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Sed sibi quisque facit! Note per un’ontologia dell’onirico tra Binswanger e Merleau-Ponty

Autore


Fabio Sacchettini

Università degli studi di Napoli Federico II

laureato Magistrale in Filosofia all’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


1. Il Potere del sogno da Nightmare on Elm Street ai Presocratici

2. Il mondo onirico come struttura esistenziale nell’antropoanalisi di Binswanger

3. La dissoluzione del quisque nell’ontologia indiretta di Merleau-Ponty

 

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S&F_n. 21_2019

Abstract


Sed sibi quisque facit! Some Notes for an Ontology of the Oniric between Binswanger and Merleau-Ponty


The paper aims to connect several perspectives about dream in the pre-platonic thought to several phenomenological concepts issued by Ludwig Binswanger and Merleau-Ponty’s heretical phenomenology: passing through these reflections we used an atypical guide, namely the filmmaker Wes Craven and his Nightmare on Elm Street. This horror film, in fact, using his villain Freddy Kruger, raises several questions about the onirical world that put in crisis a certain subjectivism of dream. That’s why we try to answer this question: can we consider the dream a private world?

Ma cosa sono i sogni, dottore?

Misteri, impenetrabili segreti della mente. La verità è che ancora non sappiamo cosa sono o da dove provengono.

da Nightmare on Elm Street

 

 Se il sogno è portatore dei significati umani più profondi, non lo è nella misura in cui ne denuncia i meccanismi nascosti e ne mostra gli ingranaggi disumani, lo è al contrario nella misura in cui mette in luce la libertà più originaria dell’uomo.

Michel Foucault

 

 

 

 

 

  1. Il potere del sogno da Nightmare on Elm street ai presocratici

Che cosa vuol dire esattamente sognare? Dal pensiero classico greco alla psicoanalisi dei sogni di Freud le analisi e le teorie, com’è noto, si sono sprecate e i tentativi per dare un’interpretazione minimamente sistematica non solo del sogno, quindi di tutta la sovrastruttura inconscia e simbolica che si erge su di esso, ma anche dell’atto stesso del sognare, inteso come il momento nel quale la nostra sfera intenzionale sembra mutare segno e indirizzarsi verso le terre delle passività, hanno rivelato nient’altro che l’ineludibile evanescenza del sogno, la sua irriducibilità a ogni intento razionalizzante: per questo motivo proponiamo qui degli appunti, delle note a margine di alcune riflessioni sull’onirico.

La prima meditazione che ci fornisce alcune indicazioni interessanti circa il pensiero dei greci intorno all’onirico è contenuta nella Teogonia di Esiodo, un poema cosmogonico scritto nel VII secolo che descrive la nascita delle divinità dal Χάος, individuato come l’ente primigenio. Nei versi 123-125, Esiodo scrive come dal Chaos nacquero Ἔρεβός, divinità ancestrale delle tenebre, e Νὺξ, la Notte, la quale, tra gli altri, generò non solo Ἡμερα, il giorno, ma anche Ὕπνος, il sonno, e gli Oneiroi Morfeo, Fantaso e Fobetore deputati all’invio dei sogni ai mortali.

Nel pensiero greco arcaico, in sostanza, la genesi del sogno viene fatta risalire a una potenza oscura i cui meccanismi precedono diacronicamente il divenire cosmico e, al tempo stesso, superano sincronicamente la contingenza umana: questo perché, nella prospettiva arcaica, il sogno non rientra nella sfera normale delle vicende umane ma rappresenta una terra che si colloca oltre i confini del mondo storico.

Tale prospettiva, tuttavia, non solo non è rimasta immutata per molto ma, nel giro di pochi secoli, è stata letteralmente rovesciata. Nei suoi Studi sulla rappresentazione del sogno nella Grecia antica, Carlo Brillante osserva come accanto alla tradizione che voleva i sogni figli della Notte fu accostata una nuova narrazione che faceva risalire la maternità dei sogni alla Terra. Scrive Brillante:

In un noto stasimo della Ifigenia Taurica è narrato un notevole episodio della lotta tra Apollo e la Terra (Chton) per la sovranità sull’oracolo delfico. Quando Apollo prese possesso dell’oracolo spodestandone Themis, Chton generò le notturne immagini dei sogni, le quali svelavano all’uomo nel sonno gli eventi passati, presenti e futuri. La Terra aveva così sottratto all’oracolo le sue capacità profetiche e le aveva affidate ai sogni, da lei stessa generati[1].

 

Secondo la prospettiva euripidea – il quale, a differenza di Sofocle ed Eschilo, fu influenzato dalla riflessione socratica –, nel momento in cui Apollo ottenne la signoria sull’oracolo – piegando, di fatto, la profezia al logos – la Terra generò i sogni per poter continuare a avere un’influenza nel mondo umano: in sostanza, i sogni, collocati da Esiodo oltre i confini umani, vengono qui radicati nel cuore stesso del mondo umano.

Adesso vediamo, invece, come la prospettiva presocratica non solo sia sopravvissuta nella storia del pensiero sull’onirico ma abbia varcato i confini del pensiero filosofico e psicanalitico per approdare, oltre venti secoli dopo, sulla pellicola cinematografica.

In Nightmare on Elm street, film del 1984 divenuto ormai un cult del genere horror, il regista Wes Craven trasforma il sogno, tradizionalmente considerato come il luogo privato per eccellenza, in un non-luogo del terrore nel quale Freddy Kruger, un’infanticida che alcuni anni prima dei fatti narrati fu bruciato vivo dai genitori delle vittime all’interno di un edificio dismesso e che adesso, miracolosamente tornato in vita in forma onirica, continua a mietere vittime. In particolare, la peculiarità di Kruger è quella di indurre il sogno nel sognatore affinché egli, di sogno in sogno, possa acquisire sempre più vita nutrendosi della paura innescata nel sognatore fino a ottenere la forza sufficiente per uccidere la propria vittima.

Adesso cerchiamo di ripercorrere la sceneggiatura di Craven al fine di rintracciare quelli che riteniamo essere degli elementi interessanti dal punto di vista storico-filosofico in relazione a questi appunti sull’ontologia dell’onirico. Il film si apre con una ragazza, Tina, in fuga, all’interno di una fonderia, da Kruger – del quale, all’inizio, si sente soltanto la sua inquietante risata. Ciò che è possibile osservare all’interno delle prime sequenze è la capacità di Freddy di materializzarsi letteralmente “dal nulla” e una forza sicuramente sovrumana che, come verrà spiegato nel corso del film, egli trae dalla paura della sua vittima: di sogno in sogno il potere di Kruger accresce finché non riesce a varcare la barriera che divide il sogno dalla veglia e uccidere la vittima designata. Vediamo adesso, nel dettaglio, come le domande poste da Craven intorno al potere del sogno e alla differenza specifica tra il mondo onirico e quello della veglia abbiano un’origine molto lontana all’interno della storia del pensiero occidentale, che risale almeno ai poemi omerici.

Nell’Iliade, ad esempio, ricorrono con una certa frequenza dialoghi di tipo onirico: pensiamo innanzitutto al sogno di Agamennone, presente nel II libro, al quale viene in sogno il saggio amico Nestore, descritto da Omero come l’uomo «cui sovra ogni altro duce Agamennone riveriva», per spingerlo a muovere guerra a Troia. In questo sogno dobbiamo segnalare già due aspetti rilevanti del pensiero presocratico del sogno. Innanzitutto, il sogno è menzognero: in questo caso, è Zeus a indurre questo sogno ingannatore per spingere Agamennone a attaccare l’esercito troiano, in quel momento di gran lunga più organizzato, e a spingerlo quindi alla disfatta – che poi avverrà, seppur momentaneamente.

L’altro aspetto rilevante è legato al rapporto che si instaura tra il dormiente e la figura onirica, l’εἴδωλον. Il Nestore che giunge in sogno a Agamennone sembra partecipi di una sorta di materialità aeriforme che giunge volando nella stanza per poi sostare sul capo del dormiente lungo tutto il dialogo («στῆ δ’ἄρ’ύπέρ κεφαλῆς καί μιν πρός μυθον έειπεν») e infine allontanarsi volando.

Se da una parte il rapporto tra sogno e inganno resta comunque accidentale, una delle modalità del sogno, dall’altra questa ambigua materialità dell’εἴδωλον – che si può ravvisare anche nel Patroclo già defunto che giunge in sogno a Achille o nell’Ermes che giunge in sogno al re Priamo – resta invece una costante. Ciò è dovuto al fatto che i dormienti in questione si rapportano, nello stadio onirico, con contenuti intenzionali particolari.

Il Nestore che appare in sogno a Agamennone è una ψυχή, seppur diminuita, rappresentata, alla vista del dormiente, come immagine fedele della persona – un εἴδωλον, appunto – un qualcosa di inconsistente e fallace al tempo stesso: una falsa coscienza che definisce l’in-consistenza dell’anima.

Stando a questi primi elementi, possiamo derivare che, almeno in una determinata fase del pensiero, anima e sogno abbiano condiviso una certa affinità genetica e che a questa categoria dell’εἴδωλον sembra appartenere, pertanto, il vecchio Freddy Kruger che abbiamo chiamato in causa in precedenza, un’anima dannata che si fa corpo di sogno in sogno nutrendosi dell’angoscia – come vedremo successivamente, concetto chiave dell’antropoanalisi di Binswanger – del sognatore. Nel corso dell’analisi del sogno di Patroclo, Carlo Brillante descrive in questo modo la tensione ancestrale del pensiero arcaico verso il farsi corpo del sogno:

il sogno, in quanto oggetto che impressiona la persona, deve possedere una certa consistenza materiale, la cui presenza era indispensabile nel pensiero arcaico anche nella spiegazione di eventi psichici, ma esso partecipa di una sorta di “materialità sfuggente” simile a quella dell’anima o di altri tipi di “immagine”, legati ma anche contrapposti al mondo reale, oggetto immediato dell’esperienza umana[2].

In tal senso, Craven non solo configura il sogno come la diretta espressione di forze pre-simboliche che sfuggono alla polizia simbolica dell’enunciato – basti pensare alla scena in cui Nancy, la protagonista di Nightmare on Elm street, si sottopone all’elettroencefalogramma presso una clinica psichiatrica – ma pone una questione molto importante intorno all’ambigua dis-continuità tra il sonno e la veglia: i sogni, proprio in quanto diretta espressione di forze ancestrali, sono espressione di una crisi, più o meno latente, del sistema vigile.

Posta in quest’ottica, tra il mondo onirico e quello desto sembra non esistere una reale contrapposizione, piuttosto un rapporto di contiguità, dove il primo si pone accanto al secondo. Il sogno è ἕτερον rispetto alla veglia, un essere altro rispetto allo stato desto; è come se il rapporto tra essi assumesse la forma di un passaggio chimico tra stati d’aggregazione e, nel caso specifico di Kruger, egli si rivela essere nient’altro che la cristallizzazione di tutte le situazioni di disagio, malessere, di cui soffrono gli adolescenti che diventano latenti nella psiche e che, non di rado, si sublimano nel senso propriamente psicanalitico.

Del resto, come osserva Brillante:

nessun avvenimento o pensiero, per quanto irreale o infondato, rimaneva escluso da questo campo di riferimento. Se quello della veglia era il mondo considerato nei suoi aspetti di normalità, il mondo dei sogni risultava connesso con l’intera sfera di alternativa a esso, sia che questa si configurasse a sua volta come una particolare realtà, sia che fosse considerata interamente illusoria[3].

L’entrelacs tra il mondo dei sogni e quello della veglia ci spinge a porci una domanda, ancora intorno al chi del sogno.

Certo, il sognare può, in quanto virtuale espressione di una serie di situazioni reali, essere considerata un’attività di mancanza, un movimento di libertà che preme per farsi mondo ma resta ancora poco chiara la consistenza ontologica del quisque del sogno perché, se diciamo che il sognare è l’attività di una mancanza, noi sottintendiamo de facto una forma d’intenzionalità del sognare. Ѐ in questa intenzionalità che dobbiamo quindi ravvisare il quisque del sogno? Vedremo nei paragrafi successivi come l’antropoanalisi di Binswanger e l’ontologia indiretta di Merleau-Ponty ci daranno, seppur attraverso percorsi alquanto eterogenei, entrambe una risposta negativa.

 

 2. Il mondo onirico come struttura esistenziale nell’antropoanalisi di BinswangerRitorniamo a Craven e al nostro Freddy Kruger. Siamo alla scena finale di Nightmare. Nancy, dopo le brutali uccisioni dei suoi amici, crede di aver trovato il modo per uccidere Freddy. Dopo sette giorni d’insonnia per evitare l’incontro con Freddy sa che da un momento all’altro cadrà inevitabilmente in un sonno profondo. Dopo la morte del fidanzato Glen, predispone la propria casa all’incontro piazzando una serie di congegni e trappole perché Freddy, per essere ucciso, deve essere portato dal piano del sogno al piano della realtà. Ciò che ci interessa, nel nostro caso, è vedere come la protagonista sia arrivata a formulare questo piano. Freddy, come abbiamo visto, ha letteralmente la capacità di comparire dal nulla, passando al piano reale attraverso un passaggio aeriforme – come comprovato poi da Nancy, suo malgrado, una volta attuato il piano. Freddy è il frutto di una condensazione. In questo caso Craven sembra richiamare un concetto chiave della psicoanalisi freudiana: il lavoro di condensazione.Freud introduce il concetto di lavoro di condensazione nel suo lavoro forse più conosciuto, ovvero L’interpretazione dei sogni, del 1899 Egli innanzitutto evidenzia come una delle cose che appare in modo più chiaro quando si rapporta il contenuto del sogno e i pensieri del sogno è il fatto che sembra sia stato fatto un lavoro di condensazione, vale a dire che lo scarto tra il sogno – definito misero e scarno se paragonato all’analisi del sogno – e l’ermeneutica stessa del sogno si crea in quello che può anche essere definito come lavoro di decompressione del sogno, un’operazione mediata dall’uso della trascrizione analitica che permette di orientarsi nella massa di idee associative messa su nel corso del lavoro onirico. Nel corso del paragrafo, Freud è costretto a ammettere «che non si è veramente mai certi di aver interpretato fino in fondo un sogno; persino quando la soluzione appare soddisfacente e priva di lacune, rimane pur sempre possibile che nello stesso sogno si manifesti qualche altro significato[4]» e, pertanto, «la quota di condensazione è – a stretto rigore – indeterminabile»[5]. Ora, è proprio a questo indeterminato che vogliamo rivolgere la nostra attenzione. Freud, nella sostanza, ammette che, nonostante la trascrizione di un sogno possa essere non più di dieci righe mentre l’analisi dello stesso anche tre o quattro volte maggiore, vi è comunque una irriducibilità ineludibile del sogno alla parola e al simbolo: tale aspetto fu particolarmente valorizzato nell’antropoanalisi di Binswanger. Il metodo analitico-esistenziale che fu applicato da Binswanger alla psicopatologia al fine di attuare il passaggio in psichiatria da un approccio teoretico, vale a dire descrittivo degli eventi mentali del soggetto, a un’indagine fondamentale circa le possibilità di una relazione intenzionale fondata sulla temporalità dell’esistenza gettata nel mondo, permise allo psichiatra svizzero di fare dell’antropologia, intesa come domanda fondamentale sull’essere-uomo, un’ontologia fondamentale (cosa che, per ovvi motivi, Heidegger ritenne un’eresia!). Se quindi l’ente di riferimento dell’antropoanalisi è un ente particolare che non può essere inteso come un genere dell’essere sotto-mano, un ente la cui essenza sta nella sua esistenza, nel suo determinarsi via via in base a un orizzonte di possibilità che gli è proprio, che ha davanti a sé un oggetto particolare che si dà sotto l’aspetto della natura come orizzonte di comprensione, ciò vuol dire che il mondo onirico, inteso innanzitutto come mondo dei pensieri, diventa un problema di tipo ontologico. In Sogno ed esistenza, Binswanger mette in luce il rapporto profondo, esistenziale, che intercorre tra il sogno e il linguaggio. Alla dimensione discorsiva del sogno che si fa racconto, soggiace, secondo Binswanger, una teoria del significato secondo la quale non si realizza mai una trasposizione qualitativa dalla sfera onirica a quella linguistica ma v’è una direzione generale di significato che si diffonde in modo omogeneo tra le diverse sfere del logos: la sensazione di caduta nel sogno, ad esempio, sarà interpretata non come manifestazione corporea di una psiche “debole” ma come una direzione esistenziale generale che esprime il senso di gettatezza proprio dello stato emotivo del sognatore che il linguaggio può soltanto esprimere con una similitudine corporea quale può essere, ad esempio, il senso di caduta nel sogno. Il linguaggio, infatti, secondo Binswanger, attinge alla struttura ontologica fondamentale dell’uomo, ossia l’essere-gettato dell’esistenza che si “fa via via” nel mondo, che è sospensione inquieta tra l’esser dentro e l’e-sistere, ovvero l’esser fuori della pratica procurante. L’ermeneutica dell’onirico di Binswanger può quindi riassumersi nello sforzo di tenere insieme l’interpretazione psicologica del sogno e la fenomenologia – identificata con l’ontologia, in linea con l’indicazione heideggeriana – quale domanda fondamentale sull’uomo: pertanto, si tratta, come afferma lo stesso Binswanger, di rintracciare la struttura a priori dell’onirico. Significativo è un passo di Foucault, contenuto nella sua introduzione a Traum und existenz:Il privilegio significativo accordato da Binswanger all’onirico è di una duplice importanza. Definisce il modo di procedere concreto dell’analisi verso le forme fondamentali dell’esistenza: l’analisi del sogno non si esaurirà mai a livello di un’ermeneutica dei simboli; ma, a partire da un’interpretazione esteriore che è ancora nell’ordine della decifrazione, essa potrà, senza dover celarsi in una filosofia, pervenire alla comprensione delle strutture esistenziali[6]. Nella prospettiva di Binswanger, del resto, il quisque freudiano del sogno resta, per certi versi, una soggettività illanguidita posta alla mercé della situazione onirica, una proiezione posta in un punto intermedio tra il sogno e ciò di cui sogna ed è per questo motivo che la somma fatta da Freud tra la soggettività costituita e l’analisi del sogno non dà necessariamente come risultato la genesi della soggettività onirica; essa, piuttosto, va scorta in «un motivo determinato, fondato sulla storia interiore o esteriore di colui che sogna»[7], un motivo fondamentale che integra la contrapposizione tra Sé e inconscio collettivo. Nel paragrafo successivo andremo a tematizzare queste indicazioni circa la genesi della soggettività seguendo alcune indicazioni – altrettanto eretiche – poste in seno alla fenomenologia da Merleau-Ponty. 3. La dissoluzione del quisque nell’ontologia indiretta di Merleau-PontyC’è un concetto della fenomenologia merleau-pontyana – spesso sottovalutato – che è il concetto di situazione. In Fenomenologia della percezione, Merleau-Ponty sostiene che il rapporto che instaurano forma e materia si chiama rapporto di Fundierung – citando un’idea del tardo Husserl –, vale a dire un rapporto nel quale la forma si integra al contenuto al punto che questi appaia come una modalità della forma, un rapporto dialettico nel quale i due termini agiscono reciprocamente e si contraddicono: è in tale contraddizione che si determina la formazione del senso ed è laddove è rintracciabile la Sinngebung del Merleau-Ponty dei corsi sulla Natura. Nella prospettiva di Merleau-Ponty ciò che permette ai due termini del rapporto, la forma e la materia, di integrarsi è la situazione che è l’hic et nunc, che è l’ineludibilità della nostra presenza al mondo ma: cos’è che ci permette di essere situati se non il corpo, che ci permette non solo di essere al mondo ma di avere un mondo, perché lo abita, perché è l’alveo entro cui è concepibile quella contraddizione pulsante che è l’esistenza, la quale non è riducibile alla coscienza dell’essere al mondo in quanto essa si condensa nella carne del mio corpo e parla attraverso di esso. Tale concezione permette a Merleau-Ponty di superare l’idea riduzionista delle scienze del corpo come aggregato anatomico, come edificio di molecole dettato dalla contingenza. Questa breve incursione sulla differenza che intercorre nel pensiero merleau-pontyano tra il corpo oggettivo e il corpo proprio ci è sembrata doverosa per introdurre il contributo del fenomenologo francese all’interno delle nostre note sull’onirico. Nel primo semestre dell’anno accademico 1954/1955, al Collège de France, Merleau-Ponty tenne un corso sul problema della passività durante il quale affrontò anche il problema del rapporto tra sonno e veglia. Secondo il fenomenologo francese, il sognare così come il dormire – la cui differenziazione non è per niente poco problematica – rappresentano entrambe modalità dell’esperire umano e che dicono tanto della coscienza. Che cosa può il sonno dirci in più sul corpo? Che cosa può dirci quel velo che cala al termine di una giornata, che distende i nervi, rallenta il battito e la respirazione attenuando il nostro livello di vigilanza finché, sopiti, azzeriamo un altro giorno? Come sostiene Roberta Dreon, per Merleau-Ponty, ripensare il rapporto tra sonno e veglia vuol dire mettere in discussione un nodo cruciale del pensiero merleau-pontyano del ’45, vale a dire quello tra corporeità e movimento. In proposito scrive:Ripensare le forme della motricità nel sonno, nelle diverse fasi dell’addormentamento, del sonno profondo, dei risvegli brevi e del risveglio definitivo, potrebbe contribuire a rivedere la tesi tradizionale per cui il movimento corporeo è semplicemente indotto dall’attività intellettuale ed è privo di intelligenza propria – ipotesi che, sul fronte scientifico, è stata ampiamente messa in discussione nelle ricerche sui neuroni specchio[8]. Nel corso del giovedì al Collège de France, sempre del 1956-1957, dedicato al concetto di Natura, Merleau-Ponty scrive: Il mio corpo è nello stesso tempo oggetto e soggetto. Come riconciliare i due punti di vista? Esso è una cosa che ha un rapporto particolare con le cose e che ci fornisce il grado zero dell’orientamento, il suo modello. Il mio corpo in questo caso è l’assoluto. Da esso procedono tutti i luoghi dello spazio […]. Questa forma è definita dall’attività del corpo; in tal modo si stabilisce in noi l’idea di un Rechtgrund[9]. Se quindi il corpo è propriamente fondamento di legittimità, ciò vuol dire che il potere di significazione che lo designa, l’assoluto da cui si dipanano tutti i luoghi della spazialità, conferisce al corpo una precedenza ontologica rispetto all’onirico – ribaltando, de facto, la concezione greca. In quale senso potremmo intendere l’onirico come un luogo della spazialità? L’essere un’esistenza che si fa carne significa, diremmo con Heidegger, essere-aperto, vale a dire essere una piega del mondo, essere la presenza di una mancanza; tale essere-aperto ha anche il carattere della spazialità che appartiene all’aperto dell’esistenza. L’onirico si configura pertanto, in Merleau-Ponty, come un essere trascendentale, come una relazione pre-oggettiva tra il corpo percipiente e il mondo, un orizzonte entro il quale la pretesa d’esistenza dell’ego, del quisque si dissolve in un essere di latenza co-implicato con la nostra carne. Del resto, che il sogno avesse delle implicazioni con la spazialità dell’essere nel mondo nel pensiero merleau-pontyano risulta evidente già dal lavoro del 1945, Fenomenologia della percezione, dove il filosofo francese scrive:Quando sogno di volare o di cadere, l’intero senso del sogno è contenuto in questo volo o in questa caduta, se non li riduco alla loro apparenza fisica nel mondo della veglia e se li assumo con tutte le loro implicazioni esistenziali. L’uccello che si libra in aria, cade e diviene un pugno di cenere, non vola e non cade nello spazio fisico, ma si alza e si abbassa con la marea esistenziale che lo attraversa o, ancora, è la pulsazione della mia esistenza, la sua sistole e la sua diastole[10]. Nella prospettiva merleau-pontyana quindi, il “livello della marea esistenziale” che si rivela nell’esperienza onirica è determinato dall’andirivieni dell’esistenza, dall’ineludibile coercizione che la Natura impone all’uomo: farsi mondo. Il livello della marea, che non è altro che l’inquieto movimento esistenziale, determina, dice Merleau-Ponty, “uno spazio dei fantasmi” che si fa largo nel mondo dei pensieri che soggiace alla nostra esistenza mondana: per comprendere ciò basta rivolgere la nostra attenzione alla nostra esperienza quotidiana, a quei momenti nei quali alcuni sogni non solo sembrano non abbandonarci anche quando siamo desti ma addirittura pare vogliano influenzare – il più delle volte negativamente – o pre-determinare la nostra vita. Ciò accade perché, come scrive ancora il filosofo francese, nel sogno come nel mito, veniamo a conoscere dove si trova il fenomeno sentendo verso che cosa va il nostro desiderio, che cosa il nostro cuore teme, da che cosa dipende la nostra vita[11]. Il sogno, posto in tali termini, rivela il suo fondamento quindi non tanto nelle relazioni mondane come spesso si crede, esso non è una sorta di rielaborazione del vissuto, piuttosto l’origine del senso di caduta o della sensazione di librarsi nell’aria va ricercata in una serie di correlazioni essenziali alle quali il linguaggio sembra attingere: l’io che si libra, l’io che cade, l’io che prova a ridisegnare virtualmente una parabola esistenziale già tracciata, a differenza dell’io che pigia le lettere su questa tastiera, è prima di tutto un Io non dischiuso che non si dà presenzialmente ma un Io che si nasconde, un Io che ama «celarsi in mille forme», come afferma Binswanger. Quando procediamo, quindi, all’analisi di un sogno dobbiamo tenere presente che innanzitutto anche durante il sogno noi non abbandoniamo il mondo perché, se è pur vero che lo spazio onirico sembra staccarsi dal mondo precedendolo, resta tuttavia valido il fatto che il sogno utilizzi tutte le articolazioni che il mondo sembra offrirci: la variazione così non si pone su un livello sostanziale quanto formale, nella misura in cui il problema del “chi” del sogno non può certo trovare una soluzione nella forma carnale del chi percepito, perché il chi del sogno resta pur sempre una forma percepita dai sensi. Il processo di personificazione onirica – ad esempio una situazione di sofferenza che si trasforma in un rapace ferito nella situazione onirica – non è altro che un dramma, un componimento irriflesso innescato dal gioco del mondo che riposa sì su una certa percezione cosciente dello spazio, del mondo che ci circonda ma che ci rivela la fallacia di un “fuori assoluto” – che è la negazione dialettica della soggettività, dell’in sé. Scrive Merleau-Ponty: il sognatore sogna, ecco perché i suoi movimenti respiratori e i suoi impulsi sessuali non sono presi per ciò che sono, rompono gli ormeggi che li legano al mondo e fluttuano di fronte a lui sotto forma di sogno[12]. In breve, attraverso il sogno scopriamo la possibilità di aprire un varco attraverso le dicotomie del pensiero classico tra soggettività e oggettività, tra immanenza e trascendenza; l’essere onirico non può ridursi ad una forma mistificata d’immanenza in quanto il sogno, nel suo essere trascendente, descrive il movimento originario mediante il quale l’esistenza si proietta nel mondo e il mondo in essa.Torniamo, in conclusione, a Craven e al nostro Freddy Kruger. Perché inserire quella che possiamo definire ormai un’icona pop del cinema tra le nostre note, al limite tra la fenomenologia e la psicoanalisi? La risposta ce la offre proprio Craven, il quale in diverse occasioni ha fornito diversi dettagli interessanti circa la genesi del film e del suo protagonista. Il regista, deceduto nel 2015, ha spiegato come la scelta del nome del personaggio, Freddy appunto, non sia stata affatto casuale ma determinata proprio dal suo vissuto, in quanto Freddy era il nome del bullo della scuola che terrorizzava il piccolo Wes. Inoltre, anche la scelta del vestiario del villain, il celebre maglione a righe alternate rosse e verdi, è tutt’altro casuale: com’è noto, il rosso e il verde sono due toni cromaticamente opposti e, come dimostrato da alcune ricerche, il loro accostamento crea nello spettatore una sensazione di malessere. Tuttavia, è nel titolo del film che dobbiamo ricercare la chiave di volta. L’incubo di Elm Street, infatti, richiama la Elm Street di Dallas dove il 22 novembre del 1963 venne assassinato l’allora presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy ma, soprattutto, come dichiarò lo stesso Craven, l’idea era quella di far sentire tutti un po’ meno al sicuro in quanto Elm Street è uno degli indirizzi più diffusi nella toponomastica statunitense: in breve, il titolo del film è un’operazione meta-cinematografica atta a donare un senso di ubiquità e di quotidianità del terrore. Come abbiamo visto, attraverso Kruger, Craven utilizza alcuni concetti della psicoanalisi come quelli di personificazione, transfert e condensazione come dei contenitori vuoti all’interno dei quali inserisce elementi desunti dal nostro quotidiano e la narrazione che ne risulta diventa espressione di un’esperienza – quella del vissuto del regista – che s’intreccia con l’esperienza – solo in apparenza – passiva dello spettatore. Attraverso l’esperienza filmica che Craven prova a consegnarci sperimentiamo, quindi, proprio quel concetto di reversibilità che è la pietra angolare dell’ontologia merleau-pontyana. Percezione ed espressione, esperienza onirica ed esperienza desta s’intrecciano e il Freddy che abbiamo conosciuto rappresenta paradossalmente egli stesso la dissoluzione del quisque onirico perché sarebbe, forse, fin troppo rassicurante pensare che l’angoscia possa essere racchiusa in un solo corpo: l’angoscia è nell’Elm Street di tutti noi, magari nella stradina di paese che percorriamo quotidianamente per tornare a casa e, probabilmente, attende soltanto il prossimo sogno per farsi corpo.


[1] C. Brillante, Studi sulla rappresentazione del sogno nella Grecia antica, Sellerio, Palermo 1991, p. 40.

[2] Ibid., p. 21.

[3] Ibid., p. 55.

[4] S. Freud, L’interpretazione dei sogni (1899), in Opere, vol. 3, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1966, p. 259.

[5] Ibid.

[6] M. Foucault, Introduzione a Sogno ed esistenza (1954), in L. Binswanger, Sogno ed esistenza (1930), tr. it. Éditions du Seuil, Milano 1993, p. 18.

[7] L. Binswanger, op. cit., p. 96.

[8] R. Dreon, Chi è che sta sognando? Merleau-Ponty su sonno e sogno, in «Aisthesis. Pratiche, linguaggi e saperi dell’estetico», 5, 2, 2012, pp. 249-265 http://www.fupress.net/index.php/aisthesis/artiicle/view/11476/10972.

[9] M. Merleau-Ponty, La Natura (1995), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2011, p. 112.

[10] Id., Fenomenologia della percezione (1945), tr. it. Bompiani, Milano 2003, pp. 373-374.

[11] Ibid.

[12] Ibid., p. 277.

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