitja – […] Uh, questi Bernard! Quanti ne sono rampollati fuori!

– (Rakitin) ha intenzione di comporre su me, sulle mie vicende, un articolo, e con questo fare il suo ingresso nella letteratura […] ci vuol mettere dentro una tesi, come a dire: “Non gli era possibile non uccidere, depravato com’era dall’ambiente”, e altre cosette del genere, come m’ha spiegato. Ci sarà (dice) una sfumatura di socialismo. […]

– Perché tu saresti perduto? […]

– Figurati un po’: il fatto è che nei nervi, nel capo… cioè, lì nel cervello, questi nervi… (oh via che vadano al diavolo)… ci sono, ecco, una specie di codine, delle codine attaccate a questi nervi: bene, e non appena, lì, esse si mettono a vibrare… Mi spiego con un esempio: io guardo una cosa coi miei occhi, ecco fatto, e loro si mettono a vibrare, codeste codine… e come si met­tono a vibrare, allora appare l’immagine, e non è che appaia subito, ma passa un istante, poniamo un secondo, e poi appare questa specie di momento… cioè, non momento, vada all’inferno anche il momento… volevo dire l’immagine, ossia l’oggetto, ovverosia il fenomeno, o come diavolo si sia: ed ecco perché io percepisco, e poi penso… perché ci sono queste codine, e nient’affatto perché in me esista un’anima, o che io sia fatto (come si dice) a immagine e somiglian­za… queste son tutte sciocchezze. […] Grandiosa, Alëša, è questa scienza! Un uomo nuovo s’avanza […] Ma pur tuttavia, viene come un rammarico di Dio![15]

 

Il passaggio appena citato mostra chiaramente in quale ordine del discorso fosse inserito Claude Bernard (chissà, poi, se il lapsus di Mitja, che lo chiama “Charles” Bernard non sia un omaggio allo scienziato più famoso e, per certi versi, “pericoloso” dell’epoca, Charles Darwin): la fisiologia clinica, vale a dire il tentativo di restituire la complessità del vivente alle forze fisico-chimiche di manifestazione dei fenomeni vitali, era considerata manifestazione di un insieme discorsivo complesso in cui rientravano il darwinismo sociale, l’industrialismo occidentale, le tentazioni socialisteggianti, il materialismo e l’ateismo sfrenati. Tutto rientrava in quell’immaginario che sempre Dostoevskij in un’altra opera riassumeva efficacemente con l’espressione “palazzo di cristallo”[16]. E Claude Bernard non poteva che essere uno degli invitati al gala del palazzo di cristallo.

Tutto coincide, dunque. Eppure possiamo affermare che Claude Bernard sia indubbiamente vitalista quando afferma che «il fisiologo e il medico pertanto non devono mai dimenticare che l’essere vivente costituisce un organismo e rappresenta un’individualità» per cui « mentre il fisico e il chimico possono respingere ogni idea di finalismo nei fatti osservati, il fisiologo deve riconoscere una finalità armonica e prestabilita nei corpi organizzati in cui tutte le manifestazioni sono connesse fra loro e dipendono reciprocamente l’una dall’altra»[17]. In un appunto molto personale, contenuto nei Cahier, troviamo poi quanto segue: «quando si vede morire una persona che si conosceva bene e quando si vede la sua intelligenza sparire, le sue qualità morali andarsene», secondo il fisiologo «si è colpiti e sembra di vedere qualcosa che non è in alcun modo nella materia che se ne va»[18]; questa riflessione si trova a brevissima distanza da quest’altra di tenore più epistemologico: «ci sono negli organismi dei fenomeni, delle facoltà che non sono la proprietà di alcun corpo in particolare» e, come l’elettricità non può essere localizzata in nessuno dei corpi che attraversa, così «in fisiologia, devono esserci molti casi simili; esistono di conseguenza delle proprietà che non potrebbero essere localizzate in nessun modo all’interno degli elementi stessi»[19].

Per quanto riguarda lo spirito del tempo, può essere utile chiamare a testimoniare Henri Bergson, che, in occasione del cente­nario della nascita di Claude Bernard, ha lasciato un lungo discorso che, per le sua densità “teorica” che travalica i limiti del semplice “omaggio”, è entrato a far parte di un’importante raccolta di saggi, La pensée et le mouvant. Ecco un passaggio particolarmente determinante:

Ma se Claude Bernard non ci ha dato, e non ha voluto darci, una metafisica della vita, c’è, nell’insieme della sua opera, una certa filosofia generale, la cui influenza sarà probabilmente più duratura e più profonda di quanto possa esser­lo una qualunque delle sue teorie particolari. […] La filosofia non deve essere sistematica! Era questo un paradosso all’epoca in cui Claude Bernard scriveva, e in cui ci si predisponeva, sia per giustificare l’esistenza della filosofia sia per bandirla, a identificare lo spirito filosofico con lo spirito di sistema. È tuttavia la verità, e una verità all’interno della quale si penetrerà sempre più mano a mano che si svilupperà effettivamente una filosofia capace di seguire la realtà concreta in tutte le sue sinuosità[20].

 

Claude Bernard è colui che ha intravisto la complessità della realtà vitale in tutte le sue sinuosità, altro che puro e semplice determinismo fisico-chimico: ci troveremmo dinanzi a un pensatore capace di produrre una certa filosofia generale, proprio grazie alla sua mancanza di sistematicità, proprio perché il vero spirito filosofico non può essere spirito di sistema. Proprio grazie alla sua indecisione epistemologica. Forse Claude Bernard non ha osato, non ha saputo o voluto osare, ma la forza della sua riflessione sta proprio nella sua mancanza di “coerenza” sistematica.

Il primo passo per provare a chiarire questa indecisione riguarda la questione del “finalismo” che sembra ritornare costantemente nella riflessione di Claude Bernard, soprattutto all’interno della nozione di ambiente interno e di “germe”. Un certo finalismo – liberato anch’esso dalla gabbia del fatalismo – deve essere ammesso, ma allo stesso tempo non può che essere escluso dalla pratica e dall’analisi del fisiologo proprio perché non può essere oggetto di “sperimentazione” e quando Claude Bernard parla da fisiologo di laboratorio c’è ben poco spazio per lavorare su un qualcosa che sfugge alla presa della “tecnica” ma che è capace di manifestarsi comunque in tutta la sua evidenza. L’importanza di Claude Bernard nella storia della medicina non sta soltanto nel fatto che avrebbe sistematizzato l’utilizzazione del metodo sperimentale in fisiologia, quanto nel fatto che sia stato in grado di costruire un impianto teorico – a partire dall’ambiente interno – capace di fare da catalizzatore per tutte le esperienze di laboratorio. Quelle sì, dotate di coerenza, in quanto sono le uniche dimostrabili e le uniche utili alla clinica. Il tutto ottenendo ottimi risultati, ma dovendo escludere una serie di evidenze non riducibili alla pratica laboratoriale.

Dunque, ancora una volta: vitalismo o meccanicismo? Secondo Claude Bernard, i fenomeni vitali sono in se stessi dei fenomeni fisico-chimici, quando presi separatamente, ma per spiegare la loro unificazione e coordinazione non bastano le leggi fisico-chimiche, occorre trovare un quid proprium. Ma trovare il quid proprium è compito della metafisica, dalla quale Claude Bernard, nella sua pratica di laboratorio, si tiene ben lontano e se ne tiene ben lontano perché quella armonia prestabilita – espressione bernardiana che richiama ovviamente Leibniz – non può essere né spiegata né dunque modificata dal punto di vista sperimentale: soprattutto quando affronta la questione dell’embriologia, della cellula-uovo e di ciò che definisce “germe” (per cui l’embriogenesi procede mediante sviluppi indipendenti degli organi, la cui armonia sembra essere stabilita in precedenza e non come influsso reciproco), troviamo un “lessico” che più vitalista non potrebbe essere, si parla di una natura che agisce come un “artista”, di una “potenza creatrice e organizzatrice” che presiede alle funzioni vitali, di un “disegno vitale” che traccia il piano di sviluppo di ogni vivente. Eppure, il medico francese ha gioco facile a mostrare come, evitando l’ingresso dell’ossigeno nell’uovo, l’attività creatrice non si sviluppa. In questo senso, il vitalismo di Claude Bernard deve fermarsi dinanzi alla mancanza di sperimentabilità reale o, per meglio dire, sperimentabilità che può essere attuata soltanto per via “negativa”, mentre il suo “meccanicismo” resta comunque monco e incappa facilmente nel classico problema di ogni “meccanicismo”, l’eterna questione della costruzione (e dell’eventuale costruttore) della macchina. Del resto lo stesso Claude Bernard aveva inserito – per poi escluderla – la seguente affermazione a conclusione del suo discorso in occasione dell’ingresso nella Académie francaise: «se mi occupo di cause prime, non posso essere materialista, ma se mi occupo di cause seconde, sono necessariamente materialista in quanto scienziato, e io non sono che uno scienziato. Se fossi filosofo, sarei spiritualista, ma non sono filosofo»[21]. Queste dichiarazioni potrebbero rappresentare la parola definitiva dello stesso Claude Bernard sulla questione e il fatto che abbia deciso di non pronunciare queste parole è ancora più significativo. Se è vero che la Francia, sin dai tempi di Descartes, sembra amare i dualismi irrisolvibili e labirintici, Claude Bernard si inserisce perfettamente in quella tradizione. Ma a noi conviene provare a fare un passo ulteriore, cercare di comprendere come questa sorta di dualismo e di compresenza ibridata di vitalismo/meccanicismo funzioni non solo all’interno della sua riflessione, ma nell’insieme del regime discorsivo della Modernità.

L’ipotesi è che, dietro quella che è stata definita da André Pichot, autore di una monumentale Histoire de la notion de vie, come una “indecisione epistemologica” da parte di Claude Bernard[22], non si nasconde una sorta di “difficoltà” di inquadramento appunto epistemologico né un’indecisione di fatto “superabile” e che il fisiologo non è riuscito a superare, ma qualcosa di più profondo e che mette in luce alcune complessità dell’impianto teorico-pratico della scienza moderna e della Modernità matura. Se è vero che la Modernità nasce mediante la costruzione/stabilizzazione di sistemi di pensiero binari, natura-cultura, soggetto-oggetto, trascendenza-immanenza, ma produce costantemente ibridi tra queste determinazioni, l’esperienza di un fisiologo con attitudini di pensiero come Claude Bernard non può che rappresentare un ottimo osservatorio, un epifenomeno di qualcosa di più profondo e stratificato. La separazione – e allo stesso tempo la confusione di ibridazione – è ciò che la Modernità predispone e ammette, l’ibrido è ciò che si manifesta costantemente e nei confronti del quale si produce l’errore fondamentale dal punto di vista epistemologico della Modernità[23]. Continuità e discontinuità nei differenti “reami” della realtà, l’appartenenza dell’umano a una storia naturale che lo precede e lo eccede costantemente, l’immagine di una mancanza di soluzione di continuità tra l’inerte, il vitale e l’umano (senza poter aprire, in questi brevi note, la questione anche al “tecnico”) ma il tentativo di rilanciarla, sono tutti elementi con i quali la nostra riflessione si confronta ancora oggi, a distanza di più di un secolo e mezzo.

 

 

  1. Una questione umana troppo umana e il vitalismo come “esigenza”

Il libro più importante di Claude Bernard, la Introduction à l'étude de la médecine expérimentale, ebbe – forse non troppo paradossalmente – una ricezione maggiore in ambienti filosofici che non in quelli strettamente scientifici, e questa ricezione richiama da vicino la complessità di ibridazione che qualunque riflessione di carattere biologico e fisiologico sembra necessariamente portare con sé nella Modernità. Per fare qualche esempio, Paul Janet critica il riduzionismo bernardiano in quanto si fermerebbe nella sua opera teorica e pratica al mero “come”, Elme-Marie Caro invece si congratula con Bernard per il motivo esattamente opposto, perché, pur essendo un positivista e per di più uno scienziato di laboratorio, la sua riflessione e la sua pratica rappresentano l’apertura di uno spazio oltre il mero “come”, infine c’è Felix Ravaisson che mette d’accordo tutti dando avvio all’interpretazione, divenuta poi canonica, che pone al centro la fondamentale indecisione di Claude Bernard[24].

In questo senso, la figura del fisiologo francese risulta essere centrale non solo come momento della nascita della clinica moderna – quindi come una delle pagine più importanti della storia della medicina degli ultimi due secoli – ma come vero e proprio fenomeno di superficie, se non sintomo, di un momento determinante nell’intera storia delle idee della Modernità: la sua riflessione presenta quella che possiamo definire un’esigenza di ripensamento della relazione bios/logos alla luce dell’esperienza di laboratorio, un’esigenza che, muovendosi nei limiti della rappresentazione moderna della relazione natura/cultura come poli opposti e delle esigenze epistemologiche che da questa ne derivano, non può che mostrarsi nella sua potenza di irrisolta ibridazione (alcune possibili domande che muovono dalla pratica laboratoriale bernardiana – ma che il fisiologo non ha osato, saputo o potuto dedurre: il logos è una forma adattiva del bios? la tecnica è un’astuzia della vita più che della ragione?): su queste questioni che trovano la loro ricaduta maggiore nella descrizione del fenomeno umano – laddove, in questa descrizione, si mescolano intenzioni di carattere naturalistico e oggettivo da un lato e culturale e soggettivo dall’altro: dunque, il nodo, ancora insuperabile, dell’antropocentrismo[25] – la Modernità ha mostrato una sorta di contraddizione interna, nella misura in cui, laddove postula scissioni tra ambiti differenti (in questo caso, ad esempio, materia inerte e materia vivente), non può che far proliferare ibridazioni e mescolanze e queste ibridazioni e mescolanze le si ritrovano sia nella storia del meccanicismo che nella storia del vitalismo moderni. Il caso Claude Bernard sembra essere particolarmente evidente, ma è almeno altrettanto evidente, indietreggiando nel tempo, il caso del “neomeccanicista” von Haller e della sua teoria fibrillare, secondo la quale ci sarebbe una vis insita, specifica delle fibre muscolari, che determina l’irritabilità come una proprietà della vita, il tutto cercando di mantenere un dualismo cartesiano d’obbligo. La scissione tra le due dimensioni – quella pensante e quella estesa – ha prodotto e continua a produrre una serie di ibridazioni allo stesso necessarie e improbabili.

La questione nasce chiaramente dal gesto di Descartes (come fenomeno di superficie di discorsi epocali più “profondi”) e muove dalla duplice serie spiritualismo/finalismo e materialismo/meccanicismo (o determinismo): se 1) si suddivide la realtà in un principio spirituale e in un principio materiale, e 2) il principio spirituale è pertinenza soltanto dell’umano e soltanto della sua “parte” inestesa (anima, mente, spirito, etc.), e 3) il principio materiale è pertinenza della Natura e dunque anche della parte “estesa” dell’umano, allora 1) bisogna individuare le leggi che reggono questi due mondi, leggi necessariamente differenti, 2) il principio spirituale non può appartenere alla Natura in quanto è estesa, ma soltanto all’umano in quanto è spirituale, e dunque libero, 3) tutto ciò che appartiene alla Natura è identificabile come una macchina e funziona deterministicamente. Da cui, due opzioni: 1) la Natura è meccanica e deterministica, l’Umano è spirituale e appartiene al regno dei fini – la congiunzione tra i due si ha soltanto nell’umano, che risulta essere il vero ibrido, doloroso Giano bifronte di questa vicenda; 2) la Natura non è meccanica e deterministica perché esiste un principio, la Vita, che non risponde semplicemente alle leggi della meccanica, dunque ha qualcosa di “spirituale” e “libero”, esattamente come l’umano. In questo senso, meccanicismo e vitalismo vanno a intrecciarsi sempre più nel corso della modernità matura, proprio perché, con la crisi delle idee metafisiche, il tutto si trova a giocarsi su un piano di immanenza. E così è possibile affermare che la contraddizione di meccanicismo e vitalismo sia sempre figlia del problema dell’antropocentrismo – una questione di esigenze e atteggiamenti, si potrebbe dire.

Dietro questa indecisione, insomma, c’è soprattutto un elemento che viene chiarito da Canguilhem e in generale dall’epistemologia storica, partendo dal presupposto che la scienza non è un sapere assoluto, nel senso di separato e che procede lungo una propria linea evolutiva indipendente, ma strettamente connesso alle altre forme culturali di espressione dell’umano. La cultura – e in questo anche la tecnica come sua espressione fondamentale – è lo strumento adattivo fondamentale dell’umano, è il suo strumento normativo di relazione con il mondo, la sua possibilità di espressione, la sua determinazione fondamentale. La scienza, dunque, in quanto forma possibile che assume una “cultura”, ha meno a che vedere con la verità che non con la “comodità”[26].

Secondo Georges Canguilhem, dunque, il “vitalismo” (e, in questo senso, si potrebbe aggiungere anche il “neovitalismo”) – e qui arriviamo a una proposizione di carattere antropologico – rappresenta, se analizzato in maniera allo stesso tempo tipologica e storica, un’esigenza che si ripresenta ogni volta che una rottura epistemologica produce un riposizionamento dei saperi teorici e tecnici: il vitalismo è «un’esigenza permanente della vita nel vivente stesso, l’identità con se stessa della vita immanente all’essere vivente»[27] per cui «lo sguardo del vitalista va alla ricerca […] di una visione della vita […] che preceda gli strumenti creati dall’uomo per accrescere e consolidare la vita»[28], in questo senso «il vitalismo medico è quindi l’espressione di una diffidenza, si direbbe istintiva, nei confronti del potere della tecnica sulla vita»[29]; il “meccanicismo”, invece, rappresenta un atteggiamento umano fondamentale, quello di costruire macchine materiali e di pensiero, per porre una distanza tra sé e la propria appartenenza immanente al movimento della vita, e, mediante questi media, costruire una dimensione di controllo dell’esperienza e di dominio sulla realtà.

In questo senso, la lezione di Bernard – e l’importanza che consegna il suo pensiero a noi che veniamo dopo – è che forse non si può mai essere compiutamente vitalisti né definitivamente meccanicisti, dinanzi ai fenomeni della vita, in quanto al centro non c’è soltanto la rappresentazione epistemologica e la mappatura fenomenologica, ma anche e soprattutto un’esigenza complessiva che rimette costantemente in discussione il posizionamento di questo elemento indeterminabile, la vita, che si definisce sì come una forza, ma la cui azione è ravvisabile soltanto nell’esplosione di forme che produce e, in senso bernardiano, determina. Non si può mai essere compiutamente vitalisti né definitivamente meccanicisti, così come probabilmente non potrà mai essere sufficiente – nella descrizione e comprensione del reale – l’immanenza o la trascendenza. Le teorie più conosciute di Claude Bernard, dall’ambiente interno, che manifesterebbe allo stesso tempo continuità e discontinuità con il “tutto” naturale, al determinismo armoniosamente subordinato (definizione bernardiana, che è un capolavoro di ibridazione concettuale), passando per la contrapposizione tra individuo e tipo nella considerazione biologica e fisiologica (una sorta di platonismo per cui il tipo è la verità, l’individuo è la realtà – il tipo dunque la normalità cioè la perfezione, l’individuo dunque l’anomalia cioè l’imperfezione, e così già stiamo scivolando verso le scienze sociali), mostrano pienamente la posta in gioco tutta moderna tra oggettività e soggettività, natura e cultura, immanentismo e trascendentismo.

E soprattutto il nodo meccanicismo-vitalismo non può che spostarsi lungo l’asse del rapporto tra determinismo biologico e potenzialità biologica, come direbbe Gould[30], allievo davvero conseguente di Charles Darwin – elementi che, ancora oggi, si contendono l’impostazione teorica fondamentale quando si tratta di analizzare i fenomeni vitali e soprattutto quando si tratta di cercare ancora un refugium per l’uomo nel mondo.


[1] C. Bernard, Cahier de notes 1850-1860, Gallimard, Paris 1965, p. 118. Dove non specificato altrimenti, le traduzioni sono nostre.

[2] G. Canguilhem, Il vivente e il pensiero, in Id., La conoscenza della vita (1965), tr. it. Il Mulino, Bologna 1976, p. 38.

[3] C. Bernard, Philosophie. Manuscrit inédit, Hatier-Boivin, Paris 1937, p. 42.

[4] Id., Cahier de notes…, cit., p. 118.

[5] Id., Philosophie…, cit., p. 43.

[6] Ibid.

[7] Id., Cahier de notes…, cit., p. 118.

[8] Ibid.

[9] Ibid., p. 200.

[10] Cfr. M. Serres, Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente (2015), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2016.

[11] C. Bernard, Il progresso nelle scienze fisiologiche (1865), in Id., Un determinismo armoniosamente subordinato. Epistemologia, fisiologia e definizione della vita, a cura di D. Salottolo, Mimesis, Milano-Udine 2014, p. 54.

[12] Stupisce davvero questo mancato incontro/confronto e le ragioni potrebbero essere varie: 1) l’ereditarietà non può essere affrontata dal punto di vista sperimentale; 2) l’interesse per l’ambiente interno piuttosto che per l’ambiente esterno; 3) scarsa importanza data dal fisiologo francese al problema della forma e dunque al cambiamento di forma. Da questo mancato incontro/scontro si possono anche rilevare le due debolezze principali dell’approccio bernardiano (che, nei limiti di questo intervento, non è possibile approfondire): 1) la questione della forma e 2) la questione della temporalità dello sviluppo dell’essere vivente – in quanto entrambe non possono essere oggetto di un approccio sperimentale da laboratorio. Quello di Bernard è un modello statico, senza temporalizzazione; la dimensione temporale dell’essere vivente non è negata, ma è separata dall’organizzazione fisico-chimica: si tratta di delimitare il campo della scienza fisiologica, e ciò che non poteva essere spiegato attraverso il modello fisico-chimico (dell’epoca, ovviamente) doveva essere spostato sul versante della metafisica, con una postura profondamente cartesiana.

[13] C. Bernard, Introduzione allo studio della medicina sperimentale (1865), tr. it. Feltrinelli, Milano 1973, p. 73.

[14] Id., Cahier de notes…, cit., pp. 107-108.

[15] F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov (1878-1880), tr. it. Einaudi, Torino 1993, pp. 773-774.

[16] Cfr. Id., Memorie dal sottosuolo (1864), tr. it. Newton Compton Editori, Roma 1998.

[17] C. Bernard, Introduzione…, cit., p. 101.

[18] Id., Cahier de notes…, cit., p. 123.

[19] Ibid.

[20] H. Bergson, La philosophie de Claude Bernard, in Id., La pensée et le mouvant (1934), PUF, Paris 1990, pp. 235, 236-237.

[21] Questo passaggio del discorso, passaggio per prudenza mai pronunciato, è citato in C. Bernard, Cahier de notes…, cit., pp. 246-247.

[22] Cfr. A. Pichot, Histoire de la notion de vie, Gallimard, Paris 1993.

[23] Cfr. B. Latour, Non siamo mai stati moderni (1991), tr. it. Elèuthera, Milano 2016.

[24] Per un approfondimento, ci permettiamo di rinviare a D. Salottolo, Claude Bernard e lo strano caso del suo “determinismo armoniosamente subordinato”, in C. Bernard, Un determinismo…, cit., pp. 7-41, in particolar modo pp.18-23.

[25] Il riferimento ovviamente è all’“allotropo empirico-trascendentale” di foucaultiana memoria. Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (1966), tr. it. Bur, Milano 2004.

[26] Cfr. N. Elias, Teoria dei simboli (1991), tr. it. Il Mulino, Bologna 1998.

[27] G. Canguilhem, Aspetti del vitalismo, in Id., La conoscenza della vita, cit., pp. 125-147, qui p. 129.

[28] Ibid., p. 136.

[29] Ibid., p. 129.

[30] Cfr. S. J. Gould, Potenzialità biologica contro determinismo biologico, in Id., Questa idea della vita. La sfida di Charles Darwin (1977), tr. it. Codice Edizioni, Torino 2015, pp. 257-266.

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