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Indice
- Agli scienziati piace comunicare?
-
Mondi a parte? No, mondi diversi
-
Il divario aumenta
- Nati per la scienza
- Un destino incerto
S&F_n. 02_2009
- Agli scienziati piace comunicare?
«Sette o otto anni fa, se uno avesse preso un libro di scienza famoso e l’avesse venduto a un editore universitario per 5000 dollari sarebbe rimasto a dir poco stupefatto. Oggi, puoi prendere uno scienziato famoso che non sa scrivere e in 12 ore ti danno 250 mila dollari. Alla fine della settimana con altre vendite all’estero sarai riuscito a raccogliere 750.000 dollari»[1]. È il 1991. Siamo nel pieno del popular science boom. È dai tempi di Galileo che i filosofi naturali prima e gli scienziati poi, espongono pubblicamente esperimenti, teorie e concetti sul mondo naturale, ma quello che succede a partire dagli anni ’80 del Novecento non ha precedenti. Nel mercato dei libri di divulgazione scientifica c’è un salto quantistico. L’indiscusso protagonista dell’impresa, il personaggio più geniale e controverso, quello che più di ogni altro ha trasformato la comunicazione della scienza in un affare milionario è l’agente letterario americano John Brockman: l’inventore della “terza cultura”, un impresario intellettuale e “un tipo di pensatore che non esiste in Europa”, secondo la definizione che ne diede “La Stampa” di Torino. Nelle sue mani ricercatori molto affermati ma sconosciuti ai più, diventano star mediatico-letterarie con ingaggi a sei-sette cifre. Il suo portafoglio di clienti include i fisici Murray Gell Mann (con un clamoroso anticipo di due milioni di dollari sul libro il Quark e il Giaguaro), Roger Penrose e Martin Rees, gli informatici Marvin Minsky e Roger Schank, i biologi evoluzionisti Richard Dawkins e Stephen Jay Gould.
Brockman è la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più ampio. L’astrofisico inglese Stephen Hawking, titolare all’Univerità di Cambridge della cattedra lucasiana che fu di Newton, nel 1988 pubblica A Brief History of Time (in Italia conosciuto con il titolo Dal Big Bang ai buchi neri) e sbanca le classifiche e le vendite di libri di divulgazione scientifica di ogni tempo. Il saggio vende più di nove milioni di copie in tutto il mondo, viene tradotto in trenta lingue e rimane nella lista dei bestseller per più di quattro anni.
Ma non ci sono solo i libri. La serie televisiva “Cosmos”, ad esempio, iniziata nel 1980 e condotta dall’astronomo americano Carl Sagan, tra i fondatori del progetto SETI per la ricerca delle intelligenze extraterrestri, in tre anni raggiunge un’audience stimata intorno ai 140 milioni di telespettatori: “il tre per cento della popolazione umana del pianeta Terra”, affermava orgogliosamente Sagan[2].
Anche oggi ci sono scienziati la cui carriera scientifica è integrata col sistema dei media. Uno di questi è Craig Venter, noto per aver sfidato il Progetto Genoma Umano nella corsa al sequenziamento del codice genetico, ma anche per la spregiudicatezza con cui usa i mezzi di comunicazione per promuovere la sua immagine e la sua visione della biologia del XXI secolo. Tra le sue ultime imprese c’è la nave da ricerca Sorcerer II, che tra il 2003 e il 2005 ha circumnavigato la Terra alla ricerca di genomi batterici marini sconosciuti. La vicenda, presentata come un viaggio di scoperta simile a quella di Charles Darwin a bordo del Beagle, è stata ampiamente coperta dal “New York Times”, “Wired” e “The Economist”. Per descrivere l’impresa “Discovery Channell” ha prodotto un documentario intitolato Cracking the Ocean Code[3].
La lista potrebbe continuare a lungo ma il messaggio è chiaro: quando comunicano al grande pubblico gli scienziati fanno parlare di sé, possono vendere molto e addirittura diventare delle star mediatiche.
Si è dunque realizzato l’invito di coloro che, soprattutto a partire dalla metà degli anni ’80 del Novecento col movimento Public Understanding of Science (PUS), si auspicavano una mobilitazione massiccia dei ricercatori a favore della comunicazione pubblica soprattutto attraverso i media, pena la sopravvivenza della scienza in una società democratica moderna?[4]
Agli scienziati piace interagire coi giornalisti nonostante le profonde differenze culturali? Le barriere che tradizionalmente la comunità scientifica ha eretto per limitare un coinvolgimento maggiore nelle attività di comunicazione sono state rimosse?
Bisogna innanzitutto notare che scienziati citati sono personalità fuori dall’ordinario. Carl Sagan o Stephen Jay Gould, oltre ai milioni di libri venduti per il grande pubblico in tutto il mondo, hanno pubblicato continuamente ricerche su riviste come “Science” e “Nature” (circa uno al mese per tutta la loro lunga carriera), articoli su magazine di scienza popolare come “Scientific American”, “The Scientist”, “Discover”, hanno partecipato a numerose e importanti conferenze stampa, hanno presentato trasmissioni televisive e scritto editoriali per il “New York Times”[5].
I loro straordinari curricula vitae rientrano nella categoria degli “scienziati visibili”, secondo la definizione che nel 1977 la studiosa Rae Goodell diede delle figure pubbliche del mondo della ricerca che comunicano tramite i mass media[6]. Goodell metteva in evidenza che i media, quando interpellano degli esperti scientifici, si focalizzano su poche figure chiamate a pronunciarsi su argomenti di cui non sono necessariamente competenti. Personaggi che vengono selezionati non solo per la produttività o per la reputazione scientifica, ma per le loro attività “nel tumultuoso mondo della politica e delle controversie”.
Il suo elenco includeva il già citato Sagan, il biochimico Paul Erlich e l’antropologa Margaret Mead. Tutti personaggi che dalle attività di comunicazione hanno ricavato soldi e visibilità e la cui posizione accademica non è stata scalfita dall’impegno nella divulgazione.
Per un ricercatore qualsiasi le cose stanno diversamente.
Già Goodell aveva mostrato che i pregiudizi negativi condizionano, e non poco, l’impegno di uno scienziato ordinario a interagire con radio, giornali e televisione. Un’esposizione pubblica eccessiva è vista una perdita di tempo e può mettere a rischio la carriera di uno scienziato.
Alcuni osservatori sostengono che negli ultimi anni, diversamente dai tempi del classico studio di Goodel, la comunicazione si è imposta come necessità[7] rispetto alla quale non si può derogare. Le risposte e gli atteggiamenti a tale richiesta sono però molto diversificate e non è chiaro quanti siano gli scienziati a credere auspicabile o coniugabile con la produzione scientifica di qualità e con la posizione accademica, un dispendio di energie elevato nei confronti della comunicazione. Le ricerche a disposizione offrono un quadro che non si presta a un’univoca chiave di lettura.
Ci sono segnali che le relazioni individuali tra scienziati e giornalisti sono molto più frequenti e positive di quanto comunemente si creda[8] (anche se il giudizio generale nei confronti della copertura della scienza da parte dei media rimane poco entusiastico). Sono risultati aperti all’interpretazione. Forse è migliorata la qualità del giornalismo scientifico o più probabilmente, in alcune discipline, come quelle biomediche, c’è una maggiore disposizione ad assecondare le logiche dei media per guadagnarci in termini di visibilità.
Rimane il fatto che anche oggi non tutti gli scienziati siano convinti della necessità della comunicazione pubblica. Una ricerca della Royal Society del 2006 forniva un quadro abbastanza desolante in questo senso[9] .
Nei periodo di rilevazione (un anno) il 75% del gruppo degli intervistati, costituito da ricercatori del Regno Unito, non aveva scritto né articoli né libri per il grande pubblico; il 77% non aveva concesso interviste a giornalisti; l’80% non aveva mai parlato in pubblico di scienza (dibattiti); l’88% non aveva parlato alla radio; l’89% non aveva collaborato con musei scientifici o science centers; il 70% non aveva mai lavorato con insegnanti o studenti. Nel Regno Unito, il paese all’avanguardia nella cura dei rapporti tra scienza e società, solo una sparuta minoranza dei suoi scienziati e dei suoi tecnici sembra avere una frequentazione non episodica con l’opinione pubblica. Il quadro che emerge è di una comunità scientifica che fatica a uscire dalla torre d’avorio e ancora impacciata nei suoi timidi rapporti con la società. Non le piace il mondo lì fuori. E non lo capisce. Stabilisce dei canali di comunicazione, ma solo se e quando lo ritiene davvero necessario, per senso del dovere, pressioni organizzative o la percezione di qualche beneficio, ma raramente ha la convinzione che la comunicazione pubblica sia parte integrante del mestiere dello scienziato contemporaneo.
In questo quadro contraddittorio non stupisce che l’interazione tra scienziati e giornalisti possa spesso frustrante e piena di tensioni.
2. Mondi a parte? No, mondi diversi
Ma ci sono altri modi di vedere la questione. Per esempio, sostenere che non ci siano reali incomprensioni. I due gruppi, scienziati e giornalisti, perseguono semplicemente interessi diversi. I primi riconoscono che apparire sui media fa comodo perché aumentano le chances di ricevere finanziamenti. I secondi, in fondo, vogliono trovare storie interessanti per i lettori. Le tensioni rientrerebbero nel tipo d’interazione studiate mediante la teoria dei giochi[10].
Altri si spingono più in là. Nella cosiddetta prospettiva costruttivista, i media non hanno una funzione di raccordo tra scienza e società, non sono dei filtri o degli specchi della realtà, ma attori attivi nel processo di costruzione e disseminazione della conoscenza. Non ha senso porsi il problema del miglioramento del rapporto tra scienza e media perché si tratta di due sottosistemi sociali differenti che operano secondo le proprie specifiche logiche e che quindi intrinsecamente non possono comunicare tra di loro. La scienza e il giornalismo producono conoscenza sul mondo secondo principi differenti.
Se i media non vanno considerati come “specchi” che riflettono in modo più o meno fedele la realtà scientifica, le questioni sull’accuratezza non hanno più molto senso. Televisione, giornali, radio e internet sono arene di discussione e negoziazione ugualmente implicate nella costruzione della scienza come parte della cultura[11].
È l’affermazione della “condizione postmoderna” della scienza in cui i momenti di produzione e diffusione della conoscenza non sono nettamente separati. È un approccio che mette in discussione il significato profondo di cosa significa conoscere attraverso il metodo scientifico ed è una posizione che non piace tanto agli scienziati. È stata all’origine delle science wars, le guerre che negli anni ’90 del Novecento hanno visto eminenti fisici e biologi, soprattutto americani, scagliarsi contro lo scrutinio sociologico subito negli anni ’70 e ’80. Peccato mortale della critica letteraria, della storia sociale, della sociologia della conoscenza scientifica, della storia culturale, è stato il tentativo di ridurre la scienza a un tipo di conoscenza socialmente costruita.
Richard Dawkins, noto al grande pubblico per il libro Il gene egoista, biologo e professore di Public Understanding of Science alla Oxford University, è stato tra i più appassionati avversari della critica postmoderna. Durante un’edizione del festival annuale della British Association for the Advancement of Science, espresse una posizione che sintetizza molto bene il punto di vista di tanti altri scienziati:
Quando uno prende un 747 per andare a un incontro di sociologi o critici letterari, la ragione per la quale arriva tutto intero è che un sacco di scienziati e ingegneri occidentali con una formazione adeguata alle spalle hanno fatto bene i conti. Se a qualcuno piace dire che la teoria dell’aerodinamica è una costruzione sociale è un suo privilegio, ma perché si fida allora di fare un viaggio su un Boeing invece di prendere un tappeto magico? Come ho detto prima, mostratemi un relativista a 30.000 piedi d’altezza e vi mostrerò un ipocrita[12].
Al di là delle schermaglie tra fisici e sociologi, la ricerca accademica sui mezzi di comunicazione di massa in ottica costruttivista ha prodotto risultati ormai assodati che permettono il superamento degli stereotipi sul rapporto fra scienza e media. Cinquant’anni di studi sulle notizie, sulle organizzazioni mediali, sulle pratiche e le fonti giornalistiche, hanno ampiamente dimostrato che le notizie sono selettivamente prodotte, create e riportate. La notizia è una costruzione necessariamente parziale di quello che i mezzi di comunicazione di massa riescono o vogliono cogliere della realtà.
L’informazione scientifica non fa eccezione. Quello che vediamo, ascoltiamo o leggiamo di scienza e tecnologia su televisione, radio e giornali è il risultato di un complesso processo d’interazione che caratterizza il circuito della comunicazione di massa, in generale, e in cui giocano un ruolo determinante le caratteristiche specifiche dei singoli media.
Il modo in cui viene selezionata e trattata una notizia dipende da chi paga, dalle priorità degli editori, dalla tradizione e dai valori della testata, dalla cultura mediatica, dalle routine professionali, dalla struttura delle organizzazioni mediali, da quelli che vengono percepiti come i valori dei lettori, dall’influenza di individui, di istituzioni politiche e di forze sociali più ampie.
David Randall, giornalista britannico, caporedattore dell’ “Indipendent”, in Italia conosciuto per i suoi contributi alla rivista “Internazionale”, è uno di quei professionisti allergici, un po’ come gli scienziati, alle analisi sociologiche del proprio lavoro. Per Randall i veri eroi del giornalismo sono i cronisti, che diversamente dai commentatori e dagli editorialisti cercano la verità dei fatti, in molti casi rischiando la vita. A coloro che descrivono il giornalismo come a una divisione del marketing fatta di esperti riorganizzatori di banalità, Randall risponde con i numeri dei cronisti minacciati, arrestati, imprigionati e assassinati ogni anno.
Nonostante ciò, secondo il reporter britannico, i quotidiani non dovrebbero mancare di pubblicare ogni giorno la seguente avvertenza:
Questo giornale, e le centinaia di migliaia di parole che contiene, sono stati prodotti in circa 15 ore da un gruppo di persone non infallibili, che lavorano in uffici angusti e cercano di scoprire quello che è successo nel mondo da persone che sono a volte riluttanti a parlare, e altre volte oppongono un deciso ostruzionismo. Il suo contenuto è stato determinato da una serie di giudizi soggettivi dei cronisti e dei capiservizio, temperati da quelli che sanno essere i pregiudizi del direttore, del proprietario e dei lettori. Alcune notizie appaiono avulse dal loro contesto essenziale perché altrimenti risulterebbero meno sensazionali o coerenti e in alcuni casi il linguaggio usato è stato deliberatamente scelto per il suo impatto emotivo, piuttosto che per la sua precisione. Alcuni articoli sono stati pubblicati solo per attirare gli inserzionisti[13].
Ci sono quindi dei limiti strutturali che anche uno come Randall è costretto ad ammettere. Il cronista si deve impegnare a combatterli e in qualche caso a sconfiggerli, ma queste sono le condizioni al contorno del suo lavoro.
Il mondo del giornalismo scientifico condivide gran parte dei vincoli del giornalismo in generale ma, come vedremo, ne ha anche di propri.
3. Il divario aumenta
L’influenza della ricerca sociale sui media e della prospettiva costruttivista ha avuto il merito di spostare il punto di vista sul rapporto tra scienza e media in diverse direzioni. A tal riguardo possono farsi almeno due considerazioni.
Primo: non si può guardare ai mezzi di comunicazione di massa che trattano la scienza come a una singola entità omogenea. Si deve distinguere tra diversi mezzi e diversi generi se si vogliono comprendere in profondità le immagini pubbliche della scienza veicolate attraverso i massmedia. Differenziare significa anche allargare lo sguardo oltre gli spazi specificamente dedicati all’informazione. Se restringiamo l’attenzione alle news scientifiche si perde di vista il ruolo sociale delle immagini della scienza trasmesse dal cinema, dalla pubblicità, dalla fiction. Pellicole che hanno sbancato il botteghino come Artificial Intelligence, Minority Report o A Beautiful Mind, serie televisive come ER, CSI o Dr. House e fumetti come i Simpson, sono tra gli spazi più potenti in cui il significato della scienza nello sfera pubblica è negoziato. Con il sospetto che queste arene mediatiche siano addirittura le più importanti per comprendere davvero cosa è “la scienza sui media” e quale influenza possa avere sulla comprensione e sugli atteggiamenti pubblici.
Secondo: non ci si può limitare a considerare gli scienziati e le istituzioni di ricerca come uniche fonti di informazione, né studiare solo quello che fanno i giornalisti scientifici. I gruppi di pressione, i movimenti sociali, le aziende farmaceutiche e altri attori sociali sono altrettanto importanti per capire quello che di scienza appare su giornali, radio, tv e Internet.
I rari studi che indagano questi aspetti difficilmente fanno breccia nel cuore degli scienziati. Stimolano una serie di questioni di scarsa rilevanza in chi, molto più istintivamente, si riconosce in un modello di deficit della comunicazione della scienza secondo cui gli scienziati sanno, il pubblico è ignorante e i media non devono far altro che tradurre al meglio dal complesso al semplice. Questo modello della comunicazione pubblica della scienza, detto anche top-down o modello diffusionista, è stato pesantemente criticato da diversi punti di vista[14]. Ne sono stati sconfessati i presupposti così come le aspettative. Eppure tra politici, decision-makers e scienziati, al di là di discorsi retorici sulla necessità di un dialogo tra scienza e società, continua a godere di ottima salute. Come mai?
Stephen Hilgartner, un professore americano della Cornell University, qualche anno fa ha dato una risposta che ancora oggi coglie alcuni risvolti profondi dietro le discussioni sul significato della comunicazione pubblica della scienza, le sue funzioni nella storia del pensiero scientifico e nei rapporti tra scienza e società. In un articolo che metteva a dura requisitoria la versione “dominante” della divulgazione, Hilgartner scriveva che nonostante le debolezze, il modello resiste perché «serve agli scienziati (e ad altri che derivano la loro autorità dalla scienza) come risorsa politica nel discorso pubblico»[15]. Perché fornisce il vocabolario per distinguere la conoscenza “vera” da quella “divulgata”, dà ai ricercatori un’ampia autorità per determinare quali semplificazioni sono “appropriate” e quali sono “distorsioni”. La conoscenza autentica è prerogativa esclusiva dei ricercatori: il resto della società vi può accedere solo attraverso versioni semplificate.
La questione vera è insomma l’autorità dell’esperto che, dal punto di vista degli scienziati, viene oggi continuamente messa in discussione e attaccata da più fronti con la complicità dei media. La sensazione di un prestigio sociale ingiustamente perduto accompagna l’approccio alla comunicazione basato su un divario, che vorrebbe e dovrebbe, viceversa, garantire il mantenimento di una gerarchia.
Bisogna stare molto attenti a far passare improvvisamente gli scienziati da disinteressati amanti della verità, spina nevralgica della conoscenza umana, ad abili manipolatori politici invischiati in lotte di potere. Così come bisogna essere cauti a non celebrare il mito del buon selvaggio reincarnato nelle conoscenze popolari opposte a quelle scientifiche.
Nonostante ciò, una lettura presentista del rapporto tra scienza e pubblico può far credere che i poli su cui si gioca la tensione debbano essere necessariamente segnati da quella che oggi si presenta come una distanza inevitabile e sostanzialmente incolmabile. Non è vero, e andando a guardare le ragioni profonde del divario si scopre, con una certa sorpresa, che il giornalismo scientifico ha giocato un ruolo cruciale nell’ampliare le divisioni, anziché ridurle.
4. Nati per la scienza
“Giornalista settore scienza: cercansi articolisti disposti a collaborare per la stesura di resoconti, approfondimenti e speciali sulle più recenti e avvincenti scoperte del mondo naturale. Requisiti richiesti: nessuna conoscenza dei temi da trattare”.
Alla fine dell’Ottocento un annuncio di lavoro per un giornalista scientifico poteva suonare così. L’ignoranza era considerata un prerequisito necessario.
William Thomas Stead, giornalista britannico, fondatore nel 1890 del mitico periodico “Review of Reviews”, ideatore di alcune tecniche giornalistiche moderne come l’uso delle illustrazioni e dell’intervista, con una vita avventurosa conclusasi beffardamente, a dispetto della sua fiducia progressista, nell’Oceano Atlantico tra i 1500 passeggeri morti nella tragedia del Titanic, spiegava così il perché:
Se fai scrivere un articolo a un esperto della materia, si dimenticherà sempre che non sta scrivendo per gli esperti ma per il pubblico e penserà che il pubblico non ha bisogno che gli vengano dette delle cose che, sebbene sono familiari per lui come l’ABC, sono comunque sconosciute al lettore generico[16].
Stead esprime la sua opinione su una delle innumerevoli riviste divulgative che circolavano un po’ in tutta Europa e soprattutto in Francia e Inghilterra durante l’Ottocento. La Prima e la Seconda Rivoluzione Industriale portano con sé la nascita del tempo libero e la commercializzazione della cultura. L’aumento dell’alfabetizzazione e la meccanizzazione della produzione e della distribuzione editoriale segnano il passaggio all’epoca della “lettura a vapore”. Solo in Inghilterra si stima che vengano prodotti circa 125 mila tra periodici e giornali[17]. Molti di questi, trasformati grazie all’avvento della pubblicità in imprese economiche, trovano nelle storie sul mondo naturale una merce prelibata. Seri articoli scientifici, insieme a resoconti, inchieste ma anche fiction e poesia, introducono i nuovi lettori alle scoperte e alle invenzioni della scienza, della tecnologia e medicina. I giornali di grande circolazione rispecchiano il sentire comune: non devono discostarsi troppo dalle visioni convenzionali. Per questo motivo gli scrittori di scienza sono preferibilmente anonimi, non-entità storiche, grigi compilatori, spesso avviliti da ambizioni letterarie frustrate, che sbarcano il lunario con un po’ di manovalanza redazionale[18].
Se è vero quindi che di scienza sui giornali si scrive fin dalla loro invenzione[19] e ancora di più quando questi si affermano come principale espressione della cultura popolare, la comparsa di una nuova figura redazionale, rispettata e specializzata nel riportare i fatti della scienza, è lenta e successiva. Non priva di tensioni e mitici padri fondatori. Il già menzionato James Gerald Crowther (1899-1983) è uno di questi.
Dopo aver studiato fisica e matematica a Cambridge, Crowther lascia la prestigiosa università senza conseguire alcun titolo, al limite di un esaurimento nervoso. Idiosincratico alle astrattezze numeriche svolge mille mestieri: come esperto di calcoli balistici al servizio dell’artiglieria contraerea britannica durante la Prima Guerra Mondiale, poi come insegnante di scuole superiori e docente universitario, fino a prestare la sua consulenza editoriale su questioni tecnico-scientifiche alla Oxford University Press. I frequenti viaggi gli permettono di incontrare i più importanti giornalisti, scienziati e attivisti politici dell’epoca diventando amico di molti di loro e determinandolo a voler diventare il primo giornalista scientifico in assoluto impegnato a tempo pieno in un quotidiano nazionale. A partire dalla metà degli anni Venti del Novecento conduce la sua battaglia. Dalle sale d’aspetto delle stazioni ferroviarie alle biblioteche più sperdute del Regno Unito, Crowther manda i suoi resoconti su raggi cosmici, stelle, pianeti e colloidi al “Manchester Guardian” guidato da Charles Prestwich Scott (1846-1932), storico redattore e proprietario del giornale bandiera del laburismo britannico, il cui busto troneggia ancora oggi nella redazione di quello che sarebbe diventato “The Guardian”. Nel 1928 Crowther chiede di diventare il Corrispondente Scientifico ufficiale del giornale e la sua richiesta viene accolta[20].
La storia di Crowhter è simile a quella di molti altri corrispondenti scientifici in quel periodo alla ricerca di un’identità professionale. La loro vita non è facile. Nei loro ricordi rivivono le condizioni più difficoltose e i luoghi più impensati da cui sono costretti a scrivere. Lo sforzo è giustificato dall’amore per la scienza e dalla convinzione che il loro riconoscimento professionale sia una condizione necessaria per migliorare la vita delle persone e il benessere nazionale. Ma il romanticismo non basta. Bisogna organizzarsi.
Il grande salto lo fanno gli americani. Dodici corrispondenti scientifici sparsi per gli Stati Uniti nel 1934 capiscono che stanno lavorando con obiettivi e modalità molto simili tra di loro e che condividere le esperienze può essere conveniente[21]. Fondano la National Association of Science Writers (NASW), la prima associazione di categoria della storia. Le regole d’ingresso sono severe: l’accesso è riservato a coloro con provata esperienza e privi di conflitti d’interesse. La NASW organizza seminari e corsi, elargisce crediti agli associati, istituisce premi. L’obiettivo è quello di essere riconosciuti e rispettati come gli unici autorizzati a scrivere di scienza sui media in qualità di portavoci della Verità. Le associazioni di scienziati come la AAAS delegano volentieri. Capiscono che è più facile avere degli amici fidati nei giornali che scrivere, produrre e distribuire da soli materiali per il grande pubblico. Gli scrittori di scienza della NASW si propongono come un gruppo distinto ed elitario rispetto al resto del giornalismo. La soddisfazione per il proprio lavoro dipende dalla soddisfazione degli scienziati e molto meno da quella dei colleghi di redazione e dal pubblico: il loro obiettivo non è servire gli interessi del lettore ma promuovere la ricerca. L’accuratezza è la misura del buon giornalista scientifico. I membri della NAWS sono disposti a farsi rivedere le bozze dei propri articoli dagli scienziati prima di spedirli ai caporedattori. Sanno che l’eccesso di zelo non farà grande differenza per il lettore comune, ma temono il giudizio dei ricercatori, al cui mondo si sentono di appartenere. Le loro reti, amicizie, interessi ruotano tutte attorno alle istituzioni della scienza.
La campagna di legittimazione nei primi anni ’30 del Novecento attuata da una dozzina di giornalisti scientifici americani funziona. Il successo esplode dopo la Seconda Guerra Mondiale. La NAWS alla fine della guerra ha 63 associati, nel 1955 ha già raddoppiato gli iscritti, agli inizi degli anni ’60 ha più di 400 membri. I suoi affiliati partecipano a incontri internazionali con capi di Stato e sono chiamati dai presidenti americani come testimoni privilegiati dal Congresso su temi riguardanti scienza e società. Fare giornalismo scientifico da quel momento in poi significa sempre di più tradurre informazioni tecniche riconfigurandole in parole e immagini accessibili a persone prive della formazione e del vocabolario specialistico.
Il contesto di produzione della ricerca e le implicazioni sociali della conoscenza non sono esplorati. La scienza è presentata come un’attività largamente indipendente da pressioni esterne e che per questo merita un trattamento speciale da parte dei media. Il modello si diffonde, con tempi diversi, in tutto il mondo.
Per i critici si tratta di un asservimento agli interessi istituzionali della scienza. I giornalisti scientifici rispondono che loro forniscono un servizio utile e necessario alla modernità. Sta di fatto che si tratta di un caso anomalo nella comunicazione di massa, la cui origine non si può spiegare solo con gli ideali associativi di un gruppo di professionisti.
Un’altra componente cruciale è il fattore ideologico fornito dalla retorica delle due culture di Charles Percy Snow (1905-1980). Nel 1959, lo scienziato, romanziere e celebre figura pubblica britannica, durante la Rede lecture, una conferenza annuale tenuta da importanti esponenti della cultura d’oltre manica fin dal Seicento all’Università di Cambridge, pronuncia un celebre discorso sul divario sostanziale fra scienziati e umanisti, sulla dipolarità che caratterizza la vita intellettuale del mondo occidentale. Da una parte ci sono gli studiosi che si occupano di etica, estetica, storia e cultura. Dall’altra, gli scienziati, che cercano di spiegare e controllare le leggi della natura. I due gruppi non si parlano e se capita che, per doveri accademici, si debbano incontrare a una festa si evitano, garbatamente, ma accuratamente. Molto si è discusso sulle ripercussioni del paradigma delle due culture sul mondo accademico.
La visione bipolare di Snow non riguarda solo il sistema di produzione della conoscenza universitario. Le conseguenze della Grande Divisione sono pesanti anche per il ruolo della scienza nella società e si ripercuotono, ad esempio nella scarsa importanza che la scienza riveste nel sistema formativo, dominato dall’influenza di storici, filosofi e letterati che si vantano spesso di non sapere nulla di matematica[22]. L’effetto è che la maggior parte delle persone anche istruite è ignara delle più basilari nozioni scientifiche. Per porre riparo alle lacune formative è necessario un gruppo professionale di traduttori in grado di mediare tra il gergo specialistico e un’audience sostanzialmente analfabetizzata.
L’ultimo ingrediente che serve per l’affermazione della nuova classe di professionisti è convincersi dell’ineluttabilità del crescente divario tra scienza e società.
Secondo la storica Bensaudette-Vincent quest’ultimo tocco finale è dato del Progetto Mahnattan, in altre parole del metodo che ha dimostrato durante la Seconda Guerra Mondiale, nel bene e nel male, la potenza dell’organizzazione scientifica su larga scala[23].
La divulgazione scientifica dopo l’esplosione della bomba atomica non è lo sviluppo lineare di quanto era accaduto nei secoli precedenti. Se durante il Settecento la diversità tra scienziati e resto della società è nello stile delle argomentazioni, e nell’Ottocento diventa di linguaggio – una differenza accidentale ma non essenziale – nel ventesimo secolo ricercatori e pubblico appartengono a mondi diversi. Fino al diciannovesimo secolo, epiche o pragmatiche che fossero le immagini pubbliche della scienza, gli argomenti a favore della sua promozione «erano concordi su un assunto filosofico di base: la continuità fra la scienza e il senso comune»[24].
Dualismi onda-particella, deformazioni dello spazio-tempo, sprigionamento di energie enormi a livello atomico e quant’altro ci è stato regalato dalla meccanica quantistica, dalla relatività einsteniena e dalla fisica nucleare, causano uno stordimento nell’opinione pubblica in cui si mischiano paura e ammirazione.
Il pubblico non ha accesso alle scoperte, non ha più nulla da insegnare agli scienziati, è inadeguato a compiere scelte riguardanti lo sviluppo scientifico e tecnologico. Non c’è spazio per la scienza alternativa: la scienza è unica e coincide con la fisica.
Da insieme illuminato di amatori, il pubblico viene trasformato in una massa di persone irrazionale, anonima, amorfa e ignorante. La scienza assurge al rango di semidivinità anche grazie alla forte collaborazione di una comunità in grado di amministrarne pubblicamente il culto: i giornalisti scientifici.
I nuovi professionisti aderiscono a una visione molto selettiva della ricerca sul mondo naturale, quella che vede nelle teorie della fisica più distanti dal senso comune un modello per tutto il pensiero scientifico[25].
Allo scopo della propria legittimazione professionale, i giornalisti scientifici rinforzano l’immagine di un divario crescente e inevitabile fra esperti e non-esperti. Ufficialmente pretendono di colmarlo, ma il suo mantenimento è la ragione della loro esistenza. La battaglia per esistere nel mondo dell’informazione si presenta come indispensabile per contrastare l’ignoranza pubblica, ma coincide nei fatti col rafforzamento dell’autorità scientifica.
Letture simili a quella di Bernaudette-Vincent non sono unanimemente condivise. Sono tesi che richiedono probabilmente ulteriori conferme e comunque sono accolte tiepidamente da chi è restio a considerare rilevanti nello sviluppo del pensiero scientifico i fattori sociali, quale potrebbe essere il ruolo giocato dai pubblici dei non-esperti e la comunicazione con essi instaurata.
La prospettiva della storica francese conferma in ogni caso che il giornalismo scientifico nasce come qualcosa di speciale all’interno del panorama della comunicazione di massa che non può essere spiegato semplicemente come conseguenza della crescente specializzazione della ricerca. E che nel suo splendido isolamento non può durare a lungo, almeno nelle forme e nelle modalità volute dai suoi fondatori.
5. Un destino incerto
Jon Franklin è un giornalista americano con più di quarant’anni di carriera alle spalle. È un pioniere del “new journalism”, uno stile di fare cronaca, nato tra gli anni ’60 e ’70 del Novecento, in cui nel costruire le notizie vengono usate tecniche letterarie. Truman Capote, Norman Mailer e Tom Wolfe, sono alcuni dei maggiori esponenti della più significativa evoluzione della scrittura giornalistica negli ultimi decenni.
Franklin ha ricevuto nel 1979 il primo Premio Pulitzer ed è considerato uno dei decani del giornalismo scientifico americano.
Per questo, ha destato un certo stupore tra gli addetti ai lavori qualche anno fa la sua pubblicazione di un suo articolo dal titolo: The end of science writing[26].
Raccontando la sua storia professionale, il vincitore del Premio Pulitzer, disegna la parabola di un’intera generazione. Descrive l’entusiasmo degli inizi, la gioia infantile con cui accoglie, dopo sarcasmi, grugniti e scetticismi, la decisione del suo caporedattore di chiamarlo per la prima volta science writer.
Franklin trova la scienza in ogni storia. Sono storie che i cittadini americani degli anni ’50 e ’60 del Novecento leggono con occhi spaventati ma ammirati, timorosi ma fiduciosi nei confronti di tutto quello che di buono, bello e utile la scienza e la tecnologia possono portare alla società statunitense del dopoguerra. Sono storie di uomini che viaggiano nello spazio, di radio portatili e antibiotici, di missili teleguidati. La scienza, e la fisica in particolare, sono al di sopra di tutto e la loro atmosfera sacra «era l’aria che il giornalista scientifico respirava».
Qualcosa di profondo cambia durante gli anni ’70 del secolo scorso. La seconda generazione di scrittori di scienza si occupa sempre di più di biologia. Gli ambientalisti, i pacifisti, gli animalisti iniziano a far circolare altre immagini della scienza. Compaiono storie di frodi. L’alone mitico si appanna.
Franklin ricorda un punto di svolta nella sua carriera quando, in occasione dell’incidente nucleare della centrale nucleare di Three Mile Island in Pennsylvania, il 28 Marzo 1979, il giornale decide di mandare un reporter antinuclearista a seguire la vicenda e non lui. L’ostilità alla scienza diventa sinonimo di successo editoriale. La scienza non scompare dai giornali, ma non sono necessariamente dei giornalisti specializzati a trattarla.
Franklin è un professionista appassionato del suo lavoro. È stato realmente eccitato dagli avanzamenti della ricerca e dalla possibilità di raccontarla. Ma ammette che la sua generazione ha sbagliato qualcosa. Ha creato una gabbia d’oro per la scienza. Ha contribuito a isolare gli scienziati dal resto della società, a evitargli uno scontro che prima o poi sarebbe arrivato.
Se la scienza è mai stata una cosa a parte, un modo speciale di vivere e vedere il mondo, quel periodo è finito. Con esso è finito anche il tempo dei traduttori entusiasti, dice Franklin: la comoda nicchia in cui avevano vissuto non esiste più.
Ma siamo davvero al capolinea per il giornalismo scientifico?
La crisi del settore è stato un tema centrale della sesta conferenza mondiale degli addetti ai lavori tenutasi a Londra nel 2009[27] a cui la rivista «Nature» ha abbinato uno speciale[28], da cui abbiamo tratto alcuni dati che ci sembrano significativi.
Negli Stati Uniti, tra i circa 2000 associati alla NASW nel 2009, soltanto 79 risultavano assunti in redazione a tempo indeterminato. Le pagine dedicate a scienza e tecnologia sui quotidiani americani sono passate da 95 nel 1989 a 34 nel 2005. Le sezioni di salute e scienza nei quotidiani inglesi e americani vengono sempre più spesso accorpate o fatte migrare in parti dedicate alle notizie su affari, benessere e costume a sfondo tecnologico. In controtendenza rispetto agli USA, sembrano il mondo arabo, l’Africa, l’America Latina, dove il numero di giornalisti scientifici, membri fissi dello staff redazionale supera quello dei free-lance. Ancora per pochi secondo alcuni poiché in realtà in questi paesi la maggiore presenza di giornalisti scientifici sarebbe il sintomo di un ritardo rispetto agli USA. I tagli arriveranno in quanto rispecchiano cambiamenti strutturali e trasformazioni più ampie.
Le discussioni sul destino del giornalismo scientifico non devono indurre comunque a pensare che si sia esaurita la necessità di produrre informazione in questo settore. Bisogna intendersi sulla crisi. Sostanzialmente è del futuro della stampa cui si discute. Una questione che, come ovvio, si estende al di là della scienza e della tecnologia.
Il tramonto dei giornalisti scientifici vecchia maniera non implica poi che non ci sia più bisogno di professionisti della comunicazione della scienza. Al contrario. La richiesta di scienza e tecnologia sui media, soprattutto per comprenderne i meccanismi e le implicazioni sociali, è più viva che mai e le competenze richieste al nuovo giornalista scientifico sono, se possibile, ancora maggiori che nel passato. Non gli basta più essere a suo agio con neuroni, funzioni d’onda e proteine e saper produrre dei bei resoconti semplificati della scienza pieni di metafore e analogie. Se vuole continuare a raccontare storie interessanti e utili deve comprendere i cambiamenti del rapporto tra scienza e società e deve saper raccogliere la sfida dell’evoluzione dei media. Il rapporto più problematico è con l’internet.
La rete ha profondamente modificato il concetto di tempestività della notizia. Tradizionalmente i quotidiani avevano il compito di reperire informazioni nuove e di comunicarle ai lettori nel modo più rapido possibile. Per quanto riguarda questa funzione però l’internet è imbattibile.
Il rapporto tra giornalismo scritto e internet ripropone sotto certi aspetti quanto è già avvenuto, ad esempio, con la nascita del giornalismo televisivo. Quando carta stampata e immagini in movimento sul piccolo schermo si sono confrontate nella gara per informare lettori e telespettatori su quello che accade nel mondo, nacquero le features, si ampliarono i concetti di notiziabilità, cambiarono il modo di pensare e di lavorare dei giornalisti della carta stampata[29]. Ci furono una serie di innovazioni che permettono oggi al sistema delle informazioni basato su giornali, riviste, radio e televisioni di integrarsi efficacemente tra di loro.
Il giornalismo scientifico deve partecipare al nuovo processo di ridefinizione che riguarda il mondo dell’informazione nel suo complesso con l’avvento di internet. Dovrà confrontarsi con la multimedialità e la cross-medialità, con le narrazioni alternative della scienza prodotte su blog, chat, siti web, social network da cittadini, consumatori, gruppi d’interesse. Il suo lavoro sarà sempre di più sotto osservazione. Cambieranno alcuni dei meccanismi che hanno tradizionalmente caratterizzato il giornalismo scientifico, come il rapporto simbiotico con gli scienziati o la predilezione per riviste di grande impact factor[30] o di istituzioni di ricerca blasonate nella scelta delle notizie.
Non crediamo nella previsione-provocazione di Franklin. Il giornalismo scientifico non è al capolinea. La mutazione che i professionisti della comunicazione scientifica stanno subendo è un segno della pervasività della scienza nella società e dei significati profondi della comunicazione.
Diamo invece ragione a Franklin quando dice che non si può più ridurre il giornalismo scientifico a un lavoro di traduzione. Bisogna considerarlo come uno degli emergenti mestieri della comunicazione, anche se, con un’identità ancora da definire.
[1] B. M. Shermer, This View of Science: Stephen Jay Gould as Historian of Science and Scientific Historian, Popular Scientist and Scientific Popularizer, in «Social Studies of Science», 32, 4, 2002, p. 517.
[2] Citato in P. Broks, Understanding Popular Science, Open University Press, Maidenhead, Berkshire 2006, p. 89.
[3] Cfr. A. Delfanti, N. Pitrelli e Y. Castelfranchi, Le vacanze del dott. Venter . Il Sorcerer II e la comunicazione delle biotecnologie, in N. Pitrelli, D. Ramani e G. Sturloni (a cura di), Atti del VI Convegno Nazionale sulla Comunicazione della Scienza. Con una sessione speciale dedicata alla Società della Conoscenza, Polimetrica, Monza-Milano 2008, pp. 131-140.
[4] Chi è interessato a capire gli obiettivi del movimento PUS quando è nato in Inghilterra e come si è sviluppato può guardare J. Gregory e S. Miller, Science in Public: Communication, Culture and Credibility, Plenum Trade, New York 1998, pp. 1-18 e N. Pitrelli, The Crisis of the “Public Understanding of Science” in Great Britain, in «Jcom - Journal of Science Communication», 2, 1.
http://jcom.sissa.it/archive/02/01/F020101/
[5] L’incredibile carriera di questi e altri scienziati, e in particolare di Stephen Jay Gould, è esaminata in B. M. Shermer, op. cit.
[6] R. Goodell, The visible scientists, Little, Brown, Boston 1977.
[7] J. Ziman, La vera scienza, Edizioni Dedalo, Bari 2002.
[8] H. Peters, et al., Science-Media Interface. It’s Time to Reconsider, in «Science Communication», 30, 2, 2008, pp. 266-276.
[9] Royal Society, 2006. Disponibile all’indirizzo web http://royalsociety.org/downloaddoc.asp?id=3074.
[10] H. P. Peters, The science media-interface: interactions of scientists and journalists, in M. Claessens (a cura di), Communicating European Research 2005, Proceedings of the Conference, Brussels, 14-15 November 2005, Springer, pp. 51-56.
[11] J. van Dijck After the “Two Cultures” Toward a “(Multi)cultural” Practice of Science Communication, in «Science Communication», 25, 2, 2003, pp.177-190.
[12] Citato in P. Broks, op. cit, p. 113.
[13] Tratto da D. Randall, Il giornalista quasi perfetto, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 33.
[14] Si consideri ad esempio G. Myers, Discourse Studies of Scientific Popularization: Questioning the Boundaries, in «Discourse Studies», 5, 2, 2003, pp. 265-279 o B. Wynne, Public Understanding of Science, in S. Jasanoff, G.E. Markel, J.C. Petersen e T. Pinch (a cura di), Handbook of Science and Technology Studies, SAGE, Londra 1995, pp. 361-88.
[15] S. Hilgartner, The Dominant View of Popularization: Conceptual Problems, Political Uses, in «Social Studies of Science», 20, 3, 1990, pp. 519-539.
[16] Citato in P. Broks, op. cit., p. 34.
[17] Questi dati sono stati ricavati dal sito web del progetto The Science in the Nineteenth-Century Periodical Index (SciPer) all’indirizzo http://www.sciper.org/. L’iniziativa, lanciata qualche anno fa da alcuni storici inglesi, ha l’obiettivo di fornire informazioni e risorse di studio riguardanti pubblicazioni di scienza, tecnologia e medicina apparse in sedici periodici britannici generalisti tra il 1800 e il 1900.
[18] P. Broks, op. cit., p.34.
[19] S. Dunwoody, Science journalism, in M. Bucchi e B. Trench (a cura di), Handbook of Public Communication of Science and Technology, Routledge, Abingdon e New York 2008, pp. 15-26.
[20] La vicenda di Crowther è raccontata in Hughes, op. cit.
[21] La ricostruzione storica della nascita e dello sviluppo del giornalismo scientifico americano è basata su B. V. Lewenstein, The meaning of “public understanding of science” in the United States after World War II, in «Public Understanding of Science», 1, 1, 1992, pp. 45-68.
[22] In Italia il confronto tra cultura umanistica e scientifica è stato riproposto qualche anno fa in C. Bernardini, e T. De Mauro, Contare e raccontare. Dialogo sulle due culture, Laterza, Bari-Roma, 2003.
[23] B. Bensaude-Vincent, A genealogy of the increasing gap between science and the public, in «Public Understanding of Science», 10, 2001, pp. 99-113.
[24] Ibid., cit., 104.
[25] Ibid., p. 108.
[26] Franklin, 1997. Il testo è disponibile sul web all’indirizzo
http://www.physics.utah.edu/~detar/phys4910/readings/fundamentals/franklin_endsci.htm/.
[27] http://www.wcsj2009.org/.
[28] http://www.nature.com/news/specials/sciencejournalism/index.html#editorials.
[29] A. Papuzzi, Professione giornalista. Tecniche e regole di un mestiere, Donzelli, Roma 2003, pp. 87-104.
[30] L’impact factor o fattore d’impatto è un parametro usato per la valutazione del livello della produzione scientifica. Serve per categorizzare e comparare le riviste specialistiche.