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Abstract
HUMAN, ALL TOO (LITTLE) HUMAN?
The expression “Anthropocene” hit the headlines when the chemist and Nobel Prize winner Paul Jozef Crutzen on 22nd February 2000, during a meeting of the scientific committee of the International Geosphere Biosphere Program (IGBP), interrupted the interlocutors using for the first time this word, the only one capable of defining the impact that the human species is having on the environment and on the biosphere. From that moment an important debate appares and it immediately went beyond the boundaries of the hard sciences to flow into different fields, from epistemology to anthropology, from philosophy to sociology of science, passing through economics and politics. The dossier of the n. 21/2019 of S&F_ intends to examine the expression “Anthropocene” as a concept that refers both to an insufficiency of human being as we know it faced with the crisis of the Modernity and its superabundance – an excess of intervention, in the sense of expropriation, exploitation and destruction of Nature, Earth and Other.
Hai capito?
Penso di sì.
No. Hai capito?
Sì.
Di’ sì papà ho capito.
Sì papà ho capito.
Lui abbassò gli occhi e lo guardò. Vide solo terrore. Gli tolse la pistola. No che non hai capito, disse.
Non so cosa fare, papà. Non so cosa fare. Tu dove sarai?
Stai tranquillo.
Non so cosa fare.
Shh. Io sono qui. Non ti lascio.
Me lo prometti?
Sì. Te lo prometto. Volevo scappare. Per cercare di distrarli. Ma non ti posso lasciare.
Papà?
Shh. Sta’ giù.
Ho tanta paura.
Shh.
Cormac McCarthy
1.0
L’espressione “Antropocene” è salita agli onori della cronaca quando il chimico e Premio Nobel Paul Jozef Crutzen il 22 febbraio 2000, durante una riunione del comitato scientifico dell’International Geosphere Biosphere Programme (IGBP), interruppe gli interlocutori utilizzando per la prima volta questo termine, l’unico che sarebbe capace di definire l’impatto che la specie umana starebbe avendo sull’ambiente e sulla biosfera – insomma, l’animale-uomo come quella specie il cui impatto (per alcuni negativo distruttivo e infine apocalittico, per altri positivo costruttivo e dunque sempre palingenetico) non sarebbe soltanto biologico, ma geologico e la cui storia dovrebbe oramai delinearsi nei termini di una storia di (ancor più) lungo periodo. Sì, il problema della storia e del “soggetto” di questa storia: quando è possibile datare l’inizio dell’Antropocene? E ancor di più: è possibile datare l’inizio di un qualcosa che fatica a trovare una definizione complessiva? Ma poi: chi è l’attore principale di questa storia, il supposto anthropos? Qual è la sua agency? Che rapporto c’è tra una storia geologica e una storia umana troppo umana? Le ipotesi sono innumerevoli: c’è chi fa iniziare l’era dell’impatto antropico dal punto di vista geologico e della biosfera dall’utilizzazione dell’atomica, chi la fa risalire all’”invenzione” della macchina a vapore, chi pensa al lungo XVI secolo, chi addirittura agli albori dell’umano con la “scoperta” dell’agricoltura. C’è infine chi “semplicemente” ragiona sulla necessità di ripensare dalle fondamenta la stessa scienza storica (Dipesh Chakrabarty).
Da quel momento, la cui data – 2000 – sembra effettivamente simbolica, è sorto un dibattito che, immediatamente, ha travalicato i confini delle scienze dure per sfociare in ambiti differenti, dall’epistemologia all’antropologia, dalla filosofia alla sociologia delle scienze, passando per l’economia e la politica – una vero concetto alla moda intorno al quale si stanno esercitando studiosi di tutto il mondo e di tutte le discipline, un universale, un flatus vocis (o qualcosa di più o di meno) che segnala evidentemente una problematizzazione e una preoccupazione crescente: le definizioni si sono moltiplicate e si è vista nascere l’ipotesi di un Capitalocene (Jason W. Moore) o la più recente ipotesi di Chthulucene (Donna Haraway). Ma non solo: ci si è iniziati a sbizzarrire con le più originali espressioni, dall’Entropocene e Negantropocene (Bernard Stiegler) al Poleocene, passando per Algoricene, Tecnocene, Misantropocene, ma anche per Anthrobscene, Manthropocene, Anglocene, Plantationocene – tra gli articoli che presentiamo c’è anche l’ipotesi Trumpocene (dal valore metonimico – Baranzoni_&_Vignola). Insomma, il suffisso -cene, che deriva dal greco kainos traducibile e tradotto solitamente con l’aggettivo “nuovo” – da intendersi nel duplice senso da un lato di recente e dall’altro di insolito inaudito inaspettato – sembra potersi posizionare come un fattore accelerante per le riflessioni più diversificate, in cui si mescolano l’ansia del nuovo e la curiosità esotica per l’inaudito.
Si tratta allora di un concetto – per alcuni di un cambio di paradigma in senso kuhniano, per altri di un argomento o addirittura di un sintomo – che funziona come catalizzatore di un insieme di questioni che riguardano le più antiche domande sull’umano (dal rapporto con la natura a quello con la tecnica) e che, in un certo senso, ripercorrono i momenti della nascita della modernità e del suo possibile esito. Palingenesi o apocalissi, tertium non datur, ma sicuramente l’esigenza che occorre fare qualcosa. Nel processo che accompagna la riflessione sull’Antropocene, sul banco degli imputati salgono, così, l’antropocentrismo come mescolanza di eccezionalismo antropico, modo di produzione capitalistico e razionalità strumentale, e l’anthropos stesso, che si presenta però di volta in volta con la volontà di cambiare vita nelle nuove figure universalizzanti del “terrestre/terreno” o della “specie”, ma anche con la solita espressione soddisfatta e gaudente dell’Uomo Bianco Eterosessuale Civilizzato.
Non mancano, allora, difese d’ufficio e ottimismi fuori tempo massimo, come quello degli ecomodernisti che leggono l’Antropocene come la più grande opportunità dell’umano prometeico, l’epoca in cui il potere sociale, economico e tecnologico può portare a un miglioramento nella vita di tutti (senza mettere in discussione l’ordine del discorso e del capitale globale, ovviamente) – dunque l’anthropos nella sua forma più smagliante, come sovrano impetuoso (ma saggio) del regno della natura e della cultura.
E, in questo processo, non difettano neanche le contraddizioni: se l’antropocentrismo non sembra più “salvabile” e la condanna sembra essere sempre più vicina, il postantropocentrismo che, al di là delle rappresentazioni fantasmatiche, nella realtà concreta e materiale riduce l’umano a un pulviscolo di individui separati dagli altri (e, spesso, anche da se stessi), più facilmente gestibili e da cui più facilmente può essere estratto valore, non sembra evidentemente il presupposto per una palingenesi, quanto lo spoiler di una fine imminente.
Il presente dossier del numero 21_2019 di S&F_ intende indagare l’espressione “Antropocene” come concetto che rimanda da un lato a un’insufficienza dell’uomo come lo conosciamo dinanzi alla crisi del moderno (e, forse, non solo) e dall’altro a una sua lussureggiante sovrabbondanza – a un eccesso di intervento, inteso nel senso dell’espropriazione e della distruzione della natura, della Terra e dell’Altro.
2.0
La terra ha una pelle, e questa pelle ha delle malattie. Una di queste malattie si chiama “uomo”.
Friedrich Nietzsche
La Terra non rimpiangerà l’uomo, né l’Uomo la terra. Una coppia troppo litigiosa, che con le sue urla disturbava gli astri vicini.
Guido Ceronetti
Non esiste classificazione dell’universo che non sia arbitraria e congetturale. La ragione è molto semplice: noi non sappiamo cosa sia l'universo.
Jorge Luis Borges
Benvenuti dunque tra sociologia e astrazione, tra filosofia e crimine, tra politica e pianeti, tra generi e web, tra differenze e mappe, tra ontologia ed ecologie marxiste, tra chimica e letteratura, tra vertigine e desiderio, tra geologia e sintomatologia.
Omaggio/oltraggio alla Terra, pianeta-crisi della narrazione efficace.
Nel capo del gruppo s’incarna sempre il padre tanto temuto, il gruppo vuole essere dominato da una potenza illimitata, è estremamente avido di autorità, ha sete di sottomissione. Il padre primitivo rappresenta, dopo aver preso il posto dell’ideale dell’Io, l’ideale della massa che domina l’individuo.
Sigmund Freud
Non tutti i problemi che uno ha con la sua ragazza sono necessariamente dovuti al modo di produzione capitalistico.
Herbert Marcuse
Il compost-Prometeo di una Terra Padre in sella a non-umani umani/umani non-umani/animali non-umani/umani non-animali, gioca coi grafemi per dire di alienazioni, nomadismi e nuovi equilibri, di età post-anagrafiche e capitalizzate. Eros e thanathos, tra bios (sempre più movimento di soggettivazione transindividuale e transpecifico), logos (sempre più storicamente determinato), mondo (sempre più appariscenza di tipi postdatati), mythos (dei ed eroi arruginiti e disattivanti).
The gardener plants an evergreen
Whilst trampling on a flower.
I chase the wind of a prism ship
To taste the sweet and sour.
The pattern juggler lifts his hand;
The orchestra begin.
As slowly turns the grinding wheel
In the court of the crimson King.
The King Crimson
E infine trionfi di confini e muri, Race, Gender e Class: come se si fosse di fronte alla versione 4.0 delle “due culture”, un’alga di nome Trump e/o in The Court of the Cyborg Queen.
L’uomo mediocre lascia dormire inutilizzate le sue possibilità, lascia atrofizzarsi le sue doti, allentarsi le forze, come muscoli che non vengano adoperati finché la necessità non li tende a difesa.
Stefan Zweig
Non ho ucciso nessuno, ho fatto di più: ho ucciso il Possibile.
Emil Cioran
Contro i sensi vietati, le strade del possibile.
Adagio sessantottino
Si sta come in Antropocene sui cyborg (drammaturghi) le protesi (possibili).
Omero è degno di essere scacciato dagli agoni e di essere frustato, ed egualmente Archiloco.
Eraclito, frammento 42
V.C._&_D.S._&_P.A._