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Tensegrità, multivocità ed etica delle immagini

Autore


Giovanni Scarafile

Università del Salento

insegna Etica della comunicazione e Filosofia Morale all’Università del Salento

Indice


1. La pietra e l’arco: logiche a confronto

2. Il concetto di tensegrità: origini e sviluppi

3. L’imprevista difformità: oltre il mito dell’oggettività delle immagini

4. Il nuovo equilibrio di un’ermeneutica a più voci

5. Conclusioni

 

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S&F_n. 19_2018

Abstract


Tensegrity, multivocity and the ethics of images


When transposed to the field of philosophy, the notion of tensegrity can become the matrix to justify an approach to reality, based on the contextual action of several factors. This specificity is shown with reference to the photographs of patients allegedly hysterical, photographed at the end of the nineteenth century in the Hospital Salpêtrière in Paris. The ethics of images is anchored in this possibility. In fact, it is not indifferent with respect to both the modalities in which a knowledge can be correctly configured, and with respect to the role of the subject-spectator in such an operation.


It is perhaps possible to extend the concept of tensegrity to other fields.

René Motro

 

 

1. La pietra e l’arco: logiche a confronto

Vorrei introdurre questo scritto, citando un passaggio da Le città invisibili di Calvino. È un passo celebre, in cui Marco Polo e Kublai Kan discutono di che cosa renda tale un ponte.

Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.

– Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede Kublai Kan.

– Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, – risponde Marco, – ma dalla linea dell’arco che esse formano. Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: – Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa.
Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco[1].

 

La logica utilizzata da Kublai Kan è stringente e mira alla precisa identificazione della causa per cui un ponte riesce a reggersi. Anche Marco Polo è interessato alla causa. C’è, tuttavia, tra i due interlocutori una differenza di fondo. Mentre l’imperatore mongolo si fa interprete di un atteggiamento volto alla identificazione escludente (tra due opzioni, solo una deve essere vera), l’atteggiamento di Marco Polo mira alla identificazione inclusiva (tra due opzioni, non è detto che solo una sia vera).

La novità di un tale approccio non può essere sottaciuta. Nel tradizionale modo di ragionare, infatti, la nostra attitudine è simile al ragionamento di Kublai Kan che, di fronte a un fenomeno, cerca di individuare una causa esclusiva, che rigidamente corrisponda a ciò che è in cerca di definizione. Secondo tale modello, l’identificazione tra spiegazione concettuale e fenomeno tanto più è efficace quanto più è univoca. Invece, come proverò a mostrare, con l’affermarsi del modello della tensegrità, questo modello va incontro a una possibile effrazione, che consente di ricorrere, di fronte a determinati fenomeni e senza cadere in contraddizione, alla simultaneità di più spiegazioni concettuali con il beneficio di una vicendevole implicazione. Non più univocità, ma multivocità. Di fronte a determinati fenomeni, dunque, la tensegrità consentirebbe di adottare una logica differente, inclusiva, paragonabile all’approccio di Marco Polo nell’esempio citato.

Che cosa succede se proviamo ad applicare la sottintesa logica della multivocità all’intenzionalità predicativa delle immagini?

Una, seppur minima, explicatio terminorum vede nella intenzionalità predicativa delle immagini l’insieme dei modi in cui una immagine rinvia a ciò che in essa è riprodotto. Parte integrante di tale intenzionalità sono sia gli strumenti concettuali mediante cui una immagine può essere considerata, sia la spectatorship, ovvero l’insieme delle modalità mediante cui lo spettatore è chiamato, riattivando la referenza, a scovare il senso di ciò che vede.

La multivocità, la possibilità di contestuale richiamo di più approcci interpretativi, rivela una sua specifica fecondità proprio nel caso della riattivazione della referenza di alcuni gruppi di immagini. Infatti, come proverò a mostrare, risalire appropriatamente al senso di tali immagini richiedere di attingere contestualmente a diverse fonti. Risalire al senso delle immagini, dunque, sembra richiedere un nuovo equilibrio, basato sulla multivocità. Corrispondentemente, proprio su tale possibilità trova ancoraggio un’etica delle immagini che, in una delle sue accezioni, non è ovviamente indifferente rispetto sia alle modalità in cui un sapere può essere correttamente configurato, sia rispetto al ruolo del soggetto-spettatore in tale operazione.

 

2. Il concetto di tensegrità: origini e sviluppi

Com’è noto, originariamente il conio del termine tensegrity si deve a Buckminister Fuller come congiunzione di due parole tension e integrity. Tale neologismo indica, eminentemente nell’ambito dell’ingegneria, un gruppo di connessioni tra corpi rigidi e stringhe che, come tali, risultano estensibili.

Dunque, dalla sua istituzione, con il concetto di tensegrità fa il suo ingresso nella scena scientifica un elemento che raggruppa e rende interagenti due stati di azione fino a quel momento considerati alternativi. Come risultato, si afferma una particolare idea di equilibrio[2], inimmaginabile prima dell’affermazione della nozione di tensegrità.

Come scrivono Skelton e de Oliveira, «a tensegrity paradigm for structures will allow one to modify the equilibrium of the structure to achieve the news desired shape, so that power is not required to hold the new shape»[3].

Anche per questo la nozione di tensegrità comincia a essere riferita ad altri ambiti (per esempio, per indicare i movimenti e le oscillazioni del braccio che deve tener conto sia dell’osso che dei tendini; per indicare i movimenti della zampa posteriore del gatto, ma anche la tela di un ragno in cui sono rinvenibili sia componenti rigide (ß-pleated sheets) sia componenti elastiche; e ancora, per indicare i meccanismi antisismici di costruzione dei grattacieli giapponesi che incorporano la capacità di controllo del movimento all’interno di strutture rigide; e, per finire questo elenco provvisorio, il sistema di galleggiamento delle boe marine). La fecondità di tali applicazioni ad ambiti molteplici trovò riscontro nel 1998, in un numero del journal Scientific American in cui Don Ingber affermava che «tensegrity is the architecture of life»[4].

Nel suo libro Tensegrity[5], pubblicato nel 2003, René Motro, uno dei più celebri studiosi della tensegrità, racconta di aver partecipato a un seminario al College de Philosophie, a Parigi, in cui gli studiosi Donald Ingber e Patrizia d’Alessio, nel parlare del rapporto tra filosofia e biologia, hanno mostrato l’utilità di un riferimento alla nozione di tensegrità nel descrivere le modificazioni di un particolare tipo di cellule.

Le parole di Motro costituiscono un’ulteriore testimonianza della tendenza a estendere l’ambito di applicazione della tensegrità. Se, dunque, con riferimento ai particolari ambiti appena ricordati, sembra farsi strada l’idea che la tensegrità corrisponda a un principio universale della connessione dei corpi, dal più piccolo al più grande, in termini generali, essa allude a un equilibrio diverso, un approccio dinamico, non statico, alla cosa. Assunta in senso traslato, la tensegrità autorizzerebbe un posizionamento continuo di fronte alla cosa, quale forma elettiva di una prensione non oggettivante nell’atto stesso di afferrare.

Per cogliere in quale senso tale estensione del concetto di tensegrità possa essere riferito all’intenzionalità predicativa delle immagini, mi propongo ora di richiamare un momento specifico della storia della fotografia.

 

3. L’imprevista difformità: oltre il mito dell’oggettività delle immagini

Quando oggi ci riferiamo alla fotografia, la prima cosa che viene in mente è il suo onnipervasivo utilizzo ludico. Tale riscontro, tuttavia, si è affermato solo recentemente ed era marginale quando la fotografia fu scoperta.

Nel 1839, Louis Daguerre, annunciando la scoperta dell’apparecchio fotografico, di fronte alla Accademia della Scienze di Parigi, assicurava trattarsi di: «una retina artificiale […] a disposizione dei medici»[6]. Agli inizi, la fotografia fu considerata un testimone fedele di quanto si verificava di fronte all’apparecchio fotografico. Nel 1872, si ebbe una clamorosa conferma di quanto annunciato da Daguerre. Il fotografo inglese Muybridge, infatti, collocando dodici macchine fotografiche lungo l’itinerario della corsa di un cavallo al galoppo, riuscì a realizzare una serie di scatti che, messi in sequenza, fornivano l’illusione del movimento. L’esperimento di Muybridge passò alla storia non soltanto per l’abilità tecnica del fotografo. Ciò che risultò destabilizzante rispetto alle antiche certezze è che quel brevissimo filmato aveva mostrato come le tecniche fino ad allora utilizzate dagli artisti per ritrarre il movimento del cavallo avessero condotto a risultati non veritieri. Si noti, in tal senso, la differenza tra i movimenti del cavallo, fotografati da Muybridge, e il modo tradizionale di riprodurne la corsa, nel dipinto The Epsom Derby (1821) di Théodore Géricault.

La profezia di Daguerre si era dunque avverata: la macchina fotografica vedeva meglio dell’occhio umano! Si parlò, allora, di camera-as-eye-analogy, che comportava l’elisione delle prerogative della soggettività. La fotografia era sine manu facta, oggettiva, proprio perché non richiedeva uno specifico intervento da parte dell’uomo.

Gli ultimi anni del 1800 pullulano di iniziative di scienziati che provano ad applicare al proprio campo di indagine le potenzialità della fotografia. Per esempio, nel 1850, Louis Aggasiz, scienziato svizzero che aveva fondato il museo di Zoologia Comparativa di Harvard, diede incarico di riprodurre in fotografia alcuni schiavi, essendo convinto di avere sufficienti conoscenze per identificare, partendo dalle fotografie, il tipo di razza cui essi appartenevano.

Seguendo questa scia, il neurologo francese Charcot decise di fare uso proprio delle immagini fotografiche per cercare di trovare le cause dell’isteria, una patologia che da circa 4000 anni, sin dal papiro di Kahun del 1800 a.C. circa, era erroneamente stata attribuita al malfunzionamento dell’apparato genitale femminile.

Charcot e la sua equipe lavoravano nell’Ospedale Salpêtrière di Parigi dove alla fine dell’Ottocento erano ricoverate circa quattromila pazienti presuntivamente isteriche. Fu proprio all’interno di quel nosocomio che fu creato un vero e proprio reparto fotografico con lo scopo di ottenere una riproduzione fotografica fedele del fenomeno dell’isteria. Le pazienti, dunque, vennero fotografate nelle diverse fasi della loro degenza ed esse mostrarono un differente livello di reazione sia alle osservazioni dei medici, che alle cure cui erano sottoposte. Oggi, soprattutto per merito di Didi-Huberman[7], l’archivio fotografico dell’Ospedale Salpêtrière è consultabile e, dunque, allo spettatore odierno è concessa la possibilità di tornare a incrociare gli sguardi delle donne fotografate.

Guardando quelle immagini, si possono notare le diverse fasi delle sperimentazioni: all’inizio, i medici cercano di fotografare l’insorgenza dell’attacco isterico. “Che cosa trasforma una persona normale in una persona isterica?”, sembra essere la domanda cui i medici cercano di rispondere tramite le fotografie. In un’altra fase della sperimentazione fotografica, quando i medici sono già in grado di avanzare delle ipotesi sulle cause della malattia, si prova a provocare l’attacco isterico: le pazienti sono sottoposte a stimolazioni elettriche, olfattive, visive. Una sezione dell’archivio fotografico si fa carico di documentare questi interventi. Le testimonianze del Dr. Londe, responsabile del reparto fotografico, danno conto di una tale evoluzione anche nello stile delle fotografie. All’inizio della sperimentazione, egli dichiara: «La lastra fotografica è la vera retina dello studioso […]. Si può perfino dire che in molti casi una semplice prova che parla agli occhi dirà molto di più di una descrizione completa»[8].

A un certo punto della sperimentazione, però, egli è costretto a dichiarare: «Ancora non è trovato il valore clinico di quest’atteggiamento particolare assunto da ciascun soggetto, ma probabilmente esiste»[9].

Questa parabola della fiducia nel potere della fotografia di vedere l’invisibile e, dunque, individuare – come poi effettivamente avvenne – la soluzione della misteriosa malattia, trova un suo correlato nella diversa disponibilità delle pazienti non solo a farsi fotografare, ma anche a lasciar vedere i sintomi isterici di fronte a una macchina fotografica che, tra l’altro, richiedeva lunghissimi tempi di posa, difficilmente compatibili con il tempismo richiesto con la cattura dell’istante in cui insorgeva l’attacco isterico. Una paziente, in particolare, Augustine, si rivelò particolarmente capace di lasciar intravedere i sintomi della malattia e, per quanto paradossale possa sembrare, divenne proprio per questo la paziente più “famosa”[10].

Tra le foto dell’archivio, Augustine viene ritratta ripetutamente, sempre con il dichiarato intento di rappresentare oggettivamente la malattia. La vediamo dunque mentre, legata al letto, ha la bocca spalancata, probabilmente per l’acuirsi di una convulsione; in un momento di “assenza”, con lo sguardo perso, probabilmente poco prima che l’attacco isterico arrivi.

Vi sono, poi, foto di Augustine, la cui decifrazione risulta di gran lunga più difficile. In esse, infatti, la donna viene ritratta secondo dei canoni della rappresentazione fotografica completamente differenti. In queste foto, le stesse manifestazioni della malattia sembrano scomparire.

Che cosa è successo? Quale matrice hanno queste foto? Soprattutto, che cosa richiedono che noi – in quanto spettatori – facciamo, per riattivare la referenza, cioè per comprendere fino in fondo il loro senso?

La verità è che, se noi continuiamo a riferirci esclusivamente alla concezione mimetico-indiziale, secondo cui ciò che è riprodotto nella foto è pressoché oggettivo, non siamo in grado di spiegarci il senso di questo gruppo di foto. In che modo superare il problema?

 

4. Il nuovo equilibrio di un’ermeneutica a più voci

Di fronte alle foto di Augustine, la nostra interpretazione deve tener conto di un elemento di difformità rispetto a ciò che in quelle foto ci aspetteremmo di trovare. La difformità è tale che, anche se essa non vanifica il modello indiziale di interpretazione, lo rende senz’altro non sufficiente e dunque bisognoso di essere integrato con il riferimento a un ulteriore modello di interpretazione che si affianchi al primo, senza pretendere tuttavia di sostituirlo.

La difformità ci fa capire che, in concreto ancor prima che in astratto, in determinate situazioni, si ha bisogno di attingere a più di una categoria interpretativa, affiancando una seconda voce alla prima. Lo sguardo spettatoriale, mentre rivela tale esigenza, esige un nuovo equilibrio tra le forze in campo, reso possibile nel momento in cui la prensione della prima spiegazione causale allenta la presa sull’oggetto, in modo da rendere possibile l’azione interpretativa della seconda istanza causale.

Grazie al concorso di tutti questi elementi, quando guardo le foto di Augustine, senz’altro noto il criterio di oggettività con cui esse furono scattate, ma anche l’incontenibile affermarsi di una istanza di tipo estetico. La donna assomiglia più a una modella che a una paziente: sembra in posa e gli stessi sintomi della sua malattia sono nascosti.

Si tratta di un evento inspiegabile, se il nostro armamentario si limita alla prospettiva indiziale. Evidentemente, per risalire al significato di quelle foto, occorre mettere in campo strumenti di interpretazione relativi al contesto, all’interazione tra la donna e coloro che – invisibili ai nostri occhi, ma non per questo meno presenti – sono dietro l’apparecchiatura fotografica. Dando credito al contesto, noi stiamo di fatto allargando lo spettro delle possibili variabili, includendo anche noi spettatori, non escludendo la soggettività di coloro che, a diverso titolo, in quelle immagini sono implicate.

Dunque, la stessa fotografia, ritenuta il più efficace strumento per vedere oggettivamente i fenomeni, per essere appropriatamente intesa, non può fare a meno della soggettività. Sul piano della teoria, ciò che ho definito apertura al contesto è l’effetto della concezione pragmatica delle immagini. Come ha scritto Schaeffer, «Solo il contesto comunicazionale (o, per essere più precisi, l’insieme dei saperi laterali) può fornirci dei criteri che permettano di determinare il campo quasi-percettivo effettivamente corrispondente alla relazione indicale data»[11]. È questo il motivo per cui la dinamica di ricezione di una immagine, perché il rinvio indicale sia reso esplicito, non è «indipendente dalla relazione che l’immagine intrattiene con il referente»[12].

5. Conclusioni

In questo scritto, ho provato a richiamare alcune declinazioni della nozione di tensegrità, evidenziando come essa possa costituirsi a fondamento per una spiegazione dei fenomeni in cui si affianchino, senza confusione e sovrapposizioni, più approcci disciplinari. Tale modello di interpretazione è stato riferito a una specifica classe di immagini (le donne affette da isteria dell’Ospedale Salpêtrière) per la cui interpretazione l’identificazione escludente di un unico criterio (concezione indiziale) si era rivelato insufficiente. Il ricorso all’identificazione inclusiva, resa possibile dall’estensione del concetto di tensegrità all’ambito filosofico, non costituisce solo un paradigma differente, ma quel paradigma che consente di affiancare più modelli di approccio al fenomeno delle immagini. Così come nel dialogo iniziale di Marco Polo e Kublai Khan, il segreto del ponte poteva essere individuato nella contestuale affermazione sia dell’istanza della pietra che in quella dell’arco, così il senso delle immagini di Augustine può essere più esattamente determinato se facciamo contestualmente ricorso a due modelli di interpretazione: da un lato, la concezione mimetico-indiziale e, dall’altro la concezione pragmatica. Esse devono poter essere pensate non come alternative escludentisi, ma come reciprocamente richiamantesi. Come ho provato a mostrare, si tratta di un esito possibile, se si adotta la logica dell’inclusione e della multivocità, la cui matrice è rinvenibile proprio nella nozione di tensegrità.


[1] I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972, p. 38.

[2] Si veda, in tal senso, R. E. Skelton, M. C. de Oliveira, Tensegrity Systems, Springer, Dortrecht 2009, p. 6 sgg.

[3] Ibid., p. XI.

[4] D. E. Ingber, The architecture of life, in «Scientific American», 1998, pp. 48-57.

[5] R. Motro, Tensegrity: structural systems for the future, Kogan Page Science, Sterling (USA) 2003.

[6] J. Mifflin, Visual Memory, Visual Method: Objectivity and the Photographic Archives of Science, in «The American Archivist», 74, p. 325.

[7] Mi riferisco, in particolare, al volume L’invenzione dell’isteria. Charcot e l’iconografia fotografica della Salpêtrière, tr. it., Marietti, Genova 2008.

[8] A. Londe, La photographie moderne. Traité pratique de la photographie et des applications à l’industrie et à la science, Masson, Paris 1896, p. 650.

[9] A. Londe, La photographique médicale. Application aux sciences médicales et physiologiques, Gauthier-Villars et Fils, Paris 1893, p. 90.

[10] Il caso di Augustine è al centro del film Augustine (2012) della regista Alice Winocour.

[11] J.-M Schaeffer, L’immagine precaria. Sul dispositivo fotografico, tr. it. CLUEB, Bologna 2006, p. 93.

[12] Ibid., p. 105.

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