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Ecologia e nuove biologie: una svolta verso la cooperazione

Autore


Fabiana Gambardella

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Le Lindisfarne Conferences: biologie a confronto  
  2. Adattamento: logica prescrittiva vs logica proscrittiva

  3. Visione sistemica e antropo-decentrismo

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S&F_n. 02_2009


Quale struttura connette

il granchio con l’aragosta,

l’orchidea con la primula

e tutti e quattro con me?

(G. Bateson, Mente e Natura. Un’unità necessaria)

 1. Le Lindisfarne Conferences: biologie a confronto

Nell’epoca della tecnica totalmente dispiegata, epoca in cui il paesaggio abitato dall’uomo è oggetto di continue manipolazioni, in cui naturale e artificiale si mescolano rendendo sempre più imprecisi i confini tra ciò che genera spontaneamente e ciò che dall’uomo è fabbricato, e dove catastrofisti e ottimisti si dividono il campo della riflessione circa i rischi e le potenzialità dell’intervento antropico sull’ambiente, è necessario probabilmente ripensare la storia della natura e la natura della storia individuando la struttura che connette  tutte le creature viventi. 

Sono passati più di vent’anni da quando un gruppo di studiosi di diversa provenienza, nell’ambito di una serie di incontri, le Lindisfarne Conferences, tentavano di trasformare il metodo e gli obiettivi delle scienze biologiche.

Per comprendere meglio il clima culturale nel cui ambito questi ricercatori provarono a formulare proposte su nuovi modi di abitare il pianeta, ci viene incontro un testo curato da W. I. Thompson, Ecologia e autonomia. La nuova biologia: implicazioni epistemologiche e politiche, (tr. it. di L. Maldacea, Feltrinelli, Milano 1988, pp. 216).

Il testo propone i loro interventi nell’ambito del Convegno annuale dei Lindisfarne Fellows, svoltosi nel 1987 e una sintesi dei loro percorsi speculativi; autori come Bateson, Maturana, Varela, Atlan, Lovelock e Margulis, provano a ridefinire parole chiave come natura, vita, evoluzione, ecologia, complessità. 

Nell’ambito della presentazione italiana al saggio, Mauro Ceruti viene in aiuto del lettore spiegando la differenza tra biologia tradizionale e nuova biologia:  la prima guarda alla fisica come modello di riferimento e tenta di spiegare i fenomeni in termini di «leggi generali e invarianti» (p. 13), per cui il criterio di scientificità è dato dalla formalizzazione e quantificazione del dato; la seconda, al contrario, tenta una rivalutazione «delle narrazioni storiche», convinta che la fisica abbia poco da dire «sulle scienze evolutive e comportamentali» (p. 14). Il concetto tradizionale di evoluzione inteso come «processo di ottimizzazione dell’adattamento di un sistema al suo ambiente» (p. 22), si trasforma nell’idea di coevoluzione: basata sui criteri di autonomia e di chiusura organizzativa dei sistemi viventi, questa idea intende l’evoluzione come «storia delle interazioni fra gli organismi e l’ambiente e […] storia della reciproca compatibilità che si sviluppa e che viene meno fra di essi» (p. 22); in questo modo la nozione di causa, per cui l’ambiente è causa degli eventuali mutamenti delle strutture biologiche, viene sostituita da quella di vincolo, secondo cui l’adattamento è la «risposta attiva dell’organismo ai vincoli posti dall’ambiente, l’espressione della capacità dell’organismo di sopravvivere e di costruire all’interno di questi vincoli» (p. 23). Una visione della multiformità sistemico-relazionale sostituisce dunque il riduzionismo deterministico.

I vari contributi presenti nel testo scrutano il vivente sia nei termini della sua individualità, sia come sistema, lungo quel continuum che lega inestricabilmente organismo e ambiente come entità che si co-costituiscono determinandosi reciprocamente, mai come entità separate.

Gregory Bateson afferma che «nella descrizione dei sistemi lineari di causalità […] la logica appare come uno strumento della massima eleganza. Non è mai stato chiaro, invece, se essa poteva essere utilizzata anche per descrivere configurazioni ed eventi biologici» (p. 60); impossibile per l’autore servirsi di questa logica per descrivere i sistemi viventi – causali, circolari e ricorsivi – che generano paradossi. In base alla struttura che connette, «l’epistemologia, le teorie della mente  e le teorie dell’evoluzione [sono] pressoché la stessa cosa» (p. 56). 

Secondo Humberto Maturana la vita si presenta in prima istanza come cognizione: vivere è conoscere; già questa affermazione può risultare problematica, se per conoscenza si voglia intendere quella modalità di apprendimento superiore, appannaggio degli organismi dotati di sistema nervoso. La cognizione viene intesa al contrario come «condotta adeguata» (p. 80); i sistemi viventi, anche quelli più semplici, sono allora sistemi cognitivi, poiché sviluppano la conoscenza come condotta adeguata al mantenimento della propria organizzazione, cioè di quell’insieme invariante  di relazioni che determinano l’appartenenza di un organismo a una particolare classe. In accordo con Bateson, la scienza, come metodo di percezione […] non prova, esplora[1],poiché tutto ciò che è detto è detto da un osservatore: le stesse teorie scientifiche che l’uomo elabora, lungi dall’essere specchio trasparente del reale, costituiscono condotte adeguate, rappresentano cioè quell’insieme di coerenze operative che consentano al vivente-uomo di mantenere intatta la propria peculiare organizzazione entro il dominio ricorsivo del linguaggio che è la sua specifica dimensione di vita, giacché nulla esiste prima di essere distinto[2].

2. Adattamento: logica prescrittiva vs. logica proscrittiva

Si tratta allora, come sostenuto da Francisco Varela nell’ambito del suo contributo, di andare oltre il dualismo di matrice cartesiana che ha permeato la nostra tradizione, «per dare corpo a un mondo di non distanza per reciproca interdefinizione» (p. 64). Secondo Varela in effetti «la possibilità di sopravvivere con dignità su questo pianeta dipende dall’acquisizione di una nuova mente» (pp. 64-65). È qui allora che prendono vita una nuova epistemologia e una nuova biologia. Se la vecchia biologia si occupava di unità eteronome correlate al mondo mediante la logica della corrispondenza, la nuova biologia studia le unità autonome «che operano mediante la logica della coerenza» (p. 65). Cosa vuol dire? L’idea di corrispondenza rimanda a quella di progetto, e questa, a sua volta, ai concetti per nulla innocenti  di teleologia e teleonomia, utilizzati spesso nell’ambito delle scienze del vivente. E in effetti come sostiene Henri Atlan un implicito finalismo è presente nella maggioranza dei discorsi biologici[3]. Le scienze biologiche in effetti hanno tentato di dissimulare la tendenza al finalismo, attraverso il passaggio dal concetto di teleologia a quello di teleonomia: se il primo rinvia a delle cause finali a cui i fenomeni sarebbero orientati – l’organismo tende alla realizzazione di una forma che compare alla fine di uno specifico processo – il principio di teleonomia dissimula abilmente il finalismo, spostando l’accento dalla causa finale all’idea di “programma”; il fine allora è spostato all’inizio: il codice genetico sarebbe ad esempio il programma attraverso il quale si sviluppa un organismo. L’idea del progetto rimane intatta, che la si ponga all’inizio o alla fine di un percorso. E l’idea di progetto è ancora umana troppo umana, rappresenta quell’in vista di, che resta retaggio di una visione delle cose antropocentrata ed è, direbbe Maturana, un’ asserzione dell’osservatore, non qualcosa che esiste nella realtà[4]. Inoltre, come sostiene Atlan all’interno del suo contributo, l’idea di un fine «implica l’impossibilità di novità,l’impossibilità di imprevedibilità, e, in ultima analisi, la negazione del tempo, perché il futuro è determinato da un piano consapevole» (p. 121).

A partire da queste premesse è necessario modificare il proprio punto di vista in merito al vivente, considerandolo non più come «un’unità istruita dall’esterno, con un ambiente indipendente legato a un osservatore privilegiato», bensì come «un’unità autonoma, con un ambiente le cui caratteristiche sono inseparabili dalla storia di accoppiamento con quell’unità, e quindi senza una prospettiva privilegiata» (p. 68).

In relazione a questo cambiamento di prospettiva, viene a modificarsi quella che Varela definisce come “visione classica dell’evoluzione”, il cui problema di fondo è, secondo lo studioso, quello di adattamento ottimale, che, rappresenta una legge prescrittiva (cioè che segue la logica per cui ciò che non è permesso è vietato). La selezione in effetti «non conduce necessariamente a un costante miglioramento di un carattere». L’evoluzione allora «viene molto impropriamente descritta se intesa come un processo per mezzo del quale gli organismi migliorano vieppiù il loro adattamento» (p. 71). La selezione del più adatto allora deve cedere il posto a una processualità che si muove secondo una linea proscrittiva, secondo la quale ciò che non è vietato è permesso. Se non possiamo applicare le leggi della fisica al mondo biologico, se esso è caratterizzato da un’imprevedibilità che mal si adatta a essere imbrigliata all’interno di rigidi vincoli di causa-effetto, allora il cambiamento può avvenire secondo molte vie, foriere di novità e non in relazione a un programma prestabilito che premia il più adatto: «non è questione di sopravvivenza del più idoneo, ma di sopravvivenza dell’idoneo. Il punto centrale non è l’ottimizzazione dell’adattamento, ma la conservazione dell’adattamento» (p. 71).  Considerare l’evoluzione come ottimizzazione dell’adattamento significa partire da un sistema assiologico che prevede una corretta strada da seguire: l’ambiente in questo caso fornisce gli input ai quali un buon organismo deve adattarsi, attraverso precise soluzioni, pena l’estinzione. L’ambiente perciò sancisce il fine o la fine dell’organismo. Al modello neodarwinista Varela sostituisce il modello di evoluzione per deriva naturale[5], possibile grazie alla plasticità e all’autonomia dei sistemi viventi, per cui «molti percorsi di cambiamento sono teoricamente possibili e la selezione dell’uno o dell’altro di essi è un’espressione del particolare tipo di coerenza strutturale che l’unità esplica in una continua opera di accomodamento» (p. 76).

 

3. Visione sistemica e antropo-decentrismo

Il programma di antropo-decentrismo prosegue col contributo di James Lovelock che si presenta subito come «delegato sindacale del segmento non umano della biosfera» (p. 94),  con l’esplicazione dell’assai discusso modello Gaia, secondo cui è stata la vita stessa a rendere la terra adatta per la vita, poiché la terra si mantiene in uno stato favorevole alla vita grazie alla presenza degli stessi organismi viventi[6]: «la terra è una costruzione biologica […] l’ambiente costituito dalla superficie terrestre può essere considerato come un sistema dinamico, protetto contro le perturbazioni da meccanismi efficaci di retroazione» (p. 100). Se  vita e ambiente non evolvono in maniera indipendente, allora i moniti catastrofisti dei fautori dell’ambientalismo, risultano privi di senso. E lo sono in quanto profondamente antropocentrati: è vero, alterare in maniera significativa l’ambiente, può voler dire dare origine a nuove forme di adattamento, non necessariamente favorevoli alla specie uomo, il punto è che «troppo spesso viene dimenticato che il prezzo dell’identità è la mortalità. La famiglia vive più di ciascuno di noi, la tribù ancor più della famiglia, la specie più della tribù. E la vita stessa può vivere fino a quando riesce a mantenere il pianeta idoneo per se stessa» (p. 106). Se per un verso tale visione sembra detronizzare l’umano dalla sua posizione di privilegio rispetto al resto degli enti, per l’altro, considerare la terra come una sorta di “superorganismo” rischia di dar vita a un mito di antropomorfizzazione del pianeta[7]. In effetti, a prescindere da certe formulazioni, che effettivamente possono dare il destro a critiche di questo tipo, sul fatto che bisogna essere devoti a Gaia, o desiderare di pregare Gaia, il punto interessante della teoria e probabilmente il suo potenziale, risiede nel decentramento dell’anthropos, e cioè nel ragionare in termini sistemici, di orizzontalità, piuttosto che attraverso una visione gerarchica e dicotomica che scinde inevitabilmente uomo-natura, intendendo quest’ultima come inerte utilizzabile in vista di un progetto ancora e sempre tutto umano. Questa logica di cooperazione-interrelazione è sviluppata anche da Lynn Margulis, secondo cui la vita non prese il sopravvento sul globo con la lotta, ma istituendo interrelazioni[8]. La Margulis ipotizza l’origine delle cellule eucariote a partire dalla simbiosi tra alcuni tipi di microbi: «la cellula eucariotica è costituita a partire da altre cellule; è una comunità di microbi che interagiscono fra loro» (p. 117) . Alla radice del nostro essere non una «natura con denti e artigli insanguinati», bensì cooperazioni  e interazioni.

Nella seconda parte del testo Todd, Henderson e Thompson tentano, a partire da queste premesse, di elaborare delle risoluzioni pratiche al nostro abitare. John Todd auspica un nuovo ordine economico che veda l’ecologia «come base di un progetto» (p. 136) e descrive l’esempio virtuoso della fattoria di Banding, vicino Giava, un sistema agricolo totalmente ecologico, in cui la natura stessa effettua il riciclaggio. In effetti il dibattito che oppone in maniera netta catastrofisti contro ottimisti sembra essere assolutamente superato; l’errore, secondo Henderson, sta nel  ragionare ancora nei termini dicotomici di una logica dell’aut-aut. Gli opposti servono al contrario per elaborare un meta-livello di riflessione che tenga conto della complessità della società globale, trasformando anche le cattive notizie in opportunità (p. 159). La competizione allora lascia posto alla cooperazione. Secondo Thompson «il nostro pensiero politico e i nostri sistemi politici fanno riferimento al passato» e attuano di conseguenza politiche immunitarie e reazionarie di esclusione e incoraggiamento delle paure. Gli economisti per esempio preferiscono «descrivere il sistema mondiale contemporaneo in termini di nazioni stato industriali, fondate sulla territorialità, mentre l’immaginazione ci mette di fronte a un mondo che è simile a un organismo vivente, i cui organi interni sono avvolti da membrane permeabili» (p. 172). Tollerare la presenza di corpi estranei determina il rafforzamento di un organismo, laddove al contrario, quando un sistema immunitario identifica il corpo estraneo e parte all’attacco, spesso si sviluppa la malattia: «i corpi estranei possono essere virus, pollini, batteri, immigranti illegali, o criminali. Ma, in ciascuno di questi casi, la negazione può essere una forma di enfasi, cioè una collusione consapevole per dare energia al sistema che attacca» (p. 172). Quello che gli autori auspicano è l’avanzare di un’economia autopoietica, cosciente che «la cooperazione ha a che fare con l’evoluzione quanto la competizione» (p. 183).

A prescindere dal radicalismo di alcune petizioni di principio, o dalla promozione di quelle che vengono descritte come facili ricette, che di facile attuazione non sono, ciò che emerge nell’ambito di questi contributi è una fondamentale svolta epistemologica e antropologica, che segna di fatto la fine del soggetto baconiano,  la fine cioè di un mondo gerarchizzato, al cui vertice sta l’uomo come costruttore di un mondo e di una natura intesa meramente come utilizzabile in vista di un progetto. La nuova biologia prevede l’ibridazione, la contaminazione e la co-evoluzione di entità che fanno sistema, dove la coniugazione, abbassando il livello di proiezione antropomorfa sul mondo, avvicina il conoscitore al conosciuto[9].


[1] G. Bateson, Mente e natura. Un’unità necessaria (1979), tr. it. Adelphi, Milano 1984,  p. 47.

[2] H. Maturana, Autocoscienza e realtà (1990), Raffaello Cortina Editore, Milano 1997, p. 109.

[3] A tal proposito cfr. H. Atlan, Tra il cristallo e il fumo. Saggio sull’organizzazione del vivente (1979), tr. it. Hopefulmonster, Firenze 1986, p. 22.

[4] Sulla descrizione dei sistemi viventi come sistemi privi di scopo, e sulla critica ai concetti di teleologia e teleonomia cfr. H. Maturana, F. Varela, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente (1980), tr. it., Marsilio, Venezia 1985: “Il possesso di un progetto o programma nell’organizzazione dei sistemi viventi, che è stato chiamato teleonomia […] è frequentemente considerato come un aspetto definitorio e necessario per la loro caratterizzazione. Scopo o fine, tuttavia […] appartengono al dominio delle descrizioni […] Questo fine necessariamente sta nel dominio dell’osservatore che definisce il contesto e stabilisce i nessi”, cit., p. 140.

[5] Il concetto di deriva naturale è già sviluppato insieme a Maturana ne L’albero della conoscenza (1984), tr. it. Garzanti, Milano 1992.

[6] J. Lovelock, Gaia: nuove idee sull’ecologia (1989), tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1981, p. 29.

[7] Per una critica  alla teoria di Gaia, interpretata come nuovo mito cfr., R. Bondì, Blu come un’arancia. Gaia tra mito e scienza, Utet, Torino 2006; cfr. inoltre C. Fuschetto, Gaia: l’ipotesi, la teoria, l’idolo, in «Micron», V, n. 9, Maggio 2008, pp. 8-13.

[8] Cfr. L. Margulis, D. Sagan, Microcosmo: dagli organismi primordiali all’uomo  (1987), tr. it., Mondadori, Milano 1989, p. 4.

[9] R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 67.

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