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SCIENZA E FILOSOFIA. RIFLESSIONI PER UN’ALLEANZA TRANSDISCIPLINARE

Autore


Andrea Parravicini

Università degli Studi di Milano

svolge attività di ricerca all’Università degli Studi di Milano principalmente su questioni connesse alla cognizione umana e alla sua origine evolutiva

Indice


  1. Storia di una farfalla che abbandonò la sua crisalide
  2. La specificità del metodo scientifico
  3. Ogni scienza ha la sua filosofia…
  4. I bias filosofici sono gli unici pregiudizi che la scienza non può evitare
  5. La svolta filosofica in controtendenza della scienza moderna
  6. Il nostro nuovo infinito
  7. Dalla frammentazione iper-specialistica alla consilience interdisciplinare
  8. Perché la scienza ha bisogno della filosofia
  9. Non solo interdisciplinare: scienza e filosofia in un confronto transdisciplinare
  10. Scienza e filosofia: verso una fruttuosa alleanza?

 

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S&F_n. 24_2020

Abstract


Science and Philosophy. Reflections for a transdisciplinary Alliance

Despite historical connections between science and philosophy have always been tight, today’s scientists often consider philosophy as extraneous, and sometimes even antagonistic, to science. In this paper I argue that, to the contrary, philosophy may have an important and productive impact on today’s science, fragmented into a multitude of specialized fields, by contributing to analyse and clarify concepts and hypotheses, assessing methods, formulating new theories and fostering the interdisciplinary dialogue between different sciences, as well as between sciences and society. More importantly, scientists cannot avoid to make non-empirical assumptions when conducting research, and philosophy can help to identify and critically debating them. I conclude by affirming the importance of a transdisciplinary dialogue between science and philosophy, which is crucial for a reciprocal ethical transformation that could open the road to a more aware and responsible way of approaching knowledge and acting in the present complex world.


  1. Storia di una farfalla che abbandonò la sua crisalide

La scienza, storicamente, si è originata in seno alla pratica filosofica, che ne ha fornito, per così dire, il terreno di coltura, il supporto metodologico e culturale, attraverso lo sviluppo di un orientamento razionale e dialettico, di strumenti logico-metodologici, di un’attitudine alla critica e all’autocritica intersoggettiva e antidogmatica. La filosofia in breve ha costruito le fondamenta sulle quali si è eretto l’edificio della scienza moderna. Sarebbe difficile immaginare la nascita e lo sviluppo dell’impresa scientifica senza l’immenso contributo dei grandi filosofi, da Aristotele a Bacone, da Cartesio a Hume e Kant. Tuttavia, non è difficile imbattersi, oggi come in passato, nell’opinione diffusa e comune, espressa anche da rinomati studiosi e scienziati, secondo cui la filosofia ormai non sarebbe che una pratica superata e inutile, un “ferro vecchio”, quando va bene, e in alcuni casi addirittura illusoria e dannosa. Recentemente, il genetista italiano Edoardo Boncinelli ha paragonato il rapporto tra scienza e filosofia a quello tra una farfalla e la sua crisalide[1]. Una volta che il bruco si è trasformato in farfalla, quest’ultima esce e abbandona per sempre la crisalide entro cui ha avuto origine e si è sviluppata fino allo stadio adulto, lasciandone l’involucro vuoto e inerte. Allo stesso modo, la scienza sperimentale, dopo essere sorta e sviluppata dal seno della sua storica incubatrice, la filosofia occidentale, ha cominciato a staccarsi da essa, a ribellarsi al suo dominio e a rendersi indipendente. Essa ha così conquistato in breve tempo una propria autonomia, dando vita a una costellazione di discipline che dalla fisica alla chimica e alle scienze della vita, giungono fino alle attuali ricerche nel campo dell’intelligenza artificiale. Tra l’approccio filosofico e quello scientifico si è così spalancato un abisso, che oggi sembra molto difficile colmare e, forse, come lascia intendere Boncinelli, non vale più neppure la pena provare a colmare.

 

  1. La specificità del metodo scientifico

Se è vero che la filosofia ha sempre condiviso in larga misura con il procedere scientifico una serie di caratteristiche fondamentali (gli strumenti dell’analisi concettuale e dell'argomentazione rigorosa, lo spirito logico-critico, l’antidogmatismo, l’attitudine al dialogo, e così via), quest’ultimo ha tuttavia sviluppato nel tempo un suo peculiare approccio metodologico di tipo sperimentale, implicante l’utilizzo di propri strumenti tecnologici e concettuali-linguistici, e un nuovo modo, estremamente efficace, di accumulare le proprie conoscenze e verità.

Come notava il filosofo statunitense Chauncey Wright, già nella seconda metà dell’Ottocento, i vari ambiti della ricerca scientifica mostravano una chiara tendenza a volersi liberare progressivamente dalle resistenze del sentimento metafisico o religioso, secondo un orientamento che era in cammino già per lo meno dal XVII secolo, da quando Bacone iniziò a esercitare la sua grande influenza nella direzione della difesa della neutralità della scienza, realizzando un completo e definitivo distacco, per lo meno nel contesto britannico, delle scienze fisiche dalla filosofia scolastica e dagli altri ambiti di pensiero metafisico, religioso, morale[2]. Questo processo ha avviato una separazione, oggi più che mai evidente, dell’ambito di conoscenze cosiddette scientifiche rispetto alla sfera del sapere legato all’ambito definito “umanistico”, in cui si fa ricadere anche la filosofia, con le sue indagini teoretiche e metafisiche, o di rilievo etico-pratico.

Wright, e con lui molti oggi concorderebbero, riteneva che la presunta neutralità rispetto a qualsiasi interesse o pretesa di tipo filosofico, religioso, metafisico, morale, fosse l’elemento distintivo della ricerca scientifica e del suo metodo sperimentale, e la chiave per comprendere il suo rapido e inarrestabile successo. Lo sviluppo storico dell’impresa scientifica è infatti caratterizzato dalla costituzione di un corpo di conoscenze sperimentalmente controllate e certificate in concomitanza con il rafforzamento di interessi oggettivi che siano il più possibilmente liberi dal dominio delle motivazioni religiose e filosofiche. Una persona può di per sé ritenere che le cose percepite esistano indipendentemente da noi, oppure interpretarle come il risultato di gruppi di sensazioni soggettive, ma come scienziato può tranquillamente ignorare questi giudizi metafisici sulla natura ultima delle cose, per il fatto che non influiscono minimamente sulla validità delle leggi della scienza, che da questo punto di vista mantengono un atteggiamento il più rigorosamente neutrale rispetto alle questioni metafisiche[3].

Charles S. Peirce, compagno di interminabili discussioni con Wright, alcuni anni dopo le riflessioni di quest’ultimo pubblicò un articolo che figura tra le pietre miliari del pensiero pragmatista e che approfondiva ulteriormente la riflessione dell’amico. In The Fixation of Belief (1877), Peirce distingueva quattro metodi fondamentali per fissare le nostre credenze. Il metodo della tenacia è adottato da quegli individui che procedono nella vita facendo sistematicamente finta di non vedere tutto ciò che potrebbe far loro cambiare idea rispetto alle loro credenze più radicate. Il metodo autoritario è utilizzato soprattutto da quegli Stati che indottrinano il popolo imponendo dottrine, impedendo con la forza il dissenso, mirando a mantenere gli individui in uno stato di ignoranza per timore che imparino a pensare in modo differente. Il metodo a priori è invece il metodo razionale tipicamente utilizzato dai filosofi, che stabilisce attraverso la ragione quali proposizioni debbano essere credute, senza però fare affidamento sul terreno dell’esperienza e sulla verifica sperimentale, per cui esso risulta, in definitiva, estraneo ai fatti.

Nonostante questi tre metodi presentino a loro modo alcune ammirevoli qualità, solo il quarto e ultimo, il metodo scientifico, secondo Peirce, stabilisce le credenze in modo affidabile, tenendo conto dei fatti, spingendoci a pensare che «vi sono cose reali i cui caratteri sono completamente indipendenti dalle opinioni che noi ci formiamo intorno a essi», e a ritenere vero, cioè reale, ciò che «ogni uomo, se ha esperienza sufficiente e se ragiona abbastanza su di essa, sarà condotto a un’unica conclusione vera»[4]. Perciò, argomentava Peirce, la verità è pubblica e si costruisce collettivamente sulla base del procedere, in the long run, delle inferenze e delle ricerche della comunità scientifica. In questo senso, ciò che chiamiamo «realtà», scriveva Peirce in un saggio precedente, «è ciò a cui alla fine, presto o tardi che sia, giungeranno l’informazione e il ragionamento e che è dunque indipendente dalle mie e dalle vostre fantasie»[5]. Se il reale è «ciò i cui caratteri sono indipendenti da quello che chiunque può pensare che essi siano», la verità non è mai il possesso di una singola mente ed è qualcosa che nasce dalla competizione tra le opinioni e le interpretazioni di una comunità di ricercatori, sempre provvisoria e rinviata al futuro, attraverso una dinamica potenzialmente infinita di interpretazioni. Il metodo scientifico, attraverso i suoi rigorosi processi di indagine, è in grado dunque di dare soluzioni certe ai problemi, ed è il risultato di un lavoro collettivo e intersoggettivo basato sull’esperienza.

 

  1. Ogni scienza ha la sua filosofia…

Con le loro analisi, Wright e Peirce forniscono un ritratto del metodo scientifico che ancor oggi appare nitido ed efficace. Il loro scopo tuttavia, non era affatto quello di ripudiare la matrice filosofica e metafisica del pensiero umano, ma di delineare un metodo, quale quello mostrato dal procedere scientifico-sperimentale, che fosse il più possibile affidabile e solido nei confronti di qualsiasi deriva metafisica e superstiziosa, al fine di operare, secondo il loro approccio di stampo “pragmatista”, una “ricostruzione” della stessa pratica filosofica. Inutile ricordare che un atteggiamento simile si ritroverà anche in John Dewey, che più di ogni altro, tra i filosofi pragmatisti, avrebbe promosso l’idea che la filosofia dovesse adottare il metodo caratteristico della scienza e applicarlo anche in campo etico, morale e politico.

Se sul fronte filosofico, pensatori di un certo orientamento aperto e pluralista sanno guardare alla scienza e al metodo scientifico come a un modello esemplare al fine di avviare una profonda ricostruzione della disciplina dal suo interno, sul fronte scientifico non si può certo affermare che siano tutti allineati nel sostenere che la «farfalla» non abbia più nulla a che spartire con la sua originaria «crisalide». Non sarebbero pochi gli scienziati pronti a sottoscrivere le parole del grande naturalista francese Lamarck, che nel 1809 affermava: «È noto che ogni scienza deve avere la sua filosofia, e che solo per questa via compie reali progressi […]; se la filosofia della scienza è trascurata, i suoi progressi saranno inconsistenti e l’opera intera resterà incompiuta»[6]. Lamarck intendeva sottolineare che le interpretazioni scientifiche partono da presupposti e da prospettive che sono esse stesse di tipo filosofico. Se viene trascurata la natura e il portato teorico e prospettico di tali assunzioni, l’opera dello scienziato risulterebbe cieca e inconsapevole. Nel caso specifico, Lamarck si riferiva alla particolare prospettiva assunta dal naturalista nello stabilire le sue classificazioni, in cui non va mai trascurata la natura delle decisioni implicite che lo guidano nell’operare collegamenti e separazioni. Questo aspetto del lavoro dello scienziato viene ripreso in modo molto chiaro, quasi due secoli dopo, dal paleontologo ed evoluzionista Stephen J. Gould, che nel suo Wonderful Life (1989)[7] analizzava le sorprendenti scoperte fossili avvenute presso Burgess Shale in British Columbia, da un lato, per riflettere sulla natura della storia e dell’evoluzione, e dall’altro per ribadire la cruciale importanza di esaminare la filosofia che implicitamente orienta la prospettiva dello scienziato. Gould mostrava infatti che le tassonomie e le filogenesi tendono a rispecchiare, spesso in modo inconsapevole e implicito agli occhi dello scienziato, un pensiero influente e paradigmatico che porta a interpretare in un certo modo dati ed evidenze scientifiche, escludendo certi particolari che, se riesaminati con modelli e interpretazioni differenti, porterebbero a una riorganizzazione generale dei dati osservativi e dunque a una ricostruzione completamente diversa.

Dello stesso avviso è un altro illustre scienziato, Ernst Mayr, uno dei padri della cosiddetta Sintesi Moderna, che nell’epilogo della sua Storia del pensiero biologico scrive:

A seconda che un autore aderisca all’essenzialismo o al pensiero popolazionale, che creda nel riduzionismo o nell’emergentismo […] tutte queste fondamentali differenze ideologiche saranno quelle che determineranno le teorie biologiche per lui accettabili. Per questa ragione il cambiamento e la sostituzione di singole teorie scientifiche sono molto meno importanti nella storia della scienza di quanto non lo siano la nascita e il declino delle principali ideologie che possono influenzare il modo di pensare degli scienziati. Studiare le principali filosofie o ideologie degli scienziati è compito molto arduo poiché raramente si tratta di posizioni articolate. Sono in gran parte assunzioni tacite, e accolte in modo così incondizionato da non essere neanche mai espresse[8].

 

Ciò che scrive Mayr trova numerose conferme lungo tutto l’arco della storia della biologia, risultando ancor oggi pienamente valido, se si considerano i dibattiti e le differenti correnti e impostazioni teoriche che si affrontano e si confrontano nel variegato panorama delle scienze del vivente. Il rilievo di Mayr è addirittura lampante se si pone mente, in una prospettiva temporale dilatata, al ruolo che le convinzioni filosofiche più profonde e radicate negli uomini di scienza e nel senso comune hanno giocato (e ancora oggi giocano) nel produrre resistenze, fraintendimenti, travisamenti nei confronti della stessa teoria darwiniana[9].

 

  1. I bias filosofici sono gli unici pregiudizi che la scienza non può evitare

Sono proprio tali implicite assunzioni filosofiche sedimentate nel tempo a dar forma, in certa misura, allo sguardo interpretante dello scienziato, che pur è allenato e avvezzo più di chiunque altro alla disciplina di neutralità e oggettività caratteristiche del suo metodo. Questa tesi è stata confermata ed estesa anche al di fuori dell’ambito evoluzionistico in un articolo del 2019 dal titolo Philosophical bias is the one bias that science cannot avoid, pubblicato sulla rivista scientifica «eLife»[10]. I tre autori, afferenti al NMBU Centre for Applied Philosophy of Science, School of Economics and Business della Norwegian University of Life Sciences, sostengono che nonostante gli scienziati cerchino di eliminare tutte le forme di pregiudizio dalle loro ricerche, essi non possono fare a meno di presupporre i loro «philosophical biases». Non possono cioè evitare, nelle loro ricerche, di presupporre implicitamente le loro convinzioni su come è fatto il mondo (ontologia), su cosa possiamo sapere su di esso (epistemologia) o su come la scienza dovrebbe essere praticata (norme). Questi veri e propri pregiudizi filosofici «influenzano, giustificano e consentono la pratica scientifica: in breve, sono una parte integrante della scienza»[11]. In questo senso lo scienziato non può evitare di sostenere ipotesi, anche di natura non empirica, sugli argomenti più svariati, quali la causalità, il determinismo e il riduzionismo, e questi «philosophical biases» orientano, influenzano, ma anche consentono le loro indagini. Tali pregiudizi, costitutivi della ricerca scientifica, scrivono gli autori, devono essere consapevolmente riconosciuti e criticamente discussi da scienziati e filosofi della scienza.

Come viene mostrato in una serie di esempi, in molti casi assunzioni filosofiche di base, legate variamente a nozioni quali quelle di causalità, probabilità o complessità, e così via, quando non vengono riconosciute o esplicitate possono influenzare o distorcere lo sviluppo di ipotesi, la progettazione degli esperimenti, la valutazione delle prove e l'interpretazione dei risultati. Essi prendono in esame il caso riguardante la scelta del metodo scientifico per stabilire una relazione causale tra una qualche condizione medica e un virus, e mostrano come il tipo di scelta effettuata presupponga tacitamente una certa idea di cosa sia la causalità. Allo stesso modo, una tacita assunzione relativa all’idea di complessità che opti per una preminenza ontologica delle entità sui processi sembra portare a conseguenze pratiche significativamente differenti rispetto all’opposta assunzione in favore di una preminenza dei processi sulle entità, come è accaduto nel dibattito sulla sicurezza delle colture OGM tra biologi molecolari ed ecologi.

Per ovviare a tali biases, presenti in molti altri casi, riportati anche dal campo medico, gli autori in primo luogo ritengono si debba esplicitare la filosofia che sottostà alla visione dello scienziato, ovvero l’orizzonte teorico (riduzionista, dualista, determinista, olista, emergentista e così via) che funge da assunzione implicita che guida l’interpretazione dei dati. Questo al fine di evitare qualsiasi posizione dogmatica e inconsapevole, con l’obiettivo di far sì che gli scienziati adottino un certo approccio ontologico o epistemologico in modo filosoficamente consapevole, mettendolo alla prova attraverso una discussione critica e un confronto aperto. Secondo gli autori, riconoscere i pregiudizi filosofici è già un buon punto di partenza, ma la responsabilità di questo non può essere lasciata ai singoli scienziati. È necessario infatti sviluppare una cultura nella comunità scientifica orientata a discutere criticamente questioni concettuali e meta-empiriche: questo dovrebbe coinvolgere università, istituti di ricerca, ma anche riviste di settore. I filosofi della scienza, dal canto loro, dovrebbero contribuire a questo processo lavorando per impegnarsi con studenti e ricercatori nelle discussioni sul fondamento filosofico di norme, metodi e pratiche scientifiche.

 

  1. La svolta filosofica in controtendenza della scienza moderna

Se proviamo a guardare da un punto di vista diacronico alle “decisioni” teoretiche di natura non empirica che si sono sedimentate nel dare forma allo sguardo scientifico occidentale, distinguendolo dalla sua tradizionale “crisalide” filosofica, potremmo risalire alla mossa forse più decisiva che la nascente scienza moderna ha opposto a un’impostazione filosofica dominante nelle indagini sulla natura e sull’essere umano che risaliva perlomeno a partire da Platone e Aristotele. Come ha affermato Dewey in un famoso saggio del 1910[12], fino alle soglie della rivoluzione scientifica tale impostazione considerava tutto ciò che in natura e nel sapere umano è fisso e immutabile, o ha uno scopo finale, come qualcosa di superiore rispetto a ciò che cambia, diviene senza scopo o ha un’origine nel tempo. Il cambiamento, il divenire cieco, sono sempre stati considerati dalla cultura occidentale come segni di difetto e di irrealtà. Questa filosofia essenzialista e finalista ha dominato in tutti i campi del sapere umano, fino a che la nascita della scienza moderna non l’ha sfidata, operando un trasferimento di interesse dal permanente a ciò che diviene, eliminando i principi fissi e le cosiddette cause finali dall’astronomia, dalla fisica, dalla chimica. A partire dalla nuova fisica galileiana, con la formulazione del «principio di inerzia», in particolare, inizia a farsi largo una nuova visione filosofica, che ha improntato tutto lo sviluppo della scienza moderna, che pone il movimento cieco, il divenire, come un primum, senza che se ne debba render conto con spiegazioni finalistiche o essenzialistiche.

Jacques Monod, ne Il caso e la necessità (1970), ha identificato questa vera e propria «svolta in controtendenza della scienza moderna»[13] con ciò che egli ha chiamato «il postulato dell’oggettività della Natura», vale a dire «il rifiuto sistematico a considerare la possibilità di pervenire a una conoscenza “vera” mediante qualsiasi interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali, cioè di “progetto”. La scoperta di questo principio può essere datata con esattezza», prosegue Monod.

Galileo e Cartesio, formulando il principio di inerzia, non fondarono solo la meccanica, ma anche l’epistemologia della scienza moderna, abolendo la fisica e la cosmologia di Aristotele […]. Il postulato di oggettività è consustanziale alla scienza e da tre secoli ne guida il prodigioso sviluppo. È impossibile disfarsene, anche provvisoriamente, o in un settore limitato, senza uscire dall’ambito della scienza stessa[14].

 

Secondo questo vero e proprio postulato filosofico, potremmo dire, la scienza esclude dal suo territorio ogni tipo di spiegazione che faccia ricorso a fini, a menti intelligenti o a misteriose forme a priori sottostanti ai fenomeni, e li confina in uno spazio soggettivo e “secondario”, sostituendovi una spiegazione delle cose in termini quantitativi, di formule matematiche, al fine di compiere previsioni certe.

Questo tipo di sguardo fu poi esteso da Darwin anche «al di là dei cancelli del giardino della vita», come scrisse Dewey[15], completando quel rovesciamento dei presupposti della filosofia della natura e della conoscenza che aveva dominato nel pensiero occidentale per più di duemila anni ed estendendo dappertutto quella «svolta in controtendenza della scienza moderna» volta a sostituire alle spiegazioni finalistiche degli eventi naturali spiegazioni in termini di cause efficienti, facenti leva su un divenire cieco, non direzionato. Da questa mossa sono seguite una serie di altre decisioni filosofiche che si sono sedimentate nell’arco di centinaia di anni, orientando la visione degli scienziati, dei fisici, dei biologi contemporanei, costituendone anche il punto cieco.

 

  1. Il nostro nuovo infinito

Da Copernico, Bruno e Galilei, fino a Darwin e alle più recenti e affascinanti scoperte e interpretazioni in ambito fisico-chimico, biologico, fino a quello cosmologico, la scienza moderna ha dapprima dischiuso e poi sviluppato in modo sempre più convincente e inarrestabile, attraverso un lavoro straordinario sorretto da un corpus impressionante di dati empirici, prove sperimentali e conoscenze controllate, una visione grandiosa dell’universo e della vita. Una visione che, lungi dall’essere filosoficamente neutra, dischiude e rispecchia un mondo non più fatto di essenze ma di relazioni e occasioni complesse e infinitamente interpretabili, che non procede più in modo lineare verso una meta finale o la realizzazione di un piano preordinato, ma in cui una molteplicità di processi e di eventi complessi si relazionano su più livelli, tra loro, e a loro volta, profondamente interrelati e interpenetrati. In un mondo siffatto, che ricorda una «matrioska, ma in continuo sommovimento»[16], ogni accadimento può essere l’occasione di effetti che si propagano sia orizzontalmente, tra le entità e i processi di un certo livello, che verticalmente, tra un livello del reale e un altro.

Questa visione che pone al centro una molteplicità di relazioni e di livelli interagenti, si sta facendo largo oggi in biologia evoluzionistica, ad esempio, dove proliferano proposte di espansione della cosiddetta teoria dell’evoluzione standard, in direzione di una Sintesi Evoluzionistica Estesa[17], o di una Teoria Gerarchica dell’Evoluzione[18], che intendono espandere la cornice della teoria darwiniana in modo da includere nel movimento evolutivo una pluralità di nuovi processi e modelli, compresi, nel secondo caso, i fattori macroevolutivi, ecologici, biogeografici, geofisici. Tale espansione teorica in direzione sistemica vuole tener conto anche della struttura gerarchica del mondo biologico, costituita su più livelli inclusivi, da quello genetico-molecolare a quello cellulare, da quello degli organismi fino ai gruppi sociali e alle popolazioni, fino al livello macroevolutivo delle specie, degli ecosistemi, e dell’intera biosfera. Nella prospettiva ampia di alcuni biologi evoluzionisti odierni, l’evoluzione diventa un gioco infinitamente complesso che si snoda su più livelli, dove un cambiamento a un certo livello può propagarsi all’interno dello stesso livello, ma anche avere effetti contingenti e imprevisti a livelli differenti.

Secondo le più recenti prospettive emergenti in ambito scientifico siamo insomma, per citare Nietzsche, di fronte alla visione di un «nuovo infinito»[19], in base al quale il mondo si dispiega come «un mostro di forza, senza principio, fine, […] un gioco di forze, di onde di energia che è insieme uno e molteplice […], un mare di forze che fluiscono e si agitano in se stesse, in eterna trasformazione, […] il perpetuo fluttuare delle sue forme, in evoluzione dalle più semplici alle più complesse»[20].

A partire da una siffatta visione non si può più sostenere che il mondo in cui viviamo sia fatto di essenze, rispecchiate dalla nostra logica o dalle nostre parole, secondo il modello della metafisica classica, e men che meno sia una realtà che procede verso la realizzazione di fini ultimi o di progetti già preordinati. Oggi piuttosto siamo propensi a riconoscere, con Nietzsche, la complessità irriducibile e infinitamente interpretabile di un universo che consideriamo come aperto, che continuamente «è nel suo farsi», «in crescita dappertutto», come direbbe William James[21], ed evolvente su più livelli.

 

  1. Dalla frammentazione iper-specialistica alla consilience interdisciplinare

L’orizzonte di un mondo infinitamente esteso e complesso, le cui origini affondano nel tempo profondo e i cui dettagli sono passibili di inesauribili interpretazioni prospettiche, è il risultato del rapido progredire delle conoscenze scientifiche e dello sviluppo vertiginoso di sempre più potenti e affidabili strumenti tecnici. Il rovescio di questa crescita senza precedenti dell’impresa tecnico-scientifica occidentale è consistito, negli ultimi decenni, in una costante accelerazione della frammentazione iper-specialistica della ricerca scientifica, che a fronte di un aumento dell’efficienza tecnica e della potenza di analisi, moltiplica e polverizza i suoi oggetti di indagine. Il proliferare di tecniche sempre più mirate e specialistiche frantuma gli oggetti del sapere, che si fa sempre più analitico e frammentato, facendo perdere il senso del cammino unitario dell’impresa scientifica, che oggi si è parcellizzata e ramificata in una molteplicità di settori e ambiti, utilizzando ognuno un proprio specifico linguaggio tecnico, propri metodi e strumenti di ricerca, tanto efficaci quanto sempre più settorializzati. Il rischio di questa proliferazione di competenze e saperi specialistici è quello dell’incomunicabilità multidisciplinare o dell’impossibilità di condividere risultati e evidenze nell’ottica della costruzione di un corpus di conoscenze oggettive integrate, di un linguaggio e di una cultura comuni e condivisi.

Negli ultimi anni si sta tuttavia registrando un’inversione di tendenza. Dappertutto ci si sta accorgendo che tale frammentazione di conoscenze è deleteria quando si ha a che fare, come oggi accade, con una quantità di dati e di evidenze drammaticamente in crescita, e provenienti dai più disparati settori di indagine, per la cui interpretazione e integrazione mancano gli strumenti teorici e concettuali, non potendo contare su una visione abbastanza ampia da essere in grado anche solamente di porre domande sensate e corrette. Ci si sta dunque accorgendo che oggi è quanto mai urgente la promozione di una cultura scientifica e di un tipo di ricerca interdisciplinari, che chiamino in causa una collaborazione coordinata che coinvolga e integri diverse prospettive o discipline specialistiche, le quali cooperino per perseguire un obiettivo comune.

Paradigmatico in questo senso è quanto sta accadendo di recente in campo evoluzionistico, ad esempio in quel settore di ricerca che è l’evoluzione umana. Negli ultimi anni, come mai prima, in questo ambito convergono e si integrano in un unico sguardo una molteplicità di differenti discipline, come la paleontologia, la biologia molecolare, l’archeologia, la paleoclimatologia, la paleoecologia, la neuroanatomia e la paleoneurobiologia, gli studi sociali come la paleo-demografia, e altre ancora. Tutte queste discipline sono chiamate, con i propri metodi e strumenti di indagine, i propri oggetti di ricerca, i propri concetti e linguaggi specifici, a collaborare fornendo ognuna il proprio contributo, sforzandosi il più possibile in direzione di un’integrazione dei propri risultati a quelli emergenti in altre discipline, al fine di una prospettiva comune nella ricostruzione della storia evolutiva della nostra specie e alla comprensione dell’origine e allo sviluppo dei suoi tratti specifici. Pur essendo, gli attori di tale ricerca, pienamente consapevoli che l’“oggetto” da loro perseguito è in continuo e dinamico mutamento al trasformarsi delle tecniche di indagine e in presenza di nuove scoperte e di nuove evidenze, l’idea regolativa che muove questa grandiosa ed estesa collaborazione tra scienziati e ricercatori è che quanto più l’indagine si fa plurale, quanto più si uniscono gli sforzi e si guarda al medesimo oggetto da angolature diverse e da prospettive differenti e si riesce a trovare un linguaggio comune interdisciplinare per poter de-scrivere questa consilience di evidenze e di risultati, tanto più la descrizione o ricostruzione perseguita sarà fedele, vera, oggettiva.

 

  1. Perché la scienza ha bisogno della filosofia

In questa collaborazione interdisciplinare alla costruzione di un corpus comune di conoscenze e verità oggettivamente controllate, la filosofia della scienza può fornire un contributo utile e prezioso alle ricerche. In un opinion paper del 2019 dal titolo Why Science Needs Philosophy[22] pubblicato su «PNAS», alcuni importanti scienziati ed esperti in campo medico, biologico, fisico, come la fisiologa e biochimica Margaret McFall-Ngai, il fisico Carlo Rovelli, il patologo e immunologo Alberto Mantovani, insieme a filosofi di spicco come Elliott Sober e Thomas Pradeu, si propongono di mostrare come la filosofia possa fornire un contributo significativo e utile alla ricerca scientifica, come già sosteneva Albert Einstein in un passo di una sua lettera del 1844 a Robert Thornton, messo in esergo dell’articolo:

Concordo pienamente con lei sull'importanza e il valore educativo della metodologia, della storia e della filosofia della scienza. Molte persone al giorno d'oggi - compresi gli scienziati professionisti - mi appaiono come colui che ha visto migliaia di alberi senza mai vedere una foresta. Una conoscenza dello sfondo storico e filosofico fornisce proprio quella indipendenza dai pregiudizi della propria generazione dai quali la maggior parte degli scienziati sono afflitti. Questa indipendenza determinata dall'analisi filosofica è – a mio giudizio – il segno di distinzione tra un semplice artigiano o specialista e un autentico cercatore di verità[23].

 

Sulla scia del giudizio di questo illustre scienziato, gli autori dimostrano, basandosi su esempi concreti tratti da ricerche all'avanguardia in vari settori delle scienze della vita contemporanee, in che misura la filosofia della scienza possa fornire un valido aiuto al lavoro degli scienziati, e individuano almeno quattro diversi tipi di contributo: 1) la chiarificazione di concetti scientifici, che oltre a migliorare la precisione e l'utilità dei termini usati, conduce anche a nuove indagini sperimentali; 2) la valutazione critica di assunzioni o metodi scientifici, con la possibilità di proporre teorie nuove, testabili e persino predittive; 3) la formulazione di nuovi concetti e teorie; 4) la promozione del dialogo tra scienze diverse, nonché tra scienza e società.

L’analisi filosofica e la chiarificazione concettuale nella ricerca sulle cellule staminali, ad esempio, viene considerata dagli autori come un tipo di attività capace di condizionare la progettazione degli esperimenti stessi e di individuare problematiche importanti nell’oncologia e nella biologia di questo tipo di cellule. Il modo in cui viene interpretato e applicato il concetto di “staminalità” (come proprietà categorica, disposizionale, relazionale o sistemica) può influire in particolare sulla realizzazione di nuovi farmaci e terapie, assumendo target differenti, come le cellule staminali stesse o il loro microambiente. Altri esempi mostrano il ruolo significativo della filosofia nella critica delle assunzioni scientifiche, come nel caso delle indagini teoretiche sul sé immunologico e sull’idea che ogni organismo non sia un individuo geneticamente omogeneo, ma piuttosto una complessa comunità simbiotica popolata da diverse specie di microorganismi, con ricadute importanti nel chiarire le dinamiche di certe risposte immunologiche in determinate problematiche mediche, o nell’illuminare aspetti controversi di altre indagini in campo biologico. E naturalmente viene citato dagli autori il grande ed esteso contributo che la filosofia ha fornito e tutt’ora fornisce sulle concezioni e le teorie scientifiche nell’ambito delle ricerche sulla mente e sulla cognizione, esercitando una profonda e durevole influenza sui diversi approcci che hanno via via improntato questo importante settore di ricerca, dal comportamentismo, al cognitivismo fino, potremmo aggiungere, al «pragmatic turn» e al «4E cognition» che caratterizza i più recenti approcci «action oriented» in neuroscienze cognitive[24].

Anche l’ambito della biologia evoluzionistica, accennato solo di passaggio in Laplane et. al, è sicuramente un altro esempio in cui la filosofia ha dato e continua a dare significativi contributi nella chiarificazione e nell’elaborazione di concetti, nella critica di assunzioni e nella formulazione di nuove teorie, come nel caso, per citare qualche esempio, del dibattito sull’evoluzione dell’altruismo, della controversia sulle unità di selezione, sulla metodologia nelle ricostruzioni filogenetiche e nei dibattiti già citati riguardanti una possibile estensione della teoria standard dell’evoluzione in senso pluralista e multilivello[25].

I sempre più numerosi filosofi della scienza che si trovano a lavorare presso i dipartimenti scientifici collaborano in prima linea a questa costruzione scientifico-interdisciplinare di verità oggettive. Il lavoro del filosofo, in questo senso, è palesemente un lavoro di collaborazione attiva alla costruzione di una visione ampia, unificante, che contribuisca a coordinare e collegare insieme le prospettive specialistiche di diverse discipline e settori di ricerca. Di fronte a questa esigenza di raccordo interdisciplinare e di dialogo tra diversi ambiti della ricerca, oggi i filosofi iniziano a essere considerati figure importanti, anche per la loro capacità preziosa di favorire il dialogo tra la scienza e la società.

 

  1. Non solo interdisciplinare: scienza e filosofia in un confronto transdisciplinare

Il rapporto collaborativo che la filosofia può intrattenere con la scienza non può limitarsi tuttavia alla costruzione comune di un corpus di verità e conoscenze oggettive e interdisciplinari. Uno degli aspetti fondamentali di un genuino confronto tra pratica filosofica e ricerca scientifica riguarda infatti anche un ambito che definirei di ordine transdisciplinare[26]. Abbiamo già evocato questo aspetto, in un certo senso, quando abbiamo discusso riguardo alle assunzioni e decisioni tacite che danno forma allo «sguardo» dello scienziato. Ora è giunto il momento di tornare brevemente su tali questioni e di affrontarle nella loro più ampia portata.

Nell’ottica di un confronto transdisciplinare, l’interesse del filosofo si sposta dunque verso quelle decisioni e assunzioni teoriche sedimentate, verso quelle operazioni e quegli strumenti, che come si è detto strutturano e dirigono lo sguardo e le pratiche dello scienziato nella costruzione storicamente determinata delle sue teorie e verità. Orientata in questo modo, una pratica filosofica consapevole in senso transdisciplinare si concentra sugli effetti prodotti dalle peculiari pratiche e dalla prospettiva storicamente sedimentata di ogni disciplina scientifica, discutendoli criticamente e dissipandone le possibili superstizioni, spesso anche generate dagli abbagli legati all’uso del linguaggio.

Potremmo pensare alla filosofia come al corridoio di un albergo, sul quale si affacciano varie stanze, ovvero le varie aree del sapere, all’interno delle quali ogni occupante è dedito alle attività più svariate, da quelle più teoretiche a quelle più pratico-scientifiche. Il corridoio collega tutte le stanze, le attraversa e transita, e tutti gli occupanti delle diverse stanze «hanno in comune il corridoio e devono percorrerlo se vogliono entrare o uscire dalle rispettive stanze»[27]. Questa immagine, del filosofo Giovanni Papini, era citata da William James per sostenere che la filosofia (pragmatista, nel suo caso) non coincide con nessuna delle specifiche discipline che compongono l’impresa scientifica. Sprovvista di una sua dottrina precisa e codificata, essa transita attraverso di esse e, intesa nel suo senso più ampio, può essere definita come «un atteggiamento orientativo», un insieme di abiti del sapere e nei confronti dei diversi saperi, che spingono o disciplinano a riorientare lo sguardo verso la dimensione costitutiva e transitante dei saperi, esibendone la messa in scena e le dinamiche del gioco della verità in cui essi sono inseriti, e in cui qualsiasi impresa interdisciplinare è coinvolta. Questo attraversamento obliquo nei confronti degli altri saperi, comprese le conoscenze scientifiche, invita a condurre la ricerca inglobando nel proprio sguardo anche le modalità, i metodi, e gli strumenti che pongono in scena gli oggetti della ricerca stessa, suscitando un’attenzione rinnovata rivolta al lavoro delle pratiche e degli abiti che, di disciplina in disciplina, si attivano e operano attivamente nella costituzione dei saperi. Tali saperi e oggetti, inclusi quelli della stessa pratica filosofica, vengono compresi ora come il frutto di un lavoro sociale, di un farsi storico e auto-bio-grafico, il cui senso è in cammino e va di volta in volta ricompreso e riattivato. L’effetto di un tale esercizio transdisciplinare è quello di dissipare superstizioni e pregiudizi (come la credenza nell’esistenza di verità e oggetti assoluti, indipendenti dalle nostre pratiche) che ancora agiscono irriflessi nello sguardo di molti di coloro che praticano le proprie discipline specializzate. Esso è un habitus che ha un portato etico, un effetto trasformativo su chi lo pratica, perché ne riorienta lo sguardo in un’attenzione nuova verso sé stesso e il suo rapporto con il sapere. Transdisciplinare, potremmo dire, è questo ethos, questo fare attenzione alla vita della visione, alla prassi che la proietta e che non è altra cosa da essa. Un fare che, diventando consapevole di sé, modifica di contraccolpo la visione stessa in un continuo esercizio di aperture e messe in questione.

In fondo l’approccio transdisciplinare mira a portare a fondo lo sguardo dello scienziato in direzione sistemica e più radicalmente evoluzionista: è il riconoscimento che anche lo sguardo interpretante dello scienziato e del filosofo è un punto interno al sistema, un nodo di relazioni in continua trasformazione all’interno di quella «matrioska» a più livelli in divenire dinamico, che comprende relazioni biologiche, ecologiche, sociali, culturali. Nella «complessità» di tale «processo idealmente globale», scrive Carlo Sini in dialogo con Telmo Pievani, «ogni fattore, ogni elemento […], non incarna mai la prospettiva determinante o il punto centrale». Inoltre,

non è neppure un punto esterno al processo (che lo riguarda), non è un punto di inizio (tutto è già sempre iniziato), perché si trova all’interno di una correlazione mobile estremamente complicata. In un certo senso potremmo dire che è in un “sistema”, e che ne è parte attiva e metamorfica; anzi che lui stesso è un sistema in movimento nel sistema[28].

 

La filosofia come pratica transdisciplinare stimola dunque la scienza a guardare alle proprie verità, ai propri esperimenti e prove empiriche, alle credenze e conoscenze, come il frutto certamente di un metodo oggettivo e affidabile, ma pur sempre risultante da un lavoro di costruzione dell’oggettività mediato da pratiche e da strumenti che sono il portato del «lavoro umano, lavoro sociale, linguaggio storico, mentalità comune […], appartenenti a una cultura e a un intreccio di discorsi, orientati verso la conoscenza universale oggettiva, ma non verso la conoscenza oggettiva soltanto, perché chi parla è un essere storico e contingente»[29]. Considerare la conoscenza umana, con le sue verità, come un prodotto storico-evolutivo, tanto quanto il mondo naturale, non significa cadere nel relativismo, che è tanto ingenuo quanto l’oggettivismo naturalistico. Si tratta invece di ribadire la natura «relativamente assoluta» delle verità scientifiche, ovvero di «una verità che nel suo dirsi si prende come assolutamente vera e indubitabile, ma entro e per la sua relazione, cioè per la relazione che la costituisce e l’accompagna»[30]. Perciò, pur nel riconoscimento che la verità scientifica possa accadere solo all’interno di un intreccio storicamente determinato di saperi possibili, di usi operativi e strumentali, di evidenze rigorosamente accertate in senso intersoggettivo e pubblico, va anche precisato che al di fuori di questo orizzonte di senso non vi è per colui che indaga altra possibilità di valutazione e di confronto indipendente, imparziale e oggettivo. Non disponendo di alcun piano assoluto ed esterno per valutare epoche e verità del passato o civiltà e culture del pianeta, non possiamo che guardare a esse a partire dai nostri saperi e dal nostro metodo di indagine, più o meno rigorosamente stabilito. La verità relativamente assoluta della scienza non può che essere dunque anch’essa un evento interno alla matrioska.

 

  1. Scienza e filosofia: verso una fruttuosa alleanza?

In conclusione, che cosa chiede lo scienziato al filosofo e cosa il filosofo allo scienziato? Sulla base di queste riflessioni, si intravede la possibilità concreta di una preziosa collaborazione tra scienza e filosofia, a patto che ognuna acconsenta di essere attraversata e trasformata, in senso etico e transdisciplinare, dall’altra. La filosofia è invitata ad accostarsi al lavoro dello scienziato con maggiore cognizione e competenza, favorendo l’attività scientifica e la costruzione delle sue verità “relativamente assolute”, attraverso un’analisi rigorosa, il chiarimento e la formulazione di concetti e ipotesi, la critica e la discussione di assunzioni implicite e l’elaborazione di nuove teorie, la promozione di una collaborazione interdisciplinare e di un dialogo proficuo, anche tra la scienza e la società. Questa attività di collaborazione con le discipline scientifiche non deve però arrivare al punto di far perdere alla prassi filosofica la sua dimensione più genuinamente teoretica, etica, e in ultima analisi, politica (nel senso ampio del termine). Il filosofo chiede dunque allo scienziato di poter esercitare, anche nei suoi confronti, la sua disposizione più propria a svelare i retroscena, gli orizzonti di senso, i punti ciechi a partire da cui ogni sapere si pone in relazione alle proprie verità. La filosofia deve cioè continuare a coltivare il compito etico di formare una visione consapevole e critica, e in questo chiede profonda attenzione allo scienziato, affinché anch’egli comprenda che dietro ai concetti e alle teorie comprovate, che spesso il senso comune prende come verità date e fatti indiscutibili, c’è il frutto di un lavoro, di un percorso storico di interpretazioni, di una sedimentazione di sensi, di significati, di metafore, di verità che mutano, di pratiche che si susseguono.

Una siffatta disponibilità a un confronto transdisciplinare potrebbe instaurare un’alleanza reciprocamente produttiva tra scienza e filosofia, che sappia coniugare il genuino spirito del metodo e della ricerca scientifica con una visione etico-filosofica consapevole che ponga al riparo da superstizioni e dogmatismi. La costruzione di una tale alleanza potrebbe costituire il segnale di un nuovo promettente inizio, dell’esplorazione di una nuova strada.

In un articolo pubblicato quest’estate su «Current Biology», il biologo molecolare ed evoluzionista W. Ford Doolittle si chiede se l’evento tragico dell’attuale pandemia globale di SARS-CoV-2 possa sperabilmente costituire anche l’occasione per avviare una riflessione ad ampio respiro, che collochi e riconosca tale evento, ma anche finalmente noi stessi, come una parte dinamicamente interna di un unico grande ecosistema vivente di complesse relazioni biologiche, ecologiche, sociali, culturali, evolutive. Una riflessione che riconosca a fondo anche la nostra grande responsabilità nei confronti di questo ecosistema globale, non solo, com’è evidente, di fronte a tale evento pandemico e alla crisi ambientale strettamente connessa a esso, per via delle nostre attività invasive e insostenibili, ma anche in quanto specie, tra altre specie, dotata della «capacità unica di comprendere e cambiare il futuro di tutta la vita sul pianeta». Solo una comprensione ampia e profonda, che si ponga all’altezza di questa visione, forse, potrebbe innescare, come si augura anche Ford Doolittle, una grande transizione, che implichi «un radicale ripensamento» delle relazioni tra individui e comunità umane, e tra esse e l’intera biosfera[31].

Oggi più che mai, di fronte a una crisi sanitaria, climatica ed ecologica senza precedenti, si pone l’esigenza di una nuova alleanza tra scienza e filosofia, che sia in grado di operare una trasformazione reciproca attraverso un confronto transdisciplinare. Da un lato, occorre infatti una filosofia attenta ai problemi reali e urgenti, e che sappia dialogare con la scienza in un confronto produttivo, senza chiusure in sterili e vuote discussioni astratte[32]. Dall’altro lato, si richiede una scienza più avvertita e consapevole che, a fronte della sua efficacia potenzialmente devastante e della sua potenza tecnologicamente avanzata, non perda di vista la sua provenienza (umana, troppo umana) e l’orizzonte delle conseguenze etico-politiche del suo operare nel mondo.


[1] E. Boncinelli, La farfalla e la crisalide. La nascita della scienza sperimentale, Raffaello Cortina, Milano 2018.

[2] C. Wright, Philosophical Discussions (1877), in F.X. Ryan (ed.), The Evolutionary Philosophy of Chauncey Wright, Thoemmes Press, Bristol-Sterling 2000, vol. 1, pp.375-376.

[3] Id., Letters of Chauncey Wright (1878), ibid., vol. 2, p. 132. Per un approfondimento mi si permetta di rimandare a A. Parravicini, Il pensiero in evoluzione, Chauncey Wright tra darwinismo e pragmatismo, ETS, Pisa 2012.

[4] C.S. Peirce, Il fissarsi della credenza (1877), in Scritti scelti, tr. it. UTET, Torino 2005, p. 199.

[5] Id., Alcune conseguenze di quattro incapacità (1868), ibid., p. 140.

[6] J.B. Lamarck, Filosofia zoologica. Prima parte (1809), tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1976, p. 45.

[7] S.J. Gould, La vita meravigliosa. I fossili di Burgess e la natura della storia (1989), tr. it. Feltrinelli, Milano 1990.

[8] E. Mayr, Storia del pensiero biologico. Diversità, evoluzione, eredità (1982), Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 783.

[9] Cfr. E. Mayr, Un lungo ragionamento. Genesi e sviluppo del pensiero darwiniano, Bollati Boringhieri, Torino 1994; e A. Parravicini, La mente di Darwin. Filosofia ed evoluzione, Negretto Editore, Mantova 2009.

[10] F. Andersen, R.L. Anjum, E. Rocca, Philosophical Bias Is the One Bias that Science Cannot Avoid, in «eLife», 8, 2019: e44929.

[11] Ibid., p. 1.

[12] J. Dewey, The Influence of Darwinism on Philosophy, in The Influence of Darwin on Philosophy and Other Essays in Contemporary Thought, Henry Holt and Company, New York 1910, pp.1-19.

[13] L’espressione è di C. Sini, Le arti dinamiche: filosofia e pedagogia (Figure dell’enciclopedia filosofica, libro sesto), Jaca Book, Milano 2005, pp. 122-134 e pp. 183-190.

[14] J. Monod, Il caso e la necessità (1970), Mondadori, Milano 1974, p. 33.

[15] J. Dewey, op. cit., pp. 3-4.

[16] La metafora della matrioska è presa da T. Pievani, Imperfezione. Una storia naturale, Cortina Editore, Milano 2019, p. 97, ma diventa uno dei fili conduttori del successivo dialogo tra C. Sini e T. Pievani, E avvertirono il cielo. La nascita della cultura, Jaca Book, Milano 2020.

[17] Cfr. M. Pigliucci and G.B. Müller (eds.), Evolution. The Extended Synthesis, MIT Press, Cambridge (MA) 2010; e K. Laland, T. Uller, M.W. Feldman, K. Sterelny, G.B. Müller et al., The Extended Evolutionary Synthesis: Its Structure, Assumptions and Predictions, in «Proc. R. Soc. B», 282, 1813, 2015: 20151019.

[18] N. Eldredge, T. Pievani, E. Serrelli, I. Tëmkin (eds.), Evolutionary Theory: A Hierarchical Perspective, The University of Chicago Press, Chicago and London 2016; T. Pievani, How to Rethink Evolutionary Theory: A Plurality of Evolutionary Patterns, in «Evolutionary Biology», 43, 2015, pp. 446-455.

[19] Cfr. l’aforisma 374 «Il nostro nuovo “infinito”», in F. Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina, tr. it. Adelphi, Milano 19939, pp. 309-310.

[20] Id., La volontà di potenza, a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Bompiani, Milano 20055, p. 561 (pseudoaf. 1067).

[21] Cfr. W. James, Pragmatismo (1907), tr. it. Aragno Editore, Milano 2007, pp. 153-154.

[22] L. Laplane, P. Mantovani, R. Adolphs, H. Chang, A. Mantovani, M. McFall-Ngai, C. Rovelli, E. Sober, and T. Pradeu, Why Science Needs Philosophy, in «Proc. Natl. Acad. Sci. USA», 116, 10, 2019, pp. 3948–3952.

[23] Tr. it. in F. Laudisa, Albert Einstein e l'immagine scientifica del mondo, Carocci, Roma 2015.

[24] Cfr. A. Newen, L. De Bruin, S. Gallagher, The Oxford Handbook of 4E Cognition, OUP, Oxford 2018; F. Caruana e A. Borghi, Il cervello in azione, il Mulino, Bologna 2016; F.Caruana e M.Viola, Come funzionano le emozioni, il Mulino, Bologna 2018. Per una prospettiva storica sul “pragmatic turn” nell’ambito dello studio sulle emozioni cfr. G. Baggio, F. Caruana, A. Parravicini, M. Viola, Emozioni. Da Darwin al pragmatismo, Rosenberg & Sellier, Torino 2020.

[25] Sulle relazioni tra scienza e filosofia in campo evoluzionista rimando all’articolo di A. Meneganzin, Quale rapporto tra scienza e filosofia? Prospettive dalla biologia evoluzionistica, in «In Circolo», 7, 2019, pp. 132-142.

[26] Transdisciplinare è usato qui nel senso proposto dal manifesto programmatico di esordio (“Il punto – 2015-2016”) di Mechrí – Laboratorio di filosofia e cultura (http://www.mechri.it/), secondo cui la parola transdisciplinarità «rinvia non a un’estrinseca interazione fra discipline in sé già costituite (quella che si chiama “interdisciplinarità”), ma al vivente trasformarsi delle discipline medesime, passando l’una attraverso l’altra e spingendosi ciascuna al di là di se stessa». Cfr. F. Cambria, Introduzione a Vita, conoscenza, Jaca Book, Milano 2018.

[27] W. James, op. cit., p. 36.

[28] C. Sini e T. Pievani, op. cit., p. 32.

[29] Ibid., p.69.

[30] C. Sini, I discorsi, in Inizio, Jaca Book, Milano 2016, p. 72.

[31] W. Ford Doolittle, Could This Pandemic Usher in Evolution’s Next Major Transition?, in «Current Biology», 30, 2020: R841–R870.

[32] Come ben diceva anche Dewey, «La filosofia riconquista se stessa quando cessa di essere un mezzo di trattare i problemi dei filosofi e diventa un metodo, coltivato da filosofi, per trattare i problemi degli uomini», J. Dewey, Intelligenza Creativa (1917), tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1957, p. 105.

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