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Indice
- Da spettatore a naufrago
- «Sfere» antropotecniche in risposta a missive antropologetiche
- Una nuova episteme
S&F_n. 01_2009
- Da spettatore a naufrago
Darwin, come Einstein, trova una formula di convertibilità della materia in energia: realizzare, come lui ha realizzato, una genealogia integralmente materialistica della mente e della morale equivale né più né meno che a tradurre la materialità del biologico nell’immaterialità dello spirituale. Roba da cibernetici! Darwin, più di Einstein, reinventa la nostra percezione del mondo: indipendentemente dall’effettiva portata di una rivoluzione scientifica, quella compiuta dal naturalista è infatti per forza di cose più tangibile di quella compiuta dal fisico. A differenza del fisico il naturalista descrive e interpreta un livello di realtà che rinvia alla natura dell’uomo con più nettezza della cosmologia. Sarà una semplice questione di percezione di distanze, ma parlare del posto dell’uomo nel cosmo suona inevitabilmente un po’ più astratto che non parlare del posto dell’uomo nella natura. Se solo gli fosse capitato di nascere nel XIX invece che nel XVI secolo sono certo che anche il cardinale Bellarmino ne sarebbe rimasto persuaso. Detto in altri termini, Darwin reinventa la nostra percezione del mondo non soltanto perché ci spiega che il mondo che abitiamo è retto da leggi interamente consegnate all’imprevedibilità del tempo[1], ma anche e soprattutto perché ci suggerisce che gli abitatori di questo mondo sono essi stessi «fabbricati»[2] dal tempo. È grazie all’incontenibile potenza della dimensione diacronica che la variazione e la selezione possono fabbricare nuove forme di organismi, è «il tempo – osserva Darwin – che permette la fissazione d'un carattere nuovo […]»[3], cioè è il tempo la fucina in cui la selezione naturale forgia i suoi artefatti.
Si tratta di prospettive a dir poco stranianti e, per quanto avvezzi alla “liquidità” del post-moderno, credo non sia così difficile percepire lo spaesamento di chi, da ospite di uno spazio armonioso, scopre suo malgrado di non essere altro che un “abitatore del tempo”; di chi, da proiezione di un immutabile modello archetipico, scopre suo malgrado d’essere nient’altro che un prodotto di un processo tanto pervasivo quanto aprogettuale. Non c’è che dire, nelle pagine di un naturalista ritiratosi nella campagna del Kent può nascondersi la stessa carica dinamitarda di un “filosofo col martello”. Parafrasando, ma non troppo, la metafora lucreziana resa celebre da Blumenberg[4], si può dire che con Darwin l’uomo scopre d’un colpo che tra sé e il naufragio cui da sempre assiste con fascino e tribolazione non c’è più alcun margine di sicurezza. Densità della carne e impalpabilità dell’anima si accoppiano come mai prima s’era azzardato di pensare, diventano il medesimo frutto di una natura naturans spudoratamente immune a ogni soluzione di continuità. È su questa strada che la biologia, in misura sconosciuta alla cosmologia, può diventare il terreno di coltura entro cui far maturare un’antropologia rinnovata.
- «Sfere» antropotecniche in risposta a missive antropologetiche
Tra bíos e anthropos si istituisce, pertanto, una relazione immediata e, da Darwin in poi, non c’è discorso sull’uomo che potrà fingere di non tenerne conto, fosse pure solo per continuare a marcare delle differenze. Heidegger, tanto per fare un nome piuttosto significativo, ne è testimone. «Siamo in generale sulla via giusta – si domanda il filosofo tedesco ne la sua celebre Lettera sull’“umanismo” – per determinare l’essenza dell’uomo se e finché consideriamo l’uomo come un essere vivente tra gli altri, che si distingue rispetto ai vegetali, agli animali e a Dio?». «Si può certo procedere così», riconosce Heidegger, in questo modo potranno persino farsi «corrette asserzioni sull’uomo», ma si deve tenere ben chiaro che su questa strada si finisce sempre col cacciare l’uomo «nell’ambito essenziale dell’animalitas»: «in linea di principio si pensa sempre all’homo animalis anche quando l’anima è posta come animus sive mens, e quest’ultima più tardi come soggetto, come persona, come spirito. Questo modo di porre è il modo tipico della metafisica»[5].
Ma le cose stanno davvero così? O forse, per una sorta di contrappasso filosofico, Heidegger cade qui nello stesso “errore” che egli ha additato a gran parte del pensiero occidentale, da Platone a Nietzsche? Non è forse metafisico il modo di porre heideggeriano, così attento a distinguere in modo essenziale tra il piano del bíos e quello dell’anthropos? Assicurare all’uomo un decisivo distanziamento dagli «ontici» domini della natura in direzione delle insondabili regioni dell’Essere, questa è alla fin fine la trama, così poco eterodossa, dell’«umanismo» di Heidegger. Non stupisce affatto allora, né potrebbe stupire, se poi gli risulta assolutamente inconcepibile cogliere le specificità dell’esserci a partire dalla sua continuità con il vivente «in quanto tale». L’uomo è sì un vivente, sostiene Heidegger, ma non è né partendo dalla vita né dalle sue evoluzioni che dell’uomo potrà comprendersi l’essenza. Giocando un po’ con le definizioni si potrebbe definire l’antropologia heideggeriana (molto probabilmente, considerata la sua idiosincrasia per la disciplina, il filosofo di Messkirch si starà rivoltando nella tomba) un’onto-antropologia anti-biologistica. Ma, come sappiamo, la lezione darwiniana ci ha indirizzato su un’altra strada. E se è vero, come è vero, che il darwinismo può assumersi come una sineddoche del moderno sapere biologico, è quest’ultimo e non solo il darwinismo a indirizzarci su una strada diversa dai “sentieri interrotti” frequentati dal maestro tedesco.
Facendo il punto sul portato di un’antropologia conseguentemente post-darwiniana e in risposta all’opzione irrimediabilmente metafisica di Heidegger, che come si è accennato dà per presupposto ciò che invece deve essere spiegato, vale a dire la situazione ex-sistenziale dell’esserci (ovvero la sua fuoriuscita dallo stato di natura in direzione del mondo), Peter Sloterdijk, sicuramente tra le voci più intriganti della filosofia contemporanea, ribadisce invece che l’uomo, con tutto il suo corteggio di ex-staticità, deve essere pensato a partire dal bíos e non dall’Essere, va cioè spiegato come un «prodotto di forze creatrici che, secondo il loro rango ontologico si trovano a un livello più basso del risultato»[6]. Queste forze, dice Sloterdijk, coincidono con un «meccanismo di de-animalizzazione» che, liberando la scimmia preumana dal suo ambiente preumano, la conducono verso quello che diventerà l’esserci nel mondo[7]. De-animalizzazione o, se si preferisce, umanizzazione, a ogni modo è un processo genealogico quello che rende conto dell’uomo, un processo in fin dei conti in tutto e per tutto di domesticazione: «Il divenire uomo» va rappresentato come un «dramma della domesticazione nel senso più radicale del termine»[8]. La «versione ontologica del romanzo genealogico deve guardare al divenire uomo dei preominidi»[9] ed è in questo divenire che il preuomo subisce questa domesticazione de-animalizzante. Il particolare che sembra sfuggire al mittente de la Lettera su l’«umanismo» è che prima dell’esserci deve esserci necessariamente stato un pre-esserci non ancora in dialogo con l’Essere ma che, ciononostante, ha pur cominciato a sussurrargli qualcosa. Ma come avviene questa domesticazione? Per rispondere a questo interrogativo è bene porsi su di un piano spaziale e chiedersi, piuttosto, dove essa avvenga:
Se insistiamo a pensare l’uomo come un prodotto e a non presupporlo in alcun modo, allora siamo obbligati a prendere sul serio il luogo della sua produzione; quelle situazioni cioè che contemporaneamente devono aver dato luogo sia ai mezzi che ai rapporti di produzione del divenire umano[10].
Sloterdijk a questo punto rielabora uno dei topoi, è il caso di dirlo, della sua produzione intellettuale, e per rendere il senso di quello che è stato un vero e proprio effetto di incubazione esercitato sull’animale preumano fa ricorso alla nozione di «sfera»[11]. La sfera è il concetto che Sloterdijk adopera per rendere un insieme di meccanismi che, nel loro complesso, danno vita a dei processi di retroazione in grado di costruire intorno all’uomo – intorno ai primi ominidi come intorno all’homo technologicus – una rete in qualche modo definibile come abitativa. È attraverso questa sfera, anzi, è in questa sfera, che l’animale preumano può prepararsi a passare dalla chiusura del vivere-in-un-ambiente all’apertura dell’essere-nel-mondo.
Con il concetto di sfera viene coperto il vuoto che si spalanca tra il concetto di ambiente e il concetto di mondo, vuoto fino a oggi ampiamente trascurato dalle teorie dello spazio. [Tra i due] dobbiamo ammettere che c’è una condizione-di-mondo-mediana, o un fra, che non è né un’inclusione nella gabbia dell’ambiente, e neppure il terrore più puro del trovarsi nell’indeterminato[12].
La sfera è, in altri termini, la condizione naturale di un processo di culturizzazione, un «fra» per troppo rimosso dall’antropologetica.
- Una nuova episteme
Con buona pace di tutti i sedicenti umanisti più o meno devoti, Sloterdijk ci ricorda che Darwin arriva a pensare che l’«umanità dell’uomo» possa e debba essere colta nella sua specificità proprio per mezzo della natura, e ciò senza l’aiuto di nessun “salto ontologico” o “appello dell’Essere”. Per usare l’efficace metafora di Edgar Morin, si può dire che dopo secoli di «antropologia insulare», Darwin riesce finalmente a fissare le coordinate di un’«antropologia peninsulare»[13], vale a dire di un’antropologia scevra dagli sterili narcisismi di discorsi sull’uomo ieri come oggi costruiti al fine di fortificare la solitudine ontologica di quest’angelo caduto.
Ma Darwin fa anche qualcosa di più. Con Darwin non si tratta soltanto di riconoscere le specificità dell’uomo nella continuità della serie animale, di ammettere l’esistenza di una «materia della mente»[14] o di derubricare le differenze di genere a differenze di grado; con Darwin, piuttosto, si tratta di far esplodere l‘impianto concettuale entro cui tutte queste distinzioni diventano effettivamente pensabili. Darwin elabora una teoria della vita che non solo riconosce la medesima ontologia sia all’uomo sia all’animale, ma che pone le premesse anche per una rivisitazione di distinzioni apparentemente categoriche, come quelle tra dato e prodotto, natura e artificio. Elaborata sul modello della selezione artificiale, la selezione naturale può infatti essere considerata come una sorta di commutatore di piani di conoscenza, per cui il dato naturale diventa interpretabile a partire da quello artificiale e viceversa. Su questo punto Pietro Omodeo ha giustamente osservato che in Darwin
Il rapporto tra selezione artificiale e selezione naturale acquista una fisionomia precisa: esso non viene veduto come una banale analogia, e nemmeno come una metafora, ma come specchio di un’autentica corrispondenza di effetti dovuti a processi corrispondenti. […] Cambia l’agente selettore, ma i processi rimangono eguali[15].
In altre parole, Darwin legittima la commensurabilità tra due dimensioni dell’essere fin lì ritenute pressoché incommensurabili, quella della natura e quella dell’artificio, e lo fa grazie a una mossa da prestigiatore: dapprima naturalizza un processo meramente artificiale come la selezione e poi, proprio in virtù di questa inedita naturalizzazione, artificializza quel che di più naturale non si potrebbe. Nell’ottica darwiniana, infatti, ogni organismo, dall’infusore al sapiens, è interpretabile come l’esito di una specifica attività selettiva, ovvero come l’artefatto di un caratteristico processo senza soggetto. Non più enti semplicemente dati o compiutamente creati, ma enti naturalmente prodotti, questo è il problematico lascito dell’universo darwiniano. Da un certo punto di vista si può certamente dire che Darwin è stato l’inventore di una grammatica biotecnologica del vivente.
Da un rapido confronto con il concetto di «ecotecnia» elaborato da Jean-Luc Nancy può forse rendere più chiaro il cambio di episteme cui qui si sta facendo riferimento. Con il termine «ecotecnia» Nancy vuol rendere il fatto per cui la vita è ormai radicata in un insieme di condizioni tecniche:
La vita naturale - che si tratti della sua produzione o della sua conservazione, dei suoi bisogni o delle sue rappresentazioni, e che si tratti poi di vita umana, animale, vegetale o virale - è ormai inseparabile da tutto un insieme di condizioni che definiamo “tecniche” […][16].
Se Nancy ci invita oggi a considerare, giustamente, che la vita «è ormai inseparabile da tutto un insieme di condizioni che definiamo “tecniche” […]», Darwin, a mio modo di vedere, ci ha da tempo invitato a fare qualcosa di più, e cioè a prendere atto del dato per cui prima ancora della possibilità fattuale di una ibridazione tra tecnica e vita, è possibile ipotizzare un’ibridazione concettuale tra queste due (così distanti?) dimensioni dell’essere, ovvero ci ha invitato a pensare il dato naturale come tale, già di per sé, entro la dimensione biotecnologia della produzione. Nel caso dell’artificializzazione darwiniana del vivente siamo cioè di fronte a un’ibridazione tra vita e artificio che, differentemente da quella segnalata da Nancy, non consegue al dato di fatto per cui tra bíos, zoè e techne[17] non c’è più alcuna sostanziale differenza, ma consegue al cambiamento epistemologico in base a cui la «vita naturale» diventa pensabile.
Tanto per fare un esempio, Darwin conosce la natura “naturale” attraverso lo studio di quella “addomesticata”. Si tratta di un’operazione metodologica per niente scontata, tanto che il co-scopritore della teoria della selezione naturale, Alfred Russel Wallace, giudica semplicemente irricevibile questa analogia:
Gli animali domestici sono anormali, irregolari, artificiali, sono soggetti a variazioni che non si verificano mai, e mai si potranno verificare in natura; […] molti di essi sono lontanissimi da quella giusta proporzione fra le varie facoltà, da quel vero equilibrio organico che è l’unica cosa che permette a un animale, lasciato a se stesso, di sopravvivere e di perpetuare la propria razza[18].
Gli animali domestici sono «artificiali», osserva Wallace, e in virtù di questa loro artificialità non possono, né mai potranno, costituire dei modelli da cui inferire processi genealogici validi anche per gli animali selvatici, ossia «naturali». «I due gruppi sono talmente opposti l’uno all’altro in qualunque aspetto della loro esistenza, che ciò che vale per il primo è quasi certo che non vale per il secondo»[19]. Diametralmente opposte a quelle di Wallace sono le conclusioni di Darwin, secondo cui l’artificialità degli animali domestici non rappresenta alcun impedimento alla comprensione della naturalità degli animali selvatici. L’autore de l’Origine, infatti, rovescia completamente il ragionamento di Wallace e mostra che le genealogie osservabili allo stato domestico ricalcano fedelmente quelle che si producono anche allo stato naturale. A suo giudizio tra gli animali artificiali e quelli naturali sussiste la medesima ontologia: bíos, zoè e techne tracciano regioni ontologicamente affini.
Al di là della polemica mediatica che gira intorno all’Intelligent Design, se ancora oggi Darwin ha dei nemici è, a mio giudizio, esattamente per questo, cioè perché ha compiuto il «crimine mostruoso» di incrociare natura e artificio, di vanificare il «monopolio ontologico di natura ed essere»[20] e, su questa strada, di destituire di ogni fondamento la consolidata assiologia che vuole il naturale più vero e, dunque, più buono dell’artificiale.
[1] A dispetto del nome fino a Darwin la “storia naturale”, di storico, ha ben poco. Cfr. E. Mayr, L’unicità della biologia. Sull’autonomia di una disciplina scientifica (2005), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2005. Ernst Mayr ha significativamente messo in luce come la fondazione darwiniana della biologia l’abbia sostanzialmente trasformata in una «scienza della storia». Robert Pollack, a sua volta, parla dell’acquisizione di un «paradigma storico» per la biologia: R. Pollack, I segni della vita. Il significato del DNA (1992), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 162.
[2] Smentendo la sua proverbiale cautela, Darwin intreccia nozioni apparentemente incommensurabili e produce accostamenti quasi cacofonici per le orecchie dei suoi contemporanei, parlando esplicitamente di «fabbricazione» di razze e di specie. Cfr. C. Darwin, L’Origine delle specie (1859), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1967, pp. 101- 126.
[3] Ibid., p. 507.
[4] Il riferimento è, ovviamente, a H. Blumenberg, Naufragio con spettatore: paradigma di una metafora dell’esistenza (1979), tr. it. Il Mulino, Bologna 1985. Il passo di Lucrezio è il seguente: «Bello, quando sul mare si scontrano i venti/ E la cupa vastità delle acque si turba,/ guardare da terra il naufragio lontano: /non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina, /ma la distanza da una simile sorte», De rerum natura, II, 1-43.
[5] M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo» (1947), tr. it. Adelphi, Milano 1995, pp. 45-46.
[6] Ibid., p. 126.
[7] Sulla scorta dei celebri studi di Jacob Von Uexküll, Heidegger, come è noto, analizza tali concetti nei seminari del semestre ’29-’30, cfr. Concetti fondamentali della metafisica. Mondo - finitezza – solitudine (1983), tr. it. il Melangolo, Genova 1992, p. 232.
[8] P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung, in Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (2001), tr. it. Bompiani, Milano 2004, p. 126.
[9] Ibid., p. 123.
[10] Ibid., p. 138.
[11] Sloterdijk tenta di elaborare una visione generale della storia umana e, in particolare, della condizione moderna attraverso il concetto di sfericità. L'opera è concepita come una trilogia: P. Sloterdijk, Sphären I – Blasen, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1998; Id., Sphären II – Globen, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1999; Id., Sphären III - Schäume, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 2004. Meltemi ha appena pubblicato in italiano il primo volume della trilogia: Id., Sfere I. Bolle, tr. it. Meltemi, Roma 2008.
[12] P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung, cit., p. 137.
[13] Cfr. E. Morin, Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana? (1973), tr. it. Feltrinelli, Milano 2001, pp. 18-20.
[14] Cfr. G. Edelman, Sulla materia della mente (1992), tr. it. Adelphi, Milano 1993.
[15] P. Omodeo, Ereditarietà e selezione nei programmi di Charles Darwin, in S. Forestiero e M. Stanzione, Selezione e Selezionismi, Franco Angeli, Milano 2008, p. 36 (corsivo mio).
[16] J. L. Nancy, La creazione del mondo, o la mondializzazione (2002), tr. it. Einaudi, Torino 2003, p. 91.
[17] Ibid.
[18] A. R. Wallace, On the Tendency of Varieties to depart indefinitely from the Original Type, in C. Darwin and A. R. Wallace, On the tendency of species to form varieties; and on the perpetuation of varieties and species by natural means of selection [Read 1 July], in «Journal of the Proceedings of the Linnean Society of London», Zoology 3 (1858), p. 61.
[19] Ibid.
[20] P. Sloterdijk, L’ora del crimine mostruoso. Per una giustificazione filosofica dell’artificiale, in Non siamo ancora stati salvati., cit., p. 308.