S&F_scienzaefilosofia.it

L’orizzonte contemporaneo della fine del mondo. Lineamenti per una dialettica apocalisse/sopravvivenza

Autore


Delio Salottolo

Università degli Studi di Napoli - L'Orientale

Indice


  1. “Perdere il mondo” ed “essere perduti nel mondo”
  2. Melancholia o della fine del mondo
  3. L’11 settembre come evento e l’apocalisse come orizzonte
  4. La sopravvivenza delle lucciole

↓ download pdf

S&F_n. 08_2012

Abstract



The aim of this article is to show how important is the idea of “apocalypse” in the present age and discuss if it is possible to develop any strategies of “survival”. After discussing some elements of de Martino’s thought about the temporal, psychopathological and political meaning of “apocalypse”, we’ll analyze the sense of Lars von Trier’s Melancholia as a symptom of the contemporary situation. After that, we’ll point out the importance of 11/9, the biggest and most shocking event of our time, debating the opinions of Baudrillard and Girard. Both thinkers consider 11/9 a fundamental event in order to understand the meaning of our time, Baudrillard debating the problem of our virtual society and Girard talking about the signs of a next “apocalypse”. Finally, we’ll try to introduce the concept of a “politics of survival”, such as it has been recently discussed by Didi-Huberman in his important book, Survivance des lucioles.


Andiamocene. Non si può. Perché? Aspettiamo Godot.

Beckett

 

Il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza.

Moravia

  1. “Perdere il mondo” ed “essere perduti nel mondo”

Si potrebbero aprire queste note con una citazione da Ernesto de Martino, il quale, all’interno di un progetto che non vide mai la luce definitiva per la morte sopraggiunta, aveva analizzato dal punto di vista individuale, etico e politico il tema delle apocalissi culturali. Si tratta di note sparse (seppur in numero elevatissimo) che testimoniano di un lavoro decennale e di un impegno costante su un tema che avrebbe dovuto costituire la summa dell’intera ricerca demartiniana[1]. Si potrebbe, dunque, cominciare con il dire che:

due antinomici terrori governano l’epoca in cui viviamo: quello di “perdere il mondo” e quello di “essere perduti nel mondo”. Per un verso si teme di perdere, non tanto con la morte ma nel corso stesso della esistenza, lo splendore e la gioia della vita mondana, l’energia che sospinge verso i progetti comunitari della vita civile, verso la tecnica e la scienza, la solidarietà morale e la giustizia sociale, la poesia e la filosofia; per un altro verso si considera il mondo come pericolo che insidia il più autentico destino umano, e quindi come tentazione da cui salvarsi […] e ancora: la “fine del mondo” ora si collega alla tradizione giudaico-cristiana della fine di questo mondo e dell’avvento del Regno, ora si presenta nei termini laici e mondani della fine di un certo mondo storico (la fine della civiltà borghese), e ora infine si orienta verso un nullismo più o meno disperato che, nelle sue forme estreme, quasi sembra toccare i confini della psicopatologia[2].

Certo il periodo storico a cui de Martino guarda è profondamente differente dal nostro, si tratta dell’epoca dominata dall’incubo atomico come possibile prosecuzione della “guerra fredda” con altri mezzi e, nella stessa riflessione dell’antropologo, è possibile sentire la tonalità, ancora viva e vivace, di quelle filosofie della crisi che nella prima metà del ‘900 avevano dominato il sentire comune attraverso l’immagine declinante e tramontante (per certi versi, apocalittica) dell’Occidente. In più si erano prodotti nel corso della seconda guerra mondiale due eventi traumatici senza i quali non era possibile (non era “responsabile”) approcciare questo tipo di problemi: la Shoah, la “catastrofe che annienta” ebraica, che aveva mostrato la faccia agghiacciante di un Occidente capace di burocratizzare la distruzione umana, e le due atomiche su Hiroshima e Nagasaki, le quali, al di là dell’opportunità o meno di sganciarle, avevano testimoniato il potenziale distruttivo, apocalittico, della specializzazione tecnico-scientifica dell’umano.

Ma anche in un panorama storico del tutto mutato come si presenta il nostro – sul quale avremo sicuramente modo di ritornare – le indicazioni di de Martino risultano essere ancora utili, nella misura in cui cercano di determinare il problema delle apocalissi proprio in maniera “culturale”, nel senso di un’esigenza che si connette a un insieme di domini concettuali che vanno dalla dimensione psicopatologica a quella storica, passando per la fondamentale dimensione politica.

In questo senso non ci soffermeremo sulla ricchezza delle note demartiniane, compito che eccederebbe i limiti di questo breve scritto, quanto piuttosto cercheremo (lasciando de Martino sullo sfondo) di delineare alcuni elementi per l’analisi della tensione apocalittica che sembra attraversare il nostro tempo.

 

  1. Melancholia o della fine del mondo

Per iniziare si potrebbero chiamare a testimonianza una serie di film, se non un intero filone definito appunto “apocalittico”, nel quale la Terra va incontro a una fine (ma spesso, alla “fine”, si salva) di volta in volta dovuta a forme di vita extraterrestre, cataclismi legati alle mutazioni climatiche, infezioni batteriologiche, etc., all’interno del quale si mescolano tutti i temi classici che destabilizzano l’Occidente contemporaneo, dalla paura reiterata del diverso come totalmente (e irriducibilmente) Altro, all’incubo ecologico basato, chiaramente, su una “cattiva coscienza”, al terrore epidemico che informa la nostra civiltà medicalizzata. Si potrebbero richiamare inoltre le forme pop che assume la questione dell’apocalisse all’interno di trasmissioni televisive e documentari di pseudo-divulgazione scientifica – e in Internet si potrebbero trovare a riguardo materiali in misura ancora maggiore – che giocano sul fascino terribile della possibile fine del mondo, dovuta di volta in volta ai Maya (o a qualsiasi altra forma di “sapienza della fine”) con le loro previsioni astro-logiche o a forme di ribellione catastrofico-naturale della Terra (spesso curiosamente presentata, attraverso l’antica figura della prosopopea, come un agente quasi personificato) attraverso cataclismi legati all’attività vulcanica o a devastanti terremoti totali, il tutto facendo evidentemente leva su un sentire comune misto di orrore e fascino legato a un immaginario apocalittico spesso goduto nel calore e nella comodità degli interni borghesi.

Noi, però, si è scelto di accennare – senza alcuna pretesa di lavorare a una “critica cinematografica” ma soltanto nella prospettiva di discutere un “fenomeno culturale” – a un film in particolare, all’interno del quale si presenta in maniera limpida la triplice dimensione della perdita del mondo, cioè l’avvento del Regno, la fine della borghesia e il “nullismo”, di cui parlava de Martino. Si tratta di un’opera che, attraverso una rappresentazione sontuosa dal punto di vista visivo, racconta e intreccia la dimensione individuale, collettiva e cosmologica dell’orizzonte apocalittico contemporaneo. Si tratta di Melancholia di Lars von Trier, film uscito nel 2011. In questa rappresentazione ciò che colpisce immediatamente l’occhio dello spettatore è la capacità di raccontare l’apocalisse in termini cosmologici (dunque: vera e propria distruzione del pianeta Terra) mediante un’immagine, mista di fascinans e tremendum e giocata proprio attraverso la loro relazione, di una collisione tra un corpo celeste (che emana un’attraente e destabilizzante luce azzurrina), chiamato appunto Melancholia, e il nostro apatico e insoddisfatto pianeta Terra. Il film gioca su una dinamica all’interno della quale la dimensione apocalittica della melancholia individuale, diviene patologia collettiva e immagine cosmologica. In effetti Lars von Trier, che “ama” il nichilismo e sprofonda costantemente nella depressione, ha voluto raccontare in questo film, tra i meno “oscuri” del regista e tra i più lineari e immediatamente comprensibili, il senso di un’esperienza individuale (indubbiamente melanconica e ai limiti della psicopatologia) all’interno della quale salta del tutto ogni possibile relazione con il mondo. Tale “relazione” con il mondo e il suo disparire è raccontata in maniera magistrale nella prima parte del film dove il regista, privilegiando a tratti il vecchio Dogma 95[3] perlomeno nell’utilizzazione della “camera a spalla”, la quale riesce a immettere immediatamente lo spettatore nella vorticosità delle relazioni e nella molteplicità immanente del reale, mette in scena una festa di nozze all’interno della quale viene messa in ridicolo l’istituzione familiare e soprattutto salta ogni convenzione borghese. La protagonista Justine si è appena sposata, le è stata organizzata dalla sorella e a spese del marito di lei (cosa che verrà sottolineata più volte) una lussuosissima festa di nozze all’interno di un meraviglioso castello; Justine però è melanconica, combatte il proprio stato d’animo, ma è una fatica che non sempre riesce a reggere, a tratti è debole, poi riacquista le forze, poi nuovamente è debole, si direbbe “ammalata”, ha continui cedimenti, il suo “mondo” diviene sempre più incontrollabile, le sue azioni sono dettate da una necessità con la quale il regista sapientemente gioca mescolando il piano psicopatologico con quello astro-logico, e comincia così la “perdita” del principio di realtà, ha inizio l’apocalisse: Justine perde il “mondo” dell’appartenenza familiare, le rimane accanto soltanto la sorella che partecipa in maniera simbiotica della sua melancholia pur declinandola in una modalità differente, perde il “mondo” delle consuetudini e delle buone maniere borghesi (tra l’altro già svelatesi come ipocrisie per opera della madre di lei in un lineare ma godibile dramma dell’autocoscienza borghese), nonché il marito appena sposato, non riuscendo a vivere con lui una sessualità “regolare” e “normativa” e non riuscendo a comportarsi nei confronti di ogni “tipo” di persona in maniera “normale”, perde, infine, il lavoro, ultima sua appartenenza al mondo (e la più decisiva nel “nostro” mondo – almeno questo sembra suggerire Lars von Trier) vomitando tutto il suo disprezzo al suo datore di lavoro, figura grottesca ma comunque ideal-tipica dell’imprenditore moderno.

L’elemento psicopatologico fondamentale per quanto riguarda la fenomenologia apocalittica di Lars von Trier è la melancholia, intesa come “malattia” non soltanto individuale, ma collettiva, non soltanto connessa a uno specifico vissuto esistenziale (la “borghesia” contro cui Justine si ribella e soccombe è anch’essa ideal-tipica), ma come determinazione epocale. La colpa radicale di Justine è la colpa dell’intera realtà umana: «nella mia prospettiva», dando nuovamente la parola a de Martino,

la melancolia si determina innanzitutto come colpa mostruosa, radicale, immotivata, estendendosi lungo tutto il fronte dell’operabile, e che per questo suo estendersi converte l’operabile in inoperabile […] di che, senza saperlo, il melancolico porta colpa? […] il melancolico porta colpa non già di questo o di quello (le motivazioni deliranti che affiorano alla coscienza sono secondarie), ma di vivere il crollo dell’ethos del trascendimento, di essere in questo crollo, […], di non potersi mai porre, in nessun momento del vivere, come centro di decisione e di scelta secondo valori intersoggettivi […] il rischio di non poterci essere in nessun mondo possibile (cioè in nessun mondo che valga) fonda la colpa radicale, necessariamente immotivata perché consiste nel non potersi dare motivazioni dischiudenti valori[4].

Questa potrebbe essere sicuramente la descrizione perfetta per la Justine di cui stiamo parlando, ma il punto fondamentale che vorremmo discutere e che dal film risalta apertamente, non è tanto l’aspetto psicopatologico e individuale che può assumere la melancholia determinandosi come delirio di perdita del mondo (del resto, si potrebbero trovare elementi di questo genere anche all’interno della schizofrenia[5]), quanto piuttosto il fatto che l’apocalisse sembra sempre di più porsi come una “patologia del tempo” di particolare rilievo in “questo” tempo, dunque come uno degli orizzonti di senso all’interno del quale ci muoviamo e a partire dal quale pensiamo la nostra possibilità d’azione nel – e la nostra responsabilità nei riguardi del – mondo. In poche parole si tratta, a partire dalle scene di questo film, di pensare la melancholia, cioè il “perdere il mondo” e “l’essere perduti nel mondo”, come un fenomeno fondamentale all’interno del quale si gioca la relazione tra temporalizzazione e possibilità del gioco politico. O comunque da questa prospettiva a noi interesserebbe approcciarla.

In questo senso, si dovrà in primo luogo affrontare la questione di un evento determinante nella nostra epoca chiedendo conto della temporalizzazione specifica che un orizzonte apocalittico porta con sé, poi analizzare se esistono e quali sono e dove si possono mai trovare le forme di sopravvivenza più adatte.

 

  1. L’11 settembre come evento e l’apocalisse come orizzonte

Può essere utile accennare in via preliminare al fatto che, necessariamente, un immaginario dell’apocalisse (dal greco ἀποκαλύπτω: denudo, scopro, svelo, rivelo) può aver senso soltanto all’interno di un certo tipo di temporalizzazione, quella lineare, quella tipica della tradizione giudaico-cristiana. Anche il mondo pre-cristiano ha conosciuto pratiche mitico-rituali che prevedevano una “fine del mondo”, ma proprio nel senso di una pratica che doveva, limitandola ad alcuni giorni precisi dell’anno e trattata con particolari rituali, esorcizzare questa possibilità definitiva, rendendola ciclica, rispondendo cioè a un’esigenza di ciclicità tipica delle civiltà considerate arcaiche[6]. In più non è il caso di soffermarsi troppo sulla contrapposizione tra “tempo circolare” proprio delle dinamiche di “eterno ritorno” per cui, secondo un adagio propriamente stoico, ci saranno un nuovo Socrate e un nuovo Platone e per la quale la conflagrazione e la rinascita non fanno che determinare un ciclo che sempre si ripete uguale a se stesso, e un “tempo lineare” proprio della tradizione giudaico-cristiana che si distende lungo un segmento che ha un inizio, la creazione ex nihilo, e una fine, appunto l’apocalisse, la “rivelazione” finale.

Il problema della temporalizzazione è, però, decisivo nel momento in cui ci mettiamo in ascolto della tensione apocalittica che attraversa il nostro tempo. Se l’avvento del Regno è proprio del messaggio giudaico-cristiano, anche l’idea di un progresso indefinito (fondato su un’utilizzazione sempre più efficace della ragione) può essere letto in questo senso, attraverso il principio secondo il quale l’idea unilineare di un progresso senza fine non sarebbe altro che la secolarizzazione dell’idea cristiana della storia della salvezza[7]. Se dal punto di vista teoretico sembrano essere due impostazioni oramai tramontanti, del resto anche la fiducia positivistica (ancor più che illuministica) nel progresso della ragione è stata definitivamente accantonata sia per gli avvenimenti storici del XX secolo sia per l’avvento dei post-modernismi e post-strutturalismi, dal punto di vista dell’immaginario la dimensione escatologica risulta essere ben più radicata e ben più visibile proprio perché, come si è detto, porta con sé un miscuglio di fascinans e tremendum.

Un momento epocale all’interno di questa nostra ricostruzione è stato l’11 settembre 2001 e prima ancora di entrarvi può essere utile richiamare un certo clima culturale che si era determinato negli anni ’90 del secolo scorso.

C’è stato un momento, il crollo del muro di Berlino e il disfarsi del “blocco socialista”, in cui è sembrato possibile (sul piano ideologico) pensare e cercare di costruire (manu militari) una sorta di pacificazione universale e la determinazione di un compimento finale dell’umano. Se da un lato la globalizzazione prometteva che un giorno tutti si sarebbe stati parimenti cittadini del mondo, soddisfatti all’interno di un unico sistema di relazioni, dall’altro una certa riflessione (comunque) escatologica si affacciava con il famoso (e provocatorio) saggio La fine della storia e l’ultimo uomo di Francis Fukuyama[8]. Questo scritto, seppur oramai datato in quanto legato a un mondo, quello dei primi anni ’90, oramai già troppo lontano da noi, è fondamentale perché ci permette di cogliere le forme di un escatologismo che vede nel compimento dell’umano, nel riconoscimento universale secondo una certa vulgata hegelo-kojèviana[9], la possibilità di raccontare il nostro mondo che sarebbe, almeno in Occidente, un mondo post-storico. Al di là della maniera attraverso la quale Fukuyama impasta tutta una serie di elementi, dall’esaltazione del modello di sviluppo occidentale (contraddistinto nei suoi elementi fondamentali dalla democrazia politica e dal neoliberismo economico) al quale “necessariamente” si adegueranno tutte le aree del pianeta, passando per uno storicismo evoluzionistico guidato da un’immanente provvidenza tecnico-scientifica e il superamento di ogni lotta attraverso il “riconoscimento universale”, ciò che interessa di questo libro è per l’appunto la riproposizione di un modello di “fine del mondo”, di “fine della storia”, che avrebbe una funzione precisa, il racconto di una pacificazione universale finalmente avvenuta, di un vivere dopo “la fine dei tempi”, in un tempo senza storia, in quello che, nonostante tutto, si presenta come il migliore dei mondi possibili perché guidato in massimo grado dalla razionalità.

Questo orizzonte è finito con l’11 settembre 2001. È finita non soltanto la pretesa di un mondo unipolare, in poche parole del modello americano come il migliore dei mondi possibili, ma è definitivamente entrato in crisi il modello umanista della razionalità della storia e dello sviluppo tecnico-scientifico umano.

Ciò che sembra ricomparire a partire dal grande evento, che da un lato deve essere tenuto come promemoria del fatto che la storia non è mai già finita e dall’altro come ennesimo requiem di una pacificazione e di un riconoscimento mondiale sotto l’insegna dell’Occidente neoliberista e “democratico”, è l’esigenza rinnovata di pensare l’apocalisse, sia essa già realizzata (ma nella forma di “incubo”) nella nostra stessa contemporaneità, sia essa un’apocalisse non mondanizzata, non secolarizzata, non realizzata nel qui e ora, ma immaginata come orizzonte di promessa e compimento.

Su questo duplice binario si muovono due riflessioni sull’11 settembre, a opera di Baudrillard da un lato e di Girard dall’altro.

Il problema che si pone Baudrillard è come inserire l’evento dell’11 settembre all’interno di quella sorta di “sciopero degli eventi” che avrebbe caratterizzato il mondo post-“caduta del muro di Berlino”[10]. La sua riflessione gioca su una rigorosa e complessa duplicità, da un lato il fatto che

ci troviamo […] di fronte […] all’evento assoluto, alla “madre” di tutti gli eventi, all’evento puro che racchiude in sé tutti gli eventi che non hanno mai avuto luogo[11]

e dall’altro che, proprio dal momento che viviamo in un regime di simulacri, in piena dimensione post-storica,

questa violenza terroristica non è quindi un ritorno di fiamma della realtà, e tantomeno della storia[12]

in quanto bisognerebbe chiedersi

che ne è allora dell’evento reale, se dappertutto l’immagine, la finzione, il virtuale entrano per perfusione nella realtà? Nel caso che ci interessa si è creduto di vedere (con un certo sollievo, forse) una risorgenza del reale e della violenza del reale in un universo che si spacciava per virtuale […] analogamente si è potuto vedere in ciò una resurrezione della storia, al di là della sua fine annunciata. Ma la realtà supera veramente la finzione? Se sembra farlo, è perché ne ha assorbito l’energia, divenendo essa stessa finzione, si potrebbe quasi dire che la realtà sia gelosa della finzione, che il reale sia geloso dell’immagine[13].

Baudrillard non parla sicuramente di apocalisse e probabilmente a lui non interessa neanche discutere di essa in termini di orizzonte di pensabilità, ma il mondo virtuale che egli immagina come dimensione propria del post-moderno, come forma assunta dalla realtà (non mancano tentazioni ontologiche se non addirittura gnostiche nelle riflessioni dell’ultimo Baudrillard) nell’era della post-storia, richiama un orizzonte apocalittico proprio perché non tiene conto da un lato della potenza trasformativa dell’evento, dall’altro della concretezza delle relazioni che non possono essere ridotte soltanto alla dimensione dello “scambio simbolico” ma che si innervano all’interno di contingenze assolutamente storiche e concrete. Baudrillard, nel suo fondere la critica oltre-marxista ma vetero-aristocratica di Bataille a partire dalla nozione di dépense[14] e la critica marxista di Debord sul dominio delle immagini e sull’alienazione spettacolarizzata della nostra società[15], ci consegna a un mondo in cui, anche se gli eventi non sono più in sciopero, essi accadono e operano all’interno di una dimensione non più “reale”, diciamo “al di là del principio di realtà”, per cui il mondo umano assume le sembianze di una mega-macchina (cinematografica) all’interno della quale gli uomini agiscono a partire dal “ruolo” che ricoprono nel pezzo di mondo in cui si sono trovati a nascere. Non ci sono spazi bianchi nell’intero della descrizione di Baudrillard, soltanto, di tanto in tanto, sembra comparire una pulsione di morte del tutto repressa ma che ha il vizio di ritornare inconsapevolmente, descritta per l’altro nei termini di un vero e proprio (post)manicheismo:

noi crediamo ingenuamente che il progresso del Bene (scienze, tecniche, democrazia, diritti dell’uomo), corrisponda a una disfatta del Male. Nessuno sembra aver capito che il Bene e il Male crescono in potenza contemporaneamente, e secondo lo stesso movimento. Il trionfo dell’uno non comporta l’annientamento dell’altro, anzi […] il Bene non riduce il Male, e non è vero neppure il contrario: Bene e Male sono irriducibili l’uno all’altro e il loro rapporto è inestricabile[16].

Ciò di cui è testimone suo malgrado la riflessione di Baudrillard è appunto il fallimento di ogni riflessione che si ponga nella prospettiva della “fine della storia” e della “fine della realtà”; ancora una volta quando la realtà (o chi per lei) si presenta come totalità insuperabile, allora sembra necessario pensare in termini che comunque riflettono un orizzonte apocalittico, nel senso di un orizzonte completamente disvelato e quindi definitivo, si tratta in poche parole di pensare il mondo nei termini di un’impossibilità di resistenza o, dato l’ambito neanche tanto metaforico da “fine del mondo”, di sopravvivenza. Il mondo di Baudrillard in cui si intreccia il “delitto perfetto” della realtà con l’esplosione della violenza simbolica è il mondo dell’apocalisse realizzata.

In questo senso, invece, Girard ha ben presente il “principio di realtà” e nella sua riflessione sull’11 settembre, che si ritrova in un’intervista del 2007 di recente tradotta e pubblicata in Italia, interroga l’evento e discute di apocalisse come orizzonte di promessa in forma re-azionaria[17]. Anche questa intervista gioca su un duplice piano, uno, sul quale non ci soffermeremo, che lavora (in maniera a dire il vero neanche troppo originale) sullo scontro di civiltà che opporrebbe un Occidente che dovrebbe riprendere il cammino in vista di una sua definitiva ri-cristianizzazione e l’Islam come entità che riproduce la violenza delle religioni arcaiche sfruttando in pieno la potenza della tecnica moderna al servizio di una “violenza divina” e non “umana”, il secondo, che lavora invece sull’imminenza dell’avvento dell’apocalisse, quella “vera”, quella cristiana, e che si mostra non come “minaccia” ma come “attesa”, in quel misto di fascinans e tremendum che qualsiasi riflessione sulla “fine” porta con sé. Ciò che interessa di questa intervista consiste proprio nel fatto che, abbandonata ogni dimensione secolarizzata, la “fine” cui si va incontro rappresenta il compimento finale, il disvelamento decisivo della vera realtà. L’attesa escatologica del primo Cristianesimo sembra potersi finalmente compiere di qui a breve. In effetti Girard afferma che «l’apocalisse non ha una connotazione storica ma religiosa»[18], per cui si tratta di mostrare come la sua attesa non rientri tanto in una dimensione storica, non è la storia l’agente del disvelamento – al massimo è la scenografia della realizzazione della profezia, quanto nella massima espansione possibile del “vero” Cristianesimo, quello che, a partire dalla “follia” della croce, cioè dal fatto che la crocefissione mostra l’innocenza del capro espiatorio facendo saltare ogni esigenza di potere come controllo della violenza arcaica, porterà all’anarchia definitiva, cioè all’assenza di potere, e dunque al disvelamento e alla fine di questo mondo. Lo scontro di civiltà con l’Islam è decisivo esattamente per questo motivo, in un certo senso rientra nella promessa della profezia. I segni, secondo Girard, sono innumerevoli:

quando i poteri saranno sconfitti, la violenza assumerà dimensioni tali che arriverà la fine del mondo. Se studiamo i capitoli sull’Apocalisse, scopriamo che ci annunciano proprio questo: ci saranno rivoluzioni e guerre; gli stati si solleveranno gli uni contro gli altri, e così faranno le Nazioni […] così che è possibile vedere l’apocalisse avvicinarsi come mai in precedenza […] se consideriamo i capitoli sull’apocalisse, essi descrivono una situazione simile al caos dei nostri giorni, che tale non era invece all’inizio dell’Impero Romano […] ognuno di noi può vedere che l’apocalisse si fa sempre più concreta ogni giorno che passa: una forza distruttiva capace di cancellare il mondo, armi sempre più potenti e altre minacce ancora si moltiplicano.

Non si tratta di essere pessimisti quando si invoca la fine del mondo, e Girard ha gioco facile con l’intervistatore che gli pone una domanda in questi termini perché il Cristianesimo

fondamentalmente è la religione che annuncia il mondo che verrà. Non si tratta di combattere per questo mondo. È il cristianesimo moderno che dimentica le sue origini e la sua vera direzione[19].

Insomma pur trattandosi di due posizioni e impostazioni assolutamente distanti e differenti, sembrano esse però condividere entrambe l’orizzonte contemporaneo della suggestione tremenda e fascinosa nei riguardi della “fine del mondo”, così come il film Melancholia, così come tanta programmazione televisiva di presunta divulgazione scientifica. La differenza sembra giocarsi soltanto tra la forma “ottimistica” dell’attesa (il tempo delle cose “penultime”) à la Girard, e la forma pessimistica dell’apocalisse già realizzata à la Baudrillard, in un cortocircuito in cui non soltanto la storia, ma la stessa possibilità d’azione dell’uomo, la possibilità di produrre il novum, qualunque esso sia, sembra essere totalmente immunizzata. Si tratta di una sorta di “spirito del tempo” che sembra dominare la nostra epoca sotto le forme più differenti. In questo senso, interrogando un bel saggio di Didi-Huberman che analizza proprio questa questione, attraverso forme di seduzione apocalittica che proverebbero o avrebbero provato Pasolini e Agamben, si può forse giungere a una conclusione tanto clamorosa quanto per certi versi semplice.

 

  1. La sopravvivenza delle lucciole

Agamben in una serie di interventi degli ultimi anni, tenuti in occasioni differenti e in differenti location, analizza la questione del tempo messianico nella sua tensione con il “contemporaneo”:

un primo malinteso da cui occorre guardarsi a questo proposito è la confusione del tempo messianico col tempo apocalittico […] se si volesse compendiare in una formula la differenza tra il messianico e l’apocalittico, si dovrebbe dire, io credo, che il messianico non è la fine del tempo, ma il tempo della fine […] il tempo che resta tra il tempo e la sua fine[20].

Questo tempo qualitativo che separa il tempo da se stesso e dalla sua fine sembra essere una sorta di richiamo di Agamben da un lato a ridicolizzare il catastrofismo odierno,

l’esigenza escatologica, abbandonata dalla Chiesa, ritorna in forma secolarizzata e parodica nei saperi profani, che, riscoprendo il gesto obsoleto del profeta, annunciano in ogni ambito catastrofi irreversibili[21],

dall’altro a prendere sulle spalle il significato del “contemporaneo” nel suo essere sempre una tensione nei riguardi delle tenebre del presente,

il contemporaneo è colui che percepisce il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda e non cessa di interpellarlo, qualcosa che, più di ogni luce, si rivolge direttamente e singolarmente a lui[22].

Ancor di più, il tempo del “contemporaneo” è un tempo della dis-cronia:

la contemporaneità è, cioè, una singolare relazione con il proprio tempo che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo[23].

Se il problema dunque riguarda la temporalizzazione – e a questo punto conviene anche andare oltre la classica dicotomia tempo circolare/tempo lineare – allora forse è la posizione del “contemporaneo”, nel suo essere una tensione costante tra un passato i cui segni tendono a scomparire e un futuro i cui segni tendono già a comparire, a doverci indicare la possibilità di una resistenza che assume nel nostro discorso i lineamenti di una sopravvivenza, nel senso della possibilità dello sviluppo di un novum e nel senso del ri-attivare la possibilità di una storia che non si giochi né nella dimensione della promessa del compimento né nella sua definitiva fine, ma come gioco costante e già sempre aleatorio, in poche parole come responsabilità del presente da parte di chi ritiene di essere “contemporaneo” al proprio tempo.

Questo sforzo di pensare una temporalizzazione che vada al di là delle suggestioni della “fine” sembra ritrovarsi all’interno di un piccolo ma prezioso libro di Didi-Huberman, il quale, come al suo solito, partendo dalla potenza esplicativa delle immagini e dalla loro intensa “possibilità politica”, discute quella che egli stesso definisce una politica delle sopravvivenze[24].

Le immagini per Didi-Huberman non sono soltanto le grandi iconografie del potere, vivere nel regime delle immagini non significa abbandonarsi al “virtuale” onnicomprensivo di Baudrillard, non significa il compimento del “totalitarismo” della luce del potere e delle sue immagini abbaglianti, non tutta l’immaginazione, da intendersi come possibilità di creare immagini, è ridotta alla sua mercificazione e al valore di scambio immaginativo che domina la presenza totalizzante del potere nel nostro tempo, si tratta invece di fare un’operazione affine a quella di Deleuze e Guattari, come i due filosofi francesi avevano parlato di una letteratura minore il cui significato è già sempre politico e resistente[25], così Didi-Huberman sembra proporre la possibilità di un’analisi di immagini minori e lo fa a partire dalla metafora delle lucciole che ha contraddistinto l’esito amaro delle riflessioni di Pasolini[26].

Se Pasolini aveva discusso la “scomparsa delle lucciole” a partire dall’apocalittica situazione italiana dei primi anni ’70 all’interno della quale egli non vedeva più via di scampo neanche dal punto di vista antropologico in quella sorta di primitivismo che lui aveva ricercato e sperato di trovare (e forse costruito) nelle borgate romane e più in generale nel sottoproletariato (forse il termine preciso potrebbe essere plebe[27]) – e l’articolo si chiude amaramente con la frase «ad ogni modo, quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola»[28] – Didi-Huberman riacquisisce l’immagine della lucciola per farla divenire il vettore di una politica delle sopravvivenze che può baluginare ancora, seppur di tanto in tanto, di una luce non forte ma guizzante, la luce propria delle lucciole, per una luce minore si potrebbe dire, nelle maglie di quella che Foucault ha voluto definire “società del controllo”. Se a un certo punto per Foucault il potere sembra assumere i contorni di una macchina che tutto osserva, con la sua luce che penetra in profondità in ogni gesto e in ogni azione, controllando e ritmando il reale a proprio piacimento[29], e se Foucault ha abbandonato quella visione panottica e totalitaria del potere lo ha fatto proprio per pensare la resistenza, quella che Didi-Huberman chiama sopravvivenza.

L’immagine per Didi-Huberman ha la possibilità di porsi in chiave dialettica nei confronti di quello che lui chiama orizzonte:

se allarghiamo la visione all’orizzonte che, immenso e immobile, si estende al di là di noi, o se, al contrario, concentriamo il nostro sguardo sull’immagine che, minuscola e instabile, ci passa accanto, percepiremo cose molto diverse. L’immagine è lucciola delle intermittenze passeggere, l’orizzonte inonda di luce gli stati definitivi, i tempi immutabili del totalitarismo o i tempi finiti del Giudizio. Vedere l’orizzonte, l’al di là, significa non vedere le immagini che giungono a sfiorarci. Le piccole lucciole danno forma e chiarore alla nostra fragile immanenza, i “feroci riflettori” della grande luce divorano ogni forma e ogni chiarore – ogni differenza – nella trascendenza dei fini ultimi[30].

Sia che l’apocalisse sia già avvenuta nel qui e ora del dominio totalitario delle nostre società industriali avanzate, nel capitalismo avanzante e sempre sviluppantesi, nelle società del controllo, nelle società della “luce accecante”, come vogliono Pasolini e Baudrillard seppur in maniera del tutto differente, sia che ci poniamo all’interno del tempo escatologico, nella dimensione dei “tempi penultimi” coltivando la nostra necessità e il nostro bisogno di contemporaneità nell’attesa del Giudizio come vuole Girard in senso ottimistico o nel senso pessimistico della descrizione delle tenebre del presente come in certe pagine di Agamben, l’invito di Didi-Huberman sembra tanto disarmante quanto semplice. Non si tratta di non voler leggere le forme declinanti del presente, non si tratta certo di un ottimismo a buon mercato:

immagini, dunque, per organizzare il nostro pessimismo. Immagini per protestare contro la gloria del regno e i suoi fasci di luce cruda. Sono scomparse le lucciole? Certamente no. Alcune sono proprio accanto a noi, ci sfiorano nel buio; altre se ne sono andate oltre l’orizzonte, cercando di ricostituire altrove la loro comunità, la loro minoranza[31].

Si tratta, per combattere il declino del presente che ama travestirsi (ma anche nutrirsi) di immagini catastrofiche e apocalittiche, di pensare in maniera rinnovata la nostra presenza nel mondo, al di là di ogni patologia del tempo o psicopatologia individuale (la quale comunque sempre ci potrà colpire come melancholia), riconquistare il mondo all’interno del quale ci si sente perduti, e affrontarlo questo declino come la possibilità creativa per eccellenza:

l’urgenza politica ed estetica in tempi di “catastrofe” […] non consisterebbe dunque nel trarre le conseguenze logiche del declino fino al suo orizzonte di morte, ma nel trovare le risorse inattese di questo declino nel profondo di quelle immagini che, al suo interno, si muovono ancora come lucciole o astri isolati. Pensiamo al meraviglioso modello cosmologico proposto da Lucrezio nel De rerum natura: gli atomi “declinano” ininterrottamente ma la loro caduta, in questo clinamen infinito, ammette eccezioni dalle conseguenze incredibili. È sufficiente che un atomo compia una leggera deviazione dalla propria traiettoria parallela perché entri in collisione con gli altri, dando origine a un mondo. Sarebbe questa, dunque, l’essenziale risorsa del declino: la biforcazione, la collisione, il “fulmine sferico” che attraversa l’orizzonte, l’invenzione di una forma nuova[32].

Ecco la potente semplicità della proposta di Didi-Huberman, prendersi cura delle lucciole di ogni marginalità e residualità, rincorrerle e coltivarle, lavorare in vista della costituzione di una luce minore, capace di mettere in crisi lo spettacolo della luminosità assoluta del potere totalizzante contemporaneo, lavorare così nelle tenebre del presente, come vuole Agamben, per incontrarle, perché soltanto a partire dalle figure della marginalità, dalla loro intermittenza esistenziale, è possibile pensare in altra maniera il declino occidentale, facendo saltare lo schema di ogni apocalisse ventura o già avvenuta.

 


[1] Sull’importanza di questa opera “mancata” e sul significato che essa assume all’interno dell’intero percorso demartiniano con fondamentali accenni all’intera situazione della cultura italiana di quegli anni e alla posizione dell’impostazione demartiniana all’interno della disciplina antropologica cfr. C. Gallini, Introduzione a E. de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977, pp. IX-CI.

[2] E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 475.

[3] Si tratta di un movimento cinematografico avanguardistico che vede tra i suoi creatori e fondatori proprio Lars von Trier. Si può consigliare, per approcciare questo autore e questa questione, oltre ovviamente la visione dei film, L. von Trier, Il cinema come dogma, conversazioni con Stig Björkman (1997), tr. it. Mondadori, Milano 2001.

[4] E. de Martino, La fine del mondo, cit., pp. 120-121.

[5] Cfr. E. Borgna, Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizofrenica, Feltrinelli, Milano 2006. Per gli aspetti psicopatologici soprattutto pp. 41-111.

[6] Si tratta del rituale del “mundus” a cui in verità de Martino dedica poche pagine, cfr. E. de Martino, La fine del mondo, cit., pp. 212-217. Apprendiamo, però, dall’Introduzione che quella riguardante il “mundus” risulta essere una delle parti che de Martino ha lasciato maggiormente in stato di bozza. Su queste questioni cfr. C. Gallini, Introduzione a La fine del mondo, cit.

[7] Ci riferiamo ovviamente a K. Löwith, Significato e fine della storia (1949), tr. it. il Saggiatore, Milano 1998.

[8] Cfr. F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), tr. it. Rizzoli, Milano 1992.

[9] Sulla povertà e la superficialità di questa interpretazione di “destra” della riflessione kojèviana, cfr. M. Vegetti, La fine della storia. Saggio sul pensiero di Alexandre Kojève, Jaca Book, Milano 1999, pp. 28-30.

[10] Cfr. J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo (2001), tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2002, p. 7. Si tratta di un testo durissimo e scritto sull’onda degli eventi ma comunque interessante per la posizione assolutamente anticonvenzionale che esprime. Cfr. anche sugli stessi temi Id., Power Inferno (2002), tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2003.

[11] Ibid., pp. 7-8.

[12] Ibid., p. 39.

[13] Ibid., p. 37.

[14] Ci riferiamo ovviamente a tutta l’opera di Bataille, la quale risulta attraversata in toto dalla questione del “dispendio”, ma sulle questioni “economiche”, seppur in senso lato, cfr. G. Bataille, La nozione di dépense (1933) e La parte maledetta (1949) in La parte maledetta preceduto da La nozione di dépense (1967), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2003.

[15] Cfr. G. Debord, La società dello spettacolo (1967), tr. it. Baldini Castoldi Dalai, Milano 2006.

[16] J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, cit., p. 19.

[17] R. Girard, Pensare l’apocalisse dopo l’11 settembre (2008), in Prima dell’apocalisse, tr. it. Transeuropa Edizioni, Massa 2010, pp. 13-42.

[18] Ibid., p. 26.

[19] Ibid., pp. 28-30.

[20] G. Agamben, La Chiesa e il Regno, in Che cos’è il contemporaneo e altri scritti, Nottetempo, Roma 2011, pp. 36-37.

[21] Ibid., p. 41.

[22] Id., Che cos’è il contemporaneo, ibid., p. 27.

[23] Ibid., p. 24.

[24] Cfr. G. Didi-Huberman, Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze (2009), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2010.

[25] Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore (1975), tr. it. Quodlibet, Macerata 2010.

[26] Cfr. P. P. Pasolini, L’articolo delle lucciole, in Id., Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975, pp. 160-168. Si tratta del penultimo articolo di Pasolini prima della morte.

[27] Su questi aspetti di critica alla modernità cfr. soprattutto Id., Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976.

[28] Id., L’articolo delle lucciole, cit., p. 168.

[29] Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), tr. it. Einaudi, Torino 1976.

[30] G. Didi-Huberman, Come le lucciole, cit., p. 69.

[31] Ibid., p. 96.

[32] Ibid., p. 74.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *