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Indice
1. La lingua dell’Umanesimo
2. La lingua delle scienze
3. Il soggetto diventa osservatore
S&F_n. 01_2009
Nulla è più essenziale a una società che la classificazione dei suoi linguaggi. Cambiare questa classificazione, spostare la parola, è fare una rivoluzione.
(R. Barthes, Critica e verità)
1. La lingua dell’Umanesimo
La riflessione sull’umano è sempre riflessione sul linguaggio, sulla parola che abita l’uomo e nella quale l’uomo abita. Quando si prova a scandagliare la dimensione uomo, la differenza che emerge repentina rispetto al resto dell’ente risiede nei suoni significanti che esso è capace di proferire, nella possibilità data sin dall’origine al primo uomo di inventare nomi per tutte le meraviglie del creato. L’umano, si sa, è l’unico ente in grado di porre la domanda sull’essere, colui che può di conseguenza da principio stabilire su di esso un loquace dominio.
L’uomo a cui il mondo moderno – a partire da Cartesio – fa riferimento è il subjectum, la res cogitans, nucleo duro, incontestabile, indubitabile, che emerge alla fine di un percorso in cui la meditazione si inoltra lungo i sentieri impervi del non senso, dell’allucinazione, della falsità, dell’errore[1]. L’io che vittoriosamente riemerge intatto dalla rischiosa peregrinazione del dubbio iperbolico diviene perciò garante dell’ente, della sua manifestatività e della sua veridicità. Ente naturale dotato di un corpo che nei suoi automatismi riflette le leggi deterministiche della natura, allo stesso tempo trascendendola in virtù della sua riflessività. Quest’ipertrofia del soggetto rappresenta l’inizio della sua danza gaudente nel mondo, della sua azione sicura e disincantata presso un ente inteso sempre più come utilizzabile in vista di un progetto: quello dell’ascesa di un regno antropocentrico.
La parola si piega dunque a questa tenace volontà: il soggetto pone dinnanzi a sé l’oggetto, che è, nell’ambito di questa dinamica, il fuori, un fuori alieno, muto, incapace di domandare, dunque infinitamente manipolabile. La lingua dell’umanesimo ama la dualità, e di essa si serve per dividere il mondo, che diviene definibile, rischiarabile, riassumibile all’interno di coppie concettuali dicotomiche caratterizzate però da una gerarchia; le partizioni sembrano nette: nessun punto cieco, nessuna discrepanza, soltanto un dentro dell’appartenenza e un fuori dell’esilio: e allora sullo scenario di una modernità che avanza in pompa magna sfilano le gloriose categorie che disegneranno i contorni della nostra storia. E l’uomo, funambolo della parola si fabbrica su misura una lingua che lo rispecchi, che parli di lui anche senza nominarlo, che ne narri le gesta, ponendolo al centro, come esplicito, implicito, ed evocato di ogni discorso: cultura-natura, soggetto-oggetto, anima-corpo, libertà-necessità, humanitas-animalitas, sono alcune delle magiche parole fabbricate da questo intraprendente demiurgo; un ordine gerarchico stabilito a monte sancisce l’indiscussa superiorità dei primi termini delle polarità rispetto ai secondi: ciò che rende l’uomo veramente umano è un’anima che si staglia al di sopra e malgrado la zavorra del corpo, è la sua libertà rispetto alle leggi deterministiche entro cui il corpo automa è al contrario relegato, la sua capacità di dare inizio a una serie nuova nel tempo, di fabbricare cultura e, dunque la storia, di contro al retaggio muto e deterministico dal quale pure emerge.
Attraverso queste parole l’uomo della tradizione umanistica costruisce la propria storia, dà vita a una narrazione che tutt’oggi fatichiamo a superare. L’uomo di questa tradizione, ente “insondabile” che si costituisce scardinando i limiti impostigli dalla natura, attraverso la costruzione di un mondo simbolico, ente culturale per eccellenza, percorre un cammino di redenzione: a partire da Adamo fino a giungere all’uomo macchina, al cyborg, l’umano procede attraverso le tre tappe di peccato-caduta-redenzione. Volente non volutosi, questo grande espiatore avanza brancolando nella penombra di un mondo che non ha scelto nel tentativo di trascendere la propria condizione, lo scacco subito ab origine, per approdare a una libertà che si fa strada nella costruzione del valore. A partire da questa epopea la cultura diviene una sorta di deus ex machina che redime e alfine salva. Nella lingua dell’umanesimo essa è il dispositivo di perfezionamento che determina il passaggio da un meno a un più, da una condizione iniziale, naturale, che è peccato, indigenza, penuria, a una sempre maggiore perfettibilità che, sebbene non preveda un momento ultimo di totale adempimento, si estrinseca sempre come migliorativa.
2. La lingua delle scienze
E soprattutto mi parve che, se un uomo riuscisse a compiere, non una invenzione particolare, anche se di grande utilità, ma ad accendere una nuova luce nella natura, una luce che col suo stesso sorgere illumini le regioni della realtà contigue a quelle già esplorate; e poi, a poco per volta innalzandosi, sveli e chiarifichi i segreti più riposti; costui sarebbe veramente il propagatore del dominio umano sull’universo, il vero difensore dell’umana libertà, il vincitore dei bisogni[2].
Così Bacone, agli esordi del XVII secolo, definisce il modello di uomo che si fa strada con l’apparire della modernità e delle sue rivoluzioni scientifiche, e dà conto di quel cammino verso le Magnifiche sorti e progressive che da questo momento in poi l’umano, allentati i lacci dell’autorità religiosa, si avvia a percorrere. Secondo Bacone la grandezza dell’umano non risiede tanto nella sua capacità poietica, nell’arte di fabbricare e dare vita al nuovo – per quanto tale nuovo presenti un’utilità; essa dimora invece nello sguardo che mette a nudo, nell’occhio vivisezionante, nell’atto dissacrante e profanante che svela e chiarifica i segreti più riposti della natura, nel discorso attorno alle cose, nella voce di una ratio che si eleva di contro al mutismo di una natura asservita o da asservire. L’umano, unico ente in grado di dare vita a quest’opera grandiosa, diviene perciò, nell’ambito di tale dialettica salvifica, l’eroe della rivincita, il propagatore del dominio sull’universo, il difensore della propria stessa libertà, libertà di un ente che, sebbene asservito come gli altri alle leggi di natura, a esse si sottrae, vincendo il bisogno e l’iniziale condizione di schiavitù.
Tuttavia la modernità e le sue pratiche, inaugurate proprio da queste narrazioni, contengono in sé il germe del loro stesso disfacimento. Il soggetto alla scoperta delle leggi che regolano la natura intraprende un cammino che lo condurrà al graduale sgretolamento delle premesse antropocentriche dalle quali è partito.
Se Darwin smantella l’illusione del privilegio ontologico dell’umano – che si costituirebbe ab origine come essenzialmente differente dall’ente che lo circonda – postulando una continuità filogenetica col mondo animale, un secolo più tardi, in un mondo completamente mutato nel quale la tecnica totalmente dispiegata sembra dettare le proprie inderogabili leggi, le parole, parole nuove, inedite, rimodellano i contorni delle cose, dando vita ad altre narrazioni, all’interno delle quali un umano spaesato e privato del suo scettro di solitaria dominanza si trova costretto a riscrivere il libro del mondo. La Conoscenza diventa informazione, e la verità è costretta a vestire gli abiti dismessi della probabilità. I contorni del mondo si fanno incerti e le parole perdono la loro consistenza dura. Il terreno su cui avanzano l’uomo e la sua tenace volontà tesa al dominio della terra diviene sdrucciolevole, il cammino si fa impervio e le parole sembrano non aderire più alle cose, sembrano ritrarre, ancora e sempre, solo l’immagine di chi le proferisce, di colui che continua a pronunciarle come una preghiera. Ma anche questa immagine appare sbiadita, incapace di significare, o meglio, incapace di significare il mondo come prima.
3. Il soggetto diventa osservatore
Se partendo dalla situazione della ricerca scientifica moderna, ci si sforza di ristabilire i fondamenti, che si sono messi in movimento, si ha l’impressione che per la prima volta nel corso della storia l’uomo su questa terra si trovi da solo di fronte a se stesso […] noi incontriamo sempre e soltanto noi stessi[3].
Se questa frase di Heisenberg sembra per certi versi ricalcare e ribadire la posizione del soggetto di matrice cartesiana, garante della verità dell’ente, per altri essa vuole porre il lettore dinnanzi a una situazione affatto mutata: la scienza e le sue pratiche, che pongono l’uomo solo di fronte a se stesso, ci presentano i contorni di un ente che sembra aver perduto di fatto l’ottimistica fiducia del soggetto cartesiano, sia rispetto a un mondo che si presenti come regolato da leggi necessarie e prevedibili, sia rispetto alla capacità umana di illuminarlo e dargli senso. In fisica il principio di indeterminazione pone il soggetto dinnanzi allo scacco della presunta infallibilità del suo sguardo: «non è possibile conoscere simultaneamente la quantità di moto e la posizione di una particella con certezza»; l’osservazione di una particella subatomica genera dunque necessariamente un errore in relazione a una delle variabili osservate, questo perché l’osservatore non è parte distaccata del processo che osserva, e del resto non esiste un punto di Archimede dal quale contemplare con distacco il mondo: i confini fra dentro e fuori si fanno sempre più labili, la dialettica lineare cede il passo alla logica della ricorsività e del paradosso. La creazione di servomeccanismi, di macchine in grado di “pensare”, lo sviluppo nel secondo dopoguerra della cibernetica[4], danno vita a una svolta linguistica. La biologia si serve di questo linguaggio per descrivere il vivente: la natura diviene sistema, e l’uomo sembra non essere più l’eccezione che trascende le ferree regole della processualità vivente. Alan Turing negli anni ’30 diede una definizione di macchina che risultò di grande importanza per le successive acquisizioni della biologia: in effetti secondo il padre dell’informatica per definire una macchina non c’è alcun bisogno di descrivere le parti materiali di cui è composta; è necessario invece comprendere le regolarità o ricorsività del suo funzionamento, e cioè la sua organizzazione. A partire da tale intuizione, la biologia descrive la vita, a tutti i livelli, nella sua unità, in termini di organizzazione, o meglio di auto-organizzazione: impossibile e poco utile dunque rintracciarvi un interno e un esterno, scindendola nelle sue componenti; a questo punto la logica bidimensionale dell’umanesimo e le sue dicotomie perdono di senso. Si consideri, per fare un esempio paradigmatico, la posizione di due biologi cileni, Humberto Maturana e Francisco Varela, che a partire dagli anni Settanta sviluppano, in relazione alle organizzazioni viventi, la teoria dei sistemi autopoietici[5]. A dispetto di ogni narrazione antropocentrica, quando gli autori descrivono il vivente, si riferiscono indistintamente alla cellula come all’uomo: la processualità della vita infatti si estrinseca sempre attraverso dinamiche di informazione e retroazione, grazie al paradosso di una circolarità che continuamente procede alla creazione delle premesse del suo stesso svolgimento. Tale descrizione è sotto ogni aspetto una topologia: il vivente è determinato dalla sua geografia, che è lo spazio della sua organizzazione; esso è una sorta di frattale definito da una forma che ricorsivamente accresce se stessa ripetendosi, in un sistema a feedback in cui A crea B e B crea A. Lontano da ogni forma di teleologia, il vivente produce il mantenimento della propria identità, intesa tuttavia meramente come ricorsività delle sue regole organizzative:
Un sistema vivente definisce attraverso la sua organizzazione il dominio di tutte le relazioni nelle quali può entrare senza perdere la sua identità[6].
Persino il mutamento, per quanto sia caratteristica determinante la vita, viene inteso sempre come subordinato al mantenimento dell’organizzazione del vivente: in un sistema difatti non è possibile alcun cambiamento che metta in discussione le regole organizzative di fondo del vivente, pena la disintegrazione del sistema stesso. Viene meno in tal modo ogni definizione della vita a partire da un’essenza, da un fondamento, così come si sgretola una visione progressiva di andamento lineare verso il miglioramento. La conoscenza dunque, in relazione all’umano, non si configura più come ricerca del vero, bensì come riflessione sulle operazioni stesse che si compiono nel conoscere: essa diviene conoscenza della conoscenza.
Non vi è alcun oggetto della conoscenza. Conoscere è essere capace di operare adeguatamente in una situazione individuale o cooperativa […] tuttavia ciò non vuol dire che cadiamo nel solipsismo o in qualche specie di idealismo metafisico. Vuol dire che riconosciamo che noi, come sistemi pensanti, viviamo in un dominio di descrizioni […] e che attraverso le descrizioni possiamo aumentare indefinitamente la complessità del nostro dominio cognitivo[7].
Se in effetti la petizione di principio dal quale gli autori prendono le mosse è che
tutto ciò che è detto è detto da un osservatore[8],
ciò significa che è impossibile accedere a qualsivoglia tipo di realtà in sé celata dietro l’apparizione delle cose: siamo irrimediabilmente legati al nostro dominio cognitivo, la manifestatività dell’ente, non presenta nessun in quanto tale[9], ma rimanda sempre nuovamente alla dimensione cognitiva di chi elabora riflessioni sulle cose: la conoscenza ci dice qualcosa su di noi, non su una presunta oggettività da scoprire. All’interno di tale logica, perde di senso la partizione forse più pregnante dell’umanesimo: quella che scinde l’uomo in natura e cultura; se i sistemi auto-organizzantisi, dalla cellula all’uomo, sono caratterizzati dalle medesime processualità di fondo, cioè da un’organizzazione unitaria che circolarmente sancisce le regole del proprio mantenimento, ogni scissione appare infondata. La ricerca delle essenze cede il posto alla più umile descrizione della fenomenologia in atto del vivente, e l’uomo in questo caso viene definito come un ente naturale esistente nel dominio del linguaggio[10]; il punto è che nell’ambito di una tale logica risulta impossibile stabilire un prius: natura e cultura sono in questo caso intrinsecamente intrecciate in uno sviluppo a spirale che non prevede né un prima, né un dopo, né una teleologia di fondo. La dialettica lineare che tanta parte ha avuto nel pensiero umanistico cede il passo alla figura dello Strange Loop, lo strano anello: la processualità dei sistemi (ivi compreso l’uomo), lungi dallo scorrere attraverso una linea retta, prevede il paradosso, la ricorsività; e soprattutto costringe a considerare la vita come complessità che non può essere imbrigliata all’interno di anguste griglie bidimensionali. In equilibrio precario, sul filo del rasoio del paradosso di una vita che procede tra la rigidità di regole ricorsive costanti e l’apertura disequilibrante verso il nuovo, l’umano nondimeno continua a fabbricare parole su se stesso, tentando di conoscere la conoscenza, le modalità attraverso le quali da sempre un mondo si staglia dinnanzi a occhi fatti per vederlo e per parlarlo. Se per certi versi tali narrazioni frustrano la tracotanza dell’animale uomo, d’altro canto una riflessione antropologica che intenda l’umano in maniera multidimensionale è probabilmente molto più adatta a far fronte alle sfide che quotidianamente propone una prassi tecnico-scientifica in continua ascesa. Ente naturale, di una naturalità complessa, sfaccettata, in-essenziale perché continuamente cangiante, l’umano, spodestato del privilegio ontologico, può continuare l’incessante ricerca di sé, utilizzando stavolta una prospettiva orizzontale che non cerchi più in una catalogazione gerarchica dell’ente, i fondamenti della propria etica.
[1] Cfr. R. Descartes, Meditazioni metafisiche (1641), a cura di L. Urbani Ulivi, Bompiani, Milano 2004.
[2] F. Bacone, De Interpretatione Naturae: Proemium (1603), in Uomo e natura. Scritti filosofici, a cura di E. De Mas, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 27 (corsivi miei).
[3] W. Heisenberg, Das Naturbild der heutigen Physik, Hamburg 1955, pp. 17-18.
[4] Cfr. N. Wiener, Introduzione alla cibernetica. Uso umano degli esseri umani (1950), tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1966.
[5] H. Maturana e F. Varela, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente (1980), tr. it. Marsilio, Venezia 1988.
[6] Ibid., p. 55.
[7] Ibid., pp. 104-105.
[8] Ibid., p. 53.
[9] A proposito della questione dell’in quanto tale, cfr. M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo-finitezza-solitudine (1929-30), tr. it. Il Melangolo, Genova 1999.
[10] Cfr. H. Maturana, Autocoscienza e realtà (1990), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1993.