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LA DONNA-BOLLA E IL FETO-BAMBINO: PROBLEMI E DISCORSI PUBBLICI SUL CORPO RIPRODUTTIVO DELLE DONNE. SPUNTI SUL DIBATTITO ITALIANO

Autore


Lorenza Perini

Università degli Studi di Padova

Ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali (SPGI) dell’università degli studi di Padova

Indice


  1. Il contesto: l’origine del problema
  2. Il corpo come spazio della contesa politica
  3. Altri ospiti sulla scena: la Chiesa e la Scienza
  4. Fotografare il feto-bambino
  5. Se tutto avviene sulla scena pubblica
  6. Chi è la madre? La sfida continua
  7. Conclusioni

 

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S&F_n. 23_2020

Abstract


The bubble-woman and the fetus-child: problems and public discourses on the reproductive body of women. Ideas on the Italian debate

At what point in history the concept of birth begins to affect the State? The research identifies the 18th Century as a time when the social role of women was considered both a public interest and progressively marginalized and confined to the private sector. This same moment can also be considered the beginning of the process of personification and, consequently, of the attribution of rights to the fetus. Moreover, two important points in the history of the last three centuries intertwines this process: namely: a) when science, in it progresses, allows man to ascertain the presence of “something” in the womb of the women before the physical act of birth; b) when the care for people, for each individual citizen, becomes a priority for the governments. Reconstructing part of the debate that has accompanied in the past and is still accompanying today the issue of the maternity’s choice in Italy (assisted reproduction and surrogacy included), the research highlights how the question of the presence of many “guests” with the right to speak in the intimate scene of the reproductive body continues to make the only true protagonists of this scene – the women – still invisible and mute.

  1. Il contesto: l’origine del problema

Se storicamente la nascita e il parto sono eventi che riguardano la sfera familiare o al massimo la comunità di appartenenza – il villaggio, il paese – con l’età dei Lumi tali eventi iniziano a diventare di pubblico interesse: colui che nasce – dopo la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo – è a tutti gli effetti cittadino portatore di diritti e, come tale, corpo da tutelare e proteggere. Egli è elemento costitutivo dello Stato, come scrive John Peter Frank – medico e docente universitario a Pavia tra il XVIII e il XIX secolo – e la donna gravida, da questo momento in poi non è più semplice moglie di cittadino ma è proprietà dello Stato, il quale deve ora accordarle doppia protezione, in ragione di sé e di colui che porta in grembo[1]. Nel corso del XIX secolo, il mutamento dell’immaginario collettivo legato alle donne e alla gravidanza avvia in Europa un vasto processo di iniziative e riforme che investe in pieno la scena del parto: il controllo pubblico della nascita diviene il comune obbiettivo di tutti i governi e combattere la mortalità neonatale una missione ineludibile. Inoltre, l’attenzione degli Stati alla tutela della maternità e dell’assistenza al parto si coniuga con l’interesse non solo degli scienziati, ma anche degli artisti, che ritraggono con incisioni e dipinti – come in una moderna fotografia – la scena del parto[2]. E non di rado tale interesse sfocia nella trattazione iconografica di temi scabrosi, legati a questioni di medicina legale riferite ad aborti e infanticidi[3]. Ciò corrisponde pienamente al nuovo atteggiamento della cultura europea illuminista, che si traduce in nuovi approcci storici alla Natura e alla Società, secondo i quali quel qualcosa di scabroso diventa norma nel mondo della ricerca scientifica sotto-forma ad esempio di collezioni di feti – realizzate grazie a macabre ricerche di nascituri morti nel ventre materno negli obitori, nonché di feti clandestinamente abortiti – che vengono tutti assieme classificati come serie di forme di vita in via di sviluppo e offerti alla pubblica visione[4].

Nel quadro della rappresentazione del feto in utero come bambino già formato si inseriscono anche le vaste campagne promozionali del parto chirurgico, da praticarsi sia sulla donna viva che sulla donna morta[5]: proprio perché il feto è considerato un piccolo uomo appare inaccettabile lasciarlo morire nel corpo della madre. E sulla scia della scienza, anche la Chiesa cattolica sostiene la pratica del parto cesareo, nell’ottica del poter dare il battesimo a ogni anima. L’introduzione del parto cesareo non è quindi una questione di mera tecnica chirurgica: esso rivela il mutamento del paradigma relativo al concetto di madre e di figlio. La precedenza accordata alla vita del bambino – cittadino portatore di diritti – rispetto a quella della madre – utero contenitore biologico – diventa quindi nel XIX secolo un fatto oggettivo in tutti i paesi d’Europa, sia protestanti che cattolici, fosse anche solamente perché si assume il punto di vista scientifico: comunque la si guardi, la madre agli occhi dell’uomo ottocentesco è null’altro che un contenitore di vita sacrificabile secondo le necessità. Si aprono a questo punto inquietanti scenari di conflitti e opposizioni tra vita della madre e vita del (potenziale) bambino, conflitti tra autorità che si arrogano il diritto di intervento sul corpo materno, divenuto terreno non solo pubblico nel senso di “non più segreto” rispetto a quanto avviene al suo interno, ma nel senso di terreno di coltura di futuri cittadini, incubatore vivente su cui legge e scienza possono imporre la loro volontà[6].

 

  1. Il corpo come spazio della contesa politica

Se consideriamo l’introduzione nel sistema italiano della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, nel 1978, e consideriamo il dibattito che da allora fino a oggi continuamente l’accompagna, capiamo come il tema della nascita – al di là della scelta di maternità che le donne possono fare – non abbia in realtà mai raggiunto una condizione di laicità e non ostilità verso donne: lo dimostra lo sconcertane dibattito parlamentare che ha accompagnato il formarsi della legge; lo dimostra il fenomeno massiccio dell’obiezione di coscienza da parte dei medici che, iniziato già all’indomani del varo della legge, oggi in alcune regioni oscilla tra l’80 e il 90%; lo dimostra l’opera di chi, in questi decenni, ha agito con continuità, determinazione e lucidità per restringere gli spazi dell’aborto legale e ancora oggi – 2020 – rende necessario il presidio di quegli spazi; lo dimostra la persistenza di un discorso che, nonostante episodi estremamente vivaci e costruttivi, nei momenti cruciali si riduce sempre a uno scontro tra posizioni estreme, senza sfumature, senza elementi di dialogo[7]. Dietro questa sorta di perdurante minorità delle donne sulla scena pubblica si cela, come sottolinea Carol Pateman, un’irrisolta questione di cittadinanza: se è vero, sostiene Pateman, che con la Rivoluzione francese è nato il moderno concetto di cittadinanza cosiddetta universale, è vero anche che, contemporaneamente, si è sancita l’estraneità delle donne dalla polis[8]. Il cittadino nuovo del XVIII secolo, soggetto di diritti politici e di libertà, non era affatto da considerarsi rappresentativo di tutti gli esseri umani, la sua libertà e unicità si fondava su quello che Pateman definisce un contratto sessuale, che escludeva di fatto coloro che venivano individuati come dipendenti – il che voleva dire soprattutto le donne. La loro esclusione dalla cittadinanza politica appare quindi fortemente legata a una vera e propria negazione dell’individualità, poiché giudicate prive (e quindi private) delle due qualità essenziali che definivano il nuovo concetto di individuo: il possesso della propria persona e il controllo del proprio corpo. Una criticità che nel corso dei secoli non si risolve del tutto, anzi diventa permanente, se è vero che oggi il dibattito sui diritti riproduttivi si dipana ancora entro il medesimo spazio: l’indebolimento del consenso, la fine della tradizionale forma-partito, la delegittimazione della politica, sembrano far sì che – più che la politica – l’etica, la riproduzione della specie, il corpo delle donne e il concetto di vita siano lo “spazio” entro cui creare legittimazioni, costruire discorsi morali, mediazioni e alleanze[9].

Tuttavia, visto da una diversa prospettiva l’equilibrio su cui si fonda l’impianto della legge 194 continua a reggere, e non solo a reggere, ma a costruire intorno a sé spazio di discorso, progettualità che grazie alla linfa portata dai nuovi movimenti femministi continua a compiersi, a produrre riflessione che rinnova la necessità di porsi continuamente in un orizzonte di riconoscimento di responsabilità delle donne su sé stesse e della società tutta rispetto alle loro scelte. E per fortuna che ciò accade, poiché il meccanismo di azione in cui si sono inserite negli ultimi decenni alcune proposte di legge in Italia appare scientemente volto a erodere i margini di libertà e di relazione tra i sessi costruiti con fatica fino a ora. In questa direzione va infatti ascritta la richiesta di modifica dell’articolo n. 1 del Codice Civile nel 1995 da parte del Movimento per la vita al fine di anticipare al mo­mento del concepimento il riconoscimento della capacità giuridica, o le legislazioni regionali, che sul concetto di famiglia hanno proposto definizioni sempre più ristrette nei termini biologici tradizionali[10], fino a giungere nel 2004 all’approvazione della legge n. 40 sulla fecondazione medicalmente assistita, confermata l’anno successivo da referendum, in netto contrasto con la legge 194. Su questo terreno, che vede pericolosamente intrecciarsi sui corpi delle donne l’etica e il discorso politico, le norme sono pensate come limitative dei diritti, in una logica bio-politica del controllo cui il corpo femminile è storicamente assoggettato più di quello maschile[11] e sul quale finiscono per incontrarsi alleanze politiche e consensi governativi. Come sostiene ancora Del Re, è indubbio che sul tema della riproduzione sociale e della riproduzione biologica sia in atto in Italia un conflitto senza soluzione di continuità dai tempi dell’introduzione della legge 194 a oggi che riguarda la determinazione concreta degli spazi reali della nostra democrazia[12].

E la difficoltà per chi propone una riflessione femminista sul diritto deriva probabilmente proprio da questo fatto: il linguaggio giuridico pretende simmetrie e neutralità di discorso laddove queste sono impossibili se il soggetto è il corpo delle donne. Il diritto non è in grado, se non in maniera fittizia e artificiosa, di significare e rendere esplicito ciò che invece è palesemente implicito e cioè che si sta normando il corpo femminile (e quello maschile no). Fare appello al corpo neutro della persona non giova nel caso specifico, poiché fornisce solo la misura e il senso dell’inadeguatezza degli strumenti concettuali usati. Una sorta di disordine in cui, se la scena politica appare attraversata da rinnovati motivi di disaccordo, l’unico punto di intesa sembra il controllo sul corpo femminile: destra, sinistra e centro trovano qui un potente, a volte unico, terreno d’incontro: le donne non devono procreare, non devono abortire se non a condizioni dettate da una ragione estranea e indifferente alla loro esperienza. Che vogliano un figlio o non lo vogliano intollerabile è il loro desiderio libero.

 

  1. Altri ospiti sulla scena: la Chiesa e la Scienza

Nel luglio del 2002 il Parlamento Europeo, attraverso la risoluzione n. 2128, approvata con 240 voti a favore su 280 totali, raccomandava agli stati membri di rendere legale l’aborto con le seguenti motivazioni: al fine di proteggere il diritto alla salute, esso deve essere legalizzato e reso sicuro e accessibile a tutte le donne. Seppur con il più blando dei strumenti a sua disposizione, l’Europa invitava quindi i governi ad astenersi, in qualunque caso, dal perseguire le donne sottoposte ad aborto illegale. La votazione di Strasburgo, dal punto di vista pratico non ha comportato alcun mutamento per le legislazioni dei paesi membri – almeno nell’immediato – poiché essi mantengono comunque la loro piena autonomia in materia di aborto e contraccezione. La risoluzione ha reso tuttavia evidente la volontà dei legislatori di dare forma univoca a una materia che continua a essere estremamente controversa e con percorsi diversificati da paese a paese, il cui risultato è stato – fino a ora – quello di produrre legislazioni in alcuni casi assai più proibizioniste dei suggerimenti espressi dall’Europarlamento[13].

Nella frammentarietà di questo scenario che apre il XXI secolo e che vede le donne soggette a diritti diversi a seconda del paese di appartenenza, non è da sottovalutare l’azione del movimento clericale: nel 2000 la Chiesa di Roma aveva sollecitato la sospensione degli interventi abortivi durante il periodo giubilare, mentre nello stesso periodo in Scozia l’azione ecclesiastica è arrivata a sostenere economicamente bambine di 12 anni incentivandole a continuare la gravidanza.

L’accenno per l’Italia alle speciali pressioni esercitate dalla Chiesa in chiave anti-abortista appare scontato, ma serve a sottolineare come, a partire dall’inizio di questo decennio, dopo un lungo periodo di silenzio, gli ambienti cattolici abbiano lanciato una nuova e organizzata offensiva sul tema in questione. Grazie agli sviluppi repentini della ricerca e delle scoperte in campo biomedico legate ai meccanismi della sfera riproduttiva, nuove possibilità di indagine, conoscenza e intervento sui ritmi e le modalità che regolano il concepimento si sono rese disponibili, cambiando decisamente i contorni del concetto di vita e del suo inizio. Il momento del concepimento è diventato manipolabile scientificamente, rendendo evidente la possibilità per l’uomo di sovvertire l’ordine naturale delle cose. In questo contesto, la rivoluzione tecnologica in ambito medico-biologico sta incontrando sia punti di convergenza che punti di scontro con la conquista più faticosa ottenuta dalle donne nel corso del Novecento, e sta offrendo inaspettato sostegno e nuovo vigore anche alle tesi anti-abortiste, in quanto più si approfondisce il sapere sul momento di inizio vita grazie alla scienza, più i limiti temporali imposti e socialmente costruiti dal sistema culturale-politico-giuridico appaiono – dal punto di vista della morale cattolica – criticabili.

E non si tratta di un fenomeno solo italiano: le legislazioni che in Occidente consentono alle donne di agire in relativa autonomia rispetto alla scelta di dare o non dare vita, sono tutte oggetto di critica in questo momento, sono sottoposte a indagine – a volte a totale revisione[14].

Accade in America – dove molte sentenze da parte dei singoli Stati sono giunte nel corso degli anni alla Corte Suprema indebolendo il solido precedente legale rappresentato dalla sentenza Roe vs Wade, che dal 1973 regola l’aborto sulla base del XIV emendamento (si veda per tutti il caso dell’Alabama che propone la pena di morte in caso di aborto); accade nei paesi dell’Est – dove le questioni relative alla sfera riproduttiva sono state usate recentemente in chiave nazionalistica soprattutto nelle repubbliche dell’ex blocco sovietico, in Polonia e in Ungheria; accade nei paesi della vecchia Europa dove il diritto di scegliere di non essere madri è evidentemente ancora molto fragile, se nell’aprile del 2008 il Consiglio d’Europa sente il dovere di ribadire e render ancora più esplicito l’orientamento del Parlamento europeo del 2002, invitando nuovamente i paesi membri (in questo caso 47) a depenalizzare l’aborto, garantendo alle donne accesso legale senza rischi all’intervento.

In Italia, una decisa e pericolosa messa in discussione del diritto di scelta per le donne avviene per mezzo di un’altra legge dello Stato, la n. 40 del 2004, che regola la fecondazione medicalmente assistita. Essa ha stabilito il riconoscimento della soggettività giuridica del concepito «titolare di diritti non più qualificabili in termini di aspettative di diritto ma di “diritti attuali” da contrapporre a quelli della madre»[15]. L’approvazione di tale legge si rivela uno spartiacque fondamentale nella costruzione identitaria delle donne, poiché è in quest’occasione che, per la prima volta, il corpo riproduttivo viene sancito per legge come non capace di scelte autonome, come contenitore biologico di un agglomerato di cellule – che convenzionalmente chiamiamo feto o embrione – il quale diventa oggetto unico di tutte le attenzioni del legislatore, in quanto degno dell’appellativo di persona e perciò depositario di diritti costituzionali. Rispetto al concetto di bilanciamento tra i diritti fondamentali della vita del nascituro e il diritto alla salute della madre – costruito in Italia con estrema fatica a partire dalla sentenza della Corte Costituzionale del 1975, strutturatosi poi attraverso la legge n. 405/1975 che istituisce i consultori familiari e concretizzatosi nella legge 194/1978 – la legge n. 40, mettendo in campo l’elemento embrione portatore di diritti, costituisce un vero e proprio strappo. L’approvazione della legge n. 40 rappresenta, tuttavia, un picco di attenzione contro il diritto di scelta delle donne, superato soltanto dalla chiamata all’astensione al referendum che nel 2005 l’avrebbe confermata, esteso a tutta la comunità cristiana dal Cardinale Ruini, allora presidente della Conferenza Episcopale. Nonostante la ferma negazione ribadita da Ruini rispetto alla volontà della Chiesa di spingere alla modifica della legge 194, appare evidente come il vero cuore pulsante di tutta la vicenda che ruota intorno al nuovo concetto di inizio vita sia proprio lei: il riconoscimento dello status giuridico dell’embrione diviene presupposto legale necessario per la messa in discussione di quella che nel tempo, è diventata, come scrive Luigi Ferrajoli, una sorta di habeas corpus per le donne[16]. Ciò di cui ora si discute non riguarda più solo l’aborto come problema sociale, quanto piuttosto i problemi etici che esso sottende: si cerca cioè uno statuto etico dell’interruzione volontaria di gravidanza[17], segno di come uno Stato laico sappia abbracciare pubblicamente le istanze della Chiesa cattolica, con il risultato di spostare il problema del corpo riproduttivo delle donne nell’agenda di scienziati, medici, giuristi, facendo fare alla politica un passo indietro.

Nel corso di una generazione nuove tecniche, nuove forme di espressione hanno completamente mutato il modo di concepire e di vivere la gravidanza: in poco tempo, sottolinea Barbara Duden, il bambino è diventato feto, la donna incinta un sistema uterino di approvvigionamento, il nascituro una vita e la vita un valore cattolico-laico, quindi onnicomprensivo. Se proclamare il valore sacrale della vita non è più bastante alla Chiesa per avere voce sul tema della scelta, l’attenzione si sposta allora tutta sul piano giuridico, fino ad arrivare a quella che Duden chiama la «biologizzazione del sistema politico e giuridico»[18].

Sostenendo che l’embrione è persona, che quel neutro agglomerato di cellule all’interno di un corpo uterino è persona, lo Stato mostra di voler affondare le sue radici nel vissuto dei soggetti, vorrebbe parlare, ma non ha le parole per dirlo. Fino a che punto, si chiede Duden, quanto dentro il corpo delle donne si vuole spingere lo Stato per proteggere la vita?

Lungo questo percorso iniziato con la Rivoluzione francese, in cui l’aborto passa da aggiustamento domestico al riconoscimento del feto come utile per lo Stato[19], nel momento in cui si capisce che potrà svolgere un ruolo nella collettività (e che passa per contro dall’impedire la nascita dei non desiderabili attraverso campagne di sterilizzazione, attraverso impedimento al matrimonio, attraverso vere e proprie legislazioni eugenetiche), si arriva quindi al paradosso – del tutto contemporaneo – per cui il feto non ancora nato avrebbe diritti di cittadinanza cui la donna dovrebbe in suo favore rinunciare e a cui quel diritto per due ipotizzato da Tamar Pitch non ha dato evidentemente convincente risposta.

 

  1. Fotografare il feto-bambino

Le immagini degli embrioni umani oggi sono dappertutto: le troviamo nei quotidiani, negli ospedali, nelle aule scolastiche, nei laboratori, negli album di famiglia, in internet. Le consideriamo oggi un dato scontato. Non solo rispetto all’Ottocento, ma rispetto anche solo a un decennio fa, oggi abbiamo a disposizione strumenti impensabili come gli ecografi ad esempio, per visualizzare e farci un’idea nostra, personale, di ciò che accade nel corpo di una donna fin dai primissimi stadi della gravidanza. Senza possedere per questo un particolare sapere scientifico, possediamo un’immagine piuttosto precisa della forma di un feto, un’immagine che vediamo con gli occhi e che poco ha a che fare con le convinzioni scientifiche, ideologiche, religiose, o morali di due secoli fa o anche di solo venti anni fa. Oggi tutti possono commentare una fotografia dell’utero di una donna che viene proiettata dall’ecografo direttamente su un computer e lanciata in rete – la nuova piazza pubblica dell’era contemporanea – e agli spettatori quel corpo appare – per forza di cose – nient’altro che come un luogo, una cavità entro cui si annida l’oggetto del vero interesse. E a questo feto pubblico finiamo facilmente per attribuire un volto, una personalità, un nome. Fin dal suo primo apparire finiamo per attribuirgli soprattutto diritti. Si può dire dunque che l’immagine dell’embrione-feto va a significare ormai – di nuovo, e forse sempre di più – molte e diverse cose: l’ecografia di un bambino in un album di famiglia, un nascituro in un cartello anti-abortista, un paziente per il monitoraggio e la chirurgia sperimentale, l’indesiderato sviluppo di qualcosa in un corpo di donna, materia prima per un esperimento scientifico? Oggetto o soggetto? Bambino, feto, aborto, embrione? In tutto questo la tecnologia ha giocato il suo ruolo ambivalente. Da un lato il progresso conoscitivo e diagnostico, dall’altro, quelle immagini direttamente dall’interno del corpo materno, sono diventate armi politiche molto potenti nella costruzione dei nostri immaginari. In quell’ammasso di linee e di masse pulsanti e di movimento noi riconosciamo un “bambino” a tutti gli effetti. Abbiamo imparato a vederlo. Tecnologie come oggetto conteso quindi, attraversato da tensioni e ambivalenze[20].

A fronte di rappresentazioni che ci chiedono quindi di riconoscere come persona ciò che prima era soltanto pensato e immaginato, la rinuncia al dare vita – se si presenta il caso – non potrà quindi che essere per ogni donna emotivamente sempre più difficile e lacerante.

 

  1. Se tutto avviene sulla scena pubblica

Ci si chiede allora: che cosa vuol dire davvero vedere il feto, riconoscere la gravidanza? E soprattutto: a chi serve? chi la deve riconoscere? Il medico? La società? La donna? Sono tutti sullo stesso piano questi riconoscimenti? Le tecnologie disponibili avvicinano sempre più l’aborto alla contraccezione e la procreazione a un atto che può anche non passare più attraverso il rapporto sessuale, che può avvenire cioè senza l’uomo e la donna presenti contemporaneamente, al di fuori dei luoghi e dei tempi che attribuiamo comunemente al dispiegarsi della vita (si veda ad esempio il caso dei grandi prematuri, ma anche – in altra forma – la Gestazione per altri). Non vi è dubbio quindi che le tecniche di riproduzione assistita, separate dalla sessualità e dai corpi, pongano diverse questioni all’attenzione delle donne: maternità separata dal corpo e separata dal sesso, progressiva de-soggettivazione, passaggio da corpo vivente a oggetto/corpo/materia. Come testimoniano le riflessioni nel campo della bioetica, materia che chiama in causa l’uomo e la sua responsabilità morale di fronte alle possibilità sempre più ampie di intervenire sull’ambiente naturale e sul suo stesso corpo; come dimostrano i dibattiti all’interno di quei comitati che propongono una riflessione multidisciplinare in cui trovano spazio – oltre ad argomenti etico-filosofici, scientifici e bio-medici – anche riflessioni di natura sociologica, politica e, non ultima, giuridica, ciò di cui si avverte il bisogno è di un nuovo racconto – “laico”, nel senso di aperto, non confinato alla sola morale religiosa – del concetto di “vita”. Se gli assoluti producono barriere, per abbatterle non resta che il confronto, un confronto che superi il dogmatismo e finisca per ridare la parola, la fiducia e la responsabilità alle donne, nel pieno rispetto di chi ragiona e giudica secondo scale di valori diverse, diverse da quella che considera l’aborto non un contraccettivo a cui ricorrere al bisogno, ma una prova di responsabilità. Nel passaggio dal corpo giuridico del cittadino al corpo di carne e ossa assegnato a un sesso o a un altro, il nodo resta comunque il transito inevitabile per il corpo materno, per la gravidanza e la nascita. Siamo individui, singoli corpi nati di donna, come osserva in diversi suoi testi Judith Butler, e allo stesso tempo siamo per forza in relazione, interlacciati, esseri collettivi, intrinsecamente relazionali, quindi siamo padroni del nostro corpo ma anche il nostro corpo, per esistere, è dipendente da corpo altrui. Il problema quindi che si pone è: corpo individuale versus corpo che contiene corpo, che è responsabile di altro corpo. Una situazione complessa in cui la parola uguaglianza non può essere detta senza ricorrere a un aggettivo in più per le donne, che sono “corpo per sé” e anche “corpo per altri” quando sono incinte. E l’aggettivo in più è differente – uguaglianza differente – così come il diritto che le riguarda dovrà essere diritto per due, se si segue il ragionamento di Tamar Pitch[21]: c’è il diritto per tutti i singoli corpi – maschili e femminili – di esistere, ma esso deve convivere con il diritto delle donne di scegliere in ogni momento della vita[22]. È questa specificità ciò che la sentenza della Corte Costituzionale del 1975 che mette fuori legge gli articoli del Codice Penale del 1930 che regolano il reato di aborto, tenta di sottolineare: essa rappresenta forse il primo caso nella storia della giurisprudenza italiana in cui un discorso giuridico rende esplicita la possibilità di tenere conto delle donne in quanto donne non nel senso diminutivo del termine, ma sussumendo pienamente la nozione di corpo sessuato che conta. La sentenza in realtà ebbe allora il grosso merito – in termini di linguaggio diverso – di togliere un grosso intoppo al discorso sull’aborto e restituire alla politica la parola, rilanciarla nello spazio pubblico, mostrando come fosse il rapporto di forze nella società a essere, per una volta, nella posizione di poter decidere.

 

  1. Chi è la madre? La sfida continua

In questo quadro, in cui nuove leggi contrastano fino a contraddire le vecchie, aprendo scenari imprevisti e imprevedibili, in cui inedite alleanze tra gerarchie cattoliche e garanti della costituzione costituiscono per le donne nuovi terreni minati, in cui di fatto risulta indecidibile se il feto sia o meno persona, il dibattito sembra necessariamente ricercare una soluzione a livello del singolo, lavorando sul concetto di cosa ha valore per me, non in senso relativistico, ma nel senso di stabilire quella che Grazia Zuffa definisce una diversa prospettiva etica su cui basare la propria personale scala di valori[23]. La scissione tra donna e embrione ha avuto come conseguenza la costruzione della cellula fecondata come vittima e, in questa logica antagonista, che vede di fronte le donne e gli embrioni, le prime sono potenti, i secondi alla loro mercé, dunque vittime potenziali delle prime. Uno stereotipo quello della “donna forte”, che non si può oggi applicare senza pensare che non si riattivi – mutato – uno dei fantasmi più antichi e radicati della nostra società, cioè quello che Boccia definisce della madre mortifera, potente, autosufficiente[24].

Non vi è dubbio che oggi più che mai l’aborto si sia trasformato in un atto di accusa nei confronti delle donne, sottolinea Tamar Pitch, che vengono rappresentate, nell’odierno immaginario collettivo, come potenziali carnefici della persona che portano in grembo, signore incontrastate delle vita e della morte, emblema di quella atavica paura maschile di essere al mondo per la volontà casuale di (e non grazie a) una scelta femminile, resa più inquietante dal fatto che oggi le donne sono divenute autonome e come tali vengono vissute. Come sostiene Pateman, all’origine di tutto resta il contratto sessuale che lega le donne agli uomini in posizione di inferiorità, per cui anche le tecnologie, sviluppatesi all’interno di questo contesto, non aiutano le donne a liberarsi di quel contratto originario. Il feto diventa “neutro” rispetto al sesso e alla fine l’unico proprietario assoluto di sé resta l’uomo. Si tratta di una deciso impoverimento della scena pubblica e a farne le spese sono le donne: la scissione tra procreazione e sessualità, rendendo più opachi i rapporti rende anche meno leggibili i conflitti che tendono così a scomparire, a rientrare nell’ombra.

E anche quando resta chiaro che sono le donne a partorire, le tecnologie riproduttive con il loro apparentemente inesorabile progresso, pongono ancora nuove, continue e problematiche sfide rispetto ai ruoli tra le parti coinvolte sulla scena del parto. È il caso – recentissimo, di questo volgere di anni – del dibattito sulla gestazione per altri (Gpa), diventata il nuovo terreno del conflitto, specialmente all’interno dei gruppi femministi. Chi è la madre?, sembra la domanda più impellente. Un fruttifero e necessario spazio di dibattito su questo tema è stato offerto da alcune riviste femministe, tra cui Leggendaria che, nel n. 111 del 2016, curato da Anna Maria Crispino e Giorgia Serughetti[25], affronta il tema della moltiplicazione della madre, a partire da una sorta di mappatura di tutte le posizioni: si tratta di un prevedibile e positivo sviluppo delle tecnologie riproduttive che liberano di fatto le donne dal ruolo materno, o si tratta di tecnologie che al contrario si fanno strumento del controllo patriarcale? si tratta di traffico di corpi di donne, rottura delle genealogie femminili, esproprio delle capacità generative delle donne, oppure si tratta di una nuova forma di quella libertà che permetteva nel 1978 di scegliere la maternità e della difficoltà di riconoscerla e accettarla? Ancora una volta molte e contrapposte sfaccettature, che non hanno ancora trovato una loro composizione e che interrogano nel profondo le soggettività coinvolte, mettendo in luce la complessità del cambiamento continuo che è in noi e fuori di noi e che chiama a sé sempre nuovi linguaggi, richiede ancora nuove parole con cui nominare le cose e riconoscere gli esiti imprevisti dei tempi interessanti in cui viviamo.

[1] N. M. Filippini, Rappresentazioni politiche e controllo del corpo materno tra età moderna e contemporanea, in «La ricerca folklorica», 46, 2002, p. 20.

[2] M. D’Amelia, Storia della maternità, Laterza, Bari 1997.

[3] P. Aries, la vita privata dal Rinascimento all’Illuminismo, Laterza, Bari 1968.

[4] C. Pancino, La rappresentazione dell’embrione e del feto umani. Una mostra online a cura di T. Buklijas e N.Hopwood, in «Storicamente», 5, 2009, http://www.storicamente.org/02_tecnostoria/immagine-e-sviluppo-embrione-feto-umani.html.

[5] B. Duden, I geni in testa e il feto nel grembo: sguardo storico sul corpo delle donne (2006), Bollati Boringhieri, Torino 2008.

[6] Id., Il corpo della donna come luogo pubblico: sull’abuso del concetto di vita (1991), Bollati Boringhieri, Torino 1994.

[7] E. Cirant, Obiettori di coscienza e demonizzazione, così ne fanno carta straccia, in «Liberazione», 21 maggio 2008.

[8] C. Pateman, Il contratto sessuale (1988), Editori Riuniti, Roma 1997.

[9] A. Del Re, Riproduzione sociale e riproduzione biologica nell’Italia di fine millennio, dattiloscritto, 1996, p. 36.

[10] Id., Famiglia, in Manuale di Pari Opportunità, Padova, Cleup, 2008, p. 119-124; F. Bimbi, Madri sole e un po’ padri. Declinazioni inattese nei rapporti tra genere e generazione, in F. Bimbi, R. Trifiletti (a cura di), Madri Sole e nuove famiglie, Edizioni Lavoro, Roma 2006, pp. 9-36.

[11] R. Brandimarte (a cura di), Lessico di biopolitica, Manifestolibri, Roma 2006.

[12] A. Del Re, Riproduzione sociale e riproduzione biologica nell’Italia di fine millennio, cit., p. 37.   

[13] Commissione per i diritti della donna e le pari opportunità, Progetto di relazione sulla salute e i diritti sessuali e riproduttivi(2001/2128(INI)), Relatrice: Anne E. M. Van Lancker, 2 aprile 2002.

[14] G. Halimi, Choisir la cause des femmes. La clause de l’européenne la plus favorisée, Edition Des Femmes, Paris 2008, p. 265.

[15] G. Baldini, Diritti della madre e interessi dell’embrione, in P. Guarnieri (a cura di), In scienza e coscienza. Maternità nascite e aborti tra esperienze e bioetica, Carocci, Roma 2010, pp. 87-88.

[16] L. Ferrajoli, Il problema morale e il ruolo della legge, in «Critica marxista», 3, 1995, pp. 41-47.

[17] C. D’Elia, L’aborto e la responsabilità. Le donne, la legge, il contrattacco maschile, Ediesse Edizioni, Roma 2008.

[18] B. Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico, cit.

[19] T. Pitch, Un diritto per due, Il Saggiatore, Milano 1998.

[20] M. Cossutta et alii, Smagliature digitali. Corpi generi tecnologie, Agenzia X, Milano 2018.

[21] T. Pitch, op. cit.

[22] V. Franco, Care ragazze. Un promemoria, Donzelli, Roma 2010, p. 63.

[23] G. Zuffa, L’autodeterminazione è un principio etico, in «Reti», 5, 1989, pp. 1-3.

[24] M.L. Boccia, Le parole e i corpi. Scritti femministi, Ediesse Edizioni, Roma 2018.

[25] A. M. Crispino, G. Serughetti, Mamma non mamma?, Supplemento a «Leggendaria», 111, 2016.

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