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Indice
- Perché questa riflessione
- Due strategie per fronteggiare la pandemia: la strategia della naturalità e del controllo
- La scelta tra le opposte strategie non è scientifica, ma etica
- L’aumento di consapevolezza che la salute è costrutto sociale
- Il significato del Green Pass nella situazione storica attuale
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S&F_n. 25_2021
Abstract
On the ethical and philosophical meaning of the Green Pass or Vaccine Passport: A contribution to a current debate
Green Pass is going to be a reality in Europe as well as in other parts of the world. The author welcomes the new measure and wants to contribute to the current debate on the Covid pandemic and its consequences. The pandemic made clear that science has gained a new central role in a global society which attributes higher value to protection of human life. For the first time the new vaccines allow us to quit the pandemic: a possibility which never occurred before. The effect of all this the notion of health as a given becomes obsolete because it is clear that health is a social construct. In this renewed context the Green Pass is the beginning of a new era concerning the health.
- Perché questa riflessione
Ormai è chiaro: il Green Pass si farà. Lo ha detto lo scorso 25 aprile 2021 la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen in un’intervista al New York Times, confermando peraltro quanto già affermato da Thierry Breton, commissario dell’Unione Europea al mercato interno e capo della task force europea sui vaccini. Chiamatelo Green Pass, Passaporto Vaccinale, Certificato Sanitario, o come altro volete, ma entro fine giugno 2021 sarà disponibile un Documento attestante la nostra buona salute circa il Covid al fine di consentire «la mobilità in maggiore sicurezza»[1], come già aveva dichiarato il nostro ministro della salute, Roberto Speranza. Non è ancora del tutto chiara quale sarà la forma specifica del Green Pass, ma si prevede che conterrà informazioni:
- sulla avvenuta vaccinazione contro il Covid, o
- sulla presenza nell’interessato di anticorpi capaci di contrastare la malattia, o
- sui risultati di un idoneo tampone negativo attestante l’assenza di infezione.
I tre aspetti ricordati sono tra loro molto diversi e anche indipendenti. Non è certo che bastino a garantire la sicurezza sanitaria totale, ma sicuramente contribuiranno a diminuire la trasmissione del contagio e a favorire la ripresa della mobilità e dei commerci, della normale attività economica e della vita sociale.
La decisione di introdurre il Green Pass è stata presa in breve tempo, e giustificata come normale forma di profilassi, forse facendo riferimento ad assunti ritenuti consolidati o anche scontati. A chi ha avanzato riserve circa la possibilità che sia fonte di nuove discriminazioni si è risposto che il Green Pass sarà temporaneo, limitato al Covid, e che non sarà imposto per legge. Replica poco cogente dal momento che eventuali vincoli o limitazioni alla mobilità personale sono oggi una sorta di ostracismo peggiore della sanzione penale. Ci si affretta a garantire che sarà una misura temporanea e circoscritta, e l’insistenza sul punto lascia quasi presagire che così non sarà. Una volta implementato, il Green Pass diventerà parte essenziale della nostra vita.
Non discuto il suo avvento, che sembra anzi buono. Non escludo neanche che oltre a rimanere, il Green Pass sarà esteso ad altre profilassi. Mentre di solito è presentato come semplice passo in linea con tante misure consolidate intraprese, voglio qui mostrare che tale passo presenta tratti di novità radicali, tali da far dire che segna una cesura storica. È diventato luogo comune ripetere che dopo la Pandemia Covid-19 nulla sarà più come prima, senza riuscire a individuare in che cosa. Ebbene, forse il Green Pass è proprio lo spartiacque che segnerà la differenza. Questa riflessione non è contro il Green Pass ma vuole essere un contributo per la crescita della consapevolezza di quanto sta accadendo.
- Due strategie per fronteggiare la pandemia: la strategia della naturalità e del controllo
Il 31 dicembre 2019 la Cina ha segnalato al mondo l’insorgenza di una nuova polmonite anomala frutto del Covid-19. Il 21 gennaio 2020 ha imposto un lockdown nella provincia dello Hubei che ha chiuso in casa 60 milioni di persone. Il mese dopo, il 23 febbraio 2020, l’Italia ha messo in zona rossa undici comuni, dieci nei dintorni di Codogno (Lombardia) e uno nel Veneto, a Vò Euganeo: circa 50.000 persone vengono messe in lockdown, misura che viene estesa il 9 marzo a tutto il paese. Dal 10 marzo al 18 maggio 2020 l’Italia intera resta bloccata come mai era capitato prima nella storia.
L’11 marzo 2020 l’OMS dichiara ufficialmente lo stato di pandemia globale, e ciò porta a far sì che si delineino meglio le diverse strategie per fronteggiare la crisi. Il 12 marzo, in un discorso alla nazione subito diventato celebre, il primo ministro britannico Boris Johnson ha indicato la linea che la Gran Bretagna seguirà solo all’inizio (mutandola in seguito) e che comunque è stata recepita da altri governi conservatori come quelli guidati da Donald Trump e Jair Bolsonaro. L’idea di partenza è che il virus ormai c’è e che nei prossimi mesi continuerà a diffondersi in tutto il mondo e nel nostro paese. Abbiamo fatto ciò che si poteva fare per contenere la malattia e questo ci ha consentito di guadagnare tempo prezioso. Ma ormai la pandemia è diventata globale. E il numero di casi aumenterà sensibilmente, e anzi il vero numero di casi è più alto – forse molto più alto – del numero di casi confermati sinora dai test. Bisogna che sia chiaro, bisogna che tutti si sia chiari: questa è la peggiore crisi di sanità pubblica di questa generazione. Alcuni la paragonano a un’influenza stagionale. Purtroppo non è così. Per via della mancanza di immunità questa malattia è più grave e continuerà a propagarsi ancora. Devo essere esplicito con voi, esplicito con il popolo britannico, molte più famiglie finiranno per perdere i propri cari prima del tempo… ora non si tratta tanto di cercare di contenere il più possibile la malattia, ma di ritardarne la diffusione e così minimizzare le sofferenze[2].
In altre parole: non riusciamo a bloccare le pandemie e bisogna riconoscere che, come sempre è avvenuto, non resta altro da fare che attendere che si spengano da sole. Si può altresì cercare di rallentare un poco la curva del contagio per non sovraccaricare il servizio sanitario, così da consentire la miglior cura possibile ai malati, ma ciò non comporta la chiusura delle normali attività economiche, produttive e sociali. Al contrario, bisogna imparare a convivere con la malattia e non dimenticare che l’essere positivi al virus non sempre ha effetti gravi, e che comunque è grazie al contagio che le popolazioni fabbricano gli anticorpi richiesti per estinguere la malattia e che è così che si estinguono le epidemie. Convivere con una pandemia è certamente sgradevole, ma tant’è che il virus si indebolisce diffondendosi. Chiamo “strategia della naturalità” questo programma operativo che lascia alla natura (come da sempre è avvenuto) il compito di spegnere la pandemia, cercando al massimo di ritardarla un poco senza affatto pretendere di controllarla o bloccarla.
Quasi d’istinto, una diversa strategia è stata invece seguita dapprima in Cina e poi in Italia e in altri paesi d’Europa, dove sin da subito si è pensato di fare tutto il possibile per bloccare la pandemia. Come ha spiegato l’allora primo ministro Giuseppe Conte nel discorso del 9 marzo,
I numeri ci dicono di una crescita importante dei contagi, dei ricoveri in terapia intensiva e dei decessi. Ai loro cari va la vicinanza di tutti gli italiani. Le nostre abitudini vanno cambiate ora. Dobbiamo rinunciare tutti a qualcosa per il bene dell'Italia, e lo dobbiamo fare subito. Adotteremo misure più forti per contenere il più possibile l'avanzata del coronavirus e per tutelare la salute di tutti i cittadini... e in particolare quella dei più fragili[3].
Qui l’idea è che bisogna fare tutto il possibile per cercare di controllare e bloccare la pandemia, mettendo da subito in atto misure eccezionali come il lockdown, il tracciamento elettronico, e infine il vaccino. Chiamo “strategia del controllo” questa diversa linea di azione che ha come obiettivo non solo il rallentamento del contagio ma anche la sua diluzione e il suo blocco con la speranza di arrivare (con la vaccinazione) allo spegnimento artificiale della pandemia. Non sono sicuro che la seconda strategia sia mai stata formulata in modo esplicito e netto, ma è sottintesa all’idea spesso ripetuta fino alla noia che il vaccino risolverà la partita liberandoci dal virus (cioè spegnendo la pandemia).
La scelta dell’una o dell’altra strategia porta con sé diversi corollari su varie tematiche che sono oggetto di dibattiti particolari. I fautori della naturalità tendono a dire che il numero dei morti Covid non si discosta troppo da quello di una potente influenza, e che le cifre sono state gonfiate in vari modi tra cui la mancata distinzione tra morti da Covid e col Covid; che la malattia può essere curata a casa con terapie tradizionali, e che la reazione è stata spropositata: la storia è sempre stata afflitta da epidemie e pestilenze, cui l’uomo ha risposto con sistemi di significato che hanno arricchito la vita sociale, culturale e religiosa. Oggi, invece, si è puntato tutto sulla ricerca medico-scientifica e si è arrivati ad attribuire al vaccino un valore (quasi) messianico, al punto da sacrificare e immiserire senza esitazione alcuna la vita sociale, culturale e religiosa.
Di rimando i fautori della strategia del controllo sottolineano che il numero di morti Covid è di gran lunga superiore a quello delle influenze; che a questi decessi bisognerà aggiungere anche quelli di chi è morto perché privato della normale assistenza sanitaria (infarti e ictus non curati in tempo, etc.); che per risparmiare vite umane bisogna controllare la pandemia, e che la risposta più adeguata al riguardo sta nei vaccini che, in tempi eccezionalmente brevi, si è riusciti a preparare. Ora si sta procedendo alla vaccinazione di massa, e non mancano difficoltà e disguidi. Bisogna tuttavia riconoscere che la strategia del controllo propone un’impresa ciclopica e prometeica mai vista prima, le cui dimensioni sono maggiori dello sbarco sulla Luna o del controllo dell’atomo: mai prima d’ora nella storia si è pensato di controllare, bloccare o spegnere una pandemia.
- La scelta tra le opposte strategie non è scientifica, ma etica
Pur puntando le due strategie delineate in direzioni diverse, non si può dire che l’una sia scientifica e l’altra no. Si deve riconoscere che ciascuna strategia può contare su ottime conoscenze, le quali tuttavia, di per sé, non ci indicano che cosa sia meglio o giusto fare: compito della scienza è descrivere la realtà, non stabilire se sia meglio avere più morti e non bloccare la vita sociale, o invece diminuire il numero dei morti e bloccare la vita socio-economica. L’aumento delle conoscenze aiuta, e molto, ad aumentare le capacità d’intervento e di controllo, e quindi a rendere possibile imprese un tempo impensabili. Può darsi che la percezione delle nuove opportunità abbia effetti sui valori diffusi, ma l’aumento delle conoscenze da solo e di per sé non ci dice se sia buona o giusta l’una strategia o l’altra.
Per esempio, nella prima metà del xix secolo arrivò in Europa un’epidemia di colera dall’India. Allora non si conosceva neanche la causa del colera, e i medici si divisero in “contagionisti” e “epidemisti”. I primi (solitamente conservatori) ritenevano che la malattia si diffondesse per contatto diretto o indiretto coi malati, e come rimedio prescrivevano l’isolamento e la quarantena, mentre gli altri (solitamente liberali o, diremmo noi, progressisti) ritenevano che la malattia fosse dovuta alle cattive condizioni igieniche e all’insalubrità dell’aria, e pensavano che le quarantene fossero inutili e imposte per limitare le libertà individuali dalle stesse case regnanti, le quali avrebbero provveduto a diffondere il morbo per scopi politici[4]. Il complottismo non è nuovo, può mutare di segno, ma il suo fascino resiste al tempo: resta che per scarsità di conoscenze scientifiche non si avevano neanche le basi per una scelta oculata e si tirava pressoché a caso.
Oggi conosciamo il virus, ci è nota la sua struttura, le modalità con cui si diffonde, quanto sia contagioso ecc.: tutto ciò fornisce solide basi alla scelta circa la strategia da adottare, scelta che tuttavia appartiene all’ambito dell’etica. È meglio avere un maggiore numero di morti da Covid e non bloccare la vita socio-economica, o avere un minore numero di morti da Covid e bloccare la vita socio-economica in attesa che il vaccino ponga fine alla difficoltà?
Per dare una risposta bisognerebbe avere almeno un’idea (per quanto vaga) di quanta sia la differenza dei morti e di quanto profondo sia lo sconvolgimento socio-economico, dati difficili da determinare. C’è poi chi rileva che è la prima volta che si tenta di controllare una pandemia, e che il risultato non è affatto certo. Anzi, c’è chi crede che sia illusorio e quindi inutile. Chi sostiene questa prospettiva insiste nell’osservare che la scienza ci può dire che sinora, nella storia, le pestilenze sono arrivate, hanno seminato morte, e poi si sono estinte da sole. Così è stato anche con l’ultima grande pandemia, la Spagnola che, come osserva il nostro maggiore storico italiano della medicina, Giorgio Cosmacini, «se n’andò via per lisi, per progressiva attenuazione della sua aggressività, dopo un anno e mezzo di permanenza»[5], dopo aver mietuto circa 50 milioni di morti su una popolazione complessiva di un miliardo e sette/ottocento milioni. Mezzo secolo dopo anche l’influenza di Hong Kong tra il 1968 e il 1970 seminò da uno a quattro milioni di morti (forse due è la cifra più attendibile) su una popolazione mondiale di tre miliardi e mezzo di persone.
È sensato cercare di bloccare e spegnere la pandemia oppure è solo un sogno assurdo che non merita attenzione? E se anche fosse un sogno, è proprio vero che non ci si debba almeno provare? Non è possibile qui esaminare le domande, ma si può osservare che i progressisti propendono in genere per la strategia del controllo che sfida con piglio prometeico i limiti consolidati e non esita a sconvolgere la vita sociale nel tentativo di bloccare la pandemia. D’altro canto, i conservatori in genere propendono per la strategia della naturalità che si affida al già noto e all’accettazione dei limiti naturali: non si riesce a fare più di tanto e quindi meglio non stravolgere la vita sociale e le usanze invalse. Boris Johnson poco dopo aver tenuto il discorso programmatico ha cambiato linea, mentre Trump sembra averla mantenuta col risultato che si è giocato la rielezione: a gennaio 2020 i pronostici la davano per certa e trionfale, ma a novembre è stato sconfitto.
Al di là di queste osservazioni di etica descrittiva, quale strategia adottare? È più giusto seguire il già noto a costo di qualche morte in più, o è più giusto sconvolgere la vita socio-economica nel tentativo di salvare vite e spegnere la pandemia? Per stabilirlo dovremmo avere un criterio che ci consenta di confrontare i costi e i meriti dell’una e dell’altra strategia, ma non lo abbiamo. D’altro canto, non sappiamo neanche quanto a lungo durerà la Covid-19 né quando per lisi si estinguerà. Una previsione la dà per estinta nel 2025, ma la diffusione di nuove varianti rende tutto più incerto. È poi pressoché impossibile prevedere il numero dei morti attesi, e quindi navighiamo nel buio.
Per cercare di avere almeno una vaga idea che consenta un qualche orientamento, possiamo cercare di confrontare ciò che sta accadendo con quanto è accaduto nelle precedenti pandemie, la Spagnola (1918-1920) e quella di Hong Kong (1968-1970). So bene che il confronto tra queste diverse situazioni è molto problematico, ma quel che qui conta è avere almeno un ordine di grandezza generale che consenta qualche osservazione su cui ragionare. In questo senso, dato che le due pandemie considerate sono durate circa 24 mesi, assumo che anche la Covid abbia la stessa durata così da poter fare confronti.
Nei due anni tra il 1968 e il 1970 la Hong Kong ha fatto circa due milioni di morti su una popolazione mondiale di tre miliardi e mezzo di persone, il che significa che ha avuto una mortalità dello 0,0571%. Considerato che oggi la popolazione è di circa otto miliardi, i morti complessivi sarebbero circa 4.568.000, il che significa che nei primi 13 mesi e mezzo i morti sarebbero stati circa 2.569.500, mentre la Covid al 1 maggio ne ha fatti 3.205.270[6]. Se i conti non sono sbagliati, la Covid è più mortale della Hong Kong, ma non è troppo distante da quella.
Le cose cambiano radicalmente con la Spagnola che tra il 1918 e il 1920 ha fatto circa 50 milioni di morti su una popolazione complessiva di un miliardo e sette/ottocento milioni. Se oggi avessimo una pandemia altrettanto mortifera della Spagnola, i morti totali sarebbero circa 255 milioni, il che significa che nei primi 13 mesi e mezzo avrebbero dovuto essere circa 190 milioni, mentre oggi, al 1 maggio 2021 sono 3.205.270.
Ripeto: so bene che il confronto è problematico, e che la sola menzione del catastrofico numero di morti che sarebbero prodotti da una Spagnola ci lascia attoniti, sconcertati e senza parole. Esso però ci dà l’idea della catastrofe che si è abbattuta. Il fatto che noi ci si scandalizzi per poco più di tre milioni di morti rivela quanto oggi sia cresciuto il rispetto della vita. La capacità tecnica di preservarla sollecita in noi l’impegno in questa direzione, e mi pare che questa sia una crescita di civiltà. Lungi dall’essere pervasa dalla “cultura della morte”, la nostra è una civiltà che tutela e promuove la vita al punto di sfidare il virus e tentare di spegnere una pandemia.
- L’aumento di consapevolezza che la salute è costrutto sociale
Il tentativo di bloccare o di spegnere artificialmente la pandemia costituisce la più grande impresa sanitaria mai proposta prima, ed è qualcosa di assolutamente nuovo nella storia. Come ho detto è impresa più significativa dello sbarco sulla Luna o della fissione nucleare, e il programma di vaccinare in massa tutti è l’impegno maggiore mai tentato nella storia.
Non sappiamo se ci si riuscirà davvero a bloccare la pandemia, ma il solo fatto di provarci segna un cambiamento radicale. Ci si è potuti muovere in quella direzione perché negli ultimi 50 anni la strategia del controllo del processo vitale si è diffusa e consolidata in più ambiti. Nella seconda metà del secolo scorso è cambiato il concetto di salute e di salute pubblica. Nella tradizione millenaria, come ci ricorda il già citato Cosmacini, la salute è il frutto di un’armonia cosmica dotata anche di “un che di musicale” che coniuga l’armonia interna dei quattro umori propri del corpo umano (sangue, flegma, bile gialla e bile nera) con l’armonia esterna «dell’individuo con l’ambiente naturale di appartenenza»[7], cioè è un dato naturale. Ciò significa che il medico è assistente della natura, e compito della medicina è solo la terapia, ossia l’aiuto al finalismo della vis medicatrix naturae senza discostarsi da esso.
Negli ultimi decenni, si è passati alla concezione psico-sociale, in cui la salute (individuale e pubblica) è un costrutto sociale.
Il cambiamento ha comportato l’emergere di nuovi scopi della medicina. In quella tradizionale il medico è assistente della natura e la medicina si limita alla terapia. Ora interventi come trapianti, rianimazione, contraccezione, aborto, fecondazione assistita, clonazione, diagnosi prenatale, gene editing, etc. mostrano che la medicina attua un controllo e ha nuovi scopi oltre a quello terapeutico: previene, cura la vita e la termina, la sostituisce e la potenzia. I vaccini sono una forma di potenziamento dell’umano, e quelli preparati contro il Covid sono di nuova generazione.
Come si vede, la strategia del controllo non è nata ora, ma ha radici profonde. Per questo l’idea di applicarlo alla pandemia è venuta immediatamente, spontanea, senza aver avuto bisogno di particolari proclami, come invece è avvenuto per quella opposta (formulata da Johnson). Tuttavia, per ragioni che non sono ancora state chiarite e avranno bisogno di esserlo, la consapevolezza al riguardo è scarsa, e ancora si ragiona per lo più sulla scorta della nozione tradizionale. Mentre nelle scienze astronomiche Tolomeo è stato dimenticato, in medicina quando si parla di salute Ippocrate è ancora un riferimento. Una conferma ci viene da un’altra osservazione del già citato Cosmacini che con consumata finezza esamina la filosofia spontanea racchiusa nel linguaggio comune sul tema
Spesso si sente dire e ridire: “ho perso la salute” oppure “ho ritrovato la salute”. Nelle due frasi, entrambi transitive, la salute è il complemento oggetto. La si perde o la si ritrova al pari di un oggetto qual è il portafoglio che contiene la carta d’identità e la moneta cartacea. Il paragone non è improprio: la salute, infatti, concerne sia l’identità personale, sia un bene di pregio[8].
Come si vede, la salute è intesa come un oggetto, ossia qualcosa di dato e di indipendente da noi (che ci troviamo confezionato), oggetto paragonabile al portafoglio che contiene:
- La carta d’identità ossia il documento che certifica chi siamo (status civile, età, sesso, etc.) e
- Le banconote ossia il bene di pregio che garantisce l’autonomia economica.
La filosofia spontanea ancora diffusa sulla cui scorta ancora si decide la salute mette nel portafoglio le banconote, che sono un bene privato dato che sono anonime e non facilmente rintracciabili, e la carta d’identità (cartacea) che contiene i dati essenziali per l’identificazione del titolare.
Se guardo nel mio portafoglio, però, più che banconote trovo carte di credito, che è bene di pregio privato come le banconote, ma non è più anonimo perché le transazioni sono tracciabili. La carta è oggetto “naturale” anonimo che di per sé garantisce la privatezza. La plastica è invece oggetto “costruito” che rimanda a una dimensione pubblica, per cui la privatezza è mantenuta da password e da norme appositamente studiate. Anche la carta d’identità non è più cartacea, ma è elettronica, il che significa che non ha più solo la funzione di certificare l’identità ma può aprire a un mondo più vasto che l’IA (Intelligenza Artificiale) amplierà ancor di più.
Nel mio portafoglio ci sono poi due altre tessere elettroniche: il codice fiscale che si collega alla carta di credito, e la tessera sanitaria, che contiene la mia cartella clinica con tutti i dati relativi alla mia salute, dal gruppo sanguigno al codice genetico (e presto anche agli esercizi fisici svolti!): documento che ci dà all’istante il quadro delle condizioni sanitarie del soggetto.
Il fatto che le due componenti della salute individuate da Cosmacini abbiano cambiato forma, e da cartacee siano diventate elettroniche sta a testimoniare che sia sul piano simbolico che su quello concreto si sta passando o già si è passati dalla nozione di salute come oggetto naturale dato alla salute come costrutto sociale studiato. Tuttavia in medicina quando si parla di salute il richiamo è ancora a Ippocrate (mentre in astronomia quando si parla di astri non è più a Tolomeo!), è come se ancora non ce ne fossimo accorti e continuiamo a ragionare sulla scorta della nozione tradizionale. Viviamo in base alla nuova nozione di salute, ma ce ne manca la consapevolezza, tanto che ancora oggi ci si richiama a Ippocrate (mentre in astronomia nessuno si richiama a Tolomeo!).
La pandemia, per la potenza dell’evento e la sua globalità, offre un palcoscenico nuovo e particolarmente allettante, che consente l’aumento di consapevolezza del nuovo concetto di salute come costrutto sociale. La presenza di una nuova tessera può costituire una sorta di detonatore che viene a cambiare il quadro della situazione, anche perché l’avvento della IA facilita il tutto.
- Il significato del Green Pass nella situazione storica attuale
La proposta del Green Pass si colloca non in un vuoto pneumatico, ma in un contesto storico i cui tratti essenziali sono per un verso l’affermazione della strategia del controllo che porta l’umanità all’attacco del virus (abbandonando la tradizionale difesa affidata ai sistemi di significato e simbolici), e per altro il fatto che la nuova concezione di salute è ancora sotto traccia per scarsa consapevolezza del passaggio epocale intervenuto. È decisivo considerare il contesto, perché il significato culturale è determinato dalle condizioni in cui si colloca: viviamo nel villaggio globale in cui la mobilità è aspetto essenziale dell’esistenza. In questo senso il Green Pass non è paragonabile all’antimalarica richiesta per viaggi in Stati particolari che si configuravano come eccezione. Oggi invece il Green Pass è proposto come certificato universale e come precondizione alla libertà di movimento e ha un significato ben preciso: la libertà di movimento è subordinata alla certificazione di buona salute.
Sia per la potenza dell’accertamento sia per l’universalità e pesantezza dei limiti imposti, la proposta del Pass appare come qualcosa di totalmente nuovo rispetto al passato, tanto che gli stessi proponenti si sono affrettati a dire che si tratta di misura temporanea e circoscritta alla sola emergenza Covid. Tuttavia, visto che il punto forte e qualificante del Pass è la vaccinazione (come potenziamento) sul piano culturale l’implementazione di tale documento porta con sé:
- L’affermazione del concetto di salute come costrutto sociale.
- L’affermazione del principio che quando c’è un pericolo o danno per la salute altrui è lecito limitare alcune libertà.
La sinergia tra i due aspetti porterà a una crescita di consapevolezza della nozione di salute come costrutto sociale. Come ho detto, è da tempo che l’idea è diffusa, ma com’è noto i grandi cambiamenti storici hanno spesso un lungo periodo di latenza e richiedono molti tasselli per realizzarsi. Da tempo sentiamo parlare di “determinanti della salute” che includono la condizione economica, gli stili di vita, etc., ma sinora l’idea della salute come dato naturale ha resistito e prevalso. L’implementazione del Green Pass è facile che dia la spallata finale per mettere da parte la nozione di salute come dato e sdogani l’idea che la salute è costrutto sociale e non più, come dato naturale, frutto di casualità e fortuna insondabile.
Ove questo dovesse accadere, cioè ove la salute cesserà di essere un dato naturale e diventerà un costrutto sociale, la nozione di “danno” in ambito sanitario si allargherà inevitabilmente cambiando alla radice le categorie e i quadri mentali con cui guardiamo alla salute e alla vita stessa. Gli stili di vita sono un potente determinante di salute, per cui l’essere fumatori, il condurre vita sedentaria, lo scegliere diete inadeguate o scorrette etc. diventeranno pratiche note, controllabili e potenzialmente evitabili: insomma verranno ad assumere una valenza pubblica. Oggi, gli stili di vita riguardano l’aspetto privato della vita e sono di spettanza del solo soggetto interessato. In futuro, e presto, il livello di salute e la cura per la propria salute verranno ad avere una più ampia valenza pubblica perché in qualche modo la (buona o cattiva) salute di un individuo ha un impatto sulla vita dell’intero gruppo sociale. Ciò significa che anche la scelta dello stile di vita ha un valore sociale o pubblico e sarà computata. D’altro canto, è normale prevedere un aumento di responsabilità per la propria salute, perché ciò consente alla persona sia di contribuire al meglio alla società sia di non essere di appesantimento. In questo senso, è ragionevole pensare che il Green Pass costituisca l’avamposto della nuova concezione della salute come costrutto sociale.
In altre parole, il Green Pass non resterà un fatto isolato e limitato al controllo della pandemia Covid. Dopo aver risolto le difficoltà per cui è stato pensato, i suoi vantaggi si riveleranno così promettenti da essere esteso anche ad altri aspetti della salute. L’allargamento avverrà non tanto per un tanto temuto slippery slope che in modo abusivo produce l’ampliamento, ma al contrario si attuerà per la forza espansiva della coerente applicazione del principio che la salute è costrutto sociale controllabile. Come bene ha fatto Cosmacini, sinora la salute era paragonabile al portafoglio in cui siamo o eravamo soliti collocare la Carta d’identità cartacea e le banconote, ossia beni privati che possono essere tenuti nascosti e posseduti in anonimo, magari nel materasso. Il Green Pass è il primo passo che porta a sostituire le banconote con la carta di credito, cioè è l’inizio di un processo in cui la salute acquisisce una valenza pubblica. Questo passo è ora giustificato dal fatto che la possibile trasmissione del virus rappresenta un danno diretto da cui proteggersi, ma sulla scorta della nozione di salute come costrutto sociale non sarà difficile individuare molti altri danni indiretti altrettanto gravosi che porteranno all’estensione del controllo sociale delle condizioni di salute.
Voglio concludere che sono a favore del Green Pass e forse anche di molti degli altri passi successivi che verranno. Scopo di questa riflessione era l’aumento della consapevolezza circa il cambiamento in atto, non gettare panico su di esso. D’altro canto, la pandemia Covid-19 costituisce un’importante cesura storica, per la quale valgono le parole del già citato Cosmacini, il quale ci ricorda che non sappiamo che cos’ha in serbo il domani, ma «la sola cosa di cui siamo certi è che, come sempre accade dopo ogni vera rivoluzione, niente tornerà a essere come prima»[9].
[1] QS 29 marzo 2021 http://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=94102.
[2] Cfr. https://www.gov.uk/government/speeches/pm-statement-on-coronavirus-12-march-2020.
[3]http://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus/dettaglioNotizieNuovoCoronavirus.jsp?lingua=italiano&menu=notizie&p=dalministero&id=4184
[4] E. Tognotti, Il mostro asiatico. Storia del colera in Italia, Laterza, Roma-Bari 2000.
[5] G. Cosmacini, Concetti di salute e malattia fino al tempo del Coronavirus, Pantarei, Milano 2020, p. 143.
[6] Fonte Worldometer, consultato il 2 maggio alle ore 01.35
[7] G. Cosmacini, op. cit., p. 5.
[8] Ibid., p. 3.
[9] Ibid., p. 141.