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DELLA CONGENIALITÀ DI SCIENZA E FILOSOFIA

Autore


Nicola Russo

Università degli Studi di Napoli Federico II

insegna Filosofia Teoretica e Teoria e etica dei Big Data all’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Intro
  2. Gli scienziati di Nietzsche
  3. Torri
  4. Dialoghi di professione
  5. Tanto e troppo

 

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S&F_n. 24_2020

Abstract


On Science and Philosophy Connection

Science and philosophy sometimes fail to dialogue. This essay sheds some light on this controversial issue by considering some historical instances of their complicated relationship, since the mid-nineteenth century. We will examine intellectual trends, training processes, and most of all, the increasing knowledge we are nowadays witnessing. As the last years suggest, these difficulties are not insurmountable, if only the connection between science and philosophy is taken into consideration. This connection deals not only with their common origin, but also with the process, they are always implicated in, of continuous reborn and reciprocal regeneration. This perspective suggests us to individuate new professional figures standing on the frontier between science and philosophy. These figures appear to be indispensable to construe a new koiné and thereby preserve a community which is devoted to knowledge and pure science.


Dobbiamo essere dei fisici per poter essere in quel senso dei creatori, mentre fino a oggi tutte le valutazioni e gli ideali sono stati edificati sull’ignoranza della fisica oppure in contraddizione con essa.

E perciò: sia lode alla fisica, e ancor più a quel che ci costringe a essa: la nostra rettitudine.

F. Nietzsche, La gaia scienza, af. 335

 

 

  1. Intro

Nel 1687 Newton non poteva che chiamare la sua fisica philosophia naturalis, che non era peraltro l’unica philosophia di cui si occupasse. E ancora ai primi dell’ottocento Hegel poteva proporsi di integrare all’interno della sua Enciclopedia delle scienze filosofiche e della sua Scienza della logica tutte le branche più significative delle scienze positive a lui coeve. Ma di lì a poco divenne sempre più chiaro che qualcosa non funzionava come prima e che una simile impresa non sarebbe stata più possibile. Il positivismo, è vero, vagheggiava ancora un sistema del sapere scientifico integrato e organico, non più però interno e costitutivo del sapere filosofico: la filosofia come sistema generale delle idee, pensiamo a Comte, è metascientifica nella misura in cui produce la classificazione e l’ordine delle scienze, ma non le contiene già più come sue parti. E col neopositivismo il suo ruolo sarà ancor più delimitato e ridotto a quello di mera sovrintendente della correttezza logica del linguaggio. Su questa direttrice, poi, che pretende da se stessa maggiore scientificità rispetto ad altre forme di filosofia, si sono talora prodotte e si producono ancora epistemologie talmente tecniche e specialistiche, che di propriamente filosofico hanno spesso ben poco e che, solo in apparenza paradossalmente, proprio agli scienziati non interessano granché[1].

L’800, però, non fu solo il secolo dell’idealismo e poi del positivismo e della progressiva deriva, in fondo innescata proprio dal positivismo, della filosofia da “Sistema della Scienza” a scienza delle scienze e infine a mera ancella di servizio delle teorie scientifiche[2]. Intorno al problema dei rapporti tra scienza e filosofia, infatti, lavorarono con alacrità e intelligenza lo storicismo, il neokantismo, fino all’incipiente fenomenologia husserliana, con la sua proposta di una rinnovata scientificità della filosofia. E questo a dimostrazione del fatto che era davvero divenuto un problema.

 

  1. Gli scienziati di Nietzsche

Un momento di snodo, a ridosso dello hegelismo e del positivismo, è nella filosofia di Nietzsche, entro la quale si produce a più riprese e secondo prospettive anche molto diverse una riflessione intorno alla scienza. Non è, infatti, solamente durante la cosiddetta fase “illuministica” del suo pensiero, che Nietzsche si fa alfiere di una nuova filosofia, la «filosofia storica che non è più affatto pensabile separata dalle scienze naturali»[3]. In realtà, al di là della presenza più o meno esplicita di riferimenti testuali, che comunque ritroviamo fin nei suoi ultimi scritti, i frammenti postumi testimoniano le sue incessanti letture di testi di fisica, biologia, fisiologia. Ma che proprio all’indomani della rottura con Wagner Nietzsche pubblichi un testo come Umano troppo umano, destinato a inimicargli molte amicizie proprio per l’esaltazione dello spirito scientifico contro l’idealismo romantico, rimane notevole ed è per certi versi esemplare: è durante la sua crisi più profonda, che è anche il momento in cui riprende possesso di se stesso e imprime al suo pensiero la svolta decisiva, che Nietzsche ha più bisogno della scienza come forza emancipatrice.

Ancora in Al di là del bene e del male, però, e quindi quando Zarathustra ha già parlato, Nietzsche dedica un capitolo agli uomini di scienza, tra i quali per molti versi annovera anche se stesso, come è evidente dal suo titolo: Noi dotti. Ebbene, proprio nel primo aforisma di quel capitolo Nietzsche si fa interprete dell’atmosfera mutata e mette in guardia contro lo

sconveniente e dannoso squilibrio gerarchico, quale è quello che oggi, in maniera del tutto inavvertita e quasi con tranquilla coscienza, minaccia di porsi tra scienza e filosofia[4].

 

Uno squilibrio, aggiunge poco più avanti, dovuto anche al fatto che

di fronte a rappresentanti della filosofia del genere di quelli che oggi, grazie alla moda, sono tanto sulla cresta dell’onda quanto ritenuti men che nulla […], sia lecito a un onest’uomo di scienza sentirsi di migliore lignaggio[5].

 

Asserzione da tenersi presente, poiché ci ricorda che anche una considerazione critica dello spazio pubblico dell’informazione non dovrebbe essere trascurata discorrendo delle relazioni tra scienza e filosofia, se è vero che quel che Nietzsche scriveva allora sulla pochezza dei filosofi alla moda, e che facilmente riconosciamo come tutt’ora valido, può essere oggi tranquillamente esteso alle varie immagini pubblicitarie dello “scienziato” e della “scienza”, che spesso assumono tratti caricaturali e che quasi di regola rispondono a forme di strumentalizzazione, anche di piccolissimo cabotaggio (lo share...). L’epoca della post-verità è innanzitutto questo: l’esito dell’erosione della dignità del sapere, sia esso scientifico o filosofico, dovuta alla sua esposizione indiscriminata sulla pubblica piazza: basta questo perché venga fagocitato dal teatrino delle opinioni, non c’è neanche bisogno che le figure che incedono sulla scena non possano vantare alcuna vera rappresentatività, anche figure degne ne vengono svilite.

È tuttavia nell’aforisma subito successivo che a mio avviso Nietzsche coglie una ragione più cogente e meno esteriore delle difficoltà che rendono complesso il rapporto tra scienza e filosofia. Che non è una ragione intrinseca alla differente ispirazione dell’una e dell’altra o a diversità di ambito, linguaggio, metodo e così via. Tutte queste differenze, infatti, quando pure vi sono, non sono tali da mettere di per sé su fronti così distanti scienza e filosofia, che rimangono comunque essenzialmente accomunate dall’essere imprese della conoscenza. Lo dimostra il fatto che sono nate come un’unica cosa, che hanno continuato frequentemente a esserlo, e che idealmente possono essere ancora considerate per certi versi tali. Le difficoltà ultime, insomma, non sono né di ordine epistemologico, né di ordine ideologico o tematico, difficoltà che certo possono pur darsi in questi termini, ma non necessariamente devono, anche perché né la filosofia né la scienza sono organismi disciplinari unitari e ben definiti, e dunque astorici. Per fare un solo esempio, è ovvio che nel momento in cui Heidegger squalifica la possibilità che la domanda sull’uomo possa essere posta filosoficamente sul terreno dell’antropologia egli sta chiudendo(si dietro) una porta e segnando un confine invalicabile: la filosofia come scienza ontologica è qui tutt’altra cosa dalle scienze positive[6]. Ma Heidegger è stato una possibilità della filosofia, per altri versi altissima, così come lo è pure l’antropologia filosofica, che invece proprio nel confronto sistematico e continuo con le scienze della vita e dell’uomo si è costituita a disciplina vasta e importante. Insomma, io non porrei la questione in una qualche differenza radicale in linea di principio, ma piuttosto in termini storici, come fa appunto Nietzsche, mostrando quella che non è una semplice ragione teorica, ma una necessità concreta a partire dalla quale filosofia e scienza, per quanta buona volontà ne abbiano, non possono più comunicare immediatamente come un tempo.

I pericoli inerenti allo sviluppo del filosofo sono oggi in verità così molteplici che si potrebbe dubitare se in generale questo frutto possa ancora giungere a maturazione. La vastità delle scienze – la torre che la scienza va costruendo – è smisuratamente aumentata, e con ciò anche la probabilità che il filosofo già come discente si stanchi, o si lasci inchiodare in qualche luogo e si abbandoni alla «specializzazione»: sì che non perverrà più alla sua vetta[7].

 

Ed è proprio questo che perlopiù è successo al filosofo e allo stesso scienziato, sempre più schiacciati dal volume di conoscenza che si para loro di fronte, da quella torre che si desidererebbe dominare sinotticamente e che invece si staglia sempre più in alto sopra di noi.

 

  1. Torri

A prima vista una banalità, e in effetti è una constatazione semplice da farsi, oggi molto più semplice dell’altro ieri, giacché quella torre ha continuato vertiginosamente a innalzarsi. Ma porre il volume del sapere come la ragione più concreta della disarticolazione tra scienza e filosofia è meno banale, poiché implica alcune decisioni teoriche o diciamo anche preferenze che non necessariamente sono state o sono condivise.

La prima è il rifiuto di qualsiasi riduzione della natura, del senso e dello scopo della filosofia e della scienza che le ponga così come organismi senz’altro differenti e tendenzialmente in contrasto o in un qualche rapporto gerarchico (banalmente, la filosofia potrà anche esercitarsi come analisi logica del linguaggio, per esempio, ma non è certo solo questo o solo qualcos’altro). Filosofia e scienza sono invece – questa se non altro la mia convinzione – intimamente congeniali, proprio nel senso greco della syggeneia: della parentela come origine comune, come congenerazione. Asserzione che non va intesa affatto solo in senso storico e, diciamo così, filogeneticamente: non è solo all’inizio che le due sono un’unica cosa, ma tornano a esserlo ogni volta che un giovane rivolge verso l’una o l’altra il suo interesse, animato da un impulso che in fondo è lo stesso. E che rimane quel pathos che i greci ponevano come principio della filosofia: to thaumazein, lo stupore, la meraviglia e insieme il fremito di paura, ma anche la curiosità, che divengono tensione alla “verità”. Poi magari si impara che questo pathos della verità ha strani retrofondi, per certi versi forse anche scabrosi[8], il che però non è mai stato un buon motivo per disincantarsene del tutto.

Come che sia, da questo punto di vista lo scienziato anche oggi è in fondo un filosofo che si è divertito a coltivare di più certi indirizzi di ricerca e il filosofo uno scienziato che ne ha scelti invece altri. Poi la diversità delle tradizioni, ma soprattutto i differenti processi di formazione orientano in maniera dissimile quel che all’inizio era qualcosa di molto simile. E che magari sarebbe potuto crescere senza eccessive divaricazioni.

 

  1. Dialoghi di professione

Nel dirlo penso ai primi del ‘900, un momento di straordinario fervore e di grandissime innovazioni teoriche nelle scienze, ma anche di dialogo serratissimo e proficuo tra scienziati e filosofi di professione, come Einstein, Bergson, Cassirer e, per citarne uno che era del tutto entrambe le cose, von Uexküll. Al di là naturalmente delle doti straordinarie dei protagonisti di quell’epoca per certi versi eroica, una ragione non trascurabile della riuscita di quel dialogo è certamente da indicarsi nella formazione che costoro avevano ricevuto. Quei filosofi e scienziati, che cercavano di continuo gli uni gli altri, erano cresciuti in licei dove la formazione classica (filologica, storica, filosofica, artistica...) e quella scientifica erano ancora un’unità e soprattutto erano vera formazione. E avevano poi proseguito entro un mondo universitario che poneva molti meno vincoli ai percorsi di studio, per cui era non solo possibile, ma frequente laurearsi studiando insieme, per dire, zoologia e filosofia, come ha fatto Plessner.

Il risultato di ciò era che il giovane Heisenberg (che aveva studiato fisica con Sommerfeld presso la Facoltà di Filosofia di Monaco!), passeggiando con Niels Bohr, parlava della Critica della ragion pura di Kant quando cercavano di venire a capo delle difficoltà teoriche della nascente meccanica quantistica. E non smise mai di tenere il suo discorso sulla fisica in costante riferimento alla filosofia, da quella degli antichi ai suoi contemporanei. Producendo un doppio movimento esemplare: da un lato leggere e spiegare l’evoluzione della fisica appoggiandosi a strumenti e concetti filosofici; dall’altro ricostruire intere fasi di sviluppo della filosofia a partire dagli impulsi che ella riceve dall’evoluzione delle scienze[9].

E non fu certo l’unico, un po’ tutti si cimentano e niente affatto come occupazione secondaria nella produzione di opere che esulano dall’ambito strettamente scientifico: Einstein, cui a quanto pare era congeniale la filosofia schopenhaueriana, scrive Mein Weltbild, ma non teme neanche l’opera divulgativa, di cui è anzi maestro esemplare[10]; Schröedinger, altro strano schopenhaueriano, scrive La mia visione del mondo, dove in premessa pone l’indispensabilità della metafisica per la ricerca[11]; Pauli arriva fino alla psicanalisi di Jung, insieme al quale pubblica libri[12]; e Konrad Lorenz, solo poco tempo dopo, facendo leva sul criticismo kantiano rende l’etologia anche un vero e proprio metodo filosofico, che peraltro reputo ancora del tutto agibile[13].

E potrei continuare, ma già questo mi basta per poter avanzare la proposta di intendere la domanda verso la quale siamo orientati anche in questo modo: “cosa vuole lo scienziato dal filosofo che egli stesso è (stato) in nuce? E analogamente il filosofo dallo scienziato che poteva divenire?”. Cosa ci manca dell’altro lato di una scelta che si doveva comunque fare? Punto di vista – forse molto autobiografico – a partire dal quale la congenialità si esprime anche in una sorta di nostalgia, il dolore per una distanza che non vorremmo tollerare e che per questo cerchiamo comunque sempre di ridurre.

A ogni modo – si dirà – i primi del ‘900 sono storia passata, dalla metà del secolo in poi la divaricazione è divenuta sempre più netta e si è espressa anche in una divaricazione tutta interna alla filosofia, quella tra analitici e continentali, i primi sempre più propensi a schierarsi dal lato della razionalità scientifica, fino alla perdita di memoria, i secondi – tra i quali non ho comunque la minima remora ad annoverarmi – spesso troppo preoccupati di mantenere intatto un proprium filosofico profondamente radicato in una tradizione ultrabimillenaria. Al culmine, infatti, di queste due separazioni nel 2010 è suonata una campana a morto:

Come possiamo comprendere il mondo in cui ci troviamo? Come si comporta l’universo? Qual è la natura della realtà? Che origine ha tutto ciò? L’universo ha avuto bisogno di un creatore? […] Per secoli questi interrogativi sono stati di pertinenza della filosofia, ma la filosofia è morta, non avendo tenuto il passo degli sviluppi più recenti della scienza, e in particolare della fisica. Così sono stati gli scienziati a raccogliere la fiaccola della nostra ricerca della conoscenza[14].

 

Una citazione molto inflazionata, certo, ma che non si può in effetti evitare di riportare, poiché nel suo aspetto, che è propriamente caricaturale, esprime in forma banale un contenuto di pensiero filosofico, che in genere denominiamo “scientismo”: niente scienza, dunque, solo pessima filosofia[15]. Cosa di cui proprio molti scienziati si sono accorti sin da subito, prendendo nettamente le distanze da una tesi del genere (forse anche un po’ turbati dal vedersi accollare la responsabilità di decidere se l’universo ha bisogno di un creatore...)[16].

La ragione per la quale ci riferiamo all’incipit del libro di Hawking e Mlodinow, insomma, non è per criticarlo – è già stato fatto e meglio di quanto io non saprei rifare qui –, ma perché quel libro, con tutta la risonanza che ha avuto proprio la sua tesi iniziale, è parso segnare un punto di non ritorno: la filosofia è morta, punto!, e chi continua a trafficare intorno al suo cadavere è un perdigiorno. Una boutade, sì, ha ragione Floridi[17], una boutade a dire il vero anche un po’ vitellonesca, che certo non ci fa dimenticare gli esiti peraltro straordinari del lavoro teorico di Hawking, ma che ha avuto il suo destino: divenire immediatamente inattuale, non nel senso filosofico dell’inattualità, bensì nel senso generico di esser stata subito superata dai fatti e rivelarsi per la stupidaggine che era.

Nel giro di soli dieci anni, infatti, il clima pare del tutto mutato, gli scienziati non hanno affatto smesso di cercare i filosofi e viceversa, e ovunque compaiono pubblicazioni, saggi, articoli e interviste che mettono in luce, dai più vari punti di vista, la fecondità e la necessità dei rapporti tra scienza e filosofia[18].

Il caso forse più eclatante, ma non certo l’unico, è quello di Carlo Rovelli, che nel suo libro dedicato a chiarire “che cos’è la scienza” parla con competenza quasi solo di filosofia e in realtà a partire dalla primissima filosofia greca[19]. E devo confessare che trovo la cosa molto confortante e che capisco anche perfettamente il perché dello stupendo tributo che Rovelli dedica proprio a Heisenberg nel suo ultimo libro, Helgoland. Confortante anche perché mi sentirei un po’ turbato se “lo scienziato”, in generale, non si ponesse affatto più domande “filosofiche”... Non mi sembrerebbe, a dire il vero, neppure più uno scienziato.

Tuttavia, riconoscere nel complesso del pensiero antico un evento scientifico-filosofico di portata unica e rivoluzionaria, decisivo per tutta la storia dell’occidente[20], così come anche tornare poi al più filosofo dei fisici della meccanica quantistica, di per sé non sarebbe sufficiente ad aggirare la sentenza di morte di Hawking – siamo nel 2020, basta nostalgia! Ma Rovelli non si limita a questo e insiste nel dire che non si tratta solo di un rimando alle origini, oramai passate, ma anche della riproposizione di alcuni problemi che «posti allora sono tuttora centrali per la comprensione del mondo»[21]. Il che in fondo non vuol dire solo aprire alla filosofia, ma riconoscere la natura propriamente filosofica di domande scientifiche cruciali. E insieme la natura storica del binomio scienza e filosofia e di ciò che lo sostanzia, il pensiero:

La scienza non è un progetto con una metodologia scritta nella pietra, obiettivi ben circoscritti o una struttura concettuale fissa. È il nostro sforzo in continua evoluzione per comprendere meglio il mondo. Nel corso del suo sviluppo, ha ripetutamente violato le proprie regole e le proprie ipotesi metodologiche dichiarate […]. Il problema di questo quadro è che anche le strutture concettuali si evolvono. La scienza non è semplicemente un crescente corpus di informazioni empiriche che abbiamo sul mondo e una sequenza di teorie che cambiano. È anche l’evoluzione della nostra struttura concettuale. È la continua ricerca della migliore struttura concettuale per cogliere il mondo, a un dato livello di conoscenza. E la modifica della struttura concettuale deve essere ottenuta dall’interno del nostro pensiero […]. Questo intreccio di apprendimento e cambiamento concettuale, questa flessibilità e questa evoluzione della metodologia e degli obiettivi, si sono sviluppati storicamente in un dialogo costante tra scienza pratica e riflessione filosofica. Questo è un ulteriore motivo per cui così tanta scienza è stata profondamente influenzata dalla riflessione filosofica. Le opinioni degli scienziati, che piaccia o no, sono impregnate di filosofia[22].

 

Questo elemento storico è molto importante metterlo in luce, sia in termini del tutto generali, sia anche per affrontare il tema più specifico dei rapporti tra scienza e filosofia. Quel che infatti ho voluto mettere in scena sin qui, raccontando alcune cose rispetto a pochi momenti della storia del pensiero, è che in realtà filosofia e scienza sono a volte un po’ come quelle coppie che litigano di continuo, ma non riescono mai a separarsi. E che nei momenti di crisi si cementano e sostengono reciprocamente. Momenti di crisi che sono anche quelli in cui qualcosa di nuovo sta per avvenire, in cui si preannuncia una crescita, come avvenne a suo tempo per il giovane Nietzsche: finché una teoria si presenta nella raggiunta forma di “teoria standard”, sia essa scientifica o filosofica, si sente sufficientemente sicura e salda da poter fare da sola. Ma quando l’egemonia comincia a incrinarsi, gli stimoli a una svolta richiedono un dialogo rinnovato. Filosofia e scienza, insomma, non sono congeneri solo nel senso di avere un’unica nascita, ma essenzialmente perché sanno fecondarsi reciprocamente e congenerare, insieme rigenerandosi entrambe.

 

  1. Tanto e troppo

Ma con tutto ciò non ho ancora risposto veramente alla domanda: cosa chiede uno scienziato a un filosofo e cosa un filosofo a uno scienziato? Quel che chiede uno scienziato lo sa certo lui meglio di me, per cui mi limito a rispondere alla domanda rivolta al filosofo, augurandomi che la mia risposta non sia troppo deludente. Essa suona innanzitutto così: “tanto e troppo!”.

Mi pare infatti evidente, ma naturalmente parlo in prima persona e so che questo atteggiamento non esaurisce le possibilità di esercitare proficuamente la filosofia, che gran parte delle domande filosofiche tradizionali, quelle che interessano un filosofo “teoretico” come me, chiamano in causa i saperi delle scienze e possono trarne moltissime e insostituibili indicazioni. Se mi interrogo sul linguaggio ho bisogno della semantica, della linguistica e della neurologia. Se sull’uomo, devo partire dalla paleontologia (se non da biologia e zoologia) e studiare poi tante di quelle cose che non provo neanche a elencarle. Il tempo e lo spazio chiamano ovviamente in causa la fisica. “Che cos’è la memoria?” me lo chiedo ponendomi su una via aperta sì da Platone e Aristotele e sempre percorsa fino a Bergson e Derrida, ma non posso affatto ignorare quanto al riguardo mi dicono la psicologia e di nuovo la neurologia (tutti termini che pure andrebbero pensati al plurale, visti i tanti diversi indirizzi anche contrastanti che hanno al loro interno). E così via...

Considerazioni molto banali, mi sia concessa venia per questo, che però faccio allo scopo di indicare un certo dislivello o asimmetria che si produce nel rapporto tra il filosofo e lo scienziato. In linea di principio, infatti, poiché qui si tratta delle domande più antiche ed elementari della sua disciplina, il filosofo è posto di fronte a tutte le scienze – quella torre incombente di cui parlava Nietzsche, che oggi vuol dire di fronte a un sapere così vasto, variegato ed esteso, che neppure un prodigio come Cassirer potrebbe ancora approcciare decentemente. E che infatti non viene sostenuto da lungo tempo neppure più dallo scienziato, il cui processo di specializzazione è cominciato forse anche prima e si è realizzato molto più radicalmente: oggi neppure un fisico si intende della fisica nel suo complesso, su certe branche deve necessariamente dare fiducia ai suoi colleghi esperti, o meglio alla loro comunità.

Considerazione che mi induce a ritenere che un’altra delle varie ragioni per le quali si è per certi versi consumata la separazione tra scienza e filosofia è che la conoscenza filosofica, nonostante si sia differenziata anch’essa in branche, è rimasta tuttavia e per sua natura più sintetica e universale. E quindi sempre più costitutivamente in difetto rispetto al compito di integrazione del sapere, che pure le è appartenuto e in qualche modo continua ad appartenerle.

A partire da ciò è chiaro il motivo per il quale la tentazione di rifugiarsi nella storia della filosofia sia così forte: si tratta di un campo anch’esso vastissimo, ma tutto sommato più gestibile e, in un certo senso, “privato”. Se non si vuole, però, diventare solo storici – mestiere degnissimo ed essenziale –, ma rimanere filosofi, le cose come si mettono? Ovviamente non si può più scrivere l’Enciclopedia delle scienze filosofiche, oggi neppure uno Hegel redivivo potrebbe proporselo: non abbiamo vite sufficienti e inoltre il filosofo non è avvezzo a pensare al proprio lavoro nei termini di un’impresa collettiva (è un bene? Un male? qualcosa a cui si può almeno in parte ovviare?). Un limite va dunque posto e con esso la rinuncia alla completezza, ma come sa chi si dedica a queste cose il limite si sgretola continuamente da sé: non c’è nulla da fare, dobbiamo continuare incessantemente a studiare, cercando di condensare di tanto in tanto proposte teoriche ben articolate e informate intorno a oggetti più o meno vasti.

Già solo a questo scopo, tuttavia, una richiesta specifica il filosofo può e deve porla allo scienziato: di affiancare al suo lavoro di ricerca specialistico momenti di sintesi e di alta divulgazione. Che è un po’ come dire che deve ritornare di tanto in tanto a essere il filosofo, che comunque per certi versi sempre è.

Parrebbe qualcosa di marginale, mentre mi pare che sia essenziale e tutt’altro che il luogo di un mero interesse dilettantistico, bensì un momento di mediazione sempre più necessario affinché possa darsi dialogo e integrazione, perché ogni scienza tratta il suo oggetto in un linguaggio matematico, simbolico e formalizzato, che spesso è talmente complesso da richiedere un lungo processo di formazione solo per accedervi, e di tali linguaggi ve ne sono un gran numero. E il compito di ritradurre dal linguaggio formalizzato a un discorso razionale “naturale” è talora così difficile e anche intrinsecamente problematico, che alcuni lo ritengono semplicemente impossibile. E tuttavia è qualcosa cui non solo il filosofo, ma a ben vedere neppure lo scienziato può rinunciare, se non rinunciando insieme ad avere una comprensione più piena e ricca del suo lavoro e dei suoi risultati[23].

Dicevo: si tratta di un lavoro essenzialmente filosofico, che però solo uno scienziato può compiere davvero adeguatamente. E così, come il filosofo è chiamato a imparare dalle scienze, allo stesso modo lo scienziato che senta la necessità e abbia la capacità di proporre il suo sapere a un livello più sintetico e universale non può fare a meno della filosofia e ovviamente neanche della storia della filosofia[24].

Lo mostrano tanti esempi: la baldanza con la quale a volte si incede nel campo della divulgazione ostentando il proprio disprezzo per la filosofia – che per lo più, come avviene anche all’inverso, vela l’ignoranza e l’incomprensione – produce opere spesso dogmatiche e inconsapevolmente metafisiche (e che di regola dividono innanzitutto la comunità scientifica stessa, invece di proporsene come rappresentative), in alcuni casi troppo ermetiche, ma per lo più invece banali (si ignora la storia di un problema e delle soluzioni anche molto raffinate che ha già ricevuto in ambito filosofico e si finisce per spacciare concezioni elementari e che magari hanno già fatto da molto il loro tempo come scoperte straordinarie dell’ultima ora). Opere destinate – è chiaro – solo a nutrire i fenomeni di polarizzazione tipici della post-verità.

Se il filosofo, dunque, non chiede allo scienziato solo e fondamentalmente di svolgere il suo lavoro, che rimane una fonte primaria e insostituibile, ma anche di comunicarlo nella maniera quanto più rigorosa possibile senza divenire ermetico, vale a dire se gli chiede di continuare a essere su entrambi questi versanti pur sempre un filosofo, è perché da un lato ne ha un bisogno vitale e dall’altro perché percepisce come rischio mortale una lotta senza quartiere che spingerebbe sempre più lo scienziato a svolgere egli stesso un lavoro ancillare per il mercato e la tecnica, e condannerebbe il filosofo alla frivolezza, al misticismo o all’ideologia.


[1] Oltre al noto giudizio di Richard Feynman («la filosofia della scienza è utile allo scienziato tanto quanto l’ornitologia agli uccelli»), vedi l’intervista di Ross Andersen a Lawrence Krauss, Has Physics Made Philosophy and Religion Obsolete?, in: https://www.theatlantic.com/technology/archive/2012/04/has-physics-made-philosophy-and-religion-obsolete/256203/

[2] Su questa via l’aderenza della filosofia alla scienza è divenuta il suo discioglimento nella scienza, come preconizzato da Schlick: «Il destino di tutti “i problemi filosofici” è perciò il seguente: alcuni di essi scompariranno, rivelando di essere errori o errate interpretazioni del nostro linguaggio, e gli altri dimostreranno di essere semplici interrogativi scientifici camuffati. Queste osservazioni, penso, determinano il futuro della filosofia», M. Schlick, Il futuro della filosofia (1932), tr. it. La Scala, Firenze 1999).

[3] F. Nietzsche, Umano troppo umano I (1878), tr. it. in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, Vol. IV, t. II, Adelphi, Milano 1965, af. 1, p. 5.

[4] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male (1886), tr. it. in Opere..., Vol. VI, t. II, Adelphi, Milano 1986, af. 204, p. 105.

[5] Ivi, pp. 106 s.

[6] Cfr. M. Heidegger, Fenomenologia e teologia (1970), tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1994, p. 9 sgg.

[7] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, op. cit., af. 205, p. 107 (c.vo mio: “gia come discente” vuol dire che il filosofo deve coltivare le scienze come elemento qualificante della sua formazione).

[8] Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere..., Vol. V, t. II, af. 344, p. 240 sgg. In particolare: «Dunque – la fede nella scienza, che oramai incontestabilmente esiste, non può aver avuto la sua origine da un tale calcolo utilitario, ma è sorta piuttosto nonostante il fatto che continuamente si siano dimostrati a essa lo svantaggio e la pericolosità della “volontà di verità”, della “verità a tutti i costi”. “A tutti i costi”: oh, dobbiamo comprendere ciò abbastanza bene, se su questo altare abbiamo prima sacrificato e scannato una fede dopo l’altra! […] Non c’è dubbio, l’uomo verace, in quel temerario e ultimo significato che la fede nella scienza presuppone, afferma con ciò un mondo diverso da quello della vita, della natura e della storia; e in quanto afferma questo “altro mondo”, come?, non deve perciò stesso negare il suo opposto, questo mondo, il nostro mondo?...».

[9] Cfr. W. Heisenberg, Fisica e filosofia (1958), tr. it. Il Saggiatore, Milano 1994, p. 75 sgg., p. 211 e passim.

[10] Cfr. A. Einstein, Relatività: esposizione divulgativa (1916), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2004.

[11] Cfr. E. Schröedinger, La mia visione del mondo (1985), tr. it. Garzanti, Milano 1987, p. 19 e passim. Il terzo capitolo è dedicato allo stupore filosofico...

[12] Cfr. W. Pauli, Der Einfluss archetypischer Vorstellungen auf die Bildung naturwissenschaftlichen Theorien bei Kepler, tr. it. in Psiche e Natura, Adelphi, Milano 2006.

[13] Cfr. K. Lorenz, L’altra faccia dello specchio. Per una storia naturale della conoscenza (1973), tr. it. Adelphi, Milano 1991.

[14] S.W. Hawking, L. Mlodinow, Il grande disegno (2010), tr. it. Mondadori, Milano 2011, p. 1.

[15] L’argomento che riconosce nel rifiuto della filosofia l’espressione ancora di una filosofia risale al Protreptico di Aristotele ed è fatto suo da C. Rovelli, Physics Needs Philosophy. Philosophy Needs Physics, in «Foundations of Physics», 48, 5, 2018, pp. 481-491.

[16] Per il dibattito scatenato dal libro di Hawking e Mlodinow, cfr. C. Norris, Hawking contra philosophy, in «Philosophy Now», 82, 2011, pp. 21-24.

[17] L. Floridi, Pensare l’infosfera (2019), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2020, p. 56.

[18] Solo come un esempio tra i moltissimi, si vedano gli atti dell’Accademia nazionale delle Scienze degli Stati Uniti, https://www.pnas.org/content/116/10/3948.

[19] C. Rovelli, Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro, Mondadori, Milano 2014.

[20] Id., La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Raffaello Cortina, Milano 2014, p. 20: «non è esagerato affermare che l’intera tradizione scientifica e filosofica mediterranea, occidentale e poi moderna, ha una radice cruciale nella speculazione dei pensatori di Mileto del VI secolo».

[21] Ibid., p. 15.

[22] C. Rovelli, Physics Needs Philosophy. Philosophy Needs Physics, cit., p. 486.

[23] Il tema del rapporto tra linguaggio matematico e linguaggio naturale è del tutto centrale nella riflessione di W. Heisenberg, che vede in esso una questione epistemica e filosofica decisiva, ritenendo peraltro che «anche per il fisico la descrizione nel linguaggio comune servirà come criterio per avere una chiara nozione di ciò che si è raggiunto», W. Heisenberg, Fisica e filosofia, cit., p. 197)

[24] Cfr. A. Einstein, Letter to Robert A. Thornton, 7 December 1944, in The Collected Papers of Albert Einstein. Princeton University Press, Princeton, NJ 1986: «A knowledge of the historic and philosophical background gives that kind of independence from prejudices of his generation from which most scientists are suffering. This independence created by philosophical insight is – in my opinion – the mark of distinction between a mere artisan or specialist and a real seeker after truth».

 

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