Autore
Alisa Del Re
Università degli Studi di Padova
Studiosa Senior dell’Ateneo patavino, dove ha insegnato presso la Facoltà di Scienze Politiche dagli anni ’70 del secolo scorso al 2013, con qualche intervallo di insegnamento in varie Università e all’IEP di Parigi. Ha diretto dal 2008 al 2013 il Centro interdipartimentale sugli studi di genere dell’Università di Padova
Indice
- La sparizione dei corpi
2. Il lavoro riproduttivo (di che lavoro si tratta)
3. Trasformazioni del lavoro riproduttivo (dal lavatoio alla lavatrice)
4. Informatizzazione e controllo (la casa sicura)
5. Corpi e tecnologia nella riproduzione sociale (un’altra società)
6. Le macchine nella cura (può farlo un robot)
7. Tra macchinizzazione e informatizzazione (appropriarsi della tecnologia)
S&F_n. 23_2020
Abstract
Reproduction work and machines: some considerations in times of Pandemia
The reflections on the relationship that links human bodies, technologies and cyber-spaces often focus on the processes of “disembodiment”, while the reproductive work cannot be separated from the materiality of the needs of the care-dependent individuals. The changes in this type of work particularly affect its commodification, transforming social relations and traditional gender relations. The changes in the reproductive work related to technology seem positive and linked to modernization and progress. But although they do diminish the physical fatigue, they are strongly dependent on the market and as a result, they produce loneliness and dispossession of skills. The staging of the reproductive work has also ambiguous aspects: on one hand it may seems like a saving path, due to its capacity to solve some problems related to the overcoming the fatigue and it can also reorganize and simplify the daily life, which is very important. But, on the other hand, in its more crude applications, the reproductive work can become a devious instrument of control and of isolation. It is certainly not a matter of technological pervasiveness, rathera case of scarce attention and scarce scheduling. In this scenario, it is legitimate to wonder if there might be a limit to the “machinisation” of the reproductive work. what can be related to the “work of affection”, to the empathy, to the care of the dependent or sick bodies is certainly alien to it. It is interesting to deal with this topic by quoting some cases of dystopian or utopian literature that has dealt with the “mechanization” of the daily life, investigating the consequences of the introduction of the machines and the computerization in the life of all of us with regard to the social reproduction and the changes in relationships.
A quel tempo né io né nessun altro avevamo mai pensato che fosse possibile incontrarsi di persona
J.G. Ballard[1]
- La sparizione dei corpi
Il lavoro riproduttivo ha come oggetto il corpo, il corpo degli esseri umani, la sopravvivenza fisica e psichica degli individui, il loro benessere, le loro fragilità; riguarda non solo la riproduzione materiale della specie, ma i sentimenti, l’empatia, la dedizione, la comprensione dei bisogni, la relazione tra gli individui. Non è qualcosa che si sviluppa solo nel privato, nascosto alla società degli umani, ma da sempre, anche nella società neoliberista è comandato da leggi, da contratti di lavoro, da imperativi morali e di costume. È un lavoro complesso e articolato, spesso gratuito, ma oggi sempre più mercantilizzato.
Quando ho pensato a come iniziare questo articolo non c’era ancora la pandemia di Covid19, non c’era l’isolamento e lo smartworking. Come in un racconto distopico di fantascienza ho visto realizzarsi nelle case una trasformazione del lavoro riproduttivo associato al lavoro salariato per il mercato in cui i corpi diventavano immagini, voci nell’etere, e il lavoro riproduttivo, pur non perdendo la sua principale caratteristica materiale (cibo, pulizie, divisione degli spazi per i corpi in presenza) perdeva da un lato molto della sua connotazione relazionale e riduceva il carattere affettivo o alla presenza coatta e senza tempo oppure alle comunicazioni verbali o per immagini nella separazione dei corpi in tempi definiti. E mi sono ricordata di un racconto di J.G. Ballard, in cui il protagonista racconta di una vita senza corpi, solo con corpi-immagine:
In realtà, esistevano ancora ordinanze tanto antiche quanto raramente invocate che lo impedivano – incontrare un altro essere umano era un’offesa inaccettabile… […] Da bambino ero stato cresciuto nel reparto maternità dell’ospedale, e mi erano stati così risparmiati tutti i rischi psicologici legati a una vita familiare fondata sull’intimità fisica (per non dire dei rischi, non solo estetici, di una igiene domestica condivisa)[2].
In questo racconto anche i figli vengono concepiti con l’inseminazione artificiale e ci si sposa virtualmente davanti al televisore. Ebbene: oggi a New York ci si sposa su Zoom, le nozze vengono officiate a distanza, ognuno a casa propria, dopo aver compilato online la burocrazia nuziale, e hanno valore legale[3]. A Singapore e in Nigeria, sempre via Zoom, si condanna a morte un imputato[4]. La digitalizzazione nei tempi della pandemia ha fatto sì che la distopia della negazione – imposta – delle relazioni tra i corpi diventasse realtà.
Viviamo quindi il paradosso della tendenziale sparizione dei corpi nelle attività produttive e relazionali (soprattutto nelle attività “cognitive”) mentre permane sottovalutata la presenza dei corpi reali nel lavoro riproduttivo (che comprende non solo l’assistenza agli individui fragili e deboli, ma anche la creazione di condizioni per la riproduzione quotidiana della vita).
L’assenza di contatto fisico nell’immersione digitale a cui ci ha costretto l’emergenza sanitaria sembra quindi a un primo sguardo portare a compimento la spesso pronosticata scomparsa dei corpi dalla scena pubblica, una specie di disincarnazione dei legami tra esseri umani. Ma è davvero così? Oppure questa è un’illusione ottica? Uno degli effetti della messa in sicurezza della popolazione nelle case è in realtà quello, opposto, di trascinare i corpi reali, in carne e ossa, fuori dal cono d’ombra a cui parevano destinati dai processi di smaterializzazione in corso nella società e nell’economia degli ultimi decenni. E non solo perché la salute dei corpi è diventato il tema centrale dell’interesse pubblico, ma anche perché nelle case non è stato possibile sfuggire al contatto fisico a distanza ravvicinata e, quand’anche la reclusione fosse fatta in solitudine, al contrario la mancanza di contatti – anche solo visivi – con altri corpi si è fatta sentire in maniera acuta.
- Il lavoro riproduttivo (di che lavoro si tratta)
Ora non intendo trattare del rapporto tra corpi e tecnologia nella riproduzione fisica della specie, che pure riguarda da vicino particolarmente il corpo delle donne, le relazioni, il comando e, da qualche decennio, la scienza, nella possibile riproducibilità della nascita del vivente, sia intervenendo sul corpo delle donne (fecondazione assistita, utero in affitto e altre tecnologie riproduttive) sia con la possibilità (utopica o distopica?) di clonazione di un essere umano. Su questo tema ci sono già interessanti contributi[5].
Desidero occuparmi solo del lavoro riproduttivo, quello che interviene sui corpi e sulle loro debolezze, sui sentimenti, cioè del lavoro di chi si prende cura delle persone. Vedere in quale rapporto si pone con le macchine. Cosa intendo per lavoro riproduttivo? Già dagli anni ‘70 il femminismo radicale, utilizzando una metodologia marxiana di analisi, aveva definito la cura un lavoro, mettendola in relazione con lo sviluppo capitalistico e il mercato. La riproduzione è lavoro (salariato o meno) perché è strettamente connessa e interdipendente con tutti i processi capitalistici di produzione di valore. Questo lavoro costituisce la base materiale della forma attuale neoliberista della produzione e la relativa possibilità di accumulazione e di profitto, permettendo il contenimento dei salari. Per le sue specifiche qualità di affection si è – da sempre – tentato di farlo passare per amore e dedizione: per questo lo si è pensato come incorporato nei ruoli attribuiti alle donne, tanto da incarnarne le identità sociali. Vorrei mettere però sullo stesso piano l’attività sociale riproduttiva gratuita e quella immessa nel mercato: entrambe formano i soggetti umani del capitalismo, li sostengono come esseri umani incarnati e li costituiscono come esseri sociali, prendendosi cura degli anziani, socializzando i giovani, mantenendo la sfera famigliare, costruendo disposizioni affettive e orizzontali che sono alla base della cooperazione. Tutto ciò non avviene solo nel privato delle famiglie ma è anche socializzato in istituzioni come ad esempio la scuola o il comparto socio-sanitario, o di tutti quei lavori che tengono in piedi una parvenza di Stato sociale.
Sono quei compiti che storicamente erano attribuiti alla sfera privata, agli affetti famigliari: la loro socializzazione nei successivi stadi del welfare non ne ha modificato le caratteristiche richieste di oblatività e di disponibilità, oltre alla scarsa considerazione sociale che si traduce in salari più bassi[6].
Questo dal punto di vista di chi compie materialmente questo lavoro, che come qualità ha il fatto di essere indispensabile, di non poter essere delocalizzato (anche se sempre più spesso esternalizzato) e la cui automazione è quanto meno poco praticata, sicuramente non gestita dai soggetti che la utilizzano e spesso oggetto di controllo sociale. Richiede un contatto umano e/o un’attenzione particolare mirata caso per caso. Poco si è investito per renderlo meno faticoso per chi lo fa e più performante per quanto riguarda il suo svolgimento e il benessere di chi ne abbisogna.
Ed è titolare di un’altra peculiare caratteristica e cioè di essere sottoposto alle politiche di austerità che ne peggiorano le condizioni lavorative, nonostante sia evidente che tutti noi possiamo immaginare di vivere in un mondo di fabbriche automatizzate, ma non senza scuole, ospedali, asili o case di riposo. Il problema è come riconoscere il lavoro di riproduzione come lavoro socialmente necessario (quello che oggi chiamiamo “lavori essenziali”). Il tempo di vita non può esaurirsi tra cura e produzione. Né il tempo di lavoro liberato dall’ambito della cura può essere rivendicato per il lavoro salariato o viceversa, si ricadrebbe in una sopravvalutazione etica del lavoro.
Per quanto riguarda le prospettive di crescita di questo tipo di lavoro, secondo il Bureau of Labor Statistics di Washington[7] esso avrà nei prossimi anni un’altissima espansione, sempre con salari bassi. Infatti, oltre a ridurre le prestazioni pubbliche e ad assumere donne nel lavoro salariato, il capitalismo finanziarizzato ha abbassato i salari reali, così portando i membri dei nuclei familiari ad aumentare il numero di ore di lavoro pagato necessario a sostenere una famiglia, e spingendo a una corsa disperata per trasferire ad altri il lavoro di cura.
- Trasformazioni del lavoro riproduttivo (dal lavatoio alla lavatrice)
Diventa per ciò stesso sensato porsi – tra le altre – anche la domanda: come si concilia o si trasforma il lavoro riproduttivo (o di cura) quando entrano in gioco la meccanizzazione, l’automazione e la robotizzazione? E poi cambia totalmente la vita di coloro cui è stato storicamente attribuito, le donne, oppure c’è qualcosa di immutabile, di non trasformabile, di essenziale alla vita? Sono domande che le grandi rivoluzioni politiche moderne, la rivoluzione francese e la rivoluzione sovietica, hanno posto e risolto ambiguamente con la terza rivoluzione, quella industriale, separando nettamente per genere il lavoro per la riproduzione della specie dal lavoro per la riproduzione del capitale. Attribuendo alla “natura” femminile la riproduzione, e per ciò stesso nascondendola ai rapporti sociali, e all’“uomo” la produzione di merci. Due livelli di sfruttamento diseguali, ma funzionali allo sviluppo “democratico” del profitto.
Le continue interrelazioni tra le due condizioni – produzione e riproduzione – ne hanno modificato la forma, sia individuale che sociale e, come il lavoro produttore di merci, anche il lavoro di cura si è trasformato al passo con le trasformazioni del capitale. C’è sempre stata una commistione tra tecnologia e domesticità. Nel film Downton Abbey a un certo punto (siamo attorno agli anni ‘30) le domestiche sono obbligate (per una rottura della caldaia) a portare grandi bacinelle d’acqua calda nelle camere. I commenti nelle cucine vertono sulla pesantezza delle bacinelle e le cameriere si domandano come facevano nei tempi passati a lavorare con questi compiti faticosi. Uno degli esempi di come la tecnologia abbia mutato il lavoro di riproduzione, sottraendo alle donne fatiche pesanti. Ovviamente si trattava di domestiche, infatti la tecnologia nella riproduzione ha avuto a che fare con i livelli di reddito e di redistribuzione della ricchezza. Le conquiste salariali del lavoro operaio sono correlate all’aumento dell’uso delle macchine nel lavoro domestico, necessitato dalla costituzione di un aumento della domanda di beni in funzione dell’aumento della produzione.
C’è un limite alla macchinizzazione del lavoro riproduttivo?
Le macchine hanno indubbiamente liberato dalla fatica materiale molte funzioni riproduttive, ma hanno prodotto distorsioni non irrilevanti nelle relazioni. In primo luogo un accentuato isolamento (per esempio, lavatoio, forno e balcone sono scomparsi come terreno di socializzazione domestica). La casa di oggi può essere autosufficiente, per quanto riguarda il lavoro elementare, quello legato alla pulizia, alla cottura e conservazione dei cibi ecc. Ma difficilmente troviamo case in cui le macchine organizzano i lavori necessari. Si possono ordinare cibo, vestiti, prodotti di pulizia e altro e farli arrivare direttamente a casa, senza bisogno di passare per i negozi e i supermercati (che non a caso diventano luoghi di socializzazione per i meno abbienti). In realtà le macchine esistenti (Alexa, Siri e altre simili) possono solo ricordarci la lista di cose necessarie, non possono stabilire per noi l’organizzazione delle necessità quotidiane della famiglia. In tutto questo non si esaurisce evidentemente il lavoro riproduttivo. «Con le macchine hai la quantità, ma non hai la qualità» come diceva Kurt Vonnegut nel 1952, immaginando, in un romanzo distopico di fantascienza, un sistema industriale e quindi anche sociale completamente automatizzato[8].
Resta tutta la parte di affection, di empatia, di cura del corpo dipendente o malato. Quando questa parte viene socializzata, la forma organizzativa che la controlla non valorizza questo lavoro da un punto di vista salariale o di carriera (ospedali, pulizia negli edifici, operatori ecologici, settori dell’istruzione di ogni ordine e grado ecc.) e vengono impiegate nella maggior parte dei casi delle donne perché titolari “naturalmente” delle qualità necessarie alla cura. Se rimane nel privato, spesso viene delegata a donne esterne alla famiglia, per permettere il lavoro salariato di tutti i componenti la famiglia, con salari bassi e forme di gerarchizzazione tra donne. Anche se le funzioni automatizzabili del lavoro riproduttivo non sono poi molte, il lavoro sia in casa che nelle istituzioni ha avuto una modesta e parziale meccanizzazione (per esempio è la macchina aspira polvere la più diffusa macchina domestica al mondo).
- Informatizzazione e controllo (la casa sicura)
Il recente confinamento a causa del Covid19 ha rivelato (svelato e accelerato) l’esistenza e la commistione nelle case di lavoro produttivo e lavoro riproduttivo. Charlotte Perkins Gilman all’inizio del XX secolo sosteneva che «tanto più diventiamo sociali, tanto più abbiamo bisogno di una casa in cui riposarci. [...] Privata, appartata, interamente nostra; non invasa da nessun commercio o affare, mai aperta alla folla»[9].
Non è esattamente quello che offrono oggi le nostre case. Se il lavoro salariato “delle donne” ha sempre avuto sostanzialmente le caratteristiche del lavoro “di cura” per le qualità intrinseche attribuite alle donne di empatia, solidarietà, dedizione[10], una connotazione più generalizzata del lavoro sia domestico che salariato femminile è stata quella di essere collocato nel “domicilio”. Questo ovviamente per poter garantire la continuità riproduttiva anche in presenza di un lavoro salariato, nella «completa invisibilità dell’ambiente domestico»[11].
Questo significa, per le donne che hanno un lavoro salariato, l’attuazione della cosiddetta “conciliazione di tempi di vita e di lavoro”, affermata per tutti i lavoratori ma “pensata” per le donne, in modo che in un primo momento esse, ma in seguito non solo esse, possano “lavorare da casa” ritmando il lavoro salariato con il ciclo riproduttivo. Per tutti significa una ristrutturazione e una meccanizzazione dello spazio domestico, con costruzioni di piccoli spazi per il lavoro produttivo comandato da tecnologie digitali. La dimensione virtuale del web ridisegna la vita quotidiana di ciascuno, imponendo una produttività senza corpi, una produttività con relazioni apparenti, una produttività in cui ciascun lavoratore, ciascuna lavoratrice compone in solitudine la propria vita superando la dicotomia tra lavoro materiale e lavoro immateriale in una dimensione di falsa libertà data dalla disponibilità di un tempo non rigido per il lavoro produttivo. Si rompono tutte le partizioni tradizionali dei tempi e degli spazi, mentre resta la rigidità del lavoro riproduttivo (che non sempre è domestico). Il lavoro materiale si coniuga e si intreccia con il lavoro cognitivo in un tempo che non ha più suddivisioni, ma che si dipana in una finta socializzazione che sa molto di solitudine.
Quando c’è una macchinizzazione del lavoro materiale di riproduzione, esso però trova dei limiti nella definizione dei bisogni dei riprodotti e nella rigidità di questi bisogni. E ora con l’avvento dell’economia digitale le funzioni si moltiplicano intensificando e generalizzando le solitudini domestiche. Le case diventano isole polifunzionali[12]. La tecnologia dovrebbe essere un fattore abilitante, non si può pensare che sia in grado di risolvere le relazioni e la vita.
In questo contesto, non solo vengono delusi gli individui che si ritengono padroni del proprio tempo lavorativo (in realtà ci si accorge che il tempo di lavoro non ha più limiti) ma soprattutto il lavoro riproduttivo e di cura diventa consustanziale e intrecciato in maniera inestricabile con il lavoro per la produzione, in una difficile divisione (o condivisione?) degli spazi per cui le nostre case non sono attrezzate (per non parlare dell’acquisizione personale dei mezzi di produzione e dell’apprendimento – come abbiamo visto recentemente in maniera rapidissima e convulsa con la DAD)[13]. E quand’anche taluni pensassero che comunque si tratti di un lavoro senza controllo, da un lato bisogna precisare che il lavoro produttivo si sviluppa ormai a “progetto” esattamente come il lavoro di riproduzione – e quindi con forme di autocontrollo[14] – e poi che le nostre case sono ormai invase da strumenti che osservano le nostre vite e le organizzano. Possiamo citare le bambole che spiano (Cayla nel 2017 è stata ritirata dal mercato americano perché sorvegliava gli smartphone dei suoi proprietari), aspirapolvere che misurano le nostre case (Roomba è stato studiato per tirare a lucido il parquet ma anche per mappare l’interno dei nostri appartamenti), algoritmi che decodificano le nostre emozioni sommerse (FB), cardiofrequenzimetri che diffondono le nostre condizioni di salute (App Salute), dispositivi che sanno dove ci troviamo in ogni momento; flussi di dati spremuti dai nostri corpi e dalle nostre case e usati per prevederci e condizionarci[15]. Le voci degli strumenti che abbiamo in casa sembrano fatte per imitare il modello immaginario della donna rassicurante e disponibile (voce di Alexa, di Siri ecc, se può essere cambiata in voce maschile, diventa quella del maschio dominante) oppure per segnalare diminuzioni della sicurezza[16].
Il sogno della domotica non è altro che una mietitura massiccia d’informazioni, un’incursione violenta nel nostro spazio più intimo. Tutto ciò ha fatto scrivere a Samanta Schweblin di un peluche chiamato Kentuki che, in un futuro non troppo lontano, potrebbe alleviare la solitudine delle nostre case collegando i proprietari con sconosciuti che vivono in altre parti del pianeta, aprendo delle finestre nella nostra più intima quotidianità, in un’altra distopia del controllo legata alla riproduzione psicologica delle persone[17]. Un’altra trasformazione del lavoro rispetto alla casa è quella degli acquisti online. Da non sottovalutare questo cambiamento epocale: per millenni ci si è spostati per procurarci il cibo, i vestiti e gli oggetti che ci servivano. Oggi il progresso consiste nel far arrivare la merce a ognuno di noi, e il suo metro di misura è la nostra immobilità[18].
- Corpi e tecnologia nella riproduzione sociale (un’altra società)
È possibile pensare a un’altra società con una tecnologia amica nel lavoro riproduttivo? Nel romanzo “utopico” Herland del 1915 Charlotte Perkins Gilman ci presenta una società di sole donne, gli unici esseri idonei all’allevamento e all’educazione dei figli[19]. In questa società perfetta, un po’ razzista, composta di sole donne bianche, ogni attività è frutto di cooperazione, tutto il lavoro riproduttivo e produttivo è equamente condiviso, frutto di un sapere scientifico diffuso.
Altro panorama offre Margaret Atwood in The Handmaid’s Tale, in cui la riproduzione è controllata e obbligata, e il lavoro riproduttivo è imposto da un sistema violentemente gerarchizzato e suddiviso in classi ed è svolto dalle Marte (così si chiamano tutte le serve). Più che una società distopica proiettata in un oscuro futuro, vengono descritti fatti che sono avvenuti nel passato o in paesi diversi, sommandoli o sezionandoli. E quest’altra società fa ancora più paura se la si pensa come somma di fatti accaduti[20].
Più interessante è la società marziana descritta da Aleksander Bogdanov (Malinovskij)[21] in Stella Rossa, in cui l’individualismo è soppiantato da una società ugualitaria. Il socialismo perfetto, che usa scienza e tecnologia per uno straordinario avanzamento sociale, con lo sviluppo delle fabbriche, delle scuole, delle strutture mediche, dei musei e degli istituti di ricerca. Il lavoro riproduttivo è totalmente socializzato, tanto che esistono “case dei bambini” in cui vivono bambini ed educatori (non i genitori, relegati al rango di visitatori), dalla sezione infantile fino all’adolescenza[22]. Ma questa struttura sociale, fondata su basi scientifiche e tecnologiche, in cui i cittadini sono sempre più longevi, fa sì che il pianeta sia sempre più affollato ed è energivoro. La soluzione che si prospetta, di cui non faccio lo spoiler, sarà legata alla finitezza delle risorse naturali, ma non alla ricerca di un equilibrio dinamico con l’ambiente.
Donna Haraway in un altro contesto, meno catastrofico e più possibilista, fa nascere invece il cyborg[23], che da metafora fantascientifica diventa condizione umana: nel contempo umano e macchina, non è sessuato, il suo corpo può essere trasformato e gestito, le sue fragilità annichilite e superate. Il cyborg non necessita del lavoro riproduttivo, segna invece una via d’uscita dai dualismi di genere. Emerge dai cedimenti di confine tra organico e macchinico, umano e animale, materiale e informazionale. Nel capitalismo postfordista, il cyborg assume la variabilità e la mobilità dei flussi informazionali. Il cyborg è un modello operativo, riguarda il fare, non l’essere. La problematizzazione della nozione di individualità e di organismo continua in Chthulucene[24]: nei circuiti del tecnobiopotere, i corpi come sistemi cibernetici si caratterizzano per i loro confini comunicanti piuttosto che per la loro integrità. Per questo, sono soggetti a forme più capillari e pervasive di controllo, ma la loro apertura relazionale è anche la loro forza vitale. Un sistema riproduttivo complesso, in cui i corpi sono un tutt’uno con la tecnica e la natura, attraverso pratiche dettate dal rispetto e dalla responsabilità.
Proiezioni di società investite a vario titolo e in varie forme dalla tecnologia nella riproduzione degli individui, che mettono in discussione le tesi (piuttosto diffuse nel ‘900) che meccanizzazione e informatizzazione siano segni di modernità e progresso. In realtà non sono le macchine a essere disumane, ma alcuni tipi di lavori che le persone non dovrebbero fare[25].
- Le macchine nella cura (può farlo un robot)
Tornando al lavoro riproduttivo, può essere modificato e reso meno faticoso dalla tecnologia, almeno in alcune sue funzioni? Ci sono delle macchine che possono lavorare nel settore dei servizi e dell’assistenza alla persona. Non tutte e non sempre evidentemente, già la parola robot ha in sé un qualcosa di fantascientifico, qualcosa di completamente artificiale che finisce per essere connotato negativamente. Esiste il timore di delegare la cura alla macchina (un robot badante?) da parte di una persona in carne e ossa, mentre invece delegare la cura dei nostri anziani a persone estranee (alle badanti) ci sembra normale. Il governo giapponese ha promosso in più modi l’uso delle tecnologie nel settore dell’assistenza per fronteggiare le sfide che un veloce invecchiamento demografico sta imponendo al paese[26]. Ma sembra che paradossalmente nel paese di Goldrake UFO Robot queste proposte non abbiano avuto un grande successo. Si teme forse che i robot rubino il lavoro quando il mondo del lavoro sta cambiando drasticamente e non per colpa dei robot. Non si tratterebbe di sostituire gli umani con macchine, ma di eliminare la fatica di un lavoro spesso pesante, lasciando ai contatti a livello personale, sociale e affettivo una parte integrante dell’assistenza. Le persone possono erogare prestazioni assistenziali in modo amorevole, partecipe e attento e fare uso dei robot senza aspettarsi che essi lavorino nello stesso modo. L’uso di macchine può costare, certo, ma lasciare l’assistenza totalmente alle famiglie in modo gratuito oppure delegandolo a persone estranee, e con salari bassi non deve far parte di un discorso sensato sul lavoro riproduttivo. Non sono al momento disponibili sul mercato robot assistenziali o collaborativi molto sofisticati. Le macchine assistenziali, in quanto dispositivi assistivi, possono potenziare l’autonomia di quelle persone che lo desiderano. Tuttavia, l’assistenza nel lavoro riproduttivo è diversa dagli altri servizi. I contatti a livello personale, sociale e affettivo formano parte integrante dell’assistenza. Quindi non si tratterebbe di considerare i robot personale di assistenza perché gli aspetti fondamentali dell’assistenza – la premura, l’empatia, il contatto a livello personale e il soddisfacimento delle mutate esigenze sulla base di considerazioni relazionali – richiedono la presenza umana. Dispositivi assistivi più sofisticati e sviluppati rispetto a quelli che abbiamo a disposizione permetterebbero alle persone che hanno bisogno di cura un controllo della propria vita. Secondo le attuali teorie riguardanti l’etica e la buona qualità dell’assistenza gli aspetti più importanti dell’assistenza concernono le caratteristiche umane e le abilità affettive: ma queste possono essere offerte solo da chi è liberato dalla costrizione della fatica fisica e ripetitiva della cura.
- Tra macchinizzazione e informatizzazione (appropriarsi della tecnologia)
In questi giorni, il concetto di “lavori essenziali” è entrato con forza nel dibattito pubblico. Questa nuova centralità può aiutare a ribadire come tutti i lavori legati al mantenimento della vita siano condizione di esistenza e continuità della società tutta, a ripetere come da sempre siano stati attraversati da forme più o meno visibili di sfruttamento, infine, a ricordare come la loro privatizzazione (e platformizzazione) non abbia fatto altro che continuare a garantire, a pochi soggetti, un’immane ricchezza estorta[27]. Decidere cosa sia un lavoro essenziale è un fatto profondamente politico che ci obbliga a ripensare tutta la forma della nostra socializzazione e gli investimenti in organizzazione e tecnologie per questi tipi di lavoro.
La macchinizzazione del lavoro riproduttivo presenta aspetti ambigui: da un lato può sembrare un percorso salvifico perché è in grado di risolvere molti problemi legati al superamento della fatica di questo lavoro che comunque è necessario alla vita. Lo può, ad esempio, riorganizzare e semplificare. Ma d’altro lato, nelle sue applicazioni più rozze, può diventare subdolo strumento di controllo, di isolamento. Non si tratta certo di pervasività tecnologica, caso mai di scarsa attenzione e programmazione: persino nelle piattaforme si possono trovare elementi utili (se decidiamo di impadronircene e utilizzarle) per esempio a sfuggire alla solitudine coatta del lavoro di cura (ben prima del Covid19). Certo non è possibile sottovalutare, come dice Ida Dominijanni, l’importanza irrinunciabile della corporeità, della fisicità e delle relazioni in presenza[28], ma per quanto riguarda il lavoro riproduttivo forse risulta più evidente un deficit di interventi tecnologici, piuttosto che una sovrabbondanza tale da far temere una disumanizzazione delle relazioni di cura. Varrebbe la pena di trovare un giusto equilibrio tra la retorica dell’innovazione a ogni costo e la realtà. Mentre le macchine hanno e possono eliminare la fatica fisica, non si è mai considerata la fatica mentale del lavoro riproduttivo. Un lavoro che possiamo definire «a progetto»[29], che richiede risultati al di là del tempo e della fatica: l’uso della tecnologia mostrerebbe in termini concreti – e soprattutto di costi – la misura materiale in termini capitalistici di questo lavoro e probabilmente ne quantificherebbe la rilevanza. Con buona pace dei neo-luddisti proporsi di utilizzare le macchine per il benessere delle persone e per alleviare la fatica di questo tipo di lavoro indispensabile (essenziale) significherebbe impadronirsi dell’organizzazione che si è sviluppata nella vecchia dicotomia natura/cultura. Significherebbe uscire dalle ambigue resistenze alla modernizzazione (che si sviluppano spesso in una accettazione strisciante e inconsapevole) per fare in modo che il benessere delle persone divenga un bene primario, che non costi fatica, che sia riconosciuto anche in termini di spesa sociale.
[1] J. G. Ballard, Terapia intensiva, in Tutti i racconti 1969-1992, Feltrinelli, Edizione del Kindle.
[2] Ibid.
[3] I. Soave, Finché Coronavirus non ci separi, in «Corriere della Sera», 21 aprile 2020, p. 25.
[4] R. Noury, Condanne a morte via Zoom, la volta di Singapore, in «Le persone e la dignità», https://lepersoneeladignita.corriere.it/, 21 maggio 2020.
[5] Vedi particolarmente C. Cossutta, V. Greco, A. Mainardi, Smagliature digitali. Corpi, generi e tecnologie, Agenzia X, Milano 2018; P. B. Preciado, Testo tossico. Sesso, droghe e biopolitiche nell’era farmacopornografica, Fandango, Roma 2015; A. Balzano, L’incubatrice mostruosa o SarsWars Cov-2, https://www.dinamopress.it/news/lincubatrice-mostruosa-sars-wars-cov-2/, 4 marzo 2020; R. Braidotti, Madri Mostri Macchine (1996), Manifestolibri, Roma 2005.
[6] Cfr. A. Del Re, Il lavoro di riproduzione e il mercato, in B. Busi (a cura di), Separate in casa, Ediesse, Roma 2020, pp. 37-59.
[7] Bureau of Labor Statistics, Washington DC, Fastest growing occupations, 11 aprile 2018, Table 1.3 Fastest growing occupations, 2016 and projected 2026, www.bls.gov.
[8] K. Vonnegut, Piano meccanico (1952), Feltrinelli, Milano 2004, p. 244.
[9] C. Perkins Gilman, The Home: Its Work and Influence, McClure, Phillips, & Co., New York 1903, p. 347, in C. Cossutta, V. Greco, A. Mainardi, op. cit.
[10] Qualità oggi richieste a uomini e donne in moltissimi lavori che implicano “relazione”: nei servizi alla persona, nel commercio, fino all’interno dell’organizzazione del lavoro nella produzione materiale: cfr. A. Del Re, Il lavoro di cura e il valore, in A. Del Re, L. Perini (a cura di), Gender politics in Italia e in Europa, Padova University Press, Padova 2014, p. 236 – liberamente scaricabile al seguente link: http://www.padovauniversitypress.it/publications/9788869380310.
[11] T. Toffanin, Fabbriche invisibili. Storie di donne, lavoranti a domicilio, Ombre Corte, Verona 2016, p. 9.
[12] A. Del Re, Il lavoro cambia le città, in «inGenere», http://www.ingenere.it/articoli/il-lavoro-cambia-le-citta, 26/05/2016.
[13] DAD = Didattica A Distanza.
[14] Cfr. B. Mura, Farsi domande. Interrogativi da uno status incerto, in «il Manifesto», https://ilmanifesto.it/farsi-domande-interrogativi-da-uno-status-incerto/, 24 maggio 2020.
[15] Cfr. C. Bordoni (a cura di), Il primato delle tecnologie, Mimesis, Milano 2020; S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, Luis University Press, Roma 2020.
[16] G. Coipeault, Intelligenza artificiale e derive sessiste. Intervista a Isabelle Collet, in «Clara Magazine», 171, 2019.
[17] S. Schweblin, Kentuki, Sur, Roma 2019.
[18] S. Subramanian, Il mondo a domicilio, in «Internazionale», 1338, 20 dicembre 2019, p. 48.
[19] C. Perkins Gilman, La terra delle donne. Herland e altri racconti (1891-1916), Donzelli, Roma 2011.
[20] M. Atwood, Il racconto dell’ancella (1985), Ponte alle Grazie, Roma 2004.
[21] A. Bogdanov, Stella Rossa (1908), prefazione di Wu Ming, Alcatraz, Milano 2018.
[22] Ibid., cap. 3.
[23] D. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (1991), Feltrinelli, Milano 1995. La tematica del rapporto tra corpi e corpi-macchina è straordinariamente problematizzata in I. McEwan, Macchine come me (2019), Einaudi, Torino 2019.
[24] D. Haraway, Chthulucene, sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma 2019.
[25] Quello che non abbiamo ancora capito dei robot. Intervista a Cecilia Laschi, in «inGenere», http://www.ingenere.it/articoli/quello-che-non-abbiamo-ancora-capito-dei-robot, 20/09/2018. Cecilia Laschi insegna bioingegneria industriale all’Istituto di Biorobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
[26] N. Ishiguro, L’era dei robot, fine dell’empatia?, in «inGenere», https://www.ingenere.it/articoli/era-dei-robot-fine-empatia, 09/09/2018.
[27] Cfr. M. Fragnito, L’essenziale non è invisibile agli occhi, http://www.euronomade.info/?p=13409, 08/05/2020.
[28] I. Dominijanni, L’io alterato,
http://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/lio-alterato/, 25 maggio 2020.
[29] B. Mura, op. cit.