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ANTIMECCANICISMO E NEOVITALISMO (CONVEGNO INTERNAZIONALE MODENA, 9-10 OTTOBRE 2019)

Autore


Francesca De Simone

Scuola Internazionale di Alti Studi "Scienze della Cultura", Fondazione San Carlo, Modena

dottoranda in Filosofia presso la Scuola Internazionale di Alti Studi "Scienze della Cultura", Fondazione San Carlo, Modena

Indice


  1. Introduzione
  2. Filosofia e Scienza dinanzi al concetto di “vita”
  3. Un percorso “storico” tra filosofia e scienza
  4. Idee e prospettive

 

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S&F_n. 23_20209

Abstract


Antimechanism and Neovitalism. A report on the international conference Antimechanism and Neovitalism, Modena, October 9-10, 2019

This paper presents the conference Antimechanism and Neovitalism that took place in Modena on the 9th and 10th of October 2019, organized by the University of Modena and Reggio Emilia. The conference aims to provide a wide perspective on the fundamental theme of the definition of living subject, its functions and its limits. This topic is crucial not only for sciences, such as biology and physiology, but also for humanities, in particular philosophy. Thanks to different contributors – that covers the evolution of the theme between XIX and XX century – the discussion achieves two important results: the idea that some definitions, such as those of Mechanism and Vitalism, are too strict and limit the full understanding of the living; the idea that a common language must be found to encourage communication between different fields of thought.

 

 

 

  1. Introduzione

Nelle giornate del 9 e 10 Ottobre 2019 si è tenuto a Modena il convegno dal titolo Antimeccanicismo e Neovitalismo, secondo momento di riflessione teso ad approfondire i temi già discussi durante il convegno svoltosi a Modena il 14 e 15 Dicembre 2017, dal titolo Meccanicismo. Riflessioni interdisciplinari su un paradigma teorico. Il convegno ha visto discutere studiosi di diversa provenienza disciplinare – storici della filosofia, filosofi morali e biologi – con lo scopo di portare alla luce un terreno comune di confronto e dibattito intorno alla definizione del vivente.

Il prof. Zoli, Direttore del Dipartimento di Scienze biomediche, Metaboliche e Neuroscienze, che ha aperto i lavori, ha sottolineato la necessità di evitare la netta distinzione tra ricercatori in campo scientifico e ricercatori in campo umanistico per due ragioni, una di tipo metodologico, ossia il riconoscimento dell’apporto che le scienze umane possono dare in termini di senso critico nell’indagine e rispetto dell’oggetto di studio; un’altra, più sostanziale, che sta negli argomenti trattati nel convegno, argomenti che sono al centro della ricerca scientifica contemporanea. La comprensione del “funzionamento” degli esseri viventi e la differenza tra l’animato e l’inanimato sono elementi che, non soltanto emergono ogniqualvolta si voglia procedere nella ricerca scientifica, a prescindere dagli ambiti disciplinari, ma che risultano necessari a una definizione dell’essere umano.

 

  1. Filosofia e Scienza dinanzi al concetto di “vita”

La prima sessione del convegno, presieduta dal prof. La Vergata, dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, ha visto confrontarsi il punto di vista filosofico con quello scientifico. Il primo intervento, del prof. Ronchi, dell’Università degli Studi dell’Aquila, porta il titolo Il mondo del reale. L’errore del determinismo e l’illusione dei suoi avversari, che riprende una citazione dal terzo capitolo del Saggio sugli atti immediati della coscienza di H. Bergson. Il capitolo in questione è dedicato alla fondazione del problema della libertà e all’analisi dell’atto libero: Bergson sostiene che noi abbiamo un sentimento immediato della libertà ma che ciò avviene su un piano irriflesso, per cui sentiamo la libertà ma non la concepiamo, e nella riflessione la perdiamo. Siamo liberi quando i nostri atti emanano dalla nostra piena personalità, la esprimono, ma la similitudine scelta da Bergson per esprimere la natura dell’atto libero è particolare: l’atto libero è come un frutto troppo maturo che cade dall’albero. Ciò sembra riportarci nello spazio della necessità perché mette in campo una definizione di libertà che rimanda a ciò che non può non essere com’è, un frutto che essendo troppo maturo non può non cadere. Per chiarire, allora, il senso del rapporto tra libertà e necessità Bergson nomina gli errori del determinismo e le illusioni dei suoi avversari. Questi errori rimandano a un piano strettamente modale: l’errore del determinismo è quello di pensare il senso dell’esperienza come dato nel modo della necessità (geometrico-analitica), l’illusione degli antimeccanicisti è, invece, quella di poter sfuggire a quell’errore fondando l’esperienza sul modo del possibile, della contingenza. In tal senso il mondo del reale risulta come “il poter essere altrimenti” e si ripropone il problema del perché le cose siano in un certo modo quando potrebbero essere altrimenti. L’illusione della contingenza, allora, genera l’errore della necessità. Bisogna uscire, secondo Bergson, dall’equivoco del possibile: il mondo del reale è libertà purificata, emendata, dal possibile e quindi immune alla necessità geometrica del meccanicismo; la libertà deve essere ricercata in una certa sfumatura dell’azione stessa e non nel rapporto dell’atto con ciò che non è o con ciò che avrebbe potuto essere. La libertà, dal punto di vista ontologico, consiste in un progresso dinamico in cui l’io e gli stessi motivi per cui agisce sono in un continuo divenire, come veri e propri esseri viventi. Un progresso dinamico in cui non c’è cosa che cambia, la cosa è l’atto stesso del cambiare e le caratteristiche dell’atto libero sono quelle della vita che vive. Sia contingentisti che meccanicisti, invece, pensano un atto già compiuto ed entrambi perdono il senso del processo dinamico. La definizione che Bergson dà del vivente, che non è realizzazione di un programma, un passaggio tra fasi già date, ma ciò che si costituisce nell’atto stesso del vivere, ha, invece, particolarmente a che fare con l’idea del carattere intrinsecamente storico del vivente di cui oggi si interessano i biologi.

Ed è proprio di un biologo, il prof. Minelli, dell’Università degli Studi di Padova, il secondo intervento Dal Neovitalismo di Driesch all’organicismo di Spemann e di Gilbert e Sarkar. I quattro autori citati collocano i loro studi tra la biologia, in particolare la biologia dello sviluppo, e la filosofia. L’autore su cui si è concentrata la relazione di Minelli è H. Driesch, filosofo e biologo tedesco che opera tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento e che, approfondendo gli studi di embriologia di W. Roux, approda al Neovitalismo. Driesch si occupa degli embrioni di riccio di mare e registra la loro capacità di dare vita all’animale intero; perciò ipotizza l’esistenza di una proprietà delle cellule, che chiama con termine aristotelico entelechia, che rimane intera nonostante la divisione dei corpi a essa associati. All’inizio del Novecento, tuttavia, comincia a farsi strada una terza via rispetto all’opposizione di meccanicismo e vitalismo, quella dell’organicismo. Tra gli autori centrali di questa nuova prospettiva troviamo H. Spemann che continua il lavoro di ricerca sugli embrioni e scopre l’esistenza in ciascuno di essi di un centro organizzatore. Nei suoi Contributi sperimentali ad una teoria dello sviluppo, Spemann usa spesso espressioni che rimandano più a processi di tipo psicologico che di tipo chimico e fisico; ma questo implica un posizionarsi tra due mondi, quello della biologia e quello della filosofia, che non può che dare un vantaggio agli studiosi della biologia dell’organismo. Anche gli scienziati contemporanei che si occupano di biologia evolutiva dello sviluppo riprendono il concetto di organismo intero, come protagonista dello sviluppo: gli ultimi due autori di cui ha trattato la relazione, S. F. Gilbert e S. Sarkar, danno al loro scritto il titolo Embracing Complexity: Organicism for the 21st century. A loro avviso l’organicismo non deve essere confuso con il vitalismo di Driesch, poiché non si occupa del funzionamento degli organi ma dello sviluppo, utilizzando spiegazioni bottom-up e top-down, proprietà emergenti, leggi specifiche per i diversi livelli di complessità dei fenomeni, e riconoscendo l’imprescindibilità del contesto nell’espressione dei geni.

 

  1. Un percorso “storico” tra filosofia e scienza

La sessione pomeridiana, presieduta dal prof. Amodio dell’Università degli studi di Napoli Federico II, si è aperta con la relazione della dott.ssa Rusu dell’University of Groningen, Monads and Divisibility in Anne Conway’s Vital Monism. Rusu ha introdotto la figura di una importante filosofa inglese, Anne Conway, purtroppo non molto conosciuta oggi, ma che si è trovata, nella metà del Seicento, a dialogare e a influenzare autori determinanti per la storia dei rapporti tra filosofia e scienza, primo fra tutti Leibniz. La formazione di Conway è assai complessa e le sue influenze vanno dal neo-platonismo alla Kabala fino al naturalismo italiano. Nella sua opera fondamentale The principles of most ancient and modern philosophy (1692), Conway rifiuta di accogliere la divisione tradizionale tra mente e corpo e tratta il corpo come la mente. Ma è importante chiarire cosa la filosofa intenda per mente: partendo dal presupposto che tutto è immateriale, inesteso, impenetrabile e divisibile e la natura è distinta in materia e spirito, Conway attribuisce alla mente le caratteristiche tradizionalmente attribuite ai corpi; la mente è materiale, estesa, impenetrabile e divisibile. Così l’autrice rifiuta ogni dualismo di matrice cartesiana: c’è una sola sostanza, la materia è uno spirito più pesante e imperfetto, mentre lo spirito è una materia più rarefatta e perfezionata. Materia e spirito si possono trasformare l’uno nell’altro – ciò capita molto spesso – e anche se l’intera creazione è materia, questa ha in sé la tendenza a diventare spirito. L’intera creazione, allora, sarà spirito che ha la possibilità di migliorare per l’eternità, anche se non arriverà mai a essere come Dio. Una concezione vitalista della natura che sostiene l’idea che tra spirito e corpo esista solo una differenza di grado e non di tipo.

La seconda relazione, Expanded Mechanism and heuristic vitalism: further reflections on the animal economy del dott. Wolfe dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha indagato la dialettica e le interconnessioni che esistono nella polarità classica meccanicismo-vitalismo. È interessante notare la presenza di “impurità” nell’uno e nell’altro concetto e, quindi, rilevare un processo di ibridazione che ha da sempre caratterizzato la relazione tra i due “-ismi”. Nella visione classica, il meccanicismo coincideva con una oggettivazione, l’eliminazione del mondo del significato e del valore, che viene fatta risalire a Descartes. Tuttavia, anche gli autori definiti classicamente meccanicisti, come Descartes appunto, possono essere letti in una chiave diversa: non meccanicistico-riduzionista ma sistemica. In tal senso è possibile seguire due strade che spieghino come il meccanicismo classico si è trasformato in una nuova versione: la prima possibilità è che si sia sempre più ibridato; la seconda, notando come spesso il suo linguaggio faccia uso di termini funzionalisti, che rimandano ad affezioni e appetiti, sarebbe accettare che il meccanicismo non sia mai stato, nemmeno nella versione classica, “puro”. I diversi progetti di costruzione di automata o macchine, come la famosa oca di Vaucanson, risultano ossessionati dalla sfida della vita; non cercano di eliminarla ma di “modellarla”, di afferrarne il mistero. Allo stesso modo, una certa parte di vitalisti, in particolare quelli che appartengono alla scuola medica di Montpellier, sono più vicini al meccanicismo di quanto si possa pensare: per il loro “focus sistemico” e per l’utilizzo di un linguaggio di “struttura”. La proposta di Wolfe è quella di ammettere la presenza di un meccanicismo esteso (expanded mechanism) che diventa qualcosa di più della visione classica del meccanicismo: secondo tale proposta anche il concetto di organismo, inteso correttamente, rientrerebbe in un’idea meccanicistica e il concetto vitalistico di animal economy potrebbe essere inteso come una versione super-perfezionata di meccanicismo.

Un esempio di quanto spesso possano essere fuorvianti le nette distinzioni tra meccanicisti e vitalisti è venuto alla luce anche nella relazione del dott. Salottolo dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, Vitalismo come esigenza: alcune note su Claude Bernard. Il posizionamento della professione e della pratica medica di Bernard all’interno delle classiche categorie di vitalismo e meccanicismo è sempre stato dibattuto. L’interpretazione più importante è quella che definisce la sua come una posizione di “indecisione epistemologica”. Per Bernard la materia vivente è sempre una materia naturale e pur non rispettando soltanto le leggi della meccanica, resta comunque, nelle sue funzioni, deterministica. Secondo Bernard i fenomeni vitali sono in sé stessi dei fenomeni fisico-chimici, ma quando bisogna spiegarne la connessione non bastano le leggi fisiche, è invece necessario trovarne il quid proprium. Questo si configura, però, come un compito metafisico e quindi il suo vitalismo si arresta dinanzi alla mancanza di sperimentabilità: l’armonia prestabilita non può essere né spiegata né modificata dal punto di vista sperimentale. Tuttavia, Bernard può essere letto come sintomo di un’epoca ed è così che la difficoltà di un suo posizionamento trova un riverbero nello spirito del tempo. Il problema centrale dell’epoca di Bernard, anche nella scelta tra meccanicismo e vitalismo, aveva a che fare con la messa in discussione dell’antropocentrismo che queste teorie implicavano. La modernità nasce infatti mediante la costruzione di sistemi di pensiero binari – natura-cultura, soggetto-oggetto, immanenza-trascendenza – ma produce costantemente ibridi tra queste determinazioni. Quindi dietro la cosiddetta “indecisione epistemologica” di Bernard, si nasconde probabilmente qualcosa di più profondo che mette in discussione l’impianto stesso della scienza moderna. La lezione che se ne trae è che non si può mai essere compiutamente vitalisti né definitivamente meccanicisti quando si parla dei fenomeni della vita. Con la crisi delle idee metafisiche, nella modernità matura, meccanicismo e vitalismo andranno a intrecciarsi sempre di più.

L’ultima relazione della giornata, dal titolo Antropologia filosofica e neovitalismo, della prof.ssa Rasini, dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, si concentra sulla figura di H. Plessner e sulla sua posizione nel dibattito meccanicismo-vitalismo, un dibattito importante per la gestazione del suo pensiero. Plessner prima di giungere a una filosofia dell’uomo, tenta di definire una filosofia della natura, cioè di individuare le categorie del vivente. Egli afferma di poter proporre una terza via, rispetto alle alternative meccanicismo-vitalismo, che cerca di definire a partire da ciò che ritiene essere un fraintendimento dovuto a una commistione tra settori. Plessner riconosce a Driesch di aver sottolineato i limiti del meccanicismo e cioè la sua insufficienza metodologica, il suo riduzionismo; un determinismo rigido che non può dare conto della spontaneità propria del vivente e l’uso della quantificazione, che non riesce a spiegare il piano dell’essere in cui constatiamo che il vivente è unico. Ma Plessner riconosce anche un problema di inadeguatezza dell’impostazione teorica: il meccanicismo favorisce la separazione dei saperi e l’autonomizzazione delle aree della ricerca scientifica. Questa produce una falsificazione del sapere: si giunge a un’alterazione della realtà del vivente che risulta separato dal suo contesto di vita complessivo e viene studiato come un oggetto. È necessario allora raggiungere un unico e ulteriore punto di vista esperienziale, superando il dualismo cartesiano, il suo riduzionismo e la frammentazione che ha prodotto. Il vitalismo ci aiuta a comprendere che il vivente non è un oggetto ma è sempre un soggetto e che esiste una continuità tra i viventi per cui, per studiare l’uomo, è necessario partire da un principio vitale unico. Plessner cercherà di risolvere il problema del principio del vivente sempre e solo da un punto di vista filosofico, evitando la commistione che Driesch aveva prodotto tra filosofia e scienza e che lo aveva portato a un errore: aver sovrapposto ricerca sperimentale e conclusione filosofica, introducendo il principio dell’entelechia.

 

  1. Idee e prospettive

L’ultima sessione del convegno, presieduta dal prof. Altini dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, si è aperta con la relazione del prof. Guidetti dell’Università degli Studi di Bologna, Meccanicismo e realtà fenomenica nel mondo degli esseri viventi. Ernst Mach e Jakob von Uexküll. I due autori hanno vivacizzato il dibattito intorno ai temi del meccanicismo, della definizione della vita e della realtà fenomenica tra Ottocento e Novecento. All’interno del suo testo più famoso, Le analisi delle sensazioni e il rapporto fra fisico e psichico, Mach tratta delle caratteristiche dei modi di intendere il campo del fisico e quello dello psichico. Ogni esperienza comincia con le sensazioni ma queste non sono dati isolati, il loro significato dipende da come sono connesse e da quale importanza o rilevanza diamo loro nei vari campi. Tutta l’esperienza si crea e si modula attraverso le connessioni funzionali delle sensazioni che Mach chiama “chenogrammi”. È solo l’unione dei due gruppi complessi di elementi, fisico e psichico, che costituisce l’io. Il fisico è ciò che è immediatamente presente a tutti nello spazio; lo psichico ciò che è dato immediatamente a uno solo. Nel mondo fisico rientrano il nostro corpo ma anche il corpo degli altri uomini e degli altri esseri viventi in generale. Per analogia con noi stessi, dobbiamo pensare che questi corpi che vediamo nel mondo fisico abbiano anche degli stati psichici simili ai nostri; solo in questo modo, infatti, possiamo attribuire loro dei significati. Tuttavia, chi assegna un valore eccessivo alla dipendenza dei nostri dati dal nostro corpo, sottovalutando altri tipi di dipendenza, cade nell’errore del soggettivismo. Mach muove una critica molto forte anche alle posizioni del meccanicismo: i principi newtoniani della meccanica non possono valere per spiegare il mondo vivente. È stata poi presentata la posizione di von Uexküll, che propone per la prima volta una nozione strutturata di ambiente inteso come possibilità totale di percezione e azione. Von Uexküll parte da un punto di vista kantiano, ma lo corregge attraverso le forme della sensazione. Gli esseri viventi non sono oggetti, ma soggetti con un loro mondo individuale. Compito della biologia è ricostruire questi mondi. Nessun essere vivente è migliore o peggiore degli altri, cioè adatto o non adatto a una funzione, poiché non c’è altra funzione che una forma vivente possa svolgere se non quella determinata dalla sua relazione con il mondo. L’adattamento è quindi Einpassung, un perfetto aggiustamento: ogni animale è completamente integrato nel suo ambiente. Per queste posizioni von Uexküll è stato spesso accusato di essere un antievoluzionista.

La seconda e ultima relazione è stata quella del prof. Orsucci dell’Università degli Studi di Cagliari, dal titolo Un nuovo “vitalismo” nell’epoca delle catastrofi ambientali, ed è stata dedicata alle relazioni tra la filosofia e le acquisizioni dell’evoluzionismo di C. Darwin. La volontà di recuperare, nell’opera di Darwin, alcuni aspetti che sono stati sistematicamente ignorati dalla filosofia della fine dell’Ottocento e del primo Novecento, nasce dalla necessità di una nuova teoria della complessità. In Nietzsche si trova traccia dei motivi propri del dibattito dell’epoca sul darwinismo: in particolare, nelle pagine della seconda considerazione inattuale, Sull’utilità e il danno della storia per la vita e in Umano, troppo umano si riconoscono alcune dottrine di E. Haeckel, tra i primi a diffondere il pensiero di Darwin in Germania. Haeckel aveva formulato una dottrina della continuità tra inorganico e organico che viene, però, messa radicalmente in discussione, tra gli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento, dai risultati della citologia, dalla divisione cellulare, dalla riproduzione; allo stesso modo mutano, quindi, le posizioni espresse nei testi di Nietzsche, che rimane molto informato sul dibattito biologico. Anche la teoria di K. Nägeli, che opera nell’ambito della biologia cellulare, influenzerà Nietzsche. Nägeli – un botanico considerato tra i maggiori avversari di Darwin – contesta l’idea che l’evoluzione sia un continuo adattamento, una somma di variazioni dovute a fattori esterni e casuali; piuttosto intende la costituzione degli organismi come una conseguenza necessaria di forze interne alla sostanza stessa, di un potente e inarrestabile impulso formativo (Bildungstrieb). Questa idea sarà ripresa da Nietzsche nella formulazione della sua teoria della volontà di potenza. Attraverso Nägeli, Nietzsche si impossessa di riflessioni che, in certa misura, anticipano il neo-vitalismo dei biologi degli anni Novanta dell’Ottocento, come quello di Driesch. Non solo Nietzsche ma anche G. Simmel, M. Scheler e M. Heidegger continuano a confrontarsi con le assunzioni della biologia, soprattutto di Driesch e di von Uexküll, e si muovono criticamente contro l’idea di adattamento. Fra gli anni Settanta dell’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento, le critiche a Darwin – letto spesso attraverso le mediazioni di Spencer e Haeckel – propongono riferimenti diversi ma ruotano attorno agli stessi temi: l’adattamento e la logica di Darwin come logica utilitarista. I nuovi intrecci contemporanei fra storia, civiltà e natura ci chiedono di mettere in discussione il modo tradizionale di guardare a Darwin. Con autori come J. Diamond e J. R. McNeill, la storia della civiltà diventa estremamente complicata e le linee di separazione tra storia della civiltà e dinamiche del pianeta Terra perdono di significato. In questo quadro i processi storici sono diventati estremamente complessi e più difficili da comprendere rispetto ai fenomeni deterministici e le variabili più diverse vanno collegate in una prospettiva unitaria. Un possibile punto di partenza per fare ciò sarebbe proprio una rilettura de L’Origine delle specie, che liberi Darwin dagli schemi che vi hanno sovrapposto, col tempo, i filosofi.

Lo sguardo storico che ha caratterizzato parte delle relazioni del convegno ha sottolineato come i concetti di antimeccanicismo e neovitalismo abbiano avuto, nel corso dell’Ottocento e del Novecento, definizioni per nulla univoche, e che, quindi, ci si possa servire di questi due elementi solo se li si concepisce come facenti parte di uno spettro di significati molto più articolato e ampio. Molti sono stati i contributi che – con lo sguardo rivolto al dibattito che aveva coinvolto medici, fisiologi, biologi, filosofi di area tedesca e francese intorno alla metà dell’Ottocento – hanno proposto nuove letture della contemporaneità. L’autonomia della biologia o delle scienze in generale non deve essere confusa con autosufficienza: ciò che risulta sempre più evidente è, infatti, che la definizione in termini troppo rigidi di cosa sia vita, di come funzioni e di quali siano i limiti del vivente possa ostacolare la collaborazione tra settori. È necessario oggi cercare una maggiore complessità e nuovi punti di osservazione consapevoli che linguaggi diversi dovranno fare uno sforzo in più per parlarsi.

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