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PASTIGLIE PER IL BENE, PASTIGLIE PER IL MALE. FARMACI, CORPI, DESIDERI

Autore


Bruna Mura

Università degli Studi di Urbino

Dottore di ricerca in Sociologia presso l'Università di Urbino

Indice


  1. Introduzione
  2. L’analisi critica della nascita della scienza medica
  3. Tra medicalizzazione e farmacologizzazione
  4. Integratori per il lavoro femminilizzato
  5. Farmaci contro le crisi
  6. Ormoni sintetici come spazi di autodeterminazione?
  7. Conclusioni

 

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S&F_n. 23_2020

Abstract


Pills for good, pills for bad. Drugs, bodies, desires

This paper focuses on the non-neutrality of Science – Chemistry in particular – starting by the specific standing point: the relationship between (sexuated) bodies and drugs. The feminist analysis on social role of medicine has been deepened since the end of Sixties and has permitted to underlying the strong ambivalence of medical knowledge between self-determination and subjection. Feminism and critical medicine have opened a deconstructive breach in the passive acceptance of the medical science by the identification and the complaint of social origin of a lot of (pathologized) diseases. Today we are facing a paradox: even the international institutions have acknowledged connections between health conditions and social-economic context, but the use of drugs is increasingly widespread and not directly related with pathologies. To unravel these aspects, the research will focus on three kinds of drugs: psychotropic drug, food supplements and synthetic hormones. The contemporary capitalism extracts value from interpersonal, cognitive, emotional performances requiring a perpetual presence – both physical and mental – which finds in the use of food supplements and psychotropic drugs a formidable technical support. This ambivalence implies, on one hand, the use of drugs to support the performance and the self-perception of being efficient and measured up, while on the other hand, it shows the dark side of the self-exploitation. At the same time, the theoretical work of trans-feminist movements on synthetical hormones adds the reflections about the desires to those on needs, filling the picture of the ambivalences related with the use of drugs. To imagine a science and a tech useful to design a healthy society, it is necessary to question how today the use of drugs is not only connected with pathologic conditions, but rather how it has violently crawled into our lives as device of capitalistic subjection of the (sexuated) bodies.

 

 

 

Pastiglie per il bene, pastiglie per il male*. Farmaci, corpi, desideri

*cit. Prozac +, Pastiglie, album Testa plastica, 1996; e Chadia Rodriguez, Sister (Pastiglie), 2018


  1. Introduzione

«Oggi energia e ritmo un po’ giù?», «Per non fermarti, hai bisogno di energia» perché ciò che ti è richiesto sono «Fisico forte, spirito giovane». Questi esempi di slogan che accompagnano le pubblicità televisive di alcuni tra i più noti integratori alimentari venduti in Italia restituiscono uno standard a cui conformarsi, ma soprattutto mostrano i limiti da non superare: il ritmo che non si deve abbassare, non ci si deve fermare, il fisico deve essere forte e, anche quando l’età anagrafica dice altro, lo spirito dev’essere giovane.

Sembra proprio che ogni fase della nostra vita abbia bisogno di cercare in qualche supporto chimico la possibilità di svolgersi appieno, senza “perdere” neppure un attimo assecondando stanchezza o stimoli diversi da quelli su cui dobbiamo concentrarci. Ed è così che si interviene farmacologicamente su bambini distratti, su adulti stressati dal lavoro e dalle altre incombenze (magari di cura), su anziani che devono mantenersi giovanili e attivi. Ma se periodicamente emergono episodi mediatici nazionali o esteri (pensiamo a quanto avviene negli Stati Uniti[1]) che aprono il dibattito sulle implicazioni di questi approcci, più difficile è riuscire a coglierne gli effetti nella quotidianità di ciascuno di noi.

La medicina e il farmaco, suo partner ideale[2], si intrecciano andando oltre gli effetti sociali della diagnosi e della certificazione, per amplificare le prestazioni rifiutando la stanchezza e forzando i limiti del corpo, finanche intervenendo prontamente a medicalizzare e farmacologizzare gli effetti sociali delle crisi economiche. Ma, come si proverà a mostrare, la proliferazione di queste conoscenze chimiche e la progressiva maggior competenza dei – potenziali – pazienti-consumatori permette anche di intravvedere spiragli di autodeterminazione.

 

  1. L’analisi critica della nascita della scienza medica

Nel corso degli anni Settanta, soprattutto da parte marxista[3] (per cui la pratica medica è «scientifica quando e in quanto il potere diventava borghese»[4]) e dentro i movimenti femministi[5] il tema della non neutralità della scienza, in particolare quella medica, e della tecnica a essa connessa, è stato un elemento osservato con cura e posto al centro di processi decostruttivi fino a diventare pietra angolare su cui poggiare sperimentazioni concrete di superamento dei modelli sanitari esistenti nell’ambito della salute mentale, nei primi consultori autogestiti, negli ambulatori sociali[6].

Nel corso degli anni questo sguardo è andato però perdendosi e, come raccontato in un dialogo tra Corbellini e Urso, ancora oggi in Italia «le materie scientifiche e quelle cliniche vengono insegnate in maniera aproblematica e astorica»[7]. Attraverso percorsi di ricerca storico-genealogica è stato mostrato lo stretto legame tra sviluppo del modello di produzione capitalistico, esclusione delle donne – detentrici per secoli di sapere farmacologico non professionalizzato[8] – e nascita della medicina moderna. Nel corso del diciannovesimo secolo hanno cominciato a delinearsi delle enclosures dei saperi sui corpi su cui si è fondata la gerarchizzazione del potere sulla salute: riconoscendo al medico il ruolo di unico detentore di risposte, il paziente stesso opera un meccanismo di delega posizionandosi in un ruolo di subordinazione quando non di autoesclusione dal processo di cura. L’effetto più evidente di questo passaggio è quello di attribuire al medico un ruolo sociale particolare, di arbitro[9] «misura degli eccessi, parametro dell’eleganza fisica, custode disincantato dei vizi accettabili»[10]. Ciò che si configura dunque è un dispositivo di potere che istituisce il ruolo attivo del medico e il ruolo passivo del malato[11]. Sarà questa la chiave di volta del regime di sapere biomedico – scientifico e tecnico – che interviene per riattivare la macchina/corpo[12], per mantenere integra la forza-lavoro[13] utilizzando soprattutto la tecnologia e i farmaci di sintesi[14]. Uno dei più potenti strumenti a disposizione del dispositivo di potere medico è la diagnosi che, attraverso il certificato, sancisce l’appartenenza del soggetto alla categoria di malato, di sano, di curabile o meno ed è entro questo percorso che cominciano a essere definite formalmente le caratteristiche sessuali maschili e femminili, e successivamente a prendere forma l‘attribuzione dei generi così come la conosciamo oggi[15]. Nelle righe di un certificato medico si delinea così uno dei pochi casi di evidente e repentino cambio di status della persona che può ritrovarsi – ad esempio – ad avere accesso esentasse ai farmaci, ad aver diritto a una pensione di invalidità o al rinnovo della patente. È dunque evidente il potere racchiuso entro la possibilità di assegnare queste “etichette” e altrettanto palese è come questo non resti affatto confinato, ma diventi sguardo con cui essere letti dall’altro e che “qualifica” socialmente (si pensi alla categoria di “isterica”, “omosessuale” o “disforico” e dell’uso politico che ne è stato fatto). Vi è però, nella diagnosi, anche un momento liberatorio per il paziente che esce dall’incertezza dei sintomi per essere indirizzato verso una possibile cura o almeno una prognosi[16]. Negli stessi anni in cui comincia a prendere forma la clinica[17], si sviluppano sempre più approfondite competenze chimiche[18] che avviano, da un lato, la possibilità di sviluppo dell’industria farmaceutica, dall’altro, la diffusione di preparati e farmaci che diventano perno attorno a cui si sviluppano relazioni di potere, aspettative e interessi economici[19] collegati alla medicina.

Non si tratta di negare l’indubbia rilevanza di scoperte e avanzamenti tecnici compiuti negli ultimi decenni, quanto piuttosto di porre l’accento, attraverso il riconoscimento della scienza medica odierna come organica e funzionale al sistema capitalistico, sulla relazione tra approccio medico e sua traduzione in pratiche oltre che sulle implicazioni della definizione di cosa è sano e di cosa è malato o, per maggior chiarezza, di cosa è normale, compatibile con le richieste del capitale, socialmente accettabile, e di cosa non lo è. Acquisire consapevolezza rispetto alla non neutralità che caratterizza strumenti e tecniche della scienza medica e ai ruoli storico-sociali di medici e pazienti permette di acquisire capacità critica, necessaria per cogliere e forzare gli spiragli che si aprono, con l’obiettivo di esercitare una libertà di scelta consapevole.

 

  1. Tra medicalizzazione e farmacologizzazione

Uno degli elementi più significativi delle critiche avanzate nel corso degli anni Settanta fu nei confronti del processo per cui problematiche di carattere sociale venivano affrontate attraverso gli strumenti della medicina, il processo che Conrad definisce di «medicalizzazione della società»[20]. I movimenti femministi in particolare hanno posto l’accento su questo punto evidenziando come tutta una serie di condizioni vissute dalle donne e definite patologiche dai medici non potessero essere ricondotte esclusivamente a uno stato di malattia individuale, ma fossero diretta conseguenza del ruolo sociale femminile imposto: «Le condizioni materiali e i rapporti sociali dentro i quali si svolge la nostra vita sono un continuo attacco alla nostra salute fisica e al nostro equilibrio psichico. […] Il nostro corpo però, costretto a funzionare come una macchina, si ribella continuamente»[21].

Ha cominciato a emergere, nel corso degli ultimi anni, anche un altro fenomeno che può essere definito come l’esigenza di ricorrere a farmaci non solo in caso di malattia, ma anche per migliorare le proprie prestazioni e relazioni sociali[22]. Questo processo, definito di farmacologizzazione[23], ha mostrato come accanto a una medicina rivolta sostanzialmente alla riparazione e alla normalizzazione dei corpi umani si sia affiancata una modalità in cui essa si orienta verso la personalizzazione e ottimizzazione della salute[24] e delle vite. Ciò che sembra emergere, più che un’evoluzione dalla medicalizzazione alla farmacologizzazione della società, è una sostanziale compresenza dei due fenomeni.

Riprendendo l’approccio iniziale e provando dunque a cogliere i nessi tra questi fenomeni e l’evoluzione del modello di produzione capitalistico, cosa emerge? Ci si soffermerà ora su due aspetti, entrambi fortemente connessi al sistema socio-economico, e cioè la spinta sociale a cercare strumenti (individuali) farmacologici con lo scopo, da un lato, di porsi in vantaggio competitivo e, dall’altro, per gestire le situazioni di difficoltà che si presentano nel corso della vita.

 

  1. Integratori per il lavoro femminilizzato

Se, come visto, i movimenti femministi storici avevano sollevato il tema della connessione tra patologie e ruoli sociali imposti alle donne, oggi il processo di femminilizzazione del lavoro[25] pone la questione in modo ancora più esteso, all’intera società. Ci si riferisce qui, in particolare, al progressivo inglobamento in ambito produttivo di caratteristiche e tratti tipici del lavoro di riproduzione che – pur essendo, appunto, lavoro – non sono contabilizzabili[26], ma che hanno un peso specifico nell’esperienza incarnata di ciascuna e di ciascuno. Va profilandosi una sovrapposizione tra le “malattie” indicate storicamente come “tipici malesseri femminili” e i disturbi che si rilevano tra i lavoratori e le lavoratrici precarie o autonome di oggi. La condizione di stress, di perenne stazionamento sul confine del burnout non è una afflizione transitoria, ma anzi è «la condizione. È la nostra temperatura basale. È la nostra musica di sottofondo. È il modo in cui vanno le cose. Sono le nostre vite»[27]. Sembrano quasi delinearsi i contorni di una “malattia professionale” specifica della riproduzione sociale nel sistema biocapitalistico.

Come scrive Petersen, pur nella consapevolezza di vivere in un sistema non equo, in cui vince solo una ristretta cerchia di persone, siamo portati a credere di poter continuare a ottimizzare noi stessi per rientrare in quella ristretta cerchia[28]. Ma questa infinita corsa all’ottimizzazione, dentro la cultura della perfezione[29], è intrecciata alla richiesta di altissima prestazionalità ed efficienza del mercato del lavoro a cui affiancare, appunto, disponibilità, socievolezza, bella presenza. Evidentemente a queste richieste non è immaginabile poter adempiere a ciclo continuo, tutti i giorni, tutto il giorno, nel corso dell’intera vita, ma rimane un’aspettativa che percepiamo come sociale e che spesso non ha neppure bisogno di agire dall’esterno perché, appunto, l’abbiamo introiettata[30]. Non è certo un caso che in Italia il consumo di integratori alimentari stia crescendo esponenzialmente da anni[31], probabilmente anche grazie al fatto che qui queste sostanze non vengono classificate come farmaci e dunque possono essere assunte anche in assenza di prescrizione medica. A ogni modo, questi prodotti vengono liberamente e insistentemente pubblicizzati su riviste e mass media come utili al miglioramento delle prestazioni fisiche e mentali nonostante i risultati contraddittori degli studi effettuati che non solo ne mettono in dubbio l’utilità, ma ne pongono in evidenza i rischi[32]. Ci si trova così davanti alle immagini di un ragazzo che studia in biblioteca e poi, diventato un uomo d’affari, è sempre di corsa tra viaggi, riunioni e ufficio con la voce guida che non solo ci racconta questi passaggi, ma mette in luce anche le aspettative che accompagnano il percorso: «Quelle prove da superare, ore passate a capire, risolvere, ricordare. Allenavi la tua mente per diventare qualcuno. Quello che sei oggi. Un professionista che dev’essere sempre concentrato, reattivo e mai stanco. Una vita dal ritmo intenso che può metterti in difficoltà proprio quando dovresti cambiare marcia». Ma la stanchezza e le aspettative sociali non sono certo prerogativa degli uomini d’affari. Oggi il peso del carico mentale delle donne[33] lo ritroviamo – come nemico da sconfiggere – nelle pubblicità di qualche integratore “al femminile” che «supporta la memoria e lucida la mente» [Acutil donna]. E le richieste di miglioramento di prestazioni specifiche sono state spezzettate in altrettante fasce di mercato per cui «Dopo i 50 anni, lui [chiede] un aiuto in più; anche lei, ma lei vuole un supporto post menopausa, lui una mente sempre attiva». [Multicentrum]

Insomma, senza neppure dover entrare nel merito dei farmaci veri e propri, del loro uso non medico[34] oppure aprire lo sguardo verso l’ampia gamma di sostanze illegali che pure meriterebbero un approfondimento specifico, già fermandosi entro la soglia degli integratori, vediamo la vastità di un mercato di sostanze (72.540 diversi integratori in commercio in Italia nel 2018 secondo FederSalus)[35] promosse come strumenti di resistenza allo stress, di supporto alle capacità di performance, sia che questo voglia dire gestire impegni famigliari o lavoro – più o meno precario, più o meno di responsabilità – sia che significhi mantenere la reattività mentale durante una riunione o quando esci la sera con le amiche e gli amici. Tutto diventa impegno, tutto diventa occasione in cui dar prova del tuo non essere stanco. L’evoluzione di questi strumenti tecnici sembra aprire una sorta di spazio di soggettivazione apparente in cui, paradossalmente, il corpo con i suoi desideri, le sue pulsioni, la sua sessualità, viene silenziato e scompare per diventare macchina efficiente e instancabile.

 

  1. Farmaci contro le crisi

Sono molti gli studi che stanno evidenziando in questi anni le strette connessioni tra precarietà lavorativa, incertezza della continuità di reddito e assunzione di psicofarmaci (si pensi ad esempio a tutto il recente filone di approfondimento sul tema relativamente a disturbi psichici e lavoro in accademia[36]). Se dunque si è visto come sia stata normalizzata la manipolazione al rialzo delle proprie capacità fisiche e mentali, d’altra parte è necessario chiedersi cosa accade quando la soglia “gestibile” viene superata a causa di situazioni personali oppure all’interno di processi di crisi più generali.

Da un lato è necessario tenere conto della dimensione simbolica del farmaco[37] e della possibilità che la persona in difficoltà vede di risolvere con una pastiglia, con qualche goccia, un problema che affrontato in altro modo richiederebbe tempi molto lunghi o che è fuori dalla portata del singolo individuo coinvolto. In questo senso il tema della non neutralità della tecnica è un riferimento necessario a interpretare quanto ci accade intorno e per riconoscerne la funzione di assoggettamento anche quando questa è meno esplicita. Si è visto, in rapporto agli integratori, come non si stia parlando di una situazione tutto sommato di libera scelta in cui le persone decidono di utilizzare sostanze allo scopo di potenziare sé stesse, quanto piuttosto della necessità di cercare strumenti per rendersi quanto più compatibili possibile con i ritmi richiesti dal capitale. E dunque cosa accade quando, in modo più o meno improvviso, a fronte della situazione lavorativa frenetica e altamente performativa che stiamo vivendo, si apre una crisi economica diffusa?

A partire dai primi anni Novanta si sono sviluppate ricerche e teorie che hanno progressivamente messo in evidenza l’incidenza dei determinanti sociali sullo stato di salute delle persone[38], con indagini che stimano al 10% il rilievo dell’intervento sanitario a fronte del 90% dei fattori non sanitari (tra cui quelli sociali, lavorativi, ambientali)[39]. Questo però non pare aver modificato l’approccio medicalizzante diffuso che vede, anzi, un aumento generalizzato dell’utilizzo di psicofarmaci in tutti i Paesi occidentali[40].

Un momento utile a leggere come si trasforma la percezione comune rispetto alla relazione tra salute e società è la crisi economica del 2008[41] quando l’introduzione delle politiche di austerity ha comportato in molti Paesi dell’Europa mediterranea una generalizzata perdita di posti di lavoro, riduzione di risorse pubbliche e di servizi. Emblematico è il caso greco in cui, tra il 2008 e il 2013, il tasso di suicidi è aumentato del 40% e il numero di persone che hanno dichiarato di soffrire di depressione per almeno un mese è passato da 3,3% nel 2008 a 12,3% nel 2013[42]. Ciò si è accompagnato però a un significativo cambiamento nella percezione generale del disagio mentale[43]. Ma se l’esempio greco, in tutta la sua drammaticità, fornisce un punto di osservazione particolare, la situazione non è molto diversa in Italia. Secondo quanto riportato nel rapporto AIFA riferito ai dati del 2018[44], è in continuo aumento l’assunzione di farmaci antidepressivi con una prevalenza d’uso[45] nell’assistenza convenzionata significativamente differenziata per genere che arriva al 10% in più da parte delle donne over 75 e questo – al netto di altri fattori – è probabilmente da ricondursi alle aspettative di genere sulla disponibilità o meno, da parte di donne e uomini a dichiarare il proprio stato di difficoltà. A completare il quadro di un cambio di passo nella percezione su questi temi è il fatto che, tra il 2008 e il 2018, una ricerca dell’Istituto Piepoli registra che il 42% degli intervistati dichiara che l’immagine dello psicologo è migliorata[46]. Saranno da considerare, nei mesi a venire, gli effetti ulteriori relativi all’attuale situazione innescata dal diffondersi dalla pandemia di Covid-19 che, come già segnalano le prime ricerche, avrà effetti importanti sulla salute mentale delle persone[47] non solo a causa del timore relativo alla malattia, ma anche come effetto del lockdown imposto dai governi[48] e delle trasformazioni del mondo del lavoro[49].

Emerge quindi la necessità di mantenere alta l’attenzione sui rischi di scivolare nella direzione di una medicalizzazione e farmacologizzazione dei fenomeni di malessere che hanno cause socio-economiche. Ricondurre una situazione di depressione esclusivamente alla sua dimensione di disagio mentale significa relegarla a condizione individuale nascondendo alla vista le concause che l’hanno innescata. Altrettanto, la somministrazione di (psico)farmaci non agisce solo sullo stato di difficoltà della persona, ma finisce per operare come contenzione chimica – o «repressione drogata»[50] – che blocca la possibilità di riconoscere la dimensione sociale e con essa la possibilità di riconoscimento collettivo oltre che di azione sulle cause prima ancora che sui sintomi.

 

  1. Ormoni sintetici come spazi di autodeterminazione?

Nel solco della critica femminista della medicalizzazione richiamata in precedenza, è possibile leggere anche un altro “oggetto” chimico, gli ormoni “sessuali” di sintesi, su cui si sono aperti spazi di riflessione da parte di movimenti e attiviste femministe, queer e trans[51] al confine tra medicalizzazione, farmacologizzazione e spazio di liberazione delle scelte: «con la nozione di genere il discorso medico svela i propri fondamenti arbitrari, il proprio carattere costruttivista, aprendo allo stesso tempo la strada a nuove forme di resistenza e di azione politica»[52]. Proprio grazie a questo sguardo possiamo oggi considerare gli ormoni sessuali da un’angolatura che permette di non limitarsi all’osservazione della loro funzione di controllo, ma anzi di riconoscere come, attraverso la loro assunzione, le persone trans e non binarie abbiano la possibilità di modificare il proprio corpo per avvicinarsi a quella che è una percezione e un desiderio di sé.

Nel sistema biocapitalistico in cui l’estrazione di valore riguarda l’intera soggettività, incluse le sue dimensioni relazionale e sessuata[53], l’elaborazione di sostanze che, attraverso la chimica, agiscono su questi aspetti apre spazi di possibilità «Siamo vivi: materializziamo allo stesso tempo il potere del sistema farmacopornografico (biopotere) e la possibilità del suo fallimento (bioempowerment)»[54]. È così, ad esempio, che la diagnosi stessa diventa un’occasione per aprire strade alternative rispetto a quelle concepite dal potere medico che la esprime. Nel sistema sanitario italiano perché una persona transessuale possa accedere all’assunzione delle varie terapie ormonali previste è necessaria una diagnosi di disforia di genere. Ed è proprio in questo passaggio di diagnosi e quindi di inquadramento entro una patologia, che si apre una sorta di paradosso: per una persona trans che intende assumere la terapia ormonale, questa è l’unica strada ufficiale per garantire che questo avvenga attraverso la sanità pubblica; d’altra parte, proprio attraverso l’individuazione di un quadro clinico, viene esercitato il controllo e il disciplinamento di corpi che devono essere ricondotti, anche grazie alla tecnologia chimica, all’unica “normalità” accettabile del binarismo di genere[55]. Ecco dunque esplicitarsi il potere intrinseco della valutazione diagnostica di tracciare il confine attribuendo carattere patologico a comportamenti o condizioni eccedenti, che fuoriescono da ciò che i rapporti di potere in essere definiscono come “normale”[56]. L’intervento medico diventa, ancora una volta, il mezzo con cui riportare tutti i soggetti alla piena funzionalità e produttività sociale[57]. È necessario però tenere conto di come questo percorso includa diverse ombre perché, pur a fronte di un sistema sanitario formalmente universale, vi sono diverse situazioni in cui l’accesso è sostanzialmente limitato e non si riesce a far valere il diritto alla salute come, ad esempio, nel caso di persone senza fissa dimora o di migranti senza documenti.

A ogni modo, riconoscere il ruolo sociale giocato dalla medicina, come scrivono le stesse attiviste, diventa strumento utile ad acquisire agency entro la relazione medico-paziente, non solo individualmente, ma anche a livello collettivo grazie alla consapevolezza di poter produrre un discorso autonomo sulla salute intesa come benessere[58] e nell’esercitare la propria autodeterminazione.

Si pensi ad esempio ai molteplici effetti della diffusione della pillola anticoncezionale sulla libertà per le donne di scegliere di intrattenere relazioni sessuali senza rischiare una gravidanza. Queste riflessioni infatti, pur partendo dagli effetti e dalle interazioni con/degli ormoni “sessuali”, mettono in evidenza come in realtà l’azione chimica della sostanza sia una parte di un complesso molto più articolato di intersezioni tra società, cultura, natura.

 

  1. Conclusioni

Attraverso i tre esempi utilizzati si è inteso rappresentare alcune connessioni tra lo sviluppo delle conoscenze scientifiche, la dimensione sociale ed economica e gli effetti derivanti da questi legami. Si sono potute dunque osservare alcune implicazioni dell’approccio biomedico, fortemente incentrato sulla diagnosi e l’intervento farmacologico – oltre che chirurgico –, e come esse contaminino la relazione che si ha con il proprio corpo entro il sistema (bio)capitalistico. L’utilizzo degli integratori mostra come le conoscenze farmacologiche riversate in queste pastiglie siano entrate nella quotidianità ben al di là della condizione patologica e siano diventate un supporto chimico considerato più o meno necessario, anche senza comprovata efficacia, per sostenere i ritmi, fisici e mentali, richiesti dall’attuale organizzazione sociale e del lavoro. L’assunzione di integratori alimentari diventa dunque un effimero tentativo, una speranza di sostenibilità di ciò che abbiamo intorno, che dovrebbe servire a procrastinare a tempo indefinito l’ammissione di stanchezza, il riconoscimento dell’impossibilità di far coincidere il ritmo della finanza, delle macchine, dei computer con quello umano. Ma proprio quando queste pressioni diventano insostenibili o impattano con situazioni di dissesto economico, si ripresenta la medicalizzazione di problematiche sociali. Non solo in questi casi aumentano le diagnosi, ma l’utilizzo di (psico)farmaci diventa così diffuso da incidere sulla percezione stessa del disagio mentale che, fino a poco prima indicibile e inconfessabile, diventa socialmente accettabile, reso “tollerabile” dalla medicina stessa che, in una situazione di crisi economica, permette al sistema capitalistico di prendere una boccata d’aria intervenendo con i farmaci per tamponare problemi le cui cause sono da ricercare altrove. Tutto questo senza che vi sia, per contro, un’analisi specifica di quali possano essere gli effetti di una così ampia diffusione dell’uso di queste sostanze sulle scelte collettive (ad esempio a livello elettorale) o sulle reazioni a situazioni inattese o di pericolo (reale o percepito). L’introduzione di uno sguardo (trans)femminista permette però di cogliere un punto di vista imprevisto anche quando il meccanismo di (auto)assoggettamento sembra essere imprescindibile. Ad esempio, nel caso degli ormoni “sessuali” sintetici, la consapevolezza dei meccanismi alla base del processo che lega diagnosi e accesso ai farmaci, permette di avviare riflessioni critiche e pratiche di resistenza individuali e collettive che non solo allargano il diritto all’accesso alla sanità, ma diventano occasione di liberazione dei desideri attraverso un diverso uso e la riappropriazione delle tecnologie di produzione delle soggettività[59].

Rimane aperto però l’interrogativo sul fatto che siano le risposte della scienza biomedica, le sue diagnosi e i suoi farmaci ciò di cui abbiamo bisogno per “stare bene”. Oppure se non sia arrivato il momento di ripartire dal disvelamento del ruolo sociale della scienza medica che conosciamo, dal riconoscere che molto di ciò che la medicina chiama patologia è in realtà prodotto dell’organizzazione sociale. Soffermarsi su questa prospettiva permette anche di evitare quel processo di victimblaming, ben delineato da Fisher non solo nella sua dimensione individuale, ma anche collettiva[60] che è ormai una postura assunta, una strategia di governo adattata a ogni situazione per rovesciare sul singolo individuo le responsabilità delle sue condizioni di difficoltà e alimentare la percezione comune che siano effetto di scelte individuali “sbagliate”. Il tema quindi non è la colpevolizzazione di chi in un certo momento della propria vita scelga di utilizzare integratori o senta il bisogno di assumere qualche tranquillante. Va esplicitato come questo sia piuttosto il prodotto individuale di fattori strutturali: perché «non lasciarti andare alla stanchezza»? Magari dopo settimane di lavoro intensivo per rispettare una scadenza e con genitori anziani da accudire? Perché la strada più accettabile è assumere un integratore? Non dovrebbe essere prendersi una pausa o rallentare i ritmi (magari anche per godersi la soddisfazione dell’obiettivo raggiunto)?

Nel solco di quanto suggerito dalle esperienze transfemministe richiamate, l’acquisizione di una maggiore consapevolezza sui saperi, i rapporti di potere e sugli strumenti che interagiscono con i nostri corpi assume centralità. Solo attraverso questo processo, consapevoli della dimensione di reciprocità e interdipendenza in cui viviamo, nell’insufficienza della ricerca di un “benessere”, di uno “stare bene” individuale, è possibile immaginare percorsi attraverso cui liberarli e riappropriarsene, risignificandoli, per costruire spazi di autonomia e autodeterminazione.


[1]Si veda, ad esempio, il documentario Take yourpills, regia di A. Klayman, produttore Motto Pictures, 2018.

[2]M. Tognetti Bordogna, Farmacologizzazione: una nuova sfida, in G. Vicarelli (a cura di), Cura e salute. Prospettive sociologiche, Carocci, Roma 2013, p. 87.

[3]Si vedano ad esempio i molteplici contributi di G.A. Maccacaro, J-C. Polack, V. Navarro, G. Berlinguer.

[4]G. Maccacaro, Lettera al Presidente dell’Ordine dei Medici della Lombardia, in J-C. Polack, La medicina del capitale (1971), Feltrinelli, Milano 1972.

[5]Per una raccolta commentata dei documenti su questo tema, si veda L. Percovich, La coscienza nel corpo. Donne, salute e medicina negli anni Settanta, Franco Angeli, Milano 2005.

[6]A titolo d’esempio si vedano: T. Capacchione, Primavera 180. Le lotte e le esperienze psichiatriche alternative in Campania nella stampa quotidiana, Sensibili alle foglie, Rebibbia 2018; J. Foot, La «Repubblica dei matti»: Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978, Feltrinelli, Milano 2014; P. Sardella, Storia del primo consultorio autogestito nel movimento di liberazione femminile, Mimesis, Milano 2014; B. Mura, I consultori familiari, in A. Del Re, L. Perini (a cura di), Gender Politics, in Italia e in Europa, Padova University Press, Padova 2014; S. Petri, A partire dal centro di medicina sociale di Giuliano, Fogli d’informazione, 5-6, terza serie, 1 giugno 2008.

[7]G. Corbellini, S. Urso, Radiografia di una scienza. La storia della medicina e la sua percezione pubblica, in «Zapruder», 6, 2005, pp. 124-130.

[8]B. Ehrenreich, D. English, Le streghe siamo noi. Il ruolo della medicina nella repressione della donna (1973), CELUC, Milano 1975.

[9]G. Abbracciavento et al., Medici senza camice pazienti senza pigiama. Socioanalisi narrativa dell’istituzione medica, Sensibili alle foglie, Roma 2013, p. 69, e J-C. Polack, op. cit., pp. 72-73.

[10] J.-C. Polack, op. cit., pp. 72-73.

[11] G. Abbracciavento et al., op. cit.

[12]M. Tognetti Bordogna, Presentazione, in S. Fainzang, Farmaci e società. Il paziente, il medico e la ricetta, Franco Angeli, Milano 2009, p. 8.

[13]V. A. Sironi, Prefazione. Il farmaco: un protagonista poliedrico della scena terapeutica, in S. Fainzang, op. cit., p. 16.

[14]B.J. Good, Gli studi culturali nelle bioscienze, nella biomedicina e nella biotecnologia in P. Donghi (a cura di), Il sapere della guarigione, Laterza, Roma-Bari 1996.

[15] P. B. Preciado, Testo tossico. Sesso, droghe e biopolitiche nell’era farmacopornografica, Fandango, Roma 2015, pp. 90-107.

[16]H. Brody, D.B. Waters, Diagnosis is treatment, in «The Journal of family practice», 10, 1980, pp. 445-9.

[17]M. Foucault, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico (1963), Einaudi, Torino 1998.

[18] V. A. Sironi, op. cit., p. 18.

[19]I. Illich, Nemesi medica (1974), Mondadori, Milano 1976; V. A. Sironi, Prefazione, cit., p. 16; G. Abbracciavento et al., op. cit., pp. 77-81.

[20]P. Conrad, Medicalisation and Social Control, in «Annual Review of Sociology», 18, 1992, pp. 209-232.

[21]Movimento femminista di Venezia-Mestre, «Ciao, come stai?» - «Male…», Mestre, 5 marzo 1975, p. 1, in C. Jourdan, Insieme contro. Esperienze dei consultori femministi, La Salamandra, Milano 1976.

[22]La diffusione di immaginari di questo tipo è accompagnata, ad esempio, dalla produzione cinematografica. Si vedano Limitless di Neil Burger, 2011 o Lucy di Luc Besson, 2014.

[23]S.J. Williams et al., Waking up to Sleepiness: Modafinil, the Media and the Pharmaceuticalisation of Everyday/Night Life, in «Sociologiy of Health&Illness», 30, 2008, pp. 839-855.

[24]M. Tognetti Bordogna, Farmacologizzazione: una nuova sfida, cit., pp. 87-110.

[25]C. Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, Ombre Corte, Verona 2010.

[26]Tra gli altri: B. Mura, C. Peroni, C. Veneri, Gender Strike! Il Tariffario del lavoro gratuito, in F. Zappino (a cura di), Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo, Ombre Corte, Verona 2016.

[27]A.H. Petersen, How Millennials Became The Burnout Generation, «BuzzFeed News», 5 gennaio 2019 (link consultatoil 17 maggio 2020).

[28]Ibid.

[29]J. Scelfo, Campus Suicide and the Pressure of Perfection, in «New York Times», 28 luglio 2015.

[30]M. Bascetta, L’economia politica della promessa, in «Il Manifesto», 22 ottobre 2014.

[31]CENSIS, Rapporto sul valore sociale dell’integratore alimentare, 20 giugno 2019.

[32]Fondazione GIMBE, Alimenti, diete e integratori: la scienza della nutrizione tra miti, presunzioni ed evidenze, in «Evidence», 10, 2018.

[33]Per una molto efficace sintesi a fumetti del tema si rinvia a Emma, Bastava chiedere. 10 storie di femminismo quotidiano, Laterza, Roma-Bari 2020.

[34] S.P. Novak et al., Nonmedical use of prescriptiondrugs in the European Union, in «BMC Psychiatry», 274, 2016.

[35]G. Riva, Italiani primi in Europa per uso di integratori: peccato che non servano a niente (anzi...), in «L’Espresso», 16 aprile 2018.

[36]Si vedano tra gli altri: F. Palazzi, Accademia e depressione. Un bilancio sul rapporto tra disagio mentale e gestione neoliberale dell'università, «Il Tascabile», 24 settembre 2019, https://www.iltascabile.com/societa/accademia-e-depressione/ (link consultato il 18 maggio 2020); A. Piga, A. Lampo, Stare male nell’accademia, 22 giugno 2018, https://not.neroeditions.com/accademia-ricerca-malessere-psichico/ (link consultato il 18 maggio 2020); K. Levecque et al., Work organization and mentalhealthproblems in PhDstudents, in «Research Policy», 46, 2017, pp. 868-879; D. Borrelli, M. L. Stazio (a cura di), La «grande trasformazione» dell’università, in «Rivista Trimestrale di Scienza dell’Amministrazione», 1, 2018.

[37]G. Pizza, Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo, Carocci, Roma 2005.

[38]G. Dahlgren, M. Whitehead, Policies and Strategies to Promote Social Equity in Health, Institute for Futures Studies, Stoccolma 1991; CSDH, Closing the gap in a generation: health equity through action on the social determinants of health. Final Report of the Commission on Social Determinants of Health, World Health Organization, Ginevra 2008.

[39]Institute for the future (IFTF), Health and Healthcare 2010. The forecast, The challenge, Jossey-Bass, Princeton 2003.

[40] F. Starace, Il consumo di psicofarmaci in Italia, in «Quotidiano Sanità», Analisi SIEP su dati OSMED 2018.

[41]R. De Vogli, R. Gnesotto, Il ruolo delle psicopatologie nella crisi economica, in «Salute Internazionale», 11 Settembre 2017, https://www.saluteinternazionale.info/2017/09/il-ruolo-delle-psicopatologie-nella-crisi-economica/ (link consultato il 19 maggio 2020).

[42]J. Bateman, How Greek crisis helped removed taboo on mental health, in BBC, 5 maggio 2019, https://www.bbc.com/news/world-europe-48069644 (link consultatoil 25 maggio 2020).

[43]Ibid.

[44]Osservatorio Nazionale sull’impiego dei Medicinali, L’uso dei farmaci in Italia. Rapporto Nazionale Anno 2018, Agenzia Italiana del Farmaco, Roma 2019.

[45]Ibid., p. 439.

[46]Istituto Piepoli, La psicologia e la vita del Paese. Tra «stressometro» e diritti, 8 ottobre 2019. Documento redatto per il Consiglio Nazionale Ordine Psicologi.

[47]L. Gaibar, El consumo de psicofármacosentre la poblaciónasalariada se ha duplicadodesdeelinicio de la pandemia, in «El Salto Diario», 20 maggio 2020, https://www.elsaltodiario.com/salud-laboral/trabajadores-consumen-doble-psicofarmacos-desde-inicio-pandemia-coronavirus (link consultato il 21 maggio 2020).

[48]G. Lippi et al., Health risks and potential remedies during prolonged lockdowns for coronavirus disease 2019 (COVID-19), in «Diagnosis», 7, 2020.

[49]F. Florio, Coronavirus, con lo smart working un italiano su due lavora di più e crescono ansia e stress, in «Open online», 15 maggio 2020, https://www.open.online/2020/05/15/coronavirus-smart-working-italiano-lavora-crescono-ansia-stress-ricerca/ (link consultato il 19 maggio 2020).

[50]E. Ferrara (a cura di), L’umanità di uno scienziato, antologia di Giulio Alfredo Maccacaro, Edizioni dell’Asino, Roma 2010.

[51]Si veda, ad esempio, oltre a P. B. Preciado, op.cit.; Consultoria Queer Bologna, Ormonautica. Le favolose avventure della consultoria queer nel mondo degli ormoni «sessuali», in «DWF», 3-4, 2014, pp. 15-24; M. Fragnito, Politiche su corpi e molecole, in V. Graziano, Z. Romano, S. Cangiano, M. Fragnito (a cura di), Cure ribelli. Tecnologie aperte per una cura come bene comune, WeMake, Milano 2019.

[52]P. B. Preciado, op.cit., p. 102.

[53] Si vedano, ad esempio C. Morini, op. cit.; M. Cooper, La vita come plusvalore. Biotecnologie e capitale al tempo del neoliberismo, Ombre Corte, Verona 2013.

[54]P. B. Preciado, op. cit., p. 107.

[55]Consultoria Queer Bologna, op. cit., p. 22.

[56]B. Busi e O. Fiorilli, Introduzione. Per una prospettiva (trans)femminista sulla salute ai tempi del neoliberismo, in «DWF», 3-4, 2014, pp. 5-14.

[57]O. Fiorilli, S. Voli, De-patologizzazione trans*, tra riconoscimento e redistribuzione, in F. Zappino (a cura di), Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo, cit., pp.97-109.

[58]Consultoria Queer Bologna, op.cit., p. 21.

[59]P. B. Preciado, op.cit., p. 116.

[60]M. Fisher, Buono a nulla (Good for nothing), in «Effimera», 16 gennaio 2017, http://effimera.org/buono-nulla-good-for-nothing-mark-fisher/ (link consultato il 25 maggio 2020).

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