Autore
Gaetano Iaia
Università degli Studi di Napoli Federico II
Dottore di Ricerca in Forma e Storia dei Saperi Filosofici nell’Europa Moderna e Contemporanea. Direttore della Fondazione “Centro per la Vita” di Pozzuoli (Na), è attualmente docente a contratto di Etica dell’ambiente all’Università degli Studi di Napoli Federico II
Indice
- Intro
2. Il mito, “teologia” per un Dio assente
3. Quale Dio, per quale realtà?
4. Una “svolta teologico/metafisica” nel pensiero di Jonas?
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S&F_n. 24_2020
Abstract
Hans Jonas: Ethics and Theology in the thought “after Auschwitz”
Hans Jonas radically transformed the question of theodicy into the question of the justification of man, rejecting the notion of God's power in history. Starting from a speculative myth, he unfolded a process of theogony and cosmology for which God, in the course of evolution, withdraws completely back into himself, relinquishes his own omnipotence, and makes the world subject to human responsibility alone. However, Jonas does not wants to present an alternative (metaphysical or theological) schema about God, nor attempts to make sense of the events of the Shoah. He just wants to better understand the meaning of a God known as “omnipotent” but who cannot avoid the acid test of ethical demands, which challenges us not to seek comfort in ourselves, but to live in hope (and responsibility) for others.
Quanto durerà questa carenza dell’uomo, morente al centro della creazione perché la creazione l’ha licenziato?
R. Char[1]
- Intro
Gli scritti di Jonas che ruotano attorno al suo scritto Il concetto di Dio dopo Auschwitz[2] costituiscono un importante momento di sviluppo della sua filosofia, ponendosi come lavori complementari alla sua etica della responsabilità. Anche se alcuni elementi di questa parte del lavoro di Jonas, per sua stessa ammissione, si spingono oltre una riflessione filosofica stricto sensu – sebbene, egli specificò[3], la riflessione sul significato del concetto di Dio, e non su Dio stesso, poteva essere filosoficamente promettente – quest’ultima fase del suo pensiero è particolarmente interessante, poiché evidenzia un importante elemento della “teologia post-Auschwitz”[4]: questa riflessione “teologica” infatti inerisce, in primo luogo e anzitutto, alla situazione etica attuale e al suo significato per ogni comprensione dell’esistenza umana.
- Il mito, “teologia” per un Dio assente
Se, a una prima analisi, porre delle opere di “teologia” sotto l’ambito della filosofia pratica potrebbe sembrare quantomeno insolito, è il caso qui di ricordare che gli scritti teologici di Jonas si pongono come riflessione sul significato degli atti commessi nei campi di sterminio nazisti – nella fattispecie, ad Auschwitz –, cosa che certamente li pone sul versante etico[5]. Il testo di Jonas sul Concetto di Dio, che si ispira e ricollega a testi precedentemente pubblicati[6], è un discorso pronunciato nel 1984 come Laudatio in occasione del conferimento del premio Rabbi Leopold Lucas all’Università di Tubinga. Prendendo spunto dal fatto che Lucas era morto a Theresienstadt, ma soprattutto che la moglie di quest’ultimo, così come la madre di Jonas, era stata uccisa ad Auschwitz[7], la riflessione teologica di Jonas sulla teodicea come occasione di pensiero per affermare una responsabilità parte sottolineando la specificità di Auschwitz, in particolare distinguendo questo evento dalle altre persecuzioni inflitte al popolo ebraico e, ancor più precisamente, ricordando la profonda disumanizzazione simboleggiata dal termine “Auschwitz”[8], disumanizzazione senza equivalenti nella storia ebraica perché choc di portata cosmica, messa in discussione della stessa creazione e falsificazione radicale dell’idea di Dio[9].
Perché si pone la questione di Dio dopo Auschwitz, e perché non si pone per dopo Hiroshima? Dopo denomina l’angoscia agghiacciante che afferra tutti noi. Dopo, constata Lévinas pensando al dopo-Auschwitz, a quel dopo al quale la civiltà sembra essere tornata, “niente ha potuto colmare, neppure ricoprire l’abisso spalancato”. Il prima e il dopo sono come arrestati quando si pensa ad Auschwitz, questo buco nero della Storia che inghiotte senza pietà tutte le nostre illusioni[10].
Dinanzi a una tale manifestazione del male, volontariamente inflitto agli esseri umani da altri esseri umani, Jonas si chiede: Quale Dio poteva permetterlo?[11]. Rispetto a un pensatore cristiano, la domanda acquisisce, per ogni pensatore ebreo, un’intensità particolare: mentre il primo, infatti, può sempre dire a se stesso che il mondo è opera del maligno, per il secondo, il mondo, nella sua immanenza – più specificamente nella sua storia – fa sempre diretto riferimento a Dio:
L’ebreo, di fronte a un simile interrogativo, si trova teologicamente in una situazione più difficile del cristiano. Infatti, per il cristiano che attende l’autentica salvezza dall’al-di-là, questo mondo (e in particolare il mondo umano a causa del peccato d’origine) è il mondo di Satana e conseguentemente un mondo non degno di fiducia. Ma per l’ebreo che vede nell’al di qua il luogo della creazione, della giustizia e della salvezza divina, Dio è in modo eminente il signore della storia, e quindi “Auschwitz”, per il credente, rimette in questione il concetto stesso di Dio che la tradizione ha tramandato[12].
Auschwitz aveva reso l’idea di Dio estremamente fragile, sia perché la stessa sua esistenza era stata messa in discussione[13], sia perché il concetto elaborato dalla tradizione sembrava essere ormai dissolto. Su questo, il pensiero jonasiano interseca quello di Adorno, che nella Dialettica negativa aveva affermato:
Non è più possibile affermare che l’immutabile sia verità e il mosso apparenza caduca, l’indifferenza reciproca del temporale e delle idee eterne, neppure con il pretesto hegeliano che l’esistenza temporale serva – grazie all’annientamento implicito nel suo concetto – all’eterno, che si presenta nell’eternità dell’annientamento. Uno degli impulsi mistici, secolarizzato nella dialettica, fu la dottrina della rilevanza dell’intramondano, storico per ciò che la metafisica tradizionale privilegiava come trascendenza, o almeno, detto meno gnosticamente e radicalmente, per la posizione della coscienza rispetto ai problemi che il canone filosofico assegnava alla metafisica. L’impressione che, dopo Auschwitz, si ribella a ogni affermazione di positività dell’esistenza come una consolazione a poco prezzo, ingiustizia nei confronti delle vittime, la resistenza contro la possibilità di spremere dal loro destino un qualche senso per quanto esiguo, ha un suo momento oggettivo dopo eventi che ridicolizzano la costruzione di un senso dell’immanenza, irraggiato dalla trascendenza posta affermativamente[14].
Per quanto entrambi i pensatori fossero evidentemente mossi dalla medesima preoccupazione[15], quella che Auschwitz non si ripetesse, le rispettive riflessioni su quei tragici eventi finirono per condurli su terreni differenti. Mentre infatti la riflessione su quanto avvenuto nei campi di sterminio nazisti spinse Adorno verso una critica delle pretese universali della metafisica[16], la stessa riflessione condusse Jonas proprio alla metafisica e, come nel caso presente, al questionamento teologico.
Che ne è dunque – si chiede Jonas – del Dio che è stato capace di consentire un evento storico senza senso come quello di Auschwitz? La logica della sua smentita potrebbe apparire chiara: se Dio ad Auschwitz ha lasciato fare, se fu assente, allora Dio non è Dio: «Dio non è adeguato (est en inadéquation) al suo concetto. Ora, se questo fosse il caso, Dio non sarebbe. Questa logica … giunge implacabilmente alla negazione di Dio in nome stesso del concetto di Dio»[17]. È su questo livello del problema che si dispiega l’interrogazione condotta ne Il concetto di Dio, per la quale la smentita non è smentita di Dio, ma di un certo concetto che le tradizioni filosofica e teologica avevano forgiato su di Lui. Jonas si propone quindi di riabilitare gli aspetti fragilizzati del concetto di Dio, aspetti «grazie ai quali diventa possibile pensare ad Auschwitz e Dio e non più ad Auschwitz o Dio»[18]. Per rispondere alla domanda, Jonas – che già lo aveva proposto in Zwischen Nichts und Ewigkeit[19] nel 1963, nel quadro di una riflessione sul problema dell’immortalità – riprende un mito cosmogonico, narrandolo come segue:
In principio, per una scelta imperscrutabile, il fondamento divino dell’essere decise di rimettersi al caso, al rischio, e alla molteplicità infinita del divenire. E lo fece in modo totale, senza riserve: abbandonandosi all’avventura dello spazio e del tempo, la divinità non tenne nulla per sé; nessuna sua parte rimase indenne e incontaminata, per poter governare, dirigere e da ultimo garantire dall’al-di-là l’errabonda metamorfosi del suo destino nella creazione[20].
Il ricorso al mito è sintomatico: è indicazione di un cambiamento di registro discorsivo e cognitivo. Il mito, situandosi prima di ogni logos, apre a un pensiero che si spinge oltre il conoscibile[21]. Il mito jonasiano parla sì del cominciamento e del divenire delle cose, ma anche, tout court, del divenire e della stessa storia di Dio. In questo testo, infatti, non viene affermata una immanenza panteistica, bensì una immanenza radicale, simile a quella postulata dalla moderna interpretazione del mondo, secondo la quale il mondo è totalmente abbandonato a se stesso e alle leggi che lo governano. L’Essere divino, nel mito di Jonas, non solo “rinuncia”, auto-limitandosi, a un esercizio ulteriore della sua potenza, facendo sì che il suo primo esercizio sia anche l’ultimo, ma si rimette interamente al “caso” cosmico della sua creazione e al divenire – con tutte le possibilità insite in esso –, in una sorta di kenosi radicale che lo rende totalmente immanente a essa[22].
Affinché il mondo fosse e fosse per se stesso, Dio deve aver rinunciato al proprio essere; deve essersi spogliato della propria divinità per riaverla di nuovo nella odissea del tempo, gravata di quanto ha mietuto e raccolto a caso nell’esperienza non prevedibile del divenire: trasfigurata o, anche, sfigurata. In tale rinuncia alla propria integrità divina a tutto vantaggio di un divenire senza soste può essere ammessa una sola forma di prescienza: quella delle possibilità che un essere cosmico custodisce in sé alle condizioni che gli sono proprie: a queste possibilità Dio si è affidato liberamente quando ha alienato se stesso a vantaggio del mondo[23].
In un certo momento della storia cosmica, la storia della materia, che segue un movimento suo proprio, venne influenzata dall’apparizione, al suo interno, del fenomeno della vita, vale a dire della materia organica. Questo fornisce a Jonas l’opportunità di ricordare le implicazioni – in termini di libertà e nuove necessità – di tale processo. Questa nuova possibilità di essere che è la vita, e la libertà che caratterizza il suo modo di essere metabolizzante, viene infatti a dispiegarsi nel corso dell’evoluzione per mezzo di una sempre maggiore libertà, accompagnata da una necessità sempre più pressante, specialmente nel mondo animale[24].
Fintanto che l’evoluzione seguiva il suo corso naturale, la cosa divina non aveva nulla da perdere. Il senso naturale dell’evoluzione è in qualche modo affetto da un coefficiente di bontà naturale: la creazione è buona in sé. Con l’apparizione di un secondo ordine accanto all’ordine naturale – l’ordine morale, l’ordine del bene e del male – sorge un nuovo problema[25].
Con l’apparizione dell’essere umano – a oggi, “momento ultimo” della dinamica dell’evoluzione – si perse infatti l’innocenza della vita pre-umana (che poteva e doveva semplicemente seguire il proprio corso), grazie all’emergere di un nuovo tipo di libertà, che dischiuse la possibilità di distinguere tra il bene e il male.
Se c’è, ovviamente, già un salto di qualità nell’apparire della vita … nel senso che la vita significa sempre già “interiorità”, l’avvento dell’uomo segna un livello assolutamente nuovo: significa l’avvenire della conoscenza e della libertà, e quindi della visione morale, costituendo il livello più sensibile del processo teogonico. In effetti, se Dio si è dato … in un abbandono di sé, il divenire divino è ormai intimamente collegato alle forme che prende la coscienza morale; è legato alla responsabilità umana[26].
L’avventura nella quale lo stesso Essere Divino si è immerso riposa, quindi, sugli esseri umani. Così, giunto a questo punto della riflessione Jonas, improvvisamente, può affermare: «La Trascendenza diviene consapevole di se stessa con la comparsa dell’uomo e da quel momento ne segue l’agire trattenendo il respiro, sperando e corteggiandolo, con gioia e con tristezza, con soddisfazione e disinganno»[27], sottolineando in questo modo il risultato della scelta dell’Essere divino, abbandonatosi totalmente al futuro del mondo e alle produzioni del movimento a esso proprio, in particolare quello dell’evoluzione della vita. Con l’apparire dell’essere umano, il destino di Dio viene a porsi nelle mani dell’essere umano: il successo o il fallimento della scommessa che Dio ha fatto con la creazione riposa esclusivamente sulle capacità umane.
Dopo aver quindi offerto una spiegazione del mito cosmogonico, per rispondere alla domanda sulla natura di quel Dio che avrebbe potuto permettere Auschwitz, Jonas propone, nelle poche pagine che seguono la sua narrazione, la spiegazione della sua idea.
- Quale Dio, per quale realtà?
Al riguardo, egli identifica tre caratteristiche iniziali del “suo” Dio, essenziali per qualsiasi risposta al problema posto da Auschwitz, caratteristiche che Hans Hermann Henrix, commentando Jonas, così riassume: «il suo mito parla implicitamente di un Dio che soffre, tanto quanto di un Dio in divenire e sotto l’influenza della preoccupazione»[28].
Questo Dio non è il tradizionale Dio assoluto della teodicea, né il deus absconditus del teismo scettico, le cui caratteristiche nascoste non era possibile discernere. Il Dio del mito di Jonas è un dio patico[29], ma non in senso cristiano, perché fin dalla creazione e anche in seguito, il Dio mitico da lui proposto è in una relazione con il mondo tale da rendere il proprio destino dipendente da quello del mondo e dal caso che definisce quest’ultimo, caratteristica che acquisisce una nuova e ulteriore rilevanza con l’apparire dell’essere umano. Da questo consegue anche che questo Dio è diveniente[30], è un Dio la cui stessa natura è, a tutti gli effetti, quella di essere nel tempo e non sulla o oltre la temporalità, cosa che lo oppone alla tradizionale concezione filosofica di Dio, in particolare quella della filosofia antica (Platone e Aristotele). Il Dio diveniente di Jonas non ha un’essenza completamente indipendente dal mondo, ma è al contrario influenzato da ciò che accade nel mondo, e la sua identità è modellata da questi eventi: la storia è storia umana, e niente di più. Contrariamente al mito dell’eterno ritorno di Nietzsche, la proposizione jonasiana suppone quindi che il divenire del mondo, malgrado le sue incessanti ripetizioni, si attualizzi in maniera cumulativa nell’identità del Dio in divenire. Ne risulta una terza caratteristica essenziale di questo Dio, cioè che si tratta di un Dio preoccupato[31]. Non solo infatti questo Dio è “interessato” al destino del mondo – va ricordato che questa idea nel mito jonasiano supporta tutto il destino divino – ma questo Dio, completamente d(on)ato all’esistenza del mondo, per rispondere alla propria preoccupazione deve rimettersi alle “cose del mondo”, rinunciando «a farsi garante del proprio appagamento in virtù del potere che gli è proprio, dopo aver rinunciato con la creazione a essere tutto in tutto»[32]. Per raggiungere una tale soddisfazione, egli si fa dipendente dalla sua creazione, in particolare dalle azioni degli esseri umani, che sono i frutti della creazione[33].
La combinazione di queste tre caratteristiche fa sì, come sottolinea Jean-Luc Solére, che
la rappresentazione proposta dal mito di Jonas è quindi quella di un Dio impotente non originariamente, ma che sceglie l’impotenza rispetto al divenire del mondo che egli ha portato all’esistenza. Egli ha rinunciato all’uso del proprio potere così come ha rinunciato a essere il tutto creando un altro rispetto a sé[34].
Jonas può proporre, così, una doppia critica al concetto di onnipotenza assoluta e illimitata generalmente associato alla divinità. In primo luogo, e utilizzando formalmente gli strumenti della logica, egli afferma che, se il concetto di potenza esige quello di resistenza, allora l’onnipotenza, non tollerando alcuna resistenza, finisce per diventare un concetto vuoto e privo di senso[35]. Spostandosi poi dal versante logico a quello teologico, il suo ragionamento prosegue in questo modo:
La onnipotenza divina può coesistere con la bontà assoluta di Dio solo al prezzo di una totale non-comprensibilità di Dio, cioè dell’accezione di Dio come mistero assoluto. Di fronte all’esistenza nel mondo del male morale o anche solo del male meramente fisico, dovremmo sacrificare la comprensibilità di Dio alla coesistenza in lui degli altri due attributi. Solo di un Dio totalmente incomprensibile si può affermare che è assolutamente buono e co-originariamente assolutamente onnipotente e che, nonostante ciò, sopporta il mondo così com’è. Più in generale, i tre attributi in questione – bontà assoluta, potenza assoluta e comprensibilità – sono fra loro in rapporto tale che ogni relazione tra due di loro esclude il terzo[36].
Se quindi Dio è inteso come infinitamente buono e se, in qualche modo, egli deve essere (almeno in parte) compreso dagli esseri umani, non rimanere cioè completamente imperscrutabile, questo Dio non deve essere onnipotente. Una simile visione del divino permette di dedurre che l’impotenza del Dio di Jonas non può non accentuare l’elemento etico della sua riflessione, giacché, insistendo sulla responsabilità degli esseri umani nel divenire del mondo, Jonas sposta la responsabilità etica su di essi[37], posizione questa che lo riporta alla sua ‘scandalosa’ affermazione iniziale:
Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile … Ma se Dio può essere compreso solo in un certo modo e in un certo grado, allora la sua bontà (cui non possiamo rinunciare) non deve escludere l’esistenza del male; e il male c’è solo in quanto Dio non è onnipotente[38].
Solo un simile Dio avrebbe potuto assistere, impotente, all’orrore di Auschwitz, e solo questo Dio – che ha posto la sorte di tutto nella libertà e nella responsabilità umana –, poteva lasciar che accadesse l’evento-Auschwitz, mostrando così la sua non onnipotenza, derivante, peraltro, dal fatto che, per soddisfare la propria preoccupazione e determinare il proprio destino, egli si era posto in dipendenza dalle “cose del mondo” e in particolare dagli esseri umani. Ma così, l’ammissione di una “volontaria” rinuncia da parte della causa prima alla propria potenza reca con sé, inevitabilmente, due cose: che la responsabilità circa l’esito della vicenda cosmica ricade interamente sugli esseri umani, chiamati a riconoscere il dovere che li vincola nei confronti del bene, e che la gestione dell’incremento esponenziale del potere umano legato alla dimensione della tecnica sia tutta e solamente umana. Spetta quindi, quasi in toto, agli esseri umani agire in modo tale che Dio non possa o debba rimpiangere di aver permesso al mondo di esistere[39]. Jonas riprenderà questa sua idea anche in un testo successivo (già richiamato all’inizio di questo scritto), ovvero Materie, Geist und Schöpfung, nel quale si legge che
il dovere, che esiste da sempre, diviene acuto e concreto con l’incremento del potere umano attraverso la tecnica, la quale si rivela pericolosa per tutto l’abitare della vita qui sulla Terra. Questo fa parte del reperto, di quello più evidente di tutti, dell’ “è” che si può vedere e ascoltare. Esso ci dice che ora dobbiamo difendere da noi stessi la causa divina nel mondo che abbiamo messo in pericolo con il nostro agire. Ci dice che dobbiamo soccorrere contro noi stessi la divinità per se stessa impotente. Tale è il dovere del potere che sa – un dovere cosmico, poiché è un esperimento cosmico che facciamo fallire con noi, che possiamo distruggere in noi[40].
La riflessione teologica di Jonas finisce così per inscriversi nella sua filosofia pratica. Il ricorso al mito gli permette infatti di porre l’accento non solo sulla responsabilità umana intesa in quanto tale, ma anche su questa responsabilità quando esercitata nei confronti del mondo attuale e, ancor più in particolare, nei confronti del mondo della vita, facendo sì che questa responsabilità divenga anche condizione di possibilità per la sussistenza del mondo futuro, garantendo in questo modo la stessa esistenza dell’umanità. La “teologia post-Auschwitz”, illustrando in maniera paradigmatica le esigenze etiche dell’esistenza umana, diventa, per dir così, complementare alla riflessione jonasiana sull’etica della responsabilità, fornendo a tale etica ulteriori strumenti critici per fondare la “responsabilità” dell’umano.
- Una “svolta teologico/metafisica” nel pensiero di Jonas?
Questo ci consente di delineare alcune prospettive finali, per elaborare le quali crediamo sia utile porre a confronto due interpretazioni del pensiero jonasiano, da una parte l’avventura cosmoteandrica di Natalie Frogneux e, dall’altra, l’interpretazione di Vittorio Hösle, secondo il quale il primo fondamento ontologico dell’etica jonasiana – il fenomeno della vita – avrebbe condotto Jonas a cercare una base teologica per questa ontologia, ponendo così in questione la finalità dell’essere in generale[41]. A prima vista, una simile lettura potrebbe sembrare in accordo con quella di Frogneux, per la quale il pensiero di Jonas, nel corso del suo sviluppo, subì uno “spostamento” metafisico:
La figura del Dio debole, sofferente e in divenire ha provocato uno scuotimento nel pensiero teologico mettendo in questione il concetto classico di Dio come onnipotente, immutabile e impassibile … Noi non intendiamo per niente negare la fecondità di questo mito per la filosofia e per la teologia, interpellate nella loro tradizione, né limitare la novità antropologica di un’immortalità collettiva che risulta dalle scelte morali e la posta in gioco etica di questo mito … Noi vogliamo mostrare solamente che la cosmologia jonasiana si affiderà a questo mito accentuando la sua vena emanazionista, per tradursi alla fine in termini puramente metafisici. Questo slittamento appare quando ci si concentra sulla versione del mito del 1984 e sui testi contemporanei della sua biologia filosofica e, in particolare, quelli delle Philosophische Untersuchungen[42]
mentre Hösle sostiene che non deve apparirci sorprendente se Jonas, cercando di conferire un fondamento ontologico alla propria etica, si volse in ultima istanza verso Dio, ritenendolo fondamento ultimo – metafisico quindi e proprio in virtù, anche, del suo essere termine teologico – e punto-chiave dell’ontologia necessaria alla sua etica della responsabilità, cosa che lo portò, secondo Hösle, ad affermare che l’apparizione della vita nel mondo prende parte all’avventura cosmica di un dio impotente perché completamente impegnato nell’avventura del mondo.
Domandiamoci, però: tutto questo comporta davvero, come afferma Frogneux, che la posizione di Jonas, proceda realmente in direzione di uno spostamento del suo pensiero verso una metafisica, a spese dei suoi lavori sulla fenomenologia della vita? Non lo credo, e la distinzione introdotta da Hösle tra fondazione ontologica dell’etica e fondazione teologica dell’ontologia in Jonas può essere utile a giustificare questa posizione. Difatti, a fondamento ontologico dell’etica vi è e rimane, lungo tutto il lavoro riflessivo di Jonas, il fenomeno della vita. Ciò che le opere e le speculazioni sulla finalità dell’essere in generale – e quindi anche riguardo alla fondazione teologica dell’ontologia – aggiungono, è che l’apparire di quella modalità particolare dell’essere che è la materia organica metabolizzante sarebbe nient’altro che l’attualizzazione di un primo principio, vale a dire l’impotente Dio jonasiano.
In questa argomentazione occorre quindi distinguere due momenti. In primis, l’interpretazione jonasiana del fenomeno della vita serve infatti come fondamento ontologico alla sua etica della responsabilità. L’esistenza del vivente, la presenza del fenomeno della vita nel mondo è un fatto indubitabile, che conferma il fondamento ontologico jonasiano dell’etica. Ora, però, quando si tratta di conoscere quale sia – o quale possa essere – il fondamento di questo fenomeno della vita stessa, questionamento che ha senza dubbio alcuno una importanza filosofica e teologica di prim’ordine, la proposta di Jonas sembra restare confinata nel novero delle speculazioni (metafisiche), poggiandosi in ultima analisi solo su considerazioni di tipo intuitivo. Ciò nonostante, se anche è possibile porre in discussione alcuni aspetti della “teologia post-Auschwitz” di Jonas, e quindi, ad esempio, supporre che il fenomeno della vita sia solo un puro accadimento incidentale nella storia della materia cosmica, senza che in questo processo sia intervenuta o vi sia una qualche teleologia, resta il fatto che questo fenomeno della vita e la teleologia che esso presuppone, una volta comparsi nel mondo costituiscono una base ontologica per l’etica, secondo le modalità affermate da Jonas nel Principio responsabilità. È questa la tesi sostenuta da un importante commentatore, allorquando afferma che, dalla prospettiva etica jonasiana,
Sebbene la natura possa essere la creazione di Dio, non vi è alcun bisogno di fondare l’ontologia nella teologia, poiché la natura è orientata a dei fini (is purposive) anche se non vi è alcun “pianificatore” (purposer). La bontà della vita deve parlare da sé[43].
Detto altrimenti, lasciando aperte le questioni metafisiche trattate da Jonas circa la teleologia cosmica che ha presieduto all’apparizione della vita e dell’essere umano nel mondo, e quindi scegliendo di non impegnarsi in speculazioni metafisiche volte a considerare la storia del mondo prima dell’apparizione della vita al suo interno, il brutum factum che nel mondo esiste la vita, che vi è della materia organica che si mantiene esistente grazie a una incessante attività metabolica – costante sostituzione della materia che la compone, processo indispensabile per mantenersi nell’essere – è il fatto che questo fenomeno della vita, fondamento ontologico primo dell’obbligo e della responsabilità umana e quindi della filosofia etica che si occupa di definire tale obbligo, resta invariato. E tuttavia, la questione se in Jonas questa fondazione ontologica dell’etica, vale a dire il fenomeno della vita, sia sufficiente, non viene risolta con la posizione appena riassunta[44].
È questo il motivo per cui non ritengo vi sia mai stato, nel pensiero di Jonas, alcuno “scivolamento” verso la metafisica come quello ipotizzato da Frogneux; ritengo invece che Jonas abbia compiuto un’elaborazione etica forte, basata sulla sua fenomenologia della vita, e abbia poi integrato e portato a completamento questo suo lavoro, con il concorso di una proposizione teologica, o metafisica, la sua posizione filosofica-chiave: l’etica della responsabilità[45].
In questo modo, sono consapevole che il mio approccio si distanzia anche da quello di Pinsart – che, per parte sua, inizia l’analisi dell’opera jonasiana partendo proprio dalla questione della “teologia post-Auschwitz”, rendendola principio interpretativo anche per i testi jonassiani sullo gnosticismo – proprio perché ritengo, a contrario, che quest’ultima fase del pensiero di Jonas costituisca sì la chiave di volta delle sue analisi (principiate con il testo sullo gnosticismo), ma non può essere adeguatamente compresa se non alla luce delle prescrizioni dell’etica della responsabilità.
La cosmogonia insita nella “teologia post-Auschwitz”, in particolare per quel che essa condivide con l’etica della responsabilità, pone infatti l’accento sull’appartenenza essenziale dell’essere umano al mondo e la fondamentale responsabilità che da questa appartenenza deriva. In questo modo, la “teologia post-Auschwitz” diviene complementare alla riflessione etica, ponendo al centro delle proprie preoccupazioni non il concetto del divino bensì la responsabilità umana: la sua concezione del problema del potere lo porta infatti a proporre il dovere morale in quanto istanza chiamata a controbilanciare eventuali eccessi o utilizzi impropri della libertà. Per Jonas, in definitiva, la responsabilità fiorisce come dono di Dio per mezzo della natura, diventando un onere della vita umana che occorre coltivare per il bene del futuro della vita. Conservare il bene intrinseco – evidentemente intuitivo – nella natura contro la minaccia del potere “razionale” umano in un’era tecnologica rende infatti imperativo, per Jonas, che il potere umano sia esercitato in modo responsabile al fine di preservare le condizioni necessarie a un potere futuro di tipo analogamente – e sempre più – responsabile, sì da rendere la conoscenza un ulteriore dovere morale: il potere ambiguo esigerà sempre una moderazione compensativa da parte di un potere responsabile e illuminato.
Jonas, così, dimostra di possedere un acuto senso profetico dello stato della natura e del futuro della vita. Il senso della gravità della nostra situazione ambientale non può che essere affermato e va incoraggiato. Eppure, nella sua proposta sembra esserci una tensione di tipo “politico”, che deve essere sottolineata. Non va infatti dimenticato che Jonas, nel Principio responsabilità, aveva postulato la necessità di una “tirannia ecologica” su scala mondiale, unica capace di scongiurare la minaccia di estinzione della specie umana imponendo i regolamenti impopolari richiesti dall’imperativo della responsabilità. Così, in maniera forse paradossale, lo sforzo jonasiano volto ad articolare un’etica filosofica perseguibile da chiunque – e quindi “democratica” in quanto adeguata alle capacità dell’azione umana – si presta a una critica inerente il “potere” (coercitivo) necessario per renderla effettivamente perseguibile.
È infatti difficile non essere d’accordo sul fatto che le esigenze della responsabilità nei confronti del futuro, per il bene del futuro dell’umanità e del mondo naturale, potrebbero essere impopolari, elemento questo sotteso anche alla riflessione “teologica” operata ne Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Sacrificare gli interessi immediati per il futuro bene comune è e sarà sempre difficile, lo è stato per Dio e lo sarà anche per l’uomo. Ciò nonostante, e anche se il tempo sembra essere sempre più breve, l’appello – scettico e pessimista – di Jonas per la centralizzazione del potere politico all’interno di una élite, per quanto responsabile e illuminata questa possa essere, rischia di impedire la formazione proprio di quella responsabilità dalla quale dipende il bene del futuro. Prima di affidare le sorti dell’umanità a una dittatura, potrebbe forse darsi il caso di tentare altri percorsi, provando ad esempio di fronteggiare la crisi ecologica con tutti gli strumenti – politici e giuridici – già disponibili, sia sul terreno internazionale che all’interno delle singole società “democratiche”.
In ogni caso, il suo tentativo di offrire una giustificazione morale “filosofica” – e non teologica – per l’esistenza umana, elemento cardine della sua etica della responsabilità, resta un vigoroso appello a ripensare radicalmente Dio scaturito da una “notte senza alba”:
Mi sono sforzato di stabilire questo semplice, elementare e oggi così importante impegno su basi filosofiche pure (almeno persuasive, se non convincenti), e non sono affatto sicuro di esserci riuscito. Per il sentimento è forse un assioma (chi non rabbrividirebbe al pensiero dell’umanità che perde il proprio futuro), ma a ragionarci è una proposta difficile da convalidare, forse del tutto al di là del suo scopo. In generale, l’etica ha qualcosa da dire solo su come gli uomini dovrebbero comportarsi l’un con l’altro, ma non che in primo luogo dovrebbero esserci uomini. La metafisica deve essere considerata, nella migliore delle ipotesi, filosoficamente precaria e sempre dubbia nelle sue presunte scoperte. La religione, al contrario, non lascia dubbi. Ciò che all’istinto e all’emozione è semplicemente repellente – la scomparsa dell’uomo per colpa nostra – diventa un sacrilegio nella visione teologica[46].
Solo quando l’uomo, anche quello “laico” e secolare, farà di se stesso immagine somigliantissima del Dio creatore, “buono” ma non “onnipotente”, solo allora – come bene sottolinea Carlo Angelino nella Introduzione a Il concetto di Dio dopo Auschwitz, – «l’umanità potrà salvarsi dalla soluzione finale del problema umano»[47].
Così, l’analisi jonasiana giunge a una interessante conclusione: il fenomeno della vita stabilisce dei fini nell’essere che non dipendono né dall’essere umano né dalla presenza di una qualsivoglia forma di coscienza. La necessità di un’etica che assuma, come suo concetto centrale, quello della responsabilità, una necessità che caratterizza la situazione in cui la nostra era si trova precipitata a causa della trasformazione dell’essenza dell’azione umana da parte della tecnologia moderna, così come rivelato dalla vulnerabilità della natura, dalla tecnologia assurta a “vocazione” per l’umanità e dall’uomo come oggetto di tecnologia, trova – insieme ai nuovi imperativi coinvolti in questa situazione – il suo punto culminante nella riflessione sulla finalità: la “rinuncia” di Dio «avvenne infatti acciocché noi potessimo essere»[48].
La figura del Dio indifeso e impotente affermata da Jonas esorta a comprendere il carattere e l’emergere della responsabilità morale come fenomeno manifestamente umano, lasciando nelle mani dell’uomo i compiti peculiari della responsabilità morale e dell’immaginazione morale in un momento di crisi, il come questi debba esercitare questa responsabilità, la decisione sulle sfere della vita all’interno delle quali questa deve essere esercitata. Il problema della responsabilità, del quale Jonas si preoccupa (e di cui tutti dovrebbero preoccuparsi), sta nel fatto che le conseguenze morali dell’agire umano, radicate nelle capacità umane di fabbricazione e utilizzo delle tecnologie, attualmente superano le convenzioni – anche simboliche – dell’immaginazione morale. L’uomo ha prodotto queste condizioni di crisi; ne è moralmente responsabile; esiste in un momento storico che richiede responsabilità, per il presente così come per il futuro; l’imperativo del nostro tempo è immaginare più pienamente il valore della vita umana e più che umana, mettendo in atto – in modo “creativo” – la propria responsabilità morale verso il presente e il futuro della vita. L’appello morale del momento attuale è un appello a ri-creare il mondo, reinventando in maniera fantasiosa gli ordini ecologici e sociali della giustizia e della bellezza:
L’amore per l’ordine del mondo, per la bellezza del mondo è … il complemento dell’amore per il prossimo. Esso procede dalla stessa rinuncia, immagine della rinuncia creatrice di Dio. Dio fa esistere questo universo acconsentendo a non dominarvi, benché ne abbia il potere, e permettendo che in vece sua regni da una parte la necessità meccanica connessa alla materia, inclusa la materia psichica dell’anima, dall’altra l’autonomia essenziale alle persone pensanti … Rinunciare alla nostra immaginaria collocazione al centro, rinunciarvi non solo con l’intelligenza ma anche nella parte immaginativa dell’anima, significa destarsi al reale, all’eterno, vedere la vera luce, udire il vero silenzio[49].
[1] R. Char, Poesie, tradotte da Giorgio Caproni, a cura di Elisa Donzelli, Einaudi, Torino 2018, p. 67.
[2] Cfr. H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica (1987), tr. it. Il Melangolo, Genova 2004.
[3] Ibid., pp. 19 sgg.
[4] È possibile ritrovare un esempio ben più articolato del pensiero “teologico” di Jonas nel testo Materie, Geist und Schöpfung (materia, spirito e creazione), pubblicato per la prima volta in maniera indipendente nel 1988 dall’Editore Suhrkamp e poi ripubblicato nelle Philosophische Untersuchungen. Degna di menzione, in questo testo, è la lettura jonasiana dei limiti dell’interpretazione moderna di tali questioni e lo sviluppo di una posizione teologica alternativa fondata su una rigorosa speculazione metafisica Cfr. H. Jonas, Materia, spirito e creazione. Reperto cosmologico e supposizione cosmogonica (1988), tr. it. Morcelliana, Brescia 2012.
[5] Sugli aspetti più propriamente etici della “teologia dopo Auschwitz” di Jonas, importante è lo studio di C. Rea, Retrait de Dieu et question du mal. Une lecture éthique du mythe de Hans Jonas, in «Revue Philosophique de Louvain», 100, 3, 2002, pp. 527-548.
[6] Esiste infatti una prima versione inglese originale di questo testo intitolata The Concept of God after Auschwitz e pubblicata, alla fine degli anni ‘60 del XX secolo, in A.H. Friedlander (ed.), Out of the Whirlwind. A Reader of Holocaust Literature, Union of American Hebrew Congregations, New York 1968, pp. 465-476, e riedito dallo stesso Jonas nella collezione On Faith, Reason e Responsibility. La versione utilizzata per il testo italiano è comunque una versione tedesca riveduta; se quindi i primi scritti di Jonas sulla “teologia post-Auschwitz” furono cronologicamente pubblicati in maniera contemporanea rispetto a quelli sulla filosofia etica, ossia alla fine degli anni ‘60, la scelta di considerare l’ultima versione di questo testo si fonda sul fatto che essa rappresenta a nostro avviso la forma più completa della riflessione jonasiana su questo argomento.
[7] H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, cit., p. 19. Al suo ritorno in Germania, una volta terminato il conflitto bellico, Jonas venne a conoscenza del fatto che la madre era stata prima deportata ad Auschwitz e poi assassinata nelle camere a gas di quel campo di sterminio. Questo lo portò alla decisione di non vivere mai più in terra tedesca.
[8] Per una dettagliata analisi del significato di Auschwitz nella prospettiva jonasiana, cfr. R. Redeker, Dieu après Auschwitz. La théodicée faible de Hans Jonas, in «Les temps modernes», 50, 582, 1995, pp. 134-150. Le testimonianze e le analisi di questo processo di disumanizzazione e depersonalizzazione sono numerose; si veda, ad esempio, G. Anders, Nach “Holocaust” 1979, in Besuch im Hades, C.H. Beck, München 1979, pp. 179-216. (Con riferimento a questo volume si rimanda anche all’edizione italiana Dopo Holocaust 1979 (1979), Bollati Boringhieri, Torino 2014).
[9] Cfr. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, cit., pp. 20-23.
[10] R. Redeker, Dieu après Auschwitz, cit., p. 135, in cui viene richiamato E. Lévinas, Noms propres, Fata Morgana, Paris 1976, p. 142.
[11] Ibid., p. 22.
[12] Ibid.
[13] Ricordo le intense pagine ne La notte di Elie Wiesel, in cui l’interrogativo diviene invocazione e urlo muto dinanzi alla inumana violenza perpetrata nei campi di sterminio: E. Wiesel, La notte (1958), Giuntina, Firenze 1980, pp. 66-67.
[14] T. Adorno, Dialettica negativa (1966) tr. it. Einaudi, Torino 1970, p. 326.
[15] Id., Educazione dopo Auschwitz, in Parole chiave. Modelli critici (1966), tr. it., SugarCo Edizioni, Milano 1974, pp. 119-143.
[16] Cfr. T. Adorno, Dialettica Negativa, cit., pp. 330-332.
[17] R. Theis, Dieu éclaté. Hans Jonas et les dimensions d’une théologie philosophique après Auschwitz, in «Revue Philosophique de Louvain», 98, 2, 2000, 341-357, qui p. 343 (la traduzione di questo testo è sempre mia).
[18] Ibid., p. 344.
[19] H. Jonas, Zwischen Nichts und Ewigkeit, Vandehoeck & Ruprecht, Göttingen 1963.
[20] H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, cit., p. 23.
[21] Id., Unsterblichkeit und heutige Existenz, in Zwischen Nichts und Ewigkeit, p. 55 sgg.
[22] È quella che Nathalie Frogneux chiama la “avventura cosmoteandrica”. In effetti, Jonas riprese un’idea espressa nella Kabbalah di Isaac Luria, chiamata tzimtzoum, volta a esprimere l’idea di una “autolimitazione” di un Dio che si “ritrae” nell’atto della creazione del mondo. Cfr. N. Frogneux, Hans Jonas ou la vie dans le monde, De Boeck Université, Bruxelles 2001.
[23] H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, cit., p. 24.
[24] Ibid., p. 26.
[25] R. Theis, op. cit., p. 348
[26] Ibid., (corsivo di Theis).
[27] H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, cit., p. 27.
[28] H.H. Henrix, Machtentsagung Gottes? Ein Gespräch mit Hans Jonas im Kontext der Theodizeefrage, in J.B. Metz, Landschaft aus Schreien. Zur Dramatik der Theodizeefrage, Matthias-Grünewald-Verlag, Mainz 1995, p. 126 (traduzione mia).
[29] H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, cit., p. 27.
[30] Ibid., p. 29.
[31] Ibid., p. 30.
[32] Ibid., p. 31.
[33] In questo modo, si può pensare che la questione sollevata da Auschwitz, dov’è Dio? si inverta in accusa: Uomo, come hai potuto rendere possibile Auschwitz?, giacché nessun disegno salvifico può giustificare ciò che è accaduto, nessuna sovrastruttura metafisica o tentazione riconciliatoria è più ammessa. Parafrasando Hannah Arendt, Auschwitz diviene, “banalmente”, una accusa contro l’uomo.
[34] J.-L. Solére, Le concept de Dieu avant Hans Jonas: histoire, création et toute-puissance, in «Mélanges de science religieuse», 53, 1, 1996, p. 9 (mia traduzione).
[35] H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, cit., pp. 31-32.
[36] Ibid., p. 33.
[37] Su questo, si veda anche l’interessante studio di O. Depré, De la liberté absolue. A propos de la théorie cartésienne de la création des vérités éternelles, in «Revue Philosophique de Louvain», 94, 2, 1996, pp. 216-242, in part. pp. 240-241.
[38] Ibid., p. 34.
[39] Cfr. Ibid, p. 36.
[40] H. Jonas, Materia, spirito e creazione, cit., p. 90; cfr. anche E. Jóos, Ethik zwischen globaler Verantwortung und spekulativer Weltschematik. Gedanken zum Erscheinen von Hans Jonas’ Materie, Geist und Schöpfung. Kosmologischer Befund und kosmogenische Vermutung, in «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», 38, 1990, pp. 683-690.
[41] Cfr. V. Hösle, Ontologie und Ethik bei Hans Jonas, in D. Böhler (ed.), Ethik für die Zukunft. Im Diskurs mit Hans Jonas, C.H. Beck, München 1994, pp. 105-125.
[42] N. Frogneux, Un’avventura cosmoteandrica: Hans Jonas e Luigi Pareyson, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 96, 2/3, 2004, pp. 505-528, qui p. 507.
[43] L. Vogel, Natural Law Judaism? The Genesis of Bioethics in Hans Jonas, Leo Strauss, and Leon Kass, in «Hastings Center Report», 36, 3, 2006, pp. 32-44, qui p. 35 (traduzione mia).
[44] Hösle, come Karl-Otto Apel da cui trae grande ispirazione, non la ritiene tale, affermando piuttosto che per questa fondazione era necessario un riesame di quello che egli chiama l’idealismo oggettivo, mentre Apel aveva proposto per l’etica del discorso una specifica base pragmatico-trascendentale. Cfr. V. Hösle, Ontologie und Ethik bei Hans Jonas, cit.; K.-O. Apel, The Problem of a Macroethic of Responsibility to the Future in the Crisis of Technological Civilization: An Attempt to Come to Terms with Hans Jonas’s “Principle of Responsibility”, in «Man and World. An International Philosophical Review», 20 (1987), pp. 3-40, in part. pp. 3-20 (per l’interpretazione fatta da Apel del testo jonasiano) e pp. 20-36 (per la proposta di Apel di una fondazione pragmatico-trascendentale dell’etica); K.-O. Apel, The Ecological Crisis as a Problem for Discourse Ethics, in A. Øfsti (ed.), Ecology and Ethics. A Report from Melbu Conference (July 18th-23rd, 1990), Nordland Akademi for Kunst og Vitenskap, Trondheim 1992, pp. 219-257.
[45] Per approfondimenti sulle tesi teologiche di Jonas, si veda R. Theis, Dieu éclaté, cit.; analogamente, ma in lingua tedesca, cfr. H. Kress, Ethik der Werte zwischen Säkularisierung und tradierter Gotteslehre. Impulse und Grenzen der Ethik Hans Jonas’ in protestantischer Sicht e T. Schieder, Hans Jonas’ “Gottesbeweise”, in W.E. Müller (ed.), Hans Jonas - von der Gnosisforschung zur Verantwortungsethik, Kohlhammer, Stuttgart 2003, pp. 135-155 e pp. 157-184.
[46] H. Jonas, Response to James M. Gustafson, in The Roots of Ethics. Science, Religion, and Values, edited by Daniel Callahan and H. Tristram Engelhardt jr., Plenum Press, New York-London 1981, pp. 197-211, qui p. 209 (traduzione mia). A questa affermazione Jonas appone una nota, che per la sua importanza ritengo sia opportuno citare nella sua interezza: «L’etica secolare, a dire il vero, può evitare il problema metafisico (“dovrebbero esserci uomini sulla terra?”), proponendo la più diretta questione morale delle sofferenze e della morte inaspettata di coloro che saranno vivi al momento della scomparsa, lenta o improvvisa che sia, della specie: Il divieto, a qualsiasi generazione, di causare questo alle generazioni future è evidente sul piano etico, e lo è per via delle norme comuni di comportamento umano, che definiscono il “non-nato” come categoria certa di esser nata a tempo debito. Ovviamente, la sola osservanza di questo veto morale di generazione in generazione, in effetti (per pura coincidenza) tiene anche conto anche della questione metafisica, come se a essa si fosse risposto affermativamente senza nemmeno averla sollevata. Ma che la questione stessa, con la sua stessa ingiunzione, non sia tuttavia superflua possiamo notarlo se immaginiamo una unanime decisione di tutti gli umani viventi in un determinato momento di smettere di riprodursi, assicurando questo con una sterilizzazione universale: i mai-nati non sono stati lesi, i viventi non sottoposti a sofferenza; tutto il dolore del vivere e del morire senza figli, da soli e senza posterità della specie è autonomamente scelto in cambio di un qualche guadagno preferito; quest’ultimo libera anche dal senso di colpa [che deriva] dall’applicare la decisione collettiva anche a [coloro che saranno] bambini in quel momento, sebbene non hanno partecipato alla decisione stessa, liberandoli in maniera profilattica dalla maledizione del diritto di riproduzione — nel loro miglior interesse alla luce della stessa decisione. Sembrano quindi soddisfatte le regole etiche formali, il veto non si applica più. Tuttavia, rimane potente la sensazione che tutto questo bilanciarsi ed equilibrarsi di tutte queste felicità ed infelicità temporanee, di tutto questo rispetto e superamento dei diritti, etc., sebbene con una buona tendenza al lato “favorevole” della bilancia, non affronti per nulla la questione del porsi o meno la questione stessa. Quindi, la questione metafisica dell’impegno “eterno” dell'umanità non appare affatto infondata, neanche pragmaticamente. Ad esempio, la risposta affermativa a essa creerebbe un dovere collettivo (la cui misura sarebbe stabilita dalle circostanze, e con tutti i margini di tolleranza possibili per le possibili astensioni individuali normalmente inclusi nel quadro statistico). Che interrogarsi su questo dovere collettivo trascendente sia parte esso stesso della natura umana, e spesso financo in modo eccessivo, non rende comunque la questione di poco conto, giacché l’uomo si distingue dalla natura ed anche con questa più naturale delle funzioni ricade sotto sanzioni “più che naturali”, positive e negative». Ibid., pp. 210-211 (trad. M. Chionetti, che ringrazio).
[47] H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, cit., p. 15.
[48] Ibid., p. 40.
[49] S. Weil, Amore per l’ordine del mondo, in Attesa di Dio (1949), tr. it. Adelphi, Milano 2014 (edizione digitale).