S&F_scienzaefilosofia.it

Formalità e materialità dell’etica. Dal dover essere all’evidenza assiologica

Autore


Maria Teresa Speranza

Università degli Studi di Napoli Federico II

Dottoranda di ricerca in Scienze filosofiche presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Una gerarchia meravigliosamente ordinata
  2. Preferenza e posposizione
  3. A priori e a posteriori 

↓ download pdf

S&F_n. 14_2015

Abstract


The paper intends to investigate the deconstruction of the kantian ethical formalism by Max Scheler, who, adopting the phenomenological method, establishes an order of a priori knowledge absolutely distinct from natural and the scientific knowledge. Phenomenological knowledge leads to intuition of essences, that, according to their degree of generality, can be formal or material. Identifying a form of knowledge different from intellectual synthesis and the sensitive perception, namely fühlen or axiological feeling, Scheler releases the a priori from legislator mechanism of intellect and also from characteristics of objects. The a priori is rather a plainness that appears immediately in eidetic intuition, such as hierarchical structure of meanings and values, which constitutes the logos that permeates the universe.

  1. Una gerarchia meravigliosamente ordinata

È possibile un’etica materiale e tuttavia a priori? La realtà e l’assolutezza della legge morale risiedono soltanto nella formalità del dovere? Esistono intuizioni etiche di ordine materiale? Questi interrogativi conducono Max Scheler verso una riformulazione concettuale di categorie fondamentali nel lessico filosofico: a priori e a posteriori, formale e materiale. Egli, partendo dalla decostruzione del formalismo kantiano, operata già nel suo Habilitationsschrift Sul metodo trascendentale e sul metodo psicologico (1899), intende fondare una nuova modalità di accesso all’evidenza della norma etica e alla sua incondizionata autonomia, date dall’indipendenza sia rispetto alle forme pure della ragione, sia rispetto alle contingenze fattuali e dall’esperienza induttiva. Con l’adozione del metodo fenomenologico (1901), Scheler supera l’antinomia kantiana tra essere e dover essere. Nell’Osservazione preliminare del Formalismusbuch, il filosofo monacense sostiene che l’etica kantiana, «colosso di acciaio e di bronzo»[1], impedisce alla filosofia di formulare una teoria concreta ed evidente dei valori morali, della loro gerarchia e delle norme che in essa si fondano, indipendentemente dall’esperienza storica e psicologica. L’imperativo categorico, infatti, non consente all’etica di incarnare i valori morali, poiché è incapace di restituire la ricchezza esperienziale e la pienezza vitale in cui essi si manifestano.

Finché quella formula, terribilmente vuota e sublime, continuerà a passare come l’unico risultato rigoroso ed evidente di ogni etica filosofica, saremo condannati a ignorare la ricchezza del mondo morale e delle sue qualità, e a rinunciare a ogni certezza sulle qualità e sui loro rapporti[2].

 

Scheler critica l’idea formale di etica in generale, pur riconoscendo a Kant il merito di aver attribuito all’etica dei fondamenti assoluti, che la svincolano dal relativismo di ogni etica dei beni e degli scopi. Vi sono però, secondo l’autore del Formalismus, alcuni presupposti errati dell’etica kantiana, riguardanti la concezione dell’etica materiale dei valori. Il fondamento puro, formale e a priori della legge morale implica che ogni etica materiale debba essere necessariamente un’etica dei beni e degli scopi, valida solo su un piano empirico a posteriori. La materiale Wertethik si identificherebbe quindi per Kant con un’etica edonistica ed eteronoma, che subordina la persona ai propri stati sensoriali di piacere e all’eterogeneità delle cose intese come beni. Solo l’etica formale ha una validità assoluta e a priori, ossia indipendente dall’esperienza induttiva, poiché assume come portatore originario dei giudizi di valore “buono” e “malvagio” l’intenzione morale, o il volere che si fonda sui principi morali. Solo l’etica formale può fondare e garantire la moralità del volere, l’autonomia e la dignità della persona. Essa è valida per ogni essere razionale, al di là di ogni egoismo e di ogni particolare organizzazione naturale dell’essere umano.

Scheler, animato dal profondo desiderio di superare le inevitabili antinomie del metodo trascendentale in vista di una rappresentazione olistica dell’essere, inteso come una totalità gerarchicamente strutturata, afferma che l’assolutezza, l’universalità e l’autonomia della legge morale non derivano affatto dal suo carattere formale. La materiale Wertethik, però, non implica una fondazione materialistica in senso stretto dei giudizi di valore e degli stati assiologici. I valori non designano mere proprietà delle unità delle cose fisiche, unità che Scheler definisce “beni”. I beni sono portatori dei valori ma i valori sono indipendenti dagli oggetti fisici in cui si manifestano. Ad esempio, è possibile accedere in linea di principio a valori come il piacevole, il nobile, il prezioso, senza doverli necessariamente rappresentare come qualità di cose e di persone. I valori non sono identificabili con le caratteristiche costanti che riscontriamo nelle persone, nelle azioni e negli oggetti, poiché è possibile cogliere l’essenza dei valori anche grazie a una sola azione e una sola persona che si rende in quel momento portatrice di valore. Per esprimere adeguatamente un valore non basta ricavarlo dalle caratteristiche e dalle proprietà delle cose, è necessario piuttosto che esso si offra in un’intuizione originaria, ossia un’esperienza fenomenologica. Esistono qualità di valore autentiche e oggettive che costituiscono un ambito specifico di oggetti e stabiliscono tra loro determinati rapporti e correlazioni, in base ai quali esse occupano una posizione superiore o inferiore.

Nel regno dei valori esistono un ordine e una gerarchia, che possiamo esperire «a priori» assolutamente indipendenti dal mondo dei beni in cui essi si manifestano; indipendenti anche dall’evoluzione e dalla trasformazione del mondo dei beni nella storia[3].

 

A questo punto si potrebbe muovere un’obiezione alla tesi per cui i valori sono indipendenti dalle caratteristiche delle cose: muovendo dal sensismo di Locke si potrebbe obiettare che i valori sono forze, facoltà o disposizioni delle cose capaci di causare in soggetti senzienti determinati stati emotivi e desideri. Non dobbiamo, però, confondere il fatto che esistano nelle cose e nei corpi disposizioni ai valori o a essere portatori di valori con l’affermazione che il valore di queste cose non sarebbe altro che una certa disposizione o una certa capacità.

I valori sono fenomeni che si afferrano chiaramente nel sentire (fühlen), sono qualità materiali ordinate tra loro secondo rapporti di superiorità o inferiorità, a prescindere dalla forma d’essere che assumono. La materialità del valore consiste nel suo contenuto oggettivo, nel suo essere un fatto, un dato, indipendente sia dalle costruzioni del nostro intelletto, sia dalle proprietà e dalle caratteristiche degli oggetti. I valori sono materiali nel senso che essi esistono autonomamente, sono qualità autosussistenti, poiché consistono in essenze pure e irriducibili rispetto alla sintesi categoriale dell’intelletto, come pure rispetto alle determinazioni dei beni in cui essi si manifestano. Se giudico un oggetto utile o piacevole è perché l’utilità e la piacevolezza si danno, si manifestano, si rivelano in quel determinato oggetto, come essenze, plena, o interi strutturati. Queste essenze sono strutture ontologiche ricche e differenziate al loro interno, sono vincoli che strutturano, modellano, forgiano l’essere delle cose consentendo loro di assumere una determinata qualità, che è materiale perché non dipende dalle forme soggettive, ossia dall’a priori formale dell’Io, (che in Scheler non è un meccanismo legislatore della natura, bensì una processualità storica in atto) né dalle proprietà degli oggetti. L’idea di utilità o di piacevolezza, però, non deve essere platonicamente intesa. La gerarchia assiologica di Scheler non è affatto riducibile al mondo delle idee.

Le idee per Scheler non sono separate rispetto alle cose, non c’è mimesis, methexis o parousia tra il mondo della vita e quello ideale, che ne costituirebbe l’archetipo imperituro, immutabile e perfetto. Le essenze non sono immagini che le cose rappresentano, o di cui partecipano. Le essenze non “dimorano” presso le cose, ma in esse si incarnano. Il mondo della vita, così pieno, ricco e differenziato, è un rigoglioso fiorire di strutture, significati e valori, è una totalità indivisa e poliedricamente organizzata in una pluralità di livelli ontologici e nessi di esperienza. Le essenze per Scheler non costituiscono un universo ideale disgiunto dalla realtà, cosa che implicherebbe un intervento demiurgico che plasma la materia dandole una forma e un mondo della vita che “tende verso” la perfezione immutabile delle idee. La gerarchia metafisico-assiologica di Scheler impregna la Lebenswelt, non ne è separata, non ne costituisce il modello perfetto e imperituro. L’Io e il mondo sono soggetti a incessanti trasformazioni storiche, sono realtà in fieri, tuttavia, all’interno del mondo della vita si dà una pluralità di vincoli oggettivi, gerarchicamente strutturati e ordinati in base a rapporti ugualmente oggettivi. Questi vincoli resistono alla trasformazione storica e sono indipendenti sia dal mondo sia dall’Io; essi rendono le cose ciò che sono e consentono loro di assumere determinate qualità e di essere portatrici di valore.

Le strutture vincolanti sono costituite da limiti e rapporti trasponibili da una forma d’essere a un’altra. Forme, grandezze, dimensioni, proprietà che una cosa può assumere possono cambiare, ma la sua cosalità, il suo essere in sé e per sé resta invariato, poiché deve rispettare una determinata struttura unitaria di vincoli che ne costituisce l’essenza. In etica vale lo stesso principio: le persone e le azioni sono mutevoli, ma se in una determinata persona o azione si coglie un determinato valore è perché il valore si dà come struttura vincolante, un plenum o intero strutturato che in quella determinata azione o persona si manifesta in modo immediato ed evidente attraverso l’intuizione eidetica. Per questo motivo i valori non sono ricavabili dall’esser così delle cose, sono le cose a essere impregnate di strutture eidetiche ricche, articolate e complesse, a loro volta tenute insieme da rapporti gerarchici oggettivi, la cui evidenza si rivela nell’atto dell’esperienza fenomenologica.

L’assoluta indipendenza dell’essere dei valori dalle cose, dai beni, dagli stati assiologici si manifesta chiaramente in una serie di fatti. Possiamo distinguere una fase della presa assiologica in cui il valore di una res si manifesta già con un’estrema chiarezza ed evidenza senza che ci siano dati i portatori di valore. Così ad esempio sentiamo che una persona è sgradevole o piacevole anche se non siamo ancora capaci di dire da cosa dipenda il nostro fühlen, oppure consideriamo una poesia o un’opera d’arte bella, brutta, sublime o volgare ben prima di conoscere le proprietà del contenuto figurale dell’opera che giustificano il nostro giudizio. Nella sfumatura assiologica (Wertnuance) di un oggetto si manifestano sia l’elemento principale, ossia ciò che dell’oggetto ci colpisce e che ne costituisce una parte, sia il valore dell’intero al quale esso appartiene, ossia il plenum, la struttura unitaria dei vincoli fondanti l’essenza assiologica. La sfumatura è il medium nel quale l’oggetto sviluppa il suo contenuto figurale o il suo significato concettuale, ma il valore lo precede, è il primo messaggero della sua natura specifica. Dunque, se l’oggetto è ancora oscuro e impreciso, il valore può già essere chiaro e distinto: questo accade perché nella presa percettiva dell’oggetto noi afferriamo prima l’intero non ancora analizzato e nell’intero il valore, nel valore dell’intero afferriamo poi i valori parziali, nei quali infine vengono individuati i singoli oggetti dell’immagine.

 

È chiaro dunque che le qualità di valore non mutano con le res. Come il blu non diventa rosso se una sfera blu viene dipinta di rosso, così i valori e il loro ordine gerarchico non cambiano se cambia il valore dei loro portatori. Il nutrimento resta nutrimento, il veleno resta veleno, indipendentemente dal fatto che una sostanza sia nutriente o velenosa per questo o quel tipo di organizzazione. Il valore dell’amicizia non viene meno se un amico si rivela un falso amico e mi tradisce[4].

In quanto fenomeni assiologici, i valori sono oggetti puri e si distinguono da ogni stato emotivo che li accompagna: il valore del piacevole è diverso dal piacere che suscita un determinato oggetto, che qualifichiamo come un bene in quanto portatore del valore del piacevole. Esiste una proporzione matematica tra beni, valori, cose e qualità. I beni stanno ai valori come le cose stanno alle qualità che riempiono di contenuto le sue proprietà figurali. Bisogna quindi distinguere i beni, cioè le cose di valore, dai semplici valori che si manifestano nelle cose nell’atto del sentire.

L’indipendenza del valore dal bene implica che il valore non sia fondato sulla cosalità del bene, ma che il bene sia impregnato di valore e che l’unità di un valore orienti in anticipo la sintesi di ogni altra qualità che scopriamo nel bene. La creazione di un mondo di beni viene orientata da una certa gerarchia di valori, come ad esempio la creazione artistica di un’epoca determinata. Nel rapporto gerarchico dei beni, così come nel singolo bene si riflette dunque una gerarchia dominante. La gerarchia dei valori non definisce affatto in modo univoco il mondo dei beni corrispondente, ma ne delimita l’ambito di possibilità, tracciando quei confini (quei vincoli) oltre i quali nessun processo di formazione di beni potrebbe compiersi. La gerarchia dei beni è dunque a priori rispetto al mondo dei beni, poiché viene guidata dalla gerarchia assiologica dominante.

La gerarchia di valori è una gerarchia materiale, un ordine di qualità assiologiche. Non essendo una gerarchia assoluta ma solo dominante essa si manifesta nelle regole di preferenza delle qualità assiologiche che costituiscono l’anima di un’epoca. I sistemi di questo tipo sono definiti “stile” nella sfera dei valori estetici e “morale” nella sfera dei valori pratici[5].

 

  1. Preferenza e posposizione

A questo punto la posizione di Scheler è chiara. Egli ammette il principio kantiano per cui nessuna filosofia dei valori può basarsi su dei beni, altrimenti essa non potrebbe avere carattere universale poiché la sua validità sarebbe relativa a una determinata classe di beni, ma allo stesso tempo essa non può nemmeno fondarsi sul carattere formale delle legge morale, altrimenti non riuscirebbe a rappresentare la pienezza vitale e spirituale delle serie materiali dei valori. Queste però pur essendo materiali sono del tutto indipendenti dal mondo dei beni e dalle sue mutevoli configurazioni. Per questo motivo i valori sono dati a priori, ossia sono essenze oggettive che orientano la produzione del mondo dei beni e gli atti di natura pratica.

Per Scheler, il tentativo di Kant di ridurre i significati dei termini assiologici di buono e malvagio a un dover essere è fallito, non si può dimostrare che se non vi fosse una legge morale i giudizi di valore buono e malvagio non esisterebbero. Innanzitutto Kant sbaglia quando esclude che buono e malvagio siano valori materiali. Essi invece sono valori materiali che possiamo afferrare chiaramente nel nostro sentire assiologico, quindi non li deduciamo a partire da un vuoto dover essere. Il valore buono in senso assoluto è quel valore che appare in conformità di una legge essenziale nell’atto di realizzazione di un valore più elevato, il valore malvagio in senso assoluto è invece quel valore che appare nell’atto di realizzazione di un valore più basso. Relativamente buono o malvagio è invece quel valore che appare nell’atto di realizzazione di un valore, considerato dal punto di partenza assiologico contingente, superiore o inferiore.

Poiché l’esser superiore di un valore si dà nell’atto di preferire e l’essere inferiore nell’atto del posporre, possiamo affermare che è moralmente buono l’atto di realizzare valori che, in base alla materia assiologica intesa, si accorda con il valore preferito e contrasta con quello posposto, è invece malvagio l’atto di realizzazione del valore che, in base alla materia assiologica intesa, si accorda con il valore posposto e contrasta con quello preferito. Dunque la relazione tra buono e malvagio con altri valori, che Kant nega, esiste, per questo è possibile un’etica materiale che, in base all’ordine gerarchico degli altri valori, stabilisca quale modalità di realizzazione assiologica sia buona e quale malvagia. In ogni sfera assiologica materiale, di cui un essere sia a conoscenza, esiste una determinata etica materiale in cui si manifestano leggi di preferenza tra valori materiali adeguate al contenuto di questa sfera. Nella sfera del volere, il criterio per distinguere il buono consiste nell’accordo del valore inteso nella realizzazione con il valore preferito e nel contrasto con quello posposto. Viceversa il criterio per distinguere il malvagio è il contrasto nella realizzazione con il valore preferito e l’accordo con quello posposto.

Ogni valore buono o malvagio è necessariamente connesso ad atti di realizzazione che seguono a possibili atti di preferenza. Non è però necessariamente connesso ad atti di scelta, poiché il buono e il malvagio si danno immediatamente nell’atto del volere che segue direttamente al preferire, senza una scelta preliminare. Ogni scelta si fonda in un atto di preferenza, ma quest’ultimo non sceglie, non elimina cioè dal proprio orizzonte il valore posposto rivolgendosi semplicemente alla realizzazione del preferito, ma coglie la superiore significatività di quest’ultimo. Il preferire è un atto conoscitivo perché, a seguito della sua realizzazione, si dà una distinzione che prima non si manifestava, e con essa la collocazione di un evento in una gerarchia di senso; tale distinzione è inoltre esperita come distinzione in re e non come posta da noi.

Scheler respinge fermamente l’affermazione kantiana per cui buono e malvagio ineriscano originariamente solo agli atti del volere. Ciò che invece possiamo definire originariamente buono e malvagio, ossia portatore del valore materiale buono e malvagio, indipendentemente dai singoli atti, è soltanto la persona, l’essere della persona in quanto tale. La semplice riduzione di buono e malvagio all’adempimento d’atti, conformi alla legalità del dovere, rende immediatamente implausibile la prospettiva kantiana, perché per Scheler non ha senso dire che l’essere della persona consiste nell’adempimento di atti conformi al dovere. Il fatto che Kant consideri l’atto del volere come il portatore originario dei giudizi di valore buono e malvagio in effetti dipende da questo: egli non riconosce il buono e il malvagio come valori materiali e tende a ricondurli all’essere conforme o meno degli atti alla legge morale, all’essere conformi o meno a una forma.

Rifiutare, come giustamente fa Kant, un’etica materiale dei beni e degli scopi non implica rifiutare un’etica materiale dei valori. I valori, infatti, non dipendono dagli scopi e non sono astratti dagli scopi, ma costituiscono già il fondamento dei fini del nostro tendere i quali a loro volta costituiscono i fondamenti del nostro volere. Perciò, la gerarchia della sfera pratica prevede la priorità del sentire assiologico (fühlen) sul tendere (streben) e sul volere (willen). Poiché i contenuti figurali del tendere dipendono dai valori materiali e i loro rapporti dipendono dai rapporti dei valori materiali, l’etica materiale dei valori è a priori rispetto alla totalità del contenuto figurale dell’esperienza. Il nostro volere è buono nella misura in cui preferisce il valore più alto tra quelli che si manifestano nelle inclinazioni. Il volere non si conforma a una legge formale a esso immanente, ma alla conoscenza, maturata nel preferire, della superiorità delle materie assiologiche che si danno nelle inclinazioni.

Un altro presupposto kantiano per Scheler assolutamente sbagliato è quello di vedere nelle tendenze che si presentano automaticamente, ad esempio, in tutto ciò da cui una persona si sente tentata, un completo caos e una serie di processi che dipendono soltanto dall’associazione meccanica, nei quali solo la volontà razionale e la ragione pratica dovrebbe mettere ordine realizzando una costruzione sensata. Piuttosto, la natura profondamente morale di una persona si rivela nel fatto che l’involontario e automatico manifestarsi dei suoi moti tendenziali e dei valori materiali, ai quali essi mirano, si svolga già secondo un ordine di preferenza, e che i valori rappresentino per il volere un materiale già ampiamente formato. L’ordine di preferenza, che discende dalla gerarchia di valori, si trasforma così nella sfera pratica come la regola interna dell’automatismo del tendere stesso e del modo in cui le tendenze penetrano nella sfera centrale del volere. Le inclinazioni umane sono perciò espressione della gerarchia valoriale, ne rispecchiano il contenuto e la struttura. Dunque esse non costituiscono un caos informe su cui successivamente interviene la legge morale per dare loro ordine e forma. Esse sono già ab origine formate e ordinate dalla gerarchia oggettiva dei valori.

Se Kant giustamente respinge un’etica dei beni e degli scopi, giustamente rifiuta anche ogni etica che fondi i contenuti del proprio volere sui risultati dell’esperienza induttiva, storica, biologica e psicologica. In questo senso ogni esperienza del bene e del male presuppone la conoscenza di ciò che è buono o malvagio. Posso chiedermi che cosa abbiano considerato buono o malvagio in questo o in quel caso gli esseri umani, come si siano formate queste opinioni, come si risvegli il discernimento morale e mediante quale sistema di mezzi risulti efficace la volontà buona o malvagia ma tutte queste domande, alle quali si deve rispondere solo muovendo dall’esperienza, secondo il metodo induttivo, sono in genere sensate solo nella misura in cui esiste una conoscenza etica di tipo eidetico. Che il discernimento etico non dipenda dall’esperienza induttiva non significa solo, come afferma Kant, che il bene deve essere indipendente dal fatto che qualcuno abbia agito bene o no. Sebbene questa tesi sia giusta, non indica il motivo per cui l’esperienza dovrebbe essere qui madre dell’illusione.

Anche se non fosse stato mai giudicato cattivo, l’omicidio rimarrebbe cattivo. Anche se non fosse mai stato “considerato” “buono”, il bene sarebbe buono. L’empirismo è una prospettiva erronea non perché (come sostiene Kant) sarebbe impossibile “estrarre” il dovere dall’essere; perché, al contrario, è impossibile estrarre l’essere dei valori da una qualche forma di essere reale, (azioni reali, giudizi, esperienze vissute del dovere), dalla quale infatti non dipendono le loro qualità e le loro relazioni[6].

 

  1. A priori e a posteriori

Per quanto la tesi kantiana secondo la quale i principi etici devono essere a priori sia giusta, essa non spiega precisamente il modo in cui deve essere esibito l’a priori. L’etica a priori se non vuole restare una vuota costruzione, deve indicare in che modo i Fakten della ragione pura, sui quali si fonda, si distinguono dai fatti dell’osservazione e dell’induzione. Qual è la differenza tra un fatto della ragione pura e un fatto psicologico? Ignorando l’esperienza fenomenologica in cui appare come dato dell’intuizione ciò che a titolo di forma e presupposto è già implicito nell’esperienza naturale e scientifica, Kant non può rispondere a questa domanda.

Quando Kant dice che la legge morale nasce da un’autolegislazione della ragione e che la persona di ragione è legislatrice della legge morale, fa una serie di affermazioni che non ci restituiscono il fondamento fenomenico dell’a priori che egli pone alla base della legge morale. Egli non coglie perciò la classe dei fatti sui quali un’etica a priori deve fondarsi. D’altronde, secondo Scheler, egli non avrebbe potuto cercare questa classe di fatti finché avrebbe considerato l’etica a priori come un’etica formale, invece che un’etica materiale. Solo un’etica materiale può fondarsi sui fatti, a differenza delle costruzioni soggettive dell’etica formale. Essa pone la priorità del dato sul costruito.

Scheler avverte dunque l’esigenza di fondare l’etica riproponendo con forza il tema del dato originario di esperienza. Pur criticando il formalismo kantiano, da lui riprende uno degli assunti di fondo ossia quello secondo il quale l’etica non può consistere nella ricognizione analitica delle varie eticità in vigore, piuttosto in un preliminare chiarimento di quella conoscenza, che egli qualifica come eidetica, che è presupposto essenziale dell’intenzione etica di ogni giudizio di valore espresso o esprimibile in società. Egli ritiene che il presupposto di ogni intenzione etica consiste in un fatto, un dato, ossia qualcosa che si offre a un certo tipo di esperienza e solo a partire dal quale i giudizi etici possono modularsi. Come Kant, anche Scheler ritiene che i principi etici devono essere a priori, il problema è però sapere se solo i principi formali di Kant possano impedire all’etica di procedere in modo induttivo oppure se vi possa essere un’etica materiale che sia allo stesso tempo a priori. Occorre dunque stabilire cosa significa per Schler a priori, cosa che implica l’individuazione dei fatti fondamentali dell’etica: le due questioni si coimplicano. Interrogarsi sull’a priori significa interrogarsi sulle caratteristiche distintive del dato e su quale tipo di esperienza è in grado di presentarcelo.

Gli a priori sono le unità semantiche ideali e le proposizioni che vengono a datità evidente nel contenuto di un’intuizione immediata, indipendentemente sia dalla posizione del soggetto che la pensa sia dalla posizione dell’oggetto a cui può applicarsi. Un’intuizione di questo tipo è un’intuizione eidetica, o intuizione fenomenologica o esperienza fenomenologica. Il quid che essa offre non può manifestarsi in modo più o meno adeguato, come avviene nel caso di un oggetto che possiamo osservare con maggiore o minore precisione. Al contrario, esso viene colto intuitivamente e allora è dato in se stesso, oppure non viene colto intuitivamente e allora non è dato. L’a priori è quindi un contenuto, una materia, la cui originarietà è anteriore a qualsiasi posizione oggettiva o soggettiva. Tutto ciò che si fonda su un’immediata intuizione di sé ed è presente nel suo stesso vivere e intuire, è dato a priori. L’a priori è quindi una quiddità, un’essenza, che si manifesta come originaria, come essente in quanto tale, senza alcuna gradualità nella manifestazione.

L’a priori di un fatto o di un dato è il rendersi presente di qualcosa in modo immediato, è quindi proprio l’immediatezza la caratteristica qualificante dell’a priori. L’evidenza di un oggetto immediatamente presente, è un tipo particolare di esperienza che Scheler chiama esperienza fenomenologica o semplicemente intuizione. Gli a priori sono dunque fatti essenziali e come tali essi precedono ogni induzione o spiegazione causale e le proposizioni che si concretano in questi fatti immediatamente evidenti sono proposizioni a priori. In questo modo Scheler rovescia il rapporto kantiano tra giudizio e categorie. Per Scheler l’a priori costituisce il criterio di verità delle proposizioni che vi si concretano, mentre per Kant, sono i giudizi sintetici a priori a fondare le categorie, le quali sono valide proprio perché possono essere dedotte dalle forme del giudizio. La natura eidetica del dato a priori, secondo Scheler fa sì che le proposizioni che in esso si realizzano siano indipendenti da quanto possa venire osservato, descritto o contestato ricorrendo all’esperienza induttiva.

Ogni volta che si offrono essenzialità di questo tipo e le loro relazioni, le verità delle proposizioni che in esse trovano verifica intuitiva è del tutto indipendente dall’intero ambito di quanto possiamo descrivere, osservare e constatare ricorrendo all’esperienza induttiva e quindi da tutto ciò che può rientrare in una spiegazione causale. Queste proposizioni sono vere a priori perché i fatti in cui esse trovano verifica intuitiva sono veri a priori. Quindi l’a priori non è vincolato alle proposizioni, ossia non è vincolato alle forme del giudizio da cui Kant trae le categorie come funzioni unificatrici del pensiero. Questa critica alla deduzione trascendentale ribalta completamente il rapporto tra le proposizioni e gli a priori.

Nel sistema della ragion pura la sussunzione del molteplice sensibile entro l’unità del concetto puro è giustificata de iure attraverso il funzionamento dell’Io penso e delle forme del giudizio, di cui le categorie ossia gli a priori costituiscono le leggi funzionali. Le proposizioni fondamentali dell’intelletto, ossia i principi dell’intelletto puro, costituiscono le regole in base alle quali le categorie si applicano ai fenomeni sensibili. Questo significa che c’è un rapporto di dipendenza tra le proposizioni e gli a priori. Gli a priori in quanto leggi funzionali dell’intelletto dipendono dalle proposizioni fondamentali dell’intelletto stesso. Per Scheler invece gli a priori non dipendono dall’Io penso, essi sono piuttosto autodatità evidenti. L’a priori appartiene al dato, alla sfera dei fatti e una proposizione è vera soltanto se trova verifica intuitiva in quei fatti.

Scheler sottolinea non solo il carattere di evidenza originaria del fatto che è oggetto di intuizione, ma anche che l’esperienza consiste tutta nell’accesso originario e immediato a questo ambito di fatti. L’esperienza fenomenologica ha come connotazione peculiare il fatto di essere contraddistinta da ogni altro tipo di esperienza, ad esempio quella scientifica. Essa consiste nel porre in evidenza le essenze originarie dei fatti, ossia nel vedere i contenuti a priori separati da ogni altra cosa. In essa ogni determinazione contingente del fatto scompare, per lasciare il posto a ciò che il fatto è in sé e per sé. Inoltre, per Scheler l’esperienza fenomenologica è l’unica esperienza puramente immanente, poiché in essa l’a priori è un dato sempre presente e attuale, per via dell’immediata coincidenza tra il dato e l’inteso. Nell’intuizione eidetica infatti non vi è alcuno scarto tra ciò che noi intendiamo di un particolare fatto e ciò che il fatto è in sé e per sé. Dove il dato vada oltre l’inteso o l’inteso non si dia in sé e perciò compiutamente, non vi è alcuna esperienza fenomenologica.

La riduzione fenomenologica consiste perciò in quella pratica essenziale che consente di comprendere l’essenza originaria dei fatti, prescindente qualsiasi segno, indicazione, determinazione spazio-temporale. In ogni esperienza fenomenologica noi prescindiamo tanto dagli elementi concomitanti all’essenza originaria, quanto dagli specifici contenuti di realtà con cui essa è data. Abbiamo perciò da un lato una metodologia sicura per accedere al dato nella sua purezza, poiché l’esperienza fenomenologica è diversa rispetto a quella scientifica, dall’altro una pratica di messa fuori gioco delle contingenze che necessariamente caratterizzano quel dato. Fin da subito Scheler carica la riduzione eidetica di un connotato etico-esistenziale, il fatto che la liberazione del dato da ogni condizione implichi un’indifferenza a ogni come, a ogni modalità specifica di esperienza, significa per Scheler, non l’assunzione di un’impossibile condizione disincarnata, quanto piuttosto uno sguardo aperto sulla pura attualità vivente. La fenomenologia è da lui intesa come un traffico di vissuti (che sia il più intenso, immediato e vitale) con il mondo stesso e con le cose con cui ha a che fare, ossia con le cose che si danno nell’atto di esperienza e sono presenti soltanto in quest’atto. Lo sguardo della fenomenologia è assetato d’essere, si dirige perciò verso le cose stesse, e si riposa soltanto quando l’esperienza viva e il suo oggetto (di qualsiasi natura esso sia, fisico psichico ecc.) si toccano l’uno con l’altro. Per questo motivo soltanto la fenomenologia può approcciarsi alla realtà in modo empirico, perché ha come oggetto i fatti e soltanto i fatti, non le costruzioni dell’intelletto. Ogni teoria deve perciò adeguarsi ai fatti e i metodi sono conformi al loro scopo soltanto nella misura in cui conducono a teorie adeguate ai fatti. L’aver attribuito alla fenomenologia il vero atteggiamento empirico nei confronti della realtà, implica anche la critica al concetto kantiano di intuizione sensibile.

L’errore di Kant per Scheler consiste nell’aver identificato il dato originario con il contenuto sensibile. L’essenza di un dato per Scheler non coincide con la percezione sensibile del dato, la quale è inevitabilmente condizionata dalle contingenze fattuali e dal valore che il dato assume per noi, nella misura in cui il nostro corpo è impegnato in un’azione sul dato stesso. Inoltre, per non dissolvere l’a priori nella materia dell’esperienza fattuale, Kant ha identificato il formale con la sfera del razionale, ossia nel senso di un pensiero formatore che attraverso la sintesi unifica e ordina il molteplice e il caos dell’esperienza. Il problema di fondo è però quello di aver considerato il mondo come un coacervo di sensazioni e l’uomo come un caos di pulsioni, sui quali poi interverrebbero le funzioni organizzative del soggetto. In questo modo noi consideriamo l’a priori non come qualcosa di in sé e per sé sussistente, ma come un atto del soggetto. L’a priori è invece costituito dalla struttura essenziale degli oggetti all’interno dei vari ambiti dell’esperienza, cui corrispondono determinati atti e rapporti funzionali.

Scheler in questo modo trasforma la differenza classica tra a priori e a posteriori. Non si tratta di esperienza da un lato e condizione di ogni esperienza dall’altro (condizione che a sua volta non è esperibile in alcun modo), piuttosto di due tipi diversi di esperienza: l’esperienza pura e immediata da un lato e l’esperienza condizionata dalla posizione soggettiva e oggettiva. Nell’esperienza fenomenologica non sono i fatti ad adeguarsi all’esperienza ma è il contrario, è l’esperienza a rappresentare il dato nella sua purezza, immediatezza ed evidenza. Se il fondamento di ogni giudizio è costituito dai fatti puri e i fatti puri sono quelli che si presentano nell’intuizione eidetica, ossia immediata e autoevidente, allora quando giudico una cosa giusta ciò avviene perché essa si presenta come giusta in modo immediato ed evidente, perché così si offre alla mia intuizione, non perché io proietto su di essa il mio concetto di giusto, derivante dalle forme del mio pensiero, ossia dall’organizzazione del mio intelletto. In base a quanto precede è chiaro che l’ambito dell’evidente a priori non coincide con il formale e che la contrapposizione tra a priori e a posteriori non coincide con quella tra formale e materiale. La differenza tra a priori e a posteriori è assoluta e si fonda sulla diversità dei contenuti che verificano intuitivamente i concetti e le proposizioni. La differenza formale e materiale riguarda invece il grado di generalità dei concetti e delle proposizioni.

Così ad esempio le proposizioni della logica pura e le proposizioni dell’aritmetica sono ugualmente a priori (tanto gli assiomi quanto i corollari). Questo non impedisce tuttavia le prime sono “formali” rispetto alle seconde e le seconde materiali rispetto alle prime. Per verificare le seconde infatti è necessario un plus di materia intuitiva. D’altra parte anche il principio secondo il quale date due proposizioni, “A è B” e “A non è B”, una è falsa, è vero solo se muoviamo da un’intuizione fenomenologica materiale: l’essere e il non essere di qualcosa (intuitivamente) sono incompatibili. In questo senso anche il principio indicato si fonda su una materia dell’intuizione che non diminuisce solo perché spetta a ogni oggetto, qualunque esso sia. Quel principio è “formale” solo nel senso toto coelo diverso, che A e B potrebbero essere sostituiti da una qualunque serie di oggetti; rispetto a due oggetti determinati di una serie qualsiasi, esso è formale[7].

 

Dunque, nella sfera complessiva delle evidenze intuitive a priori esistono infinite differenze tra formale e materiale. Anche nella dottrina dei valori esistono infinite differenze tra a priori formale e a priori materiale. L’a priori materiale indica che l’oggetto colto dall’esperienza eidetica ha la stessa rigorosa evidenza di un a priori formale, soltanto è valido per una classe più specifica di oggetti. L’a priori formale rispetto a quello materiale ha la stessa rigorosa evidenza ma è valido per una classe più ampia di oggetti. Formale e materiale significano dunque generico e specifico: questi contenuti possono essere colti a priori tramite esperienza eidetica e a posteriori tramite esperienza naturale o scientifica, cioè basata su osservazione e induzioni. L’a priori dunque può essere formale e materiale e su quello materiale si basano le proposizioni dell’etica. D’altronde anche le proposizioni che valgono solo a posteriori possono avere carattere formale e materiale, se in esse distinguiamo la forma logica e il contenuto materiale.

Dall’acquisizione del metodo fenomenologico, indispensabile per cogliere quel mondo di essenze che soggiace alla mutevolezza della realtà storica, quel fondamento originario e assoluto di cui la vita è una delle manifestazioni deriva il compito principale della filosofia, un compito di ordine teoretico e pratico. Come da un punto di vista teoretico, la filosofia attraverso l’epochè (sospensione del giudizio) e la riduzione eidetica purifica le intuizioni da quelle determinazioni che non sono affatto contenute nell’intuizione pura, ossia che non sono state esperite nella loro autodatità originaria, immediata e immanente, così da un punto di vista pratico possiamo distinguere i dati dell’esperienza naturale da quelli dell’esperienza fenomenologica.

Nell’esperienza naturale ci sono dati i beni, proprio come sul piano teorico ci sono date le cose. Solo in seconda istanza sentiamo, per intuizione eidetica, i valori delle cose e il sentire assiologico stesso, ossia il fühlen, quell’atto intenzionale della vita emotiva nella cui realizzazione si verifica il disvelamento di una sfera valoriale. Poi, in terza istanza sentiamo i possibili stati affettivi di piacere e dispiacere che i beni esercitano su di noi, infine avvertiamo i vissuti emotivi di sensazione intrecciati con questi stati. Dunque dopo aver colto, attraverso il fühlen, ossia il sentire assiologico-intenzionale, il valore di piacevole o spiacevole rispetto a un determinato bene, avvertiamo lo stato affettivo connesso a questo valore, ossia il piacere o il dispiacere, e solo alla fine sentiamo il vissuto emotivo corrispondente a questo stato affettivo, ossia benessere e malessere. Se il valore dipendesse dal piacere e dal benessere corrispondenti, allora i valori non sarebbero più qualità immediatamente evidenti e aprioristicamente date, perché il loro disvelamento e coglimento sarebbe subordinato agli stati affettivi e ai vissuti emotivi dell’uomo, che dipendono dal rapporto tra il corpo-vivo e l’ambiente. Non bisogna dunque confondere il valore dall’effetto che questo valore esercita sull’io, perché i valori non sono costruzioni arbitrarie dell’io né dipendono dalla mutevolezza dei suoi stati; se così fosse si ritornerebbe al relativismo dell’etica dei beni e degli scopi, fondata sulla priorità del bene rispetto al valore, ossia sull’astrazione delle qualità valoriali dai beni che l’uomo reputa utili o piacevoli per la sua esistenza. In questo modo Scheler ha già abbozzato una fenomenologia della vita emotiva, che si presenta in modo stratificato e ordinato: dal sentire intenzionale allo stato affettivo, dallo stato affettivo al vissuto emotivo. (Fühlen, Gefühlzuständen e Gefühl). Ora, ciò che occorre specificare in prima battuta è l’assoluta distinzione tra la materia assiologica e il contenuto dello stato affettivo, ossia tra il Fühlen e il Gefühlzuständen: è chiaro che variando il contenuto del sentire varia anche lo stato affettivo corrispondente ma la materia assiologica è completamente indipendente dalle variazioni degli stati. I valori esperiti dal sentire assiologico sono indipendenti rispetto agli stati affettivi, ad esempio la gradevolezza dello zucchero è una materia assiologica, oggetto del sentire, la quale è indipendente sia dallo stato affettivo di piacere che avvertiamo quando lo assaporiamo sia dal vissuto emotivo di benessere che ne consegue. Se la gradevolezza dipendesse dal piacere e dal benessere corrispondenti, allora i valori non sarebbero più qualità immediatamente evidenti e aprioristicamente date, perché il loro disvelamento e coglimento sarebbe subordinato agli stati affettivi e ai vissuti emotivi dell’uomo, che dipendono dal rapporto tra il corpo-vivo e l’ambiente. Non bisogna dunque confondere il valore dall’effetto che questo valore esercita sull’io, perché i valori non sono costruzioni arbitrarie dell’io né dipendono dalla mutevolezza dei suoi stati, se così fosse si ritornerebbe al relativismo dell’etica dei beni e degli scopi, fondata sulla priorità del bene rispetto al valore, ossia sull’astrazione delle qualità valoriali dai beni che l’uomo reputa utili o piacevoli per la sua esistenza.

L’indipendenza dei valori dai beni chiarisce per quale motivo ogni epoca storica coglie una determinata gerarchia assiologica (colta in modo intuitivo e alogico ossia nella sua autodatità evidente) in una determinata classe di beni. Dunque è la gerarchia dei valori a fondare la gerarchia dei beni e non viceversa, così come è dalla gerarchia valoriale che dipende la classe degli stati affettivi e la sfera dei contenuti emotivi. I valori si danno nella dimensione dell’intuizione eidetica, dunque per disvelamento e coglimento, non tramite costruzione intellettuale.

A priori e a posteriori sono, quindi, rispettivamente i contenuti dell’esperienza fenomenologica e quelli dell’esperienza naturale e scientifica, mentre la distinzione formale/ materiale si riferisce al grado di generalità di questi contenuti, quindi prescinde dal modo in cui essi sono esperiti, tanto che abbiamo a priori formali e materiali, così come abbiamo, un aspetto formale e materiale dell’a posteriori. Ma anche l’identificazione di a priori con razionale e a posteriori con sensibile è erronea, perché paralizza la teoria della conoscenza, immobilizzandola sul presupposto (kantiano) per cui il contenuto della conoscenza deve essere o di natura sensibile o di natura razionale. A partire da questo presupposto non è possibile portare a evidenza intuitiva né i contenuti della logica, ossia concetti come cosa, realtà, forza, uguaglianza, somiglianza, azione efficace, spazio, tempo e numero e nemmeno i contenuti dell’etica, ossia i concetti di valore.

Per Scheler, le categorie e i valori sono oggetto di intuizione fenomenologica, che supera il dualismo tra intelletto e sensibilità, perché gli a priori non sono né costruiti arbitrariamente né recepiti dai sensi, essi si danno nella loro evidenza intuitiva, ossia attraverso l’esperienza fenomenologica. Dunque, affinché tutti i concetti della logica e dell’etica non siano posti arbitrariamente dal pensiero e nemmeno ricavati dalla sensibilità bisogna che essi siano dati a priori nell’intuizione eidetica. Se così non fosse, se non riconoscessimo al dato la sua autonomia rispetto al soggetto, il suo essere portatore di uno schema cognitivo indipendente dall’organizzazione del soggetto, la nostra conoscenza non potrebbe poggiare su un fondamento assoluto, e resterebbe relativa alla specifica organizzazione dell’essere umano, nella misura in cui egli ha un contenuto sensibile e una forma logica vuota, suscettibile di essere riempita da intuizioni sensibili.

Il motivo per cui l’a priori è stato identificato con le forme pure della ragione deriva, secondo Scheler, da una sorta di timore, diffidenza e sospetto nei confronti della ricchezza e della complessità della vita, la quale viene percepita come un caos di dati sui quali devono intervenire le funzioni organizzatrici della ragione. I concetti puri dell’intelletto servono a dare forma e ordine al caos delle intuizioni sensibili, proprio come la legge morale universale serve a dare forma e ordine al comportamento umano, altrimenti esso sarebbe un coacervo di pulsioni istintuali, che potrebbero anche condurre a processi autodistruttivi. L’a priori viene perciò pensato da Kant come un correttivo del caos, una funzione organizzativa e ordinante che interviene sulla natura humeana e sull’uomo hobbesiano. Per Scheler, invece, se provassimo a sostituire l’angoscia per il caos con l’amore per il mondo, non percepiremmo più il bisogno continuo di azione, organizzazione e dominio. Come le qualità essenziali, anche le loro relazioni ci vengono date a priori e non sono costruite o prodotte dall’intelletto. Vengono afferrate intuitivamente e non costruite. Sono relazioni originariamente date tra realtà, non leggi imposte agli oggetti solo perché sono leggi degli atti con cui le afferriamo. Soltanto grazie a queste relazioni a priori tra le essenze è possibile, secondo Scheler, comprendere il logos che compenetra l’universo, ossia l’ordine gerarchico di interi strutturati che dà significato e valore al mondo della vita, che riempie, vivifica e arricchisce la nostra stessa esperienza del mondo.

 


 

[1] M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, a cura di R. Guccinelli, Milano 2013, p. 41.

[2] Ibid.

[3] Ibid., pp. 55-56.

[4] Ibid., p. 63.

[5] Ibid., p. 71.

[6] Ibid., p. 113

[7] Ibid., p. 125.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *