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Frammenti del sé on line: coscienza, autocoscienza e memoria digitale

Autore


Angela Arsena

Università degli Studi di Foggia

svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Foggia

Indice


  1. Essere parmenideo ed esserci heideggeriano nell’Infosfera
  2. Memoria e identità analogica e digitale
  3. Intimità ed esteriorità teoretica
  4. Intimità ed esteriorità digitale
  5. Il sé nel Web
  6. Tempo e memoria nel virtuale

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S&F_n.  20_2018

Abstract


FRAGMENTS OF THE ONLINE SELF: CONSCIOUSNESS, SELF-CONSCIOUSNESS AND DIGITAL MEMORY


The digital revolution has exposed cognitive and mnemonic functions: in this work we discuss the concept of collective memory not so much in terms of sharing opinions and events, but in the Augustinian terms of memory as container, support, custodian and origin of one’s own individuality. We attempt to hypothesize the risks and the potentialities of excessive connection and sharing of the self on the Net taking, as an example, the recently surfaced human drive to share the portrait of oneself online.

  1. Essere parmenideo ed esserci heideggeriano nell’Infosfera

Nel 1998 una raccolta di saggi a cura di Bynum e Moor[1] presagiva quanto e come i computer stessero modificando la filosofia, intendendo con essa questioni, metodi e modelli sulla mente, la coscienza, l’esperienza, il ragionamento, il concetto di verità, di etica e di estetica[2].

L’argomento principale della discussione della riflessione, e anche forse quello più inattuale o solo, agli sgoccioli del Novecento, semplicemente profetico, prendeva le mosse dalla consapevolezza che la rivoluzione digitale stesse modificando il mondo più radicalmente e più rapidamente della rivoluzione copernicana, alterando irrimediabilmente la comprensione della natura dell’uomo come animale sociale e politico e, prima ancora, la comprensione della natura dell’universo: nell’era della rivoluzione informatica, l’essere umano diventa ente «fondamentalmente informazionale»[3] e, analogamente, lo spazio-tempo diventa «spazio-tempo computazionale»[4] quale tessuto ultimo della realtà. L’orizzonte ermeneutico che si spalanca nell’era digitale è abitato dunque dal concetto di informazione che, alla stregua di concetti quali essere, conoscenza, bene e male, è autonomo nella sua dignità ontologica e metafisica[5] e dal bit computazionale che è il nuovo archè[6], fondamento ultimo del linguaggio e della realtà, oppure, diremmo noi, da un’informazione che, pur avendo, a nostro parere, le caratteristiche di un Essere parmenideo[7] (contrapposto a un “non essere” che altro non è che dis-informazione, «assenza o negazione di ogni informazione»[8]) è fondamentalmente bit computazionale[9]: in altri termini, l’orizzonte ermeneutico che si spalanca nell’era digitale è un orizzonte caratterizzato da quella che Luciano Floridi chiama infosfera[10], ovvero universo (o già multiverso) dell’uomo-informativo, o informante (portatore di informazioni, capace di informazioni e capace di cambiare l’ambiente attorno con le informazioni, così come millenni or sono ha cambiato l’ambiente con l’uso del pollice[11]). Un universo siffatto è retto da leggi etiche intrinseche che tendono, essenzialmente, a un imperativo morale che Floridi riassume in un benessere informativo che «deve essere promosso, estendendo (quantità informativa), migliorando (qualità informativa) e arricchendo (varietà informativa) l’infosfera»[12].

Ora, se è vero che nell’era digitale l’uomo è essenzialmente ente informazionale, si evince dunque che la condizione principale della sua esistenza, dell’«esserci» alla maniera di Heidegger, coincida con la sua capacità o possibilità di dare e ricevere informazioni e di stare nel mondo[13] (nel mondo delle informazioni, in questo caso, che coincide con il mondo tout-court): «parlando», scrive Heidegger ma potremmo anche dire, senza fallo, “informando”, «l’Esserci si esprime, non perché sia dapprima incapsulato in un dentro contrapposto a un fuori, ma perché esso, in quanto essere-nel-mondo, comprendendo, è già fuori»[14].

Nell’informazione e nella possibilità, data all’uomo, di porgerla, si può dunque intravedere l’essenza dell’uomo contemporaneo, già individuata da Bachtin per il quale «l’esistenza dell’uomo (sia quella esteriore, sia quella interiore) è una profondissima comunicazione. Essere significa comunicare. La morte assoluta (non essere) è impossibilità di essere uditi, di essere riconosciuti, di essere ricordati»[15].

Analizzando, dunque, la nuova postura dell’umano nell’infosfera, si perviene alla consapevolezza che l’esistenza contemporanea sia onlife[16], ove online e offline (come se fossero lo stato di veglia e di sonno, fisiologici per l’umano) sono annullati, fagocitati dall’aspettativa collettiva che agli individui sia data un’unica condizione: o si è connessi, capaci di scambiarsi informazioni (indipendentemente dalla modalità di essere in linea), oppure non si è. La dimensione digitale traghetta l’uomo da forme di intelligenza collettiva[17], che ridisegna le nuove identità sociali e politiche non su appartenenze territoriali, geografiche o istituzionali, bensì sull’adesione a interessi comuni (anche ludici, o comunque legati a vario titolo all’otium e non solo al negotium), a forme di intelligenza distribuita, che non a caso De Kerckhove ha battezzato intelligenza connettiva, ovvero un sapere dato dalla moltiplicazione (anche esponenziale) delle singole intelligenze (interconnesse da una Rete di relazione), e non dalla mera somma o dalla media di esse[18].

In ogni caso si tratta di una forma di esteriorizzazione dell’intelligenza (supportato e disvelato dalla Rete)[19], un pensiero che emerge, proprio nel senso di quell’essere proiettati fuori, di cui parlava Heidegger. Se per McLuhan l’artefatto tecnico (dell’era elettrica) era nient’altro che un prolungamento dei nostri arti e dei nostri sensi[20], per De Kerckhove (allievo di McLuhan) la Rete (nell’era digitale) è un prolungamento del pensiero, ovvero «una forma di estensione dell’intelligenza e della memoria privata ma fatta collettiva»[21]. E anche una forma di visualizzazione della mente, che si fa fenomeno visivo, icona: «quello che prima stava dentro di noi – scrive De Kerckhove – ora è su uno schermo»[22].

Se la Rete è il prolungamento del Nous ed è altresì il prolungamento della memoria a essa legata, allora la Rete è anche deposito di una nuova forma d’identità che qualifica e definisce l’umano, un’identità anch’essa collettiva e connettiva, precipuamente digitale che allarga, amplifica i confini, già indefinibili, dell’identità analogica.

 

  1. Memoria e identità analogica e digitale

Sappiamo che nella tradizione filosofica l’identità dell’umano si caratterizza dalla consapevolezza di sé[23], in una dinamica relazionale tra memoria e identità[24] che già Locke voleva legate in un rapporto lineare[25] (al limite del tautologismo, come diranno Leibniz, Butler e Reid[26]) e che sarà formalizzato nei canoni della filosofia occidentale e novecentesca: «per essere una persona – scriveva Derek Parfit – un essere deve essere autocosciente, consapevole della sua identità e della sua esistenza continua nel tempo»[27].

Ebbene, Agostino d’Ippona aveva compreso la relazione indissolubile proprio tra la consapevolezza del proprio io, della proprio esserci, della propria identità e l’essenza della memoria umana: nelle Confessioni, quando parla delle facoltà grandiose della memoria che «ispira quasi un senso di terrore, Dio mio, per la sua infinita e poderosa complessità»[28], si accorge, quasi con stupore, che questa dimensione infinita coincide con se stesso

e ciò è lo spirito, e ciò sono io stesso [...] ed essere nella memoria è essere nello spirito [...] per tutti questi luoghi io trascorro, ora volo qua e là, ora penetrandovi anche quanto più posso, senza trovare limiti da nessuna parte, tanto grande è la facoltà della memoria, e tanto grande la facoltà di vivere in un uomo, che pure vive per morire[29].

 

La memoria, dunque, non soltanto è enorme, illimitato, indefinito contenitore di ricordi che pure rimangono caratterizzati da un infinito presente (una sorta di tempo interiore sempre attuale che porterà Agostino a parlare di «presente del presente, presente del passato, presente del futuro»[30] nonché a usare il tempo presente, e mai il passato, anche quando parlerà della madre morta che rimane sempre viva, in parole, in immagini e in icone, nel suo ricordo), ma è anche contenitore del suo opposto, della non-memoria, ovvero dell’oblio, perché per Agostino, quando ricordiamo, la memoria è presente a se stessa con tutta se stessa, con le tracce di ciò che abbiamo dimenticato[31]: entrambe queste dimensioni (memoria e oblio) costruiscono l’identità personale che si ramifica, si estende lungo tutta la rete labirintica della memoria. L’io, infatti, non è mai lineare come non è lineare l’impalcatura mnestica che lo supporta.

È impossibile, infatti, per la memoria umana, costruirsi a pezzi, a zone, a file, e ordinarsi secondo uno schema fisso (qui il ricordo d’infanzia, qui il sapore antico, qui la nascita del primo figlio), ma, proustianamente, tutto è legato a tutto e anche particolari insignificanti e slegati da ogni contesto sollecitano i più remoti ricordi, apparentemente dimenticati: in altri termini, come scriverà Bergson[32], essa è contenitore del vasto io che attraversa (e viene attraversato) dall’oceano della memoria stessa (talvolta naufragandovi), è contenitore della percezione del tempo individuale e soggettivo che non passa, non fluisce e non scorre, come voleva Eraclito, ma soggiorna, abita tutti gli spazi del nostro “disco rigido”, ne pervade l’atmosfera, la determina e, mentre sosta in tutti gli anfratti, costruisce la nostra identità, attraverso «tutti gli istanti del ricordo»[33].

Per questo una macchina che impara in un contesto di learning machine non potrebbe mai usare l’oblio nella maniera agostiniana o proustiana[34]: la macchina, infatti, o lega due fatti indissolubilmente tra loro e dunque ricorda (nel senso che all’apparire di uno, compare anche l’altro), oppure non ricorda, ma non potrebbe mai rimuovere (inconsciamente o volontariamente) un evento ancorato nel sistema della memoria, per rivederlo rievocato a causa del sapore casuale di una madeleine. Un algoritmo, ad esempio, può ricordare il titolo degli ultimi libri acquistati on-line e suggerire altri prodotti analoghi[35], ma non soltanto potrebbe pedestremente consigliare Guerre Stellari dopo aver avuto contezza dell’acquisto di Guerra e Pace ma, soprattutto, mai potrebbe dimenticare la relazione instaurata automaticamente tra il profilo utente e le sue presunte predilezioni per titoli bellici o di contenuto militare, riproponendo questa relazione pedissequamente, senza postulare l’ipotesi che l’utente sia un autentico pacifista.

Si potrebbero qui individuare tre grandi aree di discussione: la prima, forse la più rilevante, è la differenza epistemologica tra memoria digitale e memoria umana[36], ossia il fatto che la memoria digitale può disporre di uno spazio che, sebbene enorme, si rivelerà sempre finito, richiedendo di essere pertanto periodicamente ripulito perché possa essere riutilizzato, pena una saturazione; la memoria analogica e umana, invece, sembra essere dotata di uno spazio direttamente proporzionale al contenuto riversato[37]: più oggetti mentali vengono immagazzinati, più essa si allarga e, di contro, meno oggetti mentali vengono immagazzinati, più essa si atrofizza[38].

La seconda differenza è di natura psichica e, oseremmo dire, emotiva, emozionale e investe i rischi inevitabili dell’adattamento cui va incontro la memoria umana (sia privata, sia collettiva[39]) nel momento in cui si riversa in forma digitale[40]: la traduzione della nuvola di sapere informativo in formato digitale trascina con sé quello che si può definire un vero e proprio “trauma della digitalizzazione”[41], ovvero una perdita di tutto ciò che non è traducibile e trasferibile in modalità binaria. Se un contenuto (in immagini, in video, in agglomerati di bit) viene nuovamente ricodificato dal digitale in analogico (ovvero, se da una foto o da un video volessimo procedere verso un’esegesi e poi un’ermeneutica di significato circa il soggetto rappresentato), potremmo infatti assistere, semiologicamente, a una perdita e a uno scollamento di senso, come un testo che, tradotto e ritradotto da una lingua all’altra, perde pezzi di significante[42].

La terza argomentazione riguarda il rischio, insito nella memoria digitale, di un overload informativo[43], dove l’oblio è dato non dalla carenza delle informazioni, ma paradossalmente dal suo eccesso[44] e dove quell’oblio, lungi dall’essere fondativo e fondante per l’identità, come voleva Agostino, radicato e ramificato nell’identità, non si traduce più in un sostrato psichico bensì in una somma di bit che, se cancellati da ogni supporto, o non lasciano più traccia (come se non si fosse mai stati al mondo) oppure rimangono a dispetto della nostra volontà di dimenticare o di essere dimenticati, tanto da dover invocare una legislazione ad hoc che parla oggi addirittura di «diritto all’oblio nell’era digitale»[45].

 

  1. Intimità ed esteriorità teoretica

Eppure, quello che qui interessa è il gesto, eminentemente filosofico ed ermeneutico, di Agostino quando naviga nella sua memoria, «le sue distese e i suoi palazzi»[46], la sorvola «qua e là, ora penetrandovi, senza trovare limiti da nessuna parte»[47] e, attraversandola, «come una cripta profonda e sconfinata»[48], costruisce, fortifica il proprio io il quale prende atto della vita interiore, intima, dove addirittura, secondo Agostino, alberga la verità e Dio stesso, e che è distinta inesorabilmente dalla vita esteriore.

La costruzione della propria intimità attraverso i frammenti e i percorsi di memoria, lontana dal palcoscenico dell’esteriorità, non rappresenta un passaggio verso il solipsismo che, tuttavia, caratterizza l’agostiniano stile delle Confessioni, bensì interpella un momento importante sia nel cammino verso la maturità personale, sia nel cammino dell’umanità, ovvero il passaggio, talvolta stretto, che quest’ultima attraversa quando imbocca l’uscita da uno stato primitivo, abitato dal mito, verso uno stato adulto, abitato dal logos e dalla ragione.

Il primo gesto filosofico dell’umano è l’uscita dal mondo del mito per un bisogno di risposte autonome e razionali circa la realtà circostante e circa se stessi: il mitema, sosteneva Derrida, è un pre-filosofema e la logica filosofica giunge a se stessa quando il concetto si sveglia dal suo sonno mitologico[49].

Si tratta di un passaggio che conduce verso una nuova postura del pensiero che ha impiegato secoli per compiersi e che ha condotto non al ripudio del mito il quale, secondo Giorello, al contrario, «non ha mai cessato di trasformare i luoghi che attraversa»[50], sedimentandosi nella memoria collettiva intesa proprio come contenitore inesauribile di immagini[51], bensì ha condotto verso l’abbandono irreversibile di un mondo dove, come voleva Eraclito, «tutto è pieno di Dei»[52], ovvero ha portato a una fuga dalla visione olistica e olisticamente miope. Secondo Cassirer nel mito, infatti

non c’è una cosa-sostanza, la quale, come alcunché di permanente e di immutabile stia a fondamento dei mutevoli e fugaci fenomeni, dei semplici accidenti. La coscienza mitica non inferisce dall’apparenza all’essenza, essa possiede, ha in sé l’essenza. [...] L’essenza non si distribuisce qui su una molteplicità di diverse maniere possibili di rappresentazione, ciascuna delle quali contenga soltanto un frammento di essa, bensì si manifesta nell’apparenza come totalità, come unità integra ed indistruttibile[53].

 

In altri termini, l’uomo immerso nel mito ha una concezione totalizzante dove «ciascuna parte, letteralmente, contiene l’intero, di cui è parte e può quindi esercitare tutta l’efficacia causale dell’intero»[54]. Un uomo-frattale, oseremmo dire, in un universo-frattale: «nell’uomo del mito, nei suoi capelli, nelle sue unghie tagliate, nei suoi vestiti, nelle impronte dei suoi piedi, è contenuto l’uomo intero»[55].

La filosofia nasce quando l’individuo si sottrae deliberatamente a questa condizione (anche rassicurante) che tutto giustifica e tutto sostiene perché, come sottolinava Walter Otto, grande interprete del racconto mitico inteso come tessuto primordiale dell’umanità

finché sussistette l’originaria totalità, l’uomo non sentì il bisogno di scavare nel suo intimo, in quanto trovava al proprio esterno il grande mito nel quale era egli stesso implicato e che tutto univa formando. Come poi questa sicurezza, che assomiglia all’abbandonarsi che fa il bambino nelle braccia materne, poté o dovette andar perduta, non va chiesto[56].

 

Uscire da una dimensione mitica significa dunque uscire, kantianamente, dalla minore età e distinguere finalmente un dentro (una vita intrapsichica) e un fuori (la natura e il mondo e la realtà comunque intesa) autonomi.

Non a caso la rivoluzione socratica comincia con uno sguardo rivolto verso la conoscenza di se stessi, muovendo poi da questa all’esterno nel tentativo di pervenire a uno stato di apollineo equilibrio tra dentro e fuori[57] e non a caso il dio greco legato a doppio filo alla condizione della malattia mentale (e anche dello squilibrio, della nevrosi, della psicosi, della frenesia) è Pan[58], il dio che non distingue la natura del dentro e del fuori ma le contempla entrambe indistinguibilmente[59].

La distinzione e, sperabilmente, l’equilibrio tra intimità ed esteriorità è conquista dell’individuo che approda a essa nel corso della sua definitiva maturazione verso l’età adulta: Romano Guardini, con sguardo teoretico, da filosofo che riflette sulle età della vita come paradigma delle età del mondo, alla maniera di Schelling, scriveva che l’involucro protettivo, che distingue il mondo esterno dal mondo interiore e che caratterizza la vita dell’adulto, è completamente assente nella dimensione dell’infanzia[60]. Il bambino, infatti, è incapace di operare le stesse distinzioni con le quali l’adulto articola il suo mondo:

per il bambino la vita esteriore e quella interiore sono fondamentalmente indistinte. I contenuti psichici si mescolano con la realtà esterna e una fantasticheria è una cosa che per lui si realizza [...] Solo poco alla volta distingue le affermazioni frutto della immaginazione con affermazioni di realtà[61].

 

 

  1. Intimità ed esteriorità digitale

Se dunque la distinzione tra interno (psichico ed emozionale) ed esterno è frutto di una graduale conquista dell’uomo adulto e de-mitizzato, e se essa è fondamentale nella costruzione identitaria, proviamo allora a indagare gli effetti di una memoria che dismette i panni di una realtà privata per trasferirsi o allargarsi nella realtà digitale, dove i suoi confini sono spostati più lontano e sono completamente annullati in un cloud collettivo.

Uno dei rischi più frequenti (e più denunciati) è che la memoria privata venga completamente appaltata ai device, che ci esonerano dal ricordare numeri di telefono e strade da percorrere, mentre quella collettiva rischia di venir sepolta da un overload di informazioni e di fatti che conducono all’amnesia digitale per overdose da “motore di ricerca” sino all’oblio e alla non conoscenza dei ricordi collettivi, ovvero del passato e della storia.

Ma cosa cambia nel rapporto tra intimità ed esteriorità in un mondo dove la memoria degli uomini, e l’interiorità a essa legata, emigrano in Rete, su un supporto diverso dalle sinapsi individuali[62]?

Platone poneva la problematica mostrando di essere fortemente critico circa la delocalizzazione del carico mnemonico sul supporto cartaceo attraverso la scrittura[63] la quale, tuttavia, ha comportato non solo la diffusione del sapere e del pensiero critico[64], ma ha anche indubbiamente permesso agli uomini di perfezionare il linguaggio[65], nonché ha diffuso la conoscenza aumentandola[66], facendo in modo che il racconto dell’uomo sull’uomo e sul mondo e sulla storia non fosse solo affidato solo all’oralità destinata inevitabilmente a perdersi nei secoli[67].

Procedendo per analogie potremmo oggi affermare che, da quando le conoscenze sono migrate in Rete durante la rivoluzione digitale (seconda, per importanza, a quella della scrittura[68]), la memoria collettiva e connettiva ha contribuito a raffinare la conoscenza dell’uomo e questo ha comportato senz’altro una variazione nei rapporti interlocutori con il mondo, con la realtà e con gli altri, ma ha anche modificato radicalmente il rapporto con sé stessi, intervenendo sulla costruzione di quella interiorità edificata proprio a partire dalla memoria individuale[69].

La tecnica digitale ha agito sul pensiero, decostruendolo[70] e la filosofia, intesa come analisi elevata a sistema di sé e del mondo, come commento sulle condizioni della conoscenza, sottratta al gesto primordiale dello sguardo analogico, della lettura e della scrittura statica, non può non interrogarsi sulla molteplicità labirintica che il pensiero umano (quando indaga sé stesso o il mondo) vive nella nuova veste[71], che non è solo una nuova veste grafica o fenomenica, ma un nuovo modo “dell’esserci filosofico” e un nuovo modo, per l’uomo, di stare al mondo, in una realtà che ha modificato radicalmente la divisione duale tra verità e apparenza.

Lo stesso Hubert Dreyfus, pur opponendosi alle pretese cognitive di un’intelligenza artificiale[72], riconosceva nella Rete un campo d’indagine nuovo[73], dinanzi al quale, diremmo noi, la filosofia, ancora una volta, trincerandosi dietro l’inflessibilità di un logos sempre uguale a sé stesso (quella inflessibilità che Floridi chiama il nuovo scolasticismo[74]) rischia di arrivare tardi, quando la giornata è conclusa, come la nottola di Minerva.

 

  1. Il sé nel Web

La Rete, in particolare, ha modificato il rapporto con la memoria e con quel navigare, o naufragare, in essa, e dunque ha modificato anche lo sguardo teoretico sul sé.

Se la memoria individuale è infatti costituita da eventi, ricordi, date e fatti intimi che costruiscono la nostra identità, la memoria digitale, come elemento di una più vasta memoria collettiva, perennemente connessa o perennemente in modalità onlife, consterà dunque anch’essa di eventi, ricordi, date e fatti.

La differenza sostanziale sta nel fatto che questi eventi, ricordi e fatti sono potenzialmente fruibili, visibili, navigabili e visitabili anche da altri.

La memoria descritta da Agostino, con l’infinito database dei suoi ricordi, con la “scheda madre” della sua mente, risulta accessibile infatti solo da Agostino.

Una memoria collettiva e digitale, ancorché individuale, appare invece attraversabile da tutti e dunque anche l’identità che emerge da essa, ancorché individuale, è identità plurale, collettiva (o identità che deve necessariamente confrontarsi con la collettività).

Non si tratta qui di elencare le problematiche tecniche e politiche di un accesso indiscriminato e incontrollato ai dati, anche sensibili, degli utenti in Rete, bensì di comprendere quanto e se la tecnica condizioni la coscienza, l’autocoscienza e la memoria e l’esperienza di essi, e dunque l’esperienza filosofica: occorre qui indagare quanto e in che modo il medium, in questo caso il medium digitale, rappresentando davvero un prolungamento della mente, come volevano McLuhan e De Kerckhove, e supportando la memoria, aumentandola, arricchendola sino alla creazione di un inconscio collettivo, arrivi al punto da modificare il rapporto che l’individuo ha con sé stesso.

Per provare a indagare questa ipotesi procediamo per sineddoche, prendendo un frammento della Rete, ovvero le comunità social (dove memoria, immagine e ricordi individuali sono più frequenti), elevandolo all’intero e chiedendoci come e quanto la frequentazione di sé stessi sia cambiata analizzando quei frammenti di sé che pullulano nei profili virtuali (luoghi di delocalizzazione dell’individuo), ovvero le immagini e le pose di sé stessi disponibili on line. Si tratta di frammenti (fotografici) di memoria che prima dell’avvento della rivoluzione digitale rimanevano nella disponibilità della sfera privata e che dopo la rivoluzione digitale sono diventate strade di ricordi percorribili dai più, come se la rivoluzione digitale, alla fine, avesse permesso un ritorno vichiano alla concezione mitica che non operava alcuna distinzione tra realtà interna e realtà esterna, ma traduceva il mondo come un continuum nel quale l’uomo era immerso.

 

  1. Tempo e memoria nel virtuale

La socialità virtuale pullula di immagini del sé, di autoscatti, e dinanzi a questo straripamento dell’io individuale non è possibile non interrogarsi su un gesto che ontologicamente non esisteva pochi decenni fa (forse per una difficoltà tecnica) e che oggi invece appare paradigmatico del nuovo “esserci” e del nuovo esserci digitale.

Il selfie è il trionfo della presenza di sé: il mondo, a contorno, o sparisce o viene inghiottito dall’ego rappresentato, in una nuova simbiosi mitica e infantile con il mondo, in un loop spazio-temporale indistinguibile: nella memoria esistenziale e collettiva attraversabile in Rete si ritrae il presente, l’attimo e lo si fagocita e lo si divora sul posto, come nelle rappresentazione mitica di Crono che divorava i suoi figli.

Si cattura il presente per condividerlo ma non per attraversarlo come cripta sconfinata (dove trovano posto il presente del passato e il presente del futuro) e dunque non per custodirlo, e attraversarlo agostinianamente, nell’intimità solipsistica.

Questa nuova concezione del tempo che, per quanto ossessionata da un presente, appare diametralmente opposta a quella di Agostino, inevitabilmente comporta conseguenze interessanti sia per un’indagine pratico-etica, sia anche per un’indagine epistemologico-teoretica.

Innanzi tutto il trionfo, lo straripamento del sé in Rete mostra come siano state esteriorizzate nell’artefatto mnemotecnico contemporaneo non soltanto funzioni cognitive, non soltanto saperi e conoscenze, come scrive Stiegler[75], ma anche funzioni psichiche e narrative proprie dell’uomo, che oggi racconta se stesso attraverso icone di se stesso: la profondità, l’etica, la dirittura morale, la condotta dell’uomo viene dunque misurata non per ciò che i fatti, in una lunga e paziente frequentazione mostrano, ma per quello che può o non può manifestarsi in un’unica epifania catturata da uno scatto.

Si tratta di un nuovo “trauma della digitalizzazione” ma stavolta piegato interamente sulla dimensione ermeneutica: chi è l’umanità descritta nelle foto? Coincide con un’umanità reale o fittizia, meramente apparente?

Nella Fenomenologia di Mike Bongiorno[76], Umberto Eco interpretava il noto presentatore come paradigma di una condizione mediana (mediocre, avrebbe detto) dell’umanità: Mike Buongiorno rappresentava genuinamente (senza finzioni, senza posture artefatte) lo spettatore medio, poco colto, poco scolarizzato e per questo, scriveva il noto semiologo, così rappresentativo, esemplare nella sua sincerità rassicurante.

Se dovessimo oggi procedere a una “Fenomenologia di Chiara Ferragni” (o di qualsiasi influencer che detta modi di stare al mondo), dovremmo indagare la necessità di dover prima analizzare il fenomeno scremandolo da sostrati di apparenza, trovandoci forse dinanzi all’impossibilità (logica, ontologica ed ermeneutica) di dividere l’oggetto delle foto virtuali da un oggetto non virtuale, per poi approdare finalmente al soggetto reale da conoscere: ci troveremmo, probabilmente, di fronte a un continuum non districabile, non divisibile tra apparenza, immagini e realtà.

Ci troveremmo catapultati in una realtà mitica, appunto, nel senso di primitiva, precedente alla dimensione del logos. E forse per questo così attraente e ipnotica.

Infatti, poiché “l’esserci dell’uomo” viene piegato a un “esserci in Rete” e acquista significato solo in funzione della sua visibilità (con tutto il carico e il peso delle apparenze fenomeniche rispetto all’intenzionalità, alla spiritualità, all’intimità), inevitabilmente si assiste a una diversa distribuzione dello spazio interno/privato ed esterno/pubblico nel senso di una reductio alla sola corporeità e dunque alla sola esteriorità. Quest’ultima diventando unico ambiente senza protezione o argine si trasforma fatalmente in una prigione, come paventato da Sartre quando, accanto alla percezione, a tratti angosciosa, di possedere spessore, spazialità, pesantezza, corporeità, avvertiva nondimeno la percezione di essere spiato, esposto, indifeso, vulnerabile, in pericolo:

avere un corpo [...] significa essere continuamente guardato significa, sentirsi oggetto sconosciuto di apprezzamenti inconoscibili[77].

 

Nell’open space della memoria collettiva che diventa fenomenologia nella realtà digitale, soprattutto quando quest’ultima rimane condivisione di fatti e immagini personali, il rischio è che la percezione di sé stessi e l’autocoscienza, che ne deriva, possano essere irrimediabilmente falsati o compromessi dallo sguardo altrui, come se anche per questo nuovo “esistenzialismo digitale” dovesse valere il principio di indeterminazione di Heisenberg che postulava come, in fisica, un osservatore, anche il più innocuo, sia nelle condizioni di inquinare l’oggetto osservato: forse l’agostiniano, e propriamente umano, navigare e naufragare in sé stessi e nella propria memoria (attraversabile unicamente con incedere “solo e pensoso i più deserti campi”, usando le parole di Petrarca) dovrebbe dunque continuare a rimanere privato, strettamente privato, perché possa continuare a dirsi fondativo per la propria soggettività autocosciente.


[1]   T. W. Bynum - J. Moor (a cura di), The Digital Phoenix: How computers are changing Philosophy, Blackwell, Oxford 2000.

[2]   Ibid., p. 1.

[3]   N. Wiener, The human use of human beings: cybernetic and society, Doubleday Anchor, New York 1954, p. 17.

[4]   E. Steinhart, Digital Metaphysics, in T.W. Bynum - J. Moor (a cura di), The Digital Phoenix..., cit., p. 117.

[5]   L. Floridi, What is the Philosophy of Information, in T.W. Bynum - J. Moor (a cura di), The Digital Phoenix..., cit., p. 134.

[6]   G.O. Longo - A.Vaccaro, Bit Bang. La nascita della filosofia digitale, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna 2013, pp. 107-113.

[7]   Cfr. L. Floridi, Infosfera. Etica e filosofia nell’età dell’informazione, Giappichelli, Torino 2009, p. 40.

[8]   Ibid., p. 37.

[9]   D. Deutsch, It from Quibit, in J. Barrow- P. Davies- C. Harper (a cura di), Science and Ultimate Realty. Quantum Theory, Cosmology and Complexity, Cambridge University Press, Cambridge 2004, pp. 90-102.

[10]  Ibid., p. 39.

[11]  Vasta è la bibliografia sull’evoluzione umana legata allo sviluppo del pollice opponibile. Si rimanda qui a S. Jay Gould, The Structure of Evolutionary Theory, Harvard University Press, Cambridge 2002, p. 1105.

[12]  Ibid., p. 41.

[13]  M. Heidegger, Essere e Tempo (1927), tr. it. Longanesi, Milano 1970, pp. 205-206.

[14]  Ibid.

[15]  M. Bachtin, L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, tr.it. Einaudi, Torino 1988, p. 324.

[16]  L. Floridi (a cura di), The Onlife Manifesto. Being Human in Hyperconnected Era, Springer, Oxford 2014.

[17]  Cfr. P. Levy, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, tr.it. Feltrinelli, Milano 1996.

[18]  D. De Kerckhove, Connected Intelligence, The Arrival of the Web society, Kogan Page, London 1998.

[19]  Cfr. S. Tagliagambe - G. Usai, Individui e imprese. Centralità delle relazioni, Giuffrè, Milano 2008, p. 86.

[20]  M. McLuhan, Understanding Media, McGraw-Hill, New York 1964.

[21]  D. De Kerckhove, Connected Intelligence..., cit., p. 28.

[22]  Ibid.

[23]  M. Perrini, Filosofia e coscienza. Socrate, Seneca, Agostino, Erasmo, Thomas More, Bergson, Morcelliana, Brescia 2008; ma si veda anche L. Forgione, L’io nella mente. Linguaggio e autocoscienza in Kant, Bonanno, Acireale 2006; M. Olivieri, Coscienza ed autocoscienza in Hegel, CEDAM, Padova 1972.

[24]  J. Searle, Il mistero della coscienza, tr. it. Cortina Editore, Milano 1998.

[25]  Si veda K.R. Popper - J.C. Eccles, L’io e il suo cervello, tr. it. Armando, Roma 1981, III, pp. 611-619.

[26]  H. Noonan, Personal Identity, Routledge, London 1989, pp. 47-61.

[27]  D. Parfit, Reasons and Persons, in «The Philosphical Review», I, 80, 1971, p. 26.

[28]  Agostino d’Ippona, Le Confessioni, a cura di M. Bettetini, Einaudi, Torino 2000, p. 353.

[29]  Ibid., p. 357.

[30]  Ibid., p. 251.

[31]  Ibid., pp. 357-361.

[32]  H. Bergson, Materia e memoria (1896), tr. it. Laterza, Bari 1996.

[33]  S. Poggi, Gli istanti del ricordo: memoria e afasia in Proust e Bergson, Il Mulino, Bologna 1991.

[34]  Per una disamina dell’argomento si rimanda qui a P. Barrotta - G.O. Longo - M. Negrotti (a cura di), Scienza, tecnologia e valori morali, Armando Editore, Roma 2011, pp. 189-198.

[35]  D. Talia, La società calcolabile e i big data. Algoritmi e persone nel mondo digitale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2018.

[36]  Per una disamina dell’argomento si veda T. Maldonado, Critica della Ragione Informatica, Feltrinelli, Milano 1997.

[37]  Si veda D.Norman (a cura di), Models of Human Memory, Academic Press, New York 1970.

[38]  Cfr. U. Eco, La memoria vegetale, Bompiani, Milano 2011.

[39]  A. Oliverio, Ricordi individuali, memorie collettive, Einaudi, Torino 1994.

[40]  D. Norman - T. Shallice, Attention to action: willed and automatic control of behavior, in R. Davidson - G.E. Schwartz - D. Shapiro (a cura di), Consciousness and Self-Regulation: Advances in Research and Theory, Plenum, New York 1986.

[41]  Si veda N. Negroponte, Being Digital, Vintage Book, New York 1995.

[42]  Per una disamina del problema (nella direzione di una difficoltà prima meramente linguistica della traduzione e poi di una difficoltà epistemologica ed ermeneutica, nel solco della tradizione di Pierce e di Gadamer) si rimanda qui a U. Eco, Dire quasi la stessa cosa, Bompiani, Milano 2003, dove il semiologo riflette sulla perdita di significato a cui si va inevitabilmente incontro in un processo di traduzione da un linguaggio a un altro (e diremmo noi oggi da un linguaggio umano/analogico a un linguaggio/macchina).

[43]  Per una disamina dell’argomento si veda E. Agazzi - V. Fortunati, Memoria e saperi: percorsi transdisciplinari, Meltemi, Roma 2007.

[44]  L. De Carli, Internet. Memoria e Oblio, Bollati Boringhieri, Torino 1997.

[45]  V. Mayer-Schönberger, Delete. The virtue of forgetting in the Digital Age, Princeton University Press, New Jersey 2009; ma anche S. Rodotà, Il mondo della Rete: quali i diritti, quali i vicoli, Laterza, Roma 2014. Si veda inoltre F. Bergadano (a cura di), Privacy Digitale, Giappichelli, Torino 2005.

[46]  Agostino d’Ippona, op. cit., p. 357.

[47]  Ibid.

[48]  Ibid.

[49]  J. Derrida, Khôra, Édition Galilée, Paris 1993, p. 58.

[50]  G. Giorello, Prometeo, Ulisse, Gilgames, Cortina Editore, Milano 2004, p. 28.

[51]  C.G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, 1934-1954: il concetto di inconscio collettivo, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1995.

[52]  R. Mondolfo - L. Tarán (a cura di), Heraclitus. Testimonianze e Imitazioni. Introduzione, traduzione e commento, La Nuova Italia, Firenze 1972, p. 32.

[53]  E. Cassirer, Il pensiero mitico, in La filosofia delle forme simboliche, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1964, vol. II, p. 120.

[54]  M. Friedman, La filosofia al bivio, tr. it., Cortina Editore, Milano 2004, p. 79.

[55]  E. Cassirer, op. cit., p. 121.

[56]  W. Otto, Gli Dei della Grecia, tr. it. Adelphi, Milano 2004, p. 180.

[57]  Cfr. A. Rigobello (a cura di), Il messaggio di Socrate, La Scuola, Brescia 1957.

[58]  J. Hillman, Saggio su Pan, tr. it. Adelphi, Milano 1977.

[59]  Si veda la preghiera di Socrate al dio Pan in Fedro, 278 B4-C8. La versione qui e altrove utilizzata è di G. Reale (a cura di), Platone. Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2000.

[60]  R. Guardini, Le età della vita, tr. it. Vita e Pensiero, Milano 1992, pp. 39-40.

[61]  Ibid.

[62]  A. Paternoster, Introduzione alla filosofia della mente, Laterza, Bari-Roma 2010.

[63]  Fedro, 274b-275c.

[64]  Si veda C. Sini, La scrittura e il debito, Jaca Book, Milano 2002.

[65]  Ibid.

[66]  Cfr. F.D. Schleiermacher, Introduzione a Platone, tr. it. Morcelliana, Brescia 1994.

[67]  G. Reale, Platone: alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli, Milano 1998.

[68]  G. Balbi - P. Magaudda, Storia dei media digitali: rivoluzione e continuità, Laterza, Roma 2014.

[69]  M. Ferraris, Anima e iPad, Guanda, Parma 2011.

[70]  M.T. Pansera, L’uomo e i sentieri della tecnica: Heidegger, Gehlen, Marcuse, Armando, Roma 1998; ma anche E. Mazzarella, Tecnica e Metafisica, Guida, Napoli 2002; M. Ferraris, Ricostruire la decostruzione, Bompiani, Milano 2010.

[71]  P. D’Alessandro, Critica della Ragione Telematica, LED, Roma 2002.

[72]  H. Dreyfus, What Computers still can’t do: a critique of Artificial Reason, MIT Press, Cambridge (MA) 2000.

[73]  Id., On The Internet, Routledge, London 2002.

[74]  L. Floridi, Infosfera..., cit., p. 14.

[75]  B. Stiegler, Platone digitale, tr.it. Mimesis, Milano 2015.

[76]  U. Eco, Fenomenologia di Mike Bongiorno, in Diario Minimo, Mondadori, Milano 1963, pp. 10-13.

[77] J.P. Sartre, L’essere e il nulla (1943), tr.it., il Saggiatore, Milano 2008, p. 321.

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