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Indice
Note storico-culturali in margine al Convegno Meccanicismo. Riflessioni interdisciplinari su un paradigma teorico
Centro Interdipartimentale di Ricerca sulla Storia delle Idee (CIRSI) dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Accademia di Scienze, Lettere ed Arti – Fondazione Collegio San Carlo
Modena 14 - 15 dicembre 2017
- Introduzione
- Il meccanicismo e i suoi fasti: il XVII secolo
- Evoluzione e crisi di un paradigma: il XIX e il XX secolo
S&F_n. 19_2018
Abstract
THE MECHANISTIC CONCEPT OF THE WORLD. HISTORICAL AND CULTURAL NOTES ABOUT A RECENT CONFERENCE
This work provides some contributions about the mechanistic paradigm from historical and philosophical perspective, taking into consideration its evolution from the ancient age until the contemporary science. This analysis is inspired by the conference “Mechanism. Interdisciplinary considerations about a theorical paradigm” organized by the research centre CIRSI of University of Modena and Reggio Emilia held in 14 and 15 December 2017. The work is structured into three sections. The first explains the research goals of the conference; the second is focused on the seventeenth century, the period of the main development of mechanistic paradigm; the third part explores its evolution and its crisis during the contemporary age.
- Introduzione
“Meccanicismo. Riflessioni interdisciplinari su un paradigma teorico”, Convegno organizzato dal Centro Interdipartimentale di Ricerca sulla Storia delle Idee (CIRSI) dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e realizzato il 14 e 15 dicembre 2017, ha inteso muoversi verso il “fatto culturale” quale evento “totale” e “stratificato”. E non poteva esser altrimenti, vista la vocazione che ha animato le analisi del gruppo di studiosi che hanno preso parte all’evento, vocazione, tra l’altro, subito esplicitata chiaramente dalle parole della direttrice del CIRSI, Berenice Cavarra, nel corso della presentazione del Convegno: l’obiettivo è infatti stato quello di ricostruire genealogicamente «il significato e l’evoluzione culturale del paradigma teorico del Meccanicismo all’interno della storia delle idee» in un’indagine che, partendo dall’antichità e passando per il cuore dell’età moderna, è giunta sino agli acquisti teorici della scienza più recente
(cfr.http://www.magazine.unimore.it/site/home/notizie/articolo820041443.html).
Con la consapevolezza che la filosofia è tale solo nel proprio auto-trascendersi nell’Altro, nella propria compromissione con il multiforme dato storico analizzato alla lente delle più svariate discipline, il percorso delle relazioni proposte si è concentrato sulla fortuna del paradigma meccanicistico nella cultura occidentale quale modello interpretativo dell’uomo e del mondo.
L’organizzazione dell’evento si è svolta in due giornate – la prima presso i suggestivi spazi dell’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Modena, la seconda presso la prestigiosa Fondazione Collegio San Carlo – focalizzate su tre principali direttici di ricerca identificate dai nomi delle sessioni del convegno: 1) Il meccanicismo nella storia della cultura (presieduta da Sergio Ferrari, Prorettore dell’Università di Modena e Reggio Emilia); 2) Il modello meccanicistico tra filosofia e fisica (presieduta da Marco Sola, Presidente della Sezione di Scienze Fisiche, matematiche e naturali dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Modena); 3) Meccanicismo e immagini della vita (presieduta da Vallori Rasini, docente di Filosofia Morale presso l’Università di Modena e Reggio Emilia).
I lavori del convegno si sono aperti, il giorno 14 dicembre, con i saluti del Rettore dell’Università di Modena e Reggio Emilia Angelo Oreste Andrisano.
- Il meccanicismo e i suoi fasti: il XVII secolo
Una ricostruzione di ampio respiro della fortuna dell’idea di meccanicismo è stata quella esposta nella relazione di Antonello La Vergata, docente di Storia della Filosofia all’Università di Modena e Reggio Emilia, “Organico” contro “meccanico”. Momenti di un’antitesi, ove sono subito emersi i tratti teorici salienti del paradigma in esame.
La fioritura del modello, come noto, avviene nel XVII secolo in concomitanza con la nascita della scienza moderna e alla sua inclinazione interpretativa dei fenomeni naturali tramite i principi del movimento locale, i principi della meccanica. Tale approccio subì, nel corso del tempo, delle sensibili evoluzioni assumendo due conformazioni sostanziali, l’una metodologica – in cui le leggi fenomeniche sono sussunte sotto i più generali principi della meccanica – l’altra caratterizzata da incidenze più decisamente ontologiche secondo la quale, l’essenza dell’apparire, sarebbe costituta da elementi dotati di proprietà puramente meccaniche.
La speculazione di pensatori come Isaac Beeckman, Simon Stevin e Leibniz favorì certamente l’affinamento concettuale della teoria facendo assurgere la disciplina del moto a materia principe per la spiegazione dei fenomeni. Se già con Galileo è possibile rinvenire un fecondo intreccio fra l’aspetto metodologico e quello ontologico nello scoprire l’oggettività della natura nella sua sola meccanicità e nel ridurre la gran parte dell’esperienza a fallace apparenza attraverso la netta distinzione fra qualità primarie, oggettive, e qualità secondarie, frutto dell’interazione dei nostri organi di senso e il mondo esterno, sarà con René Descartes che metodologia e ontologia meccanicista verranno fuse inscindibilmente dando vita a un paradigma che, per la sua coerenza ed essenzialità, avrà un’influenza straordinaria.
Proprio attorno a questa topos della modernità si è concentrata la comunicazione di Emanuela Scribano, docente di Storia della Filosofia presso l’Università Cà Foscari di Venezia, dal titolo Orologi e orologiai: attorno alle macchine di Cartesio, in cui si è argomentato attorno alla concezione deterministica del filosofo francese.
I processi naturali, fisici e biologici sono ricondotti a serie causali rigidamente ordinate secondo le leggi del movimento che, a loro volta, descrivono una realtà, la res extensa, concepita quantitativamente e la cui proprietà essenziale, colta con evidenza lampante, è quella di stagliarsi nello spazio, di occupare geometricamente una porzione di realtà. La scissione alla base della metafisica cartesiana fra esteso e inesteso (res cogitans), se provoca problemi non indifferenti sul piano teoretico (come già notò l’acume di Pierre Gassendi nelle Quinte obiezioni alle Meditationes), consentì quella poderosa opera di totale riduzione del mondo fisico-biologico al movimento di parti estese differenziantisi solo per grandezza e figura. È in questo modo che tutti i corpi, senza distinzione alcuna fra materia organica e inorganica, vengono pensati come macchine sapientemente assemblate da parti estese in movimento e che gli organi, motori dei processi vitali, vengono rubricati al grado di ruote e contrappesi di un orologio o di un automa, come ne L’homme (cfr. AT, XI, pp. 201-202). Identificando la materia con l’estensione Descartes concepì un’ontologia pura, essenzialissima, basata su una manciata di qualità meccaniche – la forma geometrica, la dimensione, il movimento – nel tentativo di purgare l’immagine della realtà dalle spiegazioni, molto spesso oscure, che il naturalismo e il magismo rinascimentale erano soliti fornire. A questo livello il contatto fra i corpi, l’urto, è l’unico tipo d’interazione ammesso e le leggi che lo regolano, assieme al principio d’inerzia che norma i movimenti dei corpi liberi, rappresentano i cardini della nuova scienza del movimento. Concepire un modello meccanico come giustapposizione di forme geometriche in movimento era allora la via suprema detenuta dal metodo scientifico per accedere conoscitivamente alla dimensione ontologica. Solo facendo riferimento a questo sapiente equilibrio fra ontologia meccanicista e metodologia modellista si può comprendere, a nostro avviso, come la scienza della natura potesse essere identificata con la matematica. Per Descartes, se la geometria è quella disciplina che si occupa delle forme dello spazio in quiete, la fisica deve essere praticata come la scienza delle forme dello spazio in movimento e può venir perspicuamente dedotta da assiomi stabiliti a priori.
Questa, crediamo, sia la grande intuizione alla base del meccanicismo seicentesco, concezione che risplende nella sua forma più adamantina proprio nella filosofia dell’autore del Discours: l’intelletto umano è capace di creare non soltanto la matematica ma anche la fisica anzi, meglio, esso può creare la fisica proprio perché è in grado di creare la matematica.
Questo modo d’intendere la matematica, non più solo come un mero strumento, ma come elemento costitutivo della realtà è, ad esempio, preponderante nella filosofia dell’olandese Christiaan Huygens (1629-1695), cartesiano di ferro, nelle cui posizioni trovano spazio, con importanti risvolti applicativi, il corpuscolarismo di Descartes e Gassendi e il programma meccanicistico ideato da Robert Boyle. Tale ortodossia meccanicistica sarebbe però stata messa in crisi dall’opera rivoluzionaria di Sir Isaac Newton che, momento apicale del matematismo del XVII secolo per l’assiomatizzazione della meccanica operata nei suoi Principia Mathematica (1687), introdurrà la nozione di forza, delineata nelle due edizioni della sua Ottica (1706-1717), nel novero delle qualità oggettive per conciliare, questo è rilevante, la meccanica matematizzata di Galilei con il meccanicismo cartesiano.
A completare il quadro dell’evoluzione del modello meccanicista in età moderna è stata l’analisi condotta da Carlo Altini, docente di Storia della Filosofia all’Università di Modena e Reggio Emilia, intitolata Meccanicismo politico e no. Tra Hobbes e Spinoza.
L’interesse dell’impostazione meccanicistica alla base della filosofia di Thomas Hobbes risiede tutta nella vertiginosa estensione che la caratterizza: il meccanicismo è esteso, infatti, oltre che alla dimensione psichica, anche a quella morale e politica. Qui il dualismo cartesiano scandito dalle istanze della res cogitans e della res extensa è risolto in una direzione materialistica che, lungi dall’avere una connotazione marcatamente metafisica, ne possiede una invece piuttosto metodologica. Hobbes è infatti convinto dell’impossibilità di cogliere la realtà nel suo assoluto essere in-sé, di poter operare una descrizione essenziale dell’apparire di ciò che appare, egli, tutt’al più, considera il proprio materialismo semplicemente come un’ipotesi razionalmente ordinata, utile all’elaborazione di una scienza che sistematicamente debba occuparsi dell’uomo. È in questo contesto che, ad esempio, lo Stato (civitas) viene concepito come un’entità frutto d’invenzione, una specie di «prodotto dell’arte e un uomo artificiale» (Leviathan, Introduction, § 1).
Questo processo di macchinalizzazione, di riduzione a una congerie di raffinati meccanismi, è presente anche nella filosofia di Baruch Spinoza. La natura è concepita, nella sua totalità, come una macchina cosmica dall’infinita estensione che, a sua volta, riproduce su scala ingrandita la composizione dei singoli individui-macchine, nient’altro che automi governati da leggi meccaniche.
La coloritura del meccanicismo spinoziano è invece, rispetto a quella hobbesiana, decisamente metafisica, avendo esso l’ambizione di descrivere la realtà nelle sue partizioni più riposte.
La costruzione è originale: se infatti la suprema macchina cosmica, la macchina delle macchine, Dio, è identificata con la Natura Naturans, causa di tutto e perenne produzione di sé e delle cose, il mondo, la Natura Naturata, è concepito come un marchingegno configurato sulla base di una legalità geometrico-matematica improntata a un ferreo determinismo causale. Tale perfetto ordinamento, in cui tutte le parti dell’esistente sono connesse in maniera tanto universale quanto necessaria, è passibile di intelligibilità da parte della mente umana attraverso l’intuizione orientata sul modello euclideo-newtoniano che, permettendo all’uomo di porsi dal punto di vista della Natura Naturans, consente di cogliere la ratio regolatrice dell’infinita concatenazione causale dei modi della sostanza divina.
Tali forme di matematismo non tarderanno a culminare, passando per il Kant dei Principi metafisici della scienza della natura (1786) che cerca di derivare i principi della meccanica dalle categorie della ragion pura, in una delle visioni deterministiche più note, quella di Pierre Simon de Laplace, attraverso la quale si consuma il decisivo passaggio da una concezione razionalista della scienza a una visione approssimativista della stessa, strumentalmente piegata alle esigenze dell’empirico. I due corni del newtonianesimo, che per anni erano stati giudicati inconciliabili, il filone sperimentalista dell’Opticks e quello matematizzante dei Principia, avevano così trovato, finalmente, il loro luogo teorico d’elezione.
- Evoluzione e crisi di un paradigma: il XIX e il XX secolo
Questa inclinazione dello spirito umano al concepimento del mondo come una grande macchina spiegabile razionalisticamente attraverso le categorie di figura e movimento sembra, però, affondare le proprie radici già nel pensiero antico come ha mostrato l’intervento di Ivano Dionigi, docente di Filologia Classica e Italianistica presso l’Università di Bologna, il cui tema è stato Elementa vocis, elementa mundi; ovvero la grammatica del cosmo in Lucrezio, e quello di Berenice Cavarra, docente di Storia della Medicina all’Università di Modena e Reggio Emilia, dedicato a Meccanicismo e antimeccanicismo nella dossografia antica e nella tradizione aristotelica tardoantica.
È possibile dunque rilevare, già attorno al 400 a. c., un’idea proto-meccanicistica alla base dei sistemi atomistici di Leucippo e Democrito: il movimento degli atomi, differenti per dimensione, forme e stato di moto, è causa delle qualità percepibili e la modalità d’interazione fra corpuscoli è quella dell’urto. La forma geometrica degli atomi e il loro moto sono la base per la spiegazione generale dei fenomeni nei quali è già possibile scorgere, in nuce, quella fondamentale distinzione del meccanicismo seicentesco, formalizzata da Galileo, tra qualità primarie e secondarie: «Apparenza il colore, apparenza il dolce, apparenza l’amaro; in realtà, soltanto gli atomi e il vuoto» (DK 68 B 125). Il meccanicismo di marca democritea, attraverso la polemica platonico-aristotelica e l’elaborazione della fisica epicurea esposta da Lucrezio nel poema didascalico De rerum natura, assumerà nel tempo tratti sempre più metafisicamente connotati approdando a un materialismo antagonistico rispetto alle filosofie d’impostazione finalistica.
Ma se è vero che l’aristotelismo venne già fortemente criticato nel corso del XV secolo attraverso il parziale abbandono, ad esempio nel campo della nascente chimica, della dottrina dei minima naturalia a favore di concezioni che si connettevano direttamente al meccanicismo democriteo – la nozione di forma di Aristotele venne gradualmente sostituita da categorie meccaniche come lo stato di movimento, la forma geometrica, la disposizione, la dimensione – per diventare l’acerrimo nemico della filosofia dominante nel XVII secolo, è vero anche che il movimento locale, già però nella dottrina dello Stagirita, possiede una posizione rilevante in quanto base per tutte le altre tipologie di movimento – il corpo subisce una trasformazione quantitativa per dilatazione o contrazione; i cambiamenti qualitativi sono causati dall’incontro nello spazio di un agente in grado di provocare quel cambiamento ecc. In generale però, come mostrato, bisognerà attendere la Rivoluzione Scientifica affinché le leggi del movimento locale, adeguatamente formalizzate, assurgano al ruolo di strumento privilegiato della ricerca; esse mantennero, in definitiva per tutta l’antichità e il medioevo, un’importanza del tutto secondaria tranne che, rarissima eccezione, nelle teorie del francese Nicola d’Autrecourt (1299–1369) per cui il cambiamento non era che un movimento atomico di sistole e diastole fra disgregazione e compattamento di entità corpuscolari.
Tra la fine del Settecento e l’inizio del XIX secolo il paradigma meccanicistico s’impose di diritto nell’orizzonte delle scienze europee attraverso la formulazione datane da Laplace che, come accennato, lavorò su un unico disegno esplicativo, sottile sviluppo della filosofia newtoniana, proposto come modello meccanico ipotetico utile all’unificazione dei i vari capitoli della fisica.
Si poteva però già udire, nel corso dello stesso XIX secolo, lo scricchiolare di una simile impostazione che, man mano, diveniva sempre più problematica, per esempio, rispetto alle acquisizioni teoriche dell’ottica ondulatoria di Jean Augustin Fresnel (1788-1827) e di James Clerk Maxwell (1831-1879) che, invece di utilizzare come categoria esplicativa quella di azione a distanza, proponevano una visione della natura di tipo continuistico.
La messa in discussione del principio di relatività galileiano attraverso le equazioni di Maxwell per l’elettromagnetismo e la scoperta della sostanziale irreversibilità dei fenomeni naturali operata dalla termodinamica, di contro a quanto affermato dalle equazioni della meccanica, fecero il resto.
Il colpo di grazia al meccanicismo venne sferrato dalle teorie di autori come Boutroux, Duhem, Poincaré, Mach, Ostwald e Johan Bernard Stallo cui seguì, nel corso del Novecento, una definitiva decostruzione attraverso le intuizioni suggerite dalla teoria della relatività e dalla meccanica quantistica.
Il quadro metafisico novecentesco veicolò un’immagine della natura lontanissima da quella che per tre secoli l’uomo occidentale aveva imparato a conoscere; l’irrappresentabilità delle entità atomiche, l’identificazione fra massa ed energia, nonché quella fra inerzia e gravitazione, il principio di indeterminazione di Heisenberg, il dualismo onda-corpuscolo, la relatività delle lunghezze e degli intervalli temporali, la quantizzazione dell’energia, portarono a un cambio di paradigma epocale attraverso il quale l’uomo, dopo secoli, fu costretto a guardare il mondo con occhi nuovi.
Esattamente su questa fase della fortuna del paradigma meccanicista si è concentrata l’esposizione di Vincenzo Barone, docente di Fisica teorica all’Università del Piemonte Orientale, intitolata Dalle leggi ai principi: le simmetrie nella fisica del Novecento, finalizzata a indagare le implicazioni scientifiche di enorme portata alla base del concetto di simmetria in Fisica. Quest’ultimo è pensato come principio d’invarianza delle leggi della natura in grado di far luce sull’intima composizione dell’universo, sulle sue entità fondamentali e le proprietà e interazioni fra loro possibili.
Alla base degli assunti della meccanica quantistica, della fisica sub-nucleare e della teoria della relatività vi sarebbe, allora, una concezione genuinamente estetica legata all’eleganza della ricorsività di strutture matematiche come, d’altra parte, dimostrò in maniera icastica Paul Dirac che, invitato dal collega russo Dimitri Ivanenko all’Università di Mosca nel 1956, descrisse la propria personale visione della fisica, in maniera molto greca diremmo, come tutta improntata a un principio di armonia e bellezza matematica.
Interessate all’approfondimento del fenomeno meccanicista in campo scientifico, questa volta declinato sul fronte biologico con particolare riferimento alla genetica e all’embriologia, sono state le riflessioni proposte da Alessandro Minelli, docente all’Università di Padova, e da Mauro Mandrioli, professore di Genetica all’Università di Modena e Reggio Emilia, intitolate, rispettivamente, Origini, confini e cause dei processi dello sviluppo: dall’Entwicklungsmechanik a evo-devo e Quello che i geni non dicono. Effettivamente, l’aspetto biologico riguardante la storia del concetto affrontato non poteva certo essere trascurato all’interno di un’analisi così approfondita e sensibile all’interdisciplinarietà come quella proposta dal convegno modenese e, forse, questo capitolo dedicato all’estensione degli schemi meccanicistici alla spiegazione della vita è uno di quelli più appassionanti e, al contempo, ancora non totalmente approfonditi.
Molto prima dell’inaugurazione, al crepuscolo dell’Ottocento, da parte di Wilhelm Roux dell’embriologia causale o meccanica dello sviluppo come teoria meccanicistica alla base dell’adattamento funzionale delle parti di un organismo, nella seconda metà del Seicento sorse, aspetto questo spesso trascurato, una scuola di biologia meccanicista denominata iatromeccanica che, frutto dell’applicazione allargata del modello meccanicistico ben oltre la fisiologia delle sensazioni e forte della scoperta della circolazione del sangue come sistema idraulico da parte di William Harwey (1578-1657), si proponeva di applicare con metodo sistematico i principi della meccanica per indagare l’estrinsecarsi dei movimenti di uomini e animali.
Da allora filosofia e scienza hanno percorso molta strada, soprattutto se si pone mente alle recenti acquisizioni di una branca come quella della biologia evolutiva dello sviluppo finalizzata allo studio strutturale del genoma nel suo rapporto dialettico fra ontogenesi e filogenesi.