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Indice
- Che cosa ha significato esattamente un lavoro come quello di G. Canguilhem?
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Sul fenomeno umano a partire da normalità e normatività
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Salute, malattia, guarigione
- L’intrinseca contraddittorietà di ogni etica della vita
S&F_n. 02_2009
Lo sguardo clinico ha questa paradossale proprietà, d’intendere un linguaggio nel momento in cui percepisce uno spettacolo.
M. Foucault
1. Che cosa ha significato esattamente un lavoro come quello di G. Canguilhem?
L’opera di Georges Canguilhem è caratterizzata dalla produzione di una grande quantità di articoli apparsi su varie riviste nel corso di una lunga carriera di studioso. L’impressione che si ha quando si leggono alcuni di questi interventi – sia che essi siano veri e propri articoli immediatamente pensati per la pubblicazione sia che invece siano la trascrizione di interventi tenuti durante convegni o conferenze – è che l’autore non abbia mai smesso di interrogarsi su quella modalità di pensiero e trascrizione dei fenomeni medici che lui stesso aveva dato nella tesi in Medicina dal titolo Essai sur quelques problèmes concernant le normal et le pathologique del 1943. Ed è in questo senso che in questo breve studio si intende leggere quegli scritti sulla medicina[1], da poco pubblicati in traduzione italiana, che, attraversando un lungo periodo che va dal 1955 al 1989 denotano una grande unità di pensiero da un lato e, dall’altro, una capacità di integrare continuamente quelle prime definizioni con lo svolgimento della scienza medica e – cosa che a nostro avviso non sembra secondario – con l’evoluzione delle società contemporanee e della critica sociale a essa accompagnata. È come se Canguilhem a partire da studi di medicina, condotti con assoluto rigore, studi che in più punti denotano un’assoluta regionalità, riesca sempre a porre domande non soltanto inerenti al possibile statuto epistemologico della medicina e alla sua storia – mediante la storicizzazione dell’epistemologia caratteristica della filosofia francese del XX secolo – ma anche e soprattutto a questioni che riguardano lo statuto del fenomeno umano a partire dalla necessità di un’etica e di una politica che tengano conto di determinate trasformazioni. Se la medicina è la scienza del vivente a partire da quello che può essere considerato il suo limite intrinseco, cioè la malattia come presenza sempre riattivantesi della morte nella vita, è chiaro che la problematizzazione si allarga non soltanto a questioni di sociologia clinica ma anche ad ambiti che mettono in luce possibilità esistenziali di conduzione della propria vita a partire da una necessità etico-politica.
Ed è in questo senso che dobbiamo chiederci, come faceva il suo allievo e amico Michel Foucault più di vent’anni fa, «che cosa ha significato esattamente […] un lavoro come quello di G. Canguilhem»[2] e quali siano i margini di attualità che possano riattivare la sua presenza nella riflessione contemporanea sul confine tra scienze mediche e filosofie della vita.
2. Sul fenomeno umano a partire da normalità e normatività
Prima di affrontare le questioni più strettamente connesse alla teoria – ma anche e soprattutto alla pratica – medica quali salute, malattia e guarigione, è necessario, a nostro avviso, dato che se ne è già sottolineata la permanenza nell’opera di Canguilhem, attraversare alcuni punti fondamentali attorno ai quali si incardinano le sue teorie: le nozioni di stato normale e stato patologico.
Il punto di partenza è la relazione tra normalità e normatività per accedere alla definizione di irriducibilità del fenomeno umano. Canguilhem pone la basi della sua critica a partire da un confronto serrato con la tradizione del positivismo francese che riconduce la leggibilità dello stato patologico a partire da alterazioni quantitative intervenute all’interno del normale funzionamento del corpo umano. Queste teorie non asseriscono soltanto una definizione di patologia ma tendono a connettere, a partire da una nozione di normalità difficilmente spiegabile, una ben più precisa prescrizione normativa attraverso la quale è facile costruire teorie che connettano la restaurazione della normalità dal punto di vista clinico a una medesima restaurazione dal punto di vista politico: è su questo tipo di riflessioni che si fonda la possibilità di una medicalizzazione della società.
Ma è proprio la presunta possibilità di costruire un sapere oggettivo su un qualcosa – la normalità – che ha contorni indefinibili dal punto di vista di una costruzione obbiettiva e scientifica che costituisce il fondamento della critica di Canguilhem:
l'ambizione di rendere la patologia, e di conseguenza la terapeutica, interamente scientifiche, facendole procedere semplicemente da una fisiologia preventivamente istituita, avrebbe senso soltanto se fosse possibile innanzitutto fornire una definizione puramente oggettiva del normale come di un fatto, e se, inoltre, fosse possibile tradurre ogni differenza tra lo stato normale e lo stato patologico nel linguaggio della quantità, giacché solo la quantità può rendere conto ad un tempo dell'omogeneità e della variazione[3].
Dunque, dal momento che la normalità non è un fatto e il presupposto di una calcolabilità quantitativa dello stato patologico non può sussistere, bisogna da un lato chiedersi cosa sia la normalità e dall’altro interrogarsi sulla questione della normatività a partire da presupposti differenti: in poche parole bisogna parlare della costituzione del soggetto a partire dalla sua capacità di produrre norme in vista del suo adattamento.
Il soggetto – e con questo intendiamo l’uomo concreto – ha la capacità di valorizzare la propria forma di vita, il che non deve intendersi come costruzione di senso a partire da una forma spirituale o psichica dell’uomo ma – e questo risulta essere fondamentale – a partire da una definizione organica e concreta del funzionamento del corpo umano. Se ci soffermiamo su questo punto è per chiarire che Canguilhem non intende discorrere di libertà assoluta, né porre questioni esistenzialistiche (in senso lato) e costruire, a partire da quelle, un’assiologia. Egli piuttosto cerca di delimitare i campi all’interno dei quali dovrebbe costituirsi ogni scienza medica che abbia per oggetto l’uomo concreto. In vista di tale costituzione bisogna tener conto, da un lato, dei valori attraverso i quali l’uomo concreto costruisce il senso della propria forma di vita, nella consapevolezza che essi si costituiscono a partire dal conflitto tra un’irriducibile autonomia e un’esigenza di persistere all’interno di un ambiente naturale e sociale; e, dall’altro, dei fatti da intendersi come quegli stati oggettivi del corpo umano che rappresentano il materiale di ogni valorizzazione.
A partire da questi presupposti possiamo tentare una definizione dello stato normale: la normalità consiste in quella particolare costruzione di valori a partire dal dato organico come fatto che permette al corpo e alla mente di entrare in relazioni sempre più complesse all’interno del mondo producendo sempre nuove e differenti configurazioni di sé; e possiamo tentare anche una definizione dello stato patologico: la patologia è quella particolare forma di vita la cui valorizzazione nella connessione con lo stato organico non permette un libero adattamento alla realtà naturale e sociale ma riduce gli orizzonti e le possibilità di azione e configurazione di sé.
Per concludere questa breve escursione nei fondamenti del pensiero di Canguilhem è utile dire che se i valori devono entrare in connessione con i fatti e devono prodursi a partire da un confronto con quelli, è pur vero che un soggetto nella sua immota sostanzialità non esiste ma esistono soltanto configurazioni soggettive nel loro impasto con l’oggettività del proprio corpo e delle sue possibilità; e se il soggetto è irriducibile a qualsiasi forma di vita che possa essere imposta da determinati contesti – e pensiamo soprattutto a contesti sociali di normalizzazione – si pone immediatamente come deviante ed è forse nel senso di una costitutiva devianza che dobbiamo considerare il fenomeno umano per restituirlo alla sua capacità creativa e normativa.
3. Salute, malattia, guarigione
Nello scritto La salute: concetto volgare e questione filosofica, trascrizione di una conferenza tenuta nel 1988, Canguilhem si interroga sull’ambiguo concetto di salute, mostrandone l’assoluta complessità e l’impossibilità di definizione. La salute rappresenta uno stato indefinibile e in questo consiste la sua complessità. Dopo un breve excursus filosofico attraverso le definizioni di Leibniz che vedeva nella salute l’assenza di mali, di Kant che affermava che è possibile sentirsi bene ma non sapere di stare bene – la salute, dunque, come ciò che sfugge a ogni conoscenza universale e necessaria – e di Nietzsche per il quale la salute è un attributo della potenza come capacità di mettere alla prova tutti i valori, la domanda che è necessario porsi è se la salute possa allora essere una verità oggettiva e se il corpo vivente – nelle sue potenzialità di salute, malattia e guarigione – possa costituire un oggetto dato.
Il corpo vivente - afferma Canguilhem - è dunque quell’esistente singolare la cui salute esprime la qualità dei poteri che lo costituiscono e gli consentono di vivere e assolvere i compiti che gli sono imposti[4].
Il corpo, allora, è un dato in quanto «è un genotipo, effetto a un tempo necessario e singolare dei componenti di un patrimonio genetico» ed è un prodotto in quanto «la sua attività d’inserzione in un ambiente caratteristico, il suo modo di vivere scelto o imposto […] contribuisce a forgiarne il fenotipo»[5]. La salute si riferisce allo stesso tempo al corpo dato, e rappresenta il suo non essere originariamente alterato, e al corpo prodotto, e rappresenta la capacità di correre certi rischi all’interno di un ambiente dato. Questa duplicità del concetto di corpo e del concetto di salute conduce a una visione del corpo come sistema aperto a numerose variabili, non semplicemente oggettivabile – come pretende la scienza medica peccando di scientismo – né semplicemente un’istanza soggettiva come pretenderebbero tutte le correnti di anti-medicina e naturiste che costituiscono un’ideologia della salute a partire da un sostrato altrettanto sostanzialista. La scienza medica e il naturismo sono come due aspetti di una medesima confusione epistemologica sulle caratteristiche del corpo umano.
La stessa complessità caratterizza il concetto di malattia. Bisogna in primo luogo affermare che la medicina, in accordo con i più recenti studi di biologia, ha permesso di fare una distinzione tra le varie malattie che possono colpire l’uomo: quelle ereditarie connesse alla struttura del genoma, quelle congenite connesse alle condizioni di vita intrauterina, e quelle occasionali connesse alla presenza e alla relazione dell’uomo all’interno di un ambiente naturale o sociale; e in secondo luogo è necessario sottolineare che la malattia non è mai qualcosa di oggettivo nel senso che, studiando la storia della diffusione di una malattia, – e qui interviene l’aspetto pedagogico del pensiero di Canguilhem sul quale ritorneremo –, bisogna «interrogarsi sulle ragioni della loro distribuzione geografica e sulla forma dei rapporti sociali tipici delle popolazioni infette»[6]. In questo senso anche le malattie che vengono considerate connesse a errori di metabolismo o ad anomalie ereditarie, a seconda della distribuzione geografica, possono configurare un limite o una possibilità: «mangiare delle fave equivale ad avvelenarsi per l’individuo mediterraneo […] mentre lo stesso deficit enzimatico conferisce ad alcune popolazioni africane un tasso superiore di resistenza alla malaria»[7]. Canguilhem vuole porre l’accento sul fatto che, nello studio delle malattie, si è sempre di più abbandonato il punto di vista soggettivo – e per soggettivo dobbiamo intendere il rapporto dell’individuo malato con il suo ambiente specifico nel senso di un’individualità della risposta sia ad agenti esterni sia rispetto alla propria costituzione – in vista di un’impostazione oggettiva di cui Canguilhem costruisce un’esatta genealogia:
la graduale eliminazione, nella conoscenza delle malattie, del riferimento alle situazioni vissute dei malati non è soltanto il frutto della colonizzazione della medicina da parte delle scienze fondamentali e applicate avviata ai primi dell’Ottocento, ma è anche il frutto dell’attenzione interessata, in tutti i sensi della parola, che più o meno nello stesso periodo le società di tipo industriale cominciano a riservare alla salute delle popolazioni operaie o – per parlare come altri – alla componente umana delle forze produttive[8].
In questo senso è leggibile la nascita dell’istituzione ospedaliera che ha avuto come conseguenze quella di disindividualizzare la malattia da un lato e, dall’altro, di produrre un cambiamento nella percezione e nello studio delle malattie. Chiaramente Canguilhem non vuole affermare che nella scienza medica non si siano avuti dei progressi nella comprensione della struttura biologica del corpo vivente, ma che «certi fattori sociali, e dunque politici, [hanno] giocato un ruolo nell’invenzione di pratiche teoriche attualmente efficaci per la conoscenza delle malattie»[9].
Insomma la malattia è un fenomeno ancora più complesso di quello che si può credere: ci sono condizioni che riguardano il corpo dato ma ci sono anche condizioni riguardanti una determinata forma di vita assunta in un determinato ambiente sociale che, all’interno del corpo prodotto, può sviluppare determinate tendenze; oltre a queste ci sono condizioni di carattere psicosomatico o addirittura di carattere psicoanalitico proprie della percezione da parte dell’individuo di uno svilimento, dovuto alla malattia, del suo ruolo sociale all’interno della gerarchia culturale e professionale, o come caduta e svalorizzazione del sé.
E se, dunque, la percezione della complessità della malattia interseca questioni inerenti alla struttura sociale dell’ambiente umano e, quindi, un discorso su di essa prevede anche una politica, è altrettanto vero che la complessità della malattia interseca quella che può essere definita in senso lato un’etica, in quanto «le malattie possono talvolta essere il prezzo da pagare per uomini che sono stati creati viventi senza volerlo e devono imparare col tempo che tendono per forza, sin dalla nascita, a una fine imprevedibile eppure ineluttabile»[10]. La malattia non rappresenta soltanto un limite biologico universale proprio di «viventi costretti a essere solo vitali» ma è anche una prova esistenziale che ripete continuamente che «la morte è nella vita»[11]. E a partire da riflessioni di questo tipo che per Canguilhem è necessario chiedersi cosa rappresenta la guarigione e se su di essa è possibile costruire una pedagogia.
La guarigione è un’altra nozione complessa in quanto sottolinea necessariamente la presenza dell’elemento soggettivo all’interno della terapia oggettiva prescritta dal medico. Essa è un’esperienza attraverso la quale un determinato equilibrio normativo all’interno di una determinata forma di vita viene riformulato e ristrutturato dalla malattia e dal superamento di essa; in poche parole la guarigione non dovrebbe mai essere considerata un ritorno allo status quo ante. E questo risulta chiaro dal discorso sul corpo come dato e come prodotto fatto in precedenza, che dovrebbe permettere la rimozione della presunzione positivistica di leggere il rapporto tra medico e paziente «come un rapporto tra un tecnico competente e un meccanismo difettoso»[12].
La guarigione rappresenta l’elemento che massimamente sfugge alla presa dell’oggettività della scienza medica e investe quanto mai determinazioni etico-politiche. Il problema, secondo Canguilhem, è chiedersi quando la guarigione è divenuta un problema inerente la società e non soltanto l’individuo malato; quando, cioè, essa ha investito la ragione politica. E ancora una volta dobbiamo ritornare alla frattura epistemologica della fine del Settecento e alla rivoluzione industriale come correlato socio-economico di tale trasformazione, che ha prodotto la necessità degli ospedali come luogo di cura generalizzata e come laboratorio di conoscenza delle malattie e che ha fatto sì che uno dei problemi fondamentali dei governanti sia diventata l’igiene pubblica attraverso una medicina strutturata in maniera preventiva[13]. Il ragionamento di Canguilhem è stringente: terapie come l’antibiotico e la chemioterapia – scoperte geniali che hanno, però, la loro genesi in esigenze sociali – hanno permesso di allungare la vita; la vita stessa, però, diviene più precaria e l’invecchiamento produce nuove malattie o acuisce malattie già esistenti, per la qual ragione si produce un’ansia ancora maggiore di guarigione.
La connessione tra il motivo sociale proprio delle società industriali e la trasformazione dei concetti di guarigione, salute e malattia è ancora più limpida attraverso la procedura dell’assicurazione sanitaria. In questo caso, infatti, in quanto l’uomo deve guarire da malattie «il cui rischio è inerente al godimento stesso della salute»[14].
Dal punto di vista etico il processo che conduce alla (eventuale) guarigione non deve essere gestito solamente attraverso la prescrizione di una terapia adeguata a un determinato deficit organico ma – ed è in questo senso che per Canguilhem è necessaria una pedagogia della guarigione – il compito del medico è «di istruire il malato sulla sua inderogabile responsabilità nella conquista di un nuovo stato di equilibrio rispetto alle sollecitazioni dell’ambiente»[15].
4. L’intrinseca contraddittorietà di ogni etica della vita
Le riflessioni di Canguilhem hanno un impatto decisivo per quanto riguarda il metodo: in primo luogo è necessario notare che la scienza medica non procede in maniera lineare attraverso una sempre più adeguata rappresentazione della verità a partire dal suo oggetto, ma mostra come le stesse verità sono processi di attualizzazione di pratiche connesse a uno sviluppo generalizzato della società e del fenomeno umano; in secondo luogo, è importate notare che, non esistendo un soggetto come fondo costante sul quale si applicano possibilità teoriche di conoscenza e pratiche mediche di restituzione della verità del corpo, la stessa vita nella sua nudità è un movimento irriducibile e approssimativo e che la sua normalità non è altro che un processo normativo che destabilizza continuamente i suoi presupposti e che si pone sempre come differenza assoluta rispetto a un modello o a una griglia di comprensione e di attitudini esistenziali.
La vita nel suo distendersi relazionale all’ambiente ecologico e sociale è il nodo centrale di ogni filosofia che voglia porre al proprio centro la gioia discontinua del divenire dell’uomo e, proprio perché un fondo costante del soggetto non esiste, può spingere a un ripensamento dell’antropologia su nuovi presupposti, strappandola a definizioni semplicemente soggettivistiche e astratte di ogni riflessione che si fonda su una non ben precisata natura della natura umana (come riproposizione del tema dell’anima), ma anche alla riduzione che la scienza medica procura al proprio oggetto di indagine in nome di una naturalità fisiologica.
La vita dell’uomo concreto si definisce attraverso quest’impasto di oggettività e soggettività, necessità e libertà, continuità e discontinuità; ed è proprio questo suo essere al di là di ogni precisazione e di ogni contabilità che fa sì che, ancor’oggi, qualsiasi etica che voglia proporsi la relazione con il biologico produce istanze completamente contraddittorie. Come ad esempio la retorica della vita che investe le attualissime questioni di bioetica e che connette una oggettivazione puramente fisiologica del fenomeno umano a una soggettivazione puramente giuridica a partire dai diritti dell’uomo e del cittadino.
[1] G. Canguilhem, Sulla medicina. Scritti 1955-1989, tr. it. Einaudi, Torino 2007.
[2] M. Foucault, La vita: l’esperienza e la scienza (1985), in Archivio Foucault 3, tr. it. Feltrinelli, Milano 1998, p. 317.
[3] G. Canguilhem, Il normale e il patologico (1943), tr. it. Einaudi, Torino 1998, p. 32. I corsivi sono miei.
[4] G. Canguilhem, La salute: concetto volgare e questione filosofica (1988), in Sulla medicina, cit. p. 28.
[5] Ibid., pp. 28-29.
[6] Id., Le malattie (1989), in Sulla medicina, cit. p. 16.
[7] Ibid.
[8] Ibid., pp. 16-17. Sulla vera e propria frattura epistemologica avvenuta nella scienza medica tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento cfr. M. Foucault, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico (1963), tr. it. Einaudi, Torino 1998.
[9] Ibid., p. 18.
[10] Ibid., p. 20.
[11] Ibid., p. 21.
[12] Id., È possibile una pedagogia della guarigione? (1978), in Sulla medicina, cit., p. 44.
[13] Riguardo tale problema nell’attualità del paventato pericolo dell’influenza H1N1 cfr. D. Duclos, Psicosi dell’influenza, specchio delle società in «Le monde diplomatique», XVI, 8-9, settembre 2009.
[14] Ibid., p. 47.
[15] Ibid., p. 51.