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Dal mito dell’eterno ritorno all’apocalittica ebraico-cristiana: Essere e Tempo all’alba e al tramonto dell’Occidente

Autore


Ciro Incoronato

Dottorando di ricerca in Scienze Filosofiche all’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Apocalypse...
  2. ...The Prequel
  3. ...The old Greek fiction
  4. ...Apocalypse now?

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S&F_n. 08_2012

Abstract



This paper intends to analyze the concept of “Time” that marks the history of Western Metaphysics from the “archaic ontology” to Kostas Axelos, a Greek contemporary philosopher. Following an inner analysis of Western Metaphysics,  Axelos comes to a “glossy” sense of Being. A “glossy” sense, based on which man must plunge into the “becoming river” and give up any aspirations to civil and political change.


  1. Apocalypse...

Persa in via quasi definitiva la speranza di una palingenesi politica in grado di superare le intrinseche contraddizioni dell’iniquo sistema capitalistico, troppo spesso disorientato di fronte alle continue trasformazioni di una tecnologia fantascientifica, impaurito dall’arrivo di “nuovi barbari” che vengono annunciati con sempre maggiore frequenza, pronto a saziare la propria sete alla fonte di predicatori televisivi e sedicenti maghi dai poteri paranormali, l’uomo occidentale vive ogni giorno su di sé le contraddizioni di un presente misero e insicuro, un presente nel quale mettono profonde radici messaggi che profetizzano, in maniera differente, la deflagrazione di una civiltà allo sbando e – non sempre - la nascita, l’ennesima, di un nuovo ordine dal caos eterno. L’attesa, a volte spasmodica, di una “rivelazione” rigenerante o in grado di desertificare il pianeta Terra tramite una catastrofe ecologica abita l’immaginario collettivo, dalla cinematografia alla pittura, dalla letteratura al teatro. Interrogarsi sull’eziologia di questo fenomeno significa chiamare in causa le strutture portanti della metafisica, scandagliarle con attenzione per farne emergere le principali peculiarità.

 

  1. ...The Prequel

La storia della filosofia occidentale, in qualsiasi modo la si interpreti, risulta strettamente legata alla storia della ricezione dell’Essere. Sia che la si intenda, heideggerianamente, come la storia dell’oblio dell’essere, del suo senso autentico e originario, sia che la si intenda, seguendo, ad esempio, l’opera di Emanuele Severino[1], come il luogo dell’occultamento del fatto che l’Essere in quanto immutabile si costituisce come e in una dimensione diversa da sé in quanto diveniente, al centro del discorso filosofico vi è sempre, e non può non esservi, la vexata quaestio del significato dell’ens qua ens, dell’ente in quanto ente. Va, al tempo stesso, sottolineato che da sempre l’Essere ha avuto un rapporto particolare, intimo con il Tempo e la Storia, tanto che ad ogni particolare concezione dell’Essere si è sempre accompagnata una precisa e conseguente visione del Tempo e della Storia stessa. Questa relazione a tre Essere-Tempo-Storia informa di sé il percorso che l’uomo ha compiuto sin dall’antichità, sicché, per affrontarlo adeguatamente, occorre partire da quelle che Mircea Eliade ne Il mito dell’Eterno Ritorno ha definito ontologie arcaiche, cioè ai primi sistematici e problematici approcci alla Triade di cui sopra.

Sorvolando sull’imponente massa di dati che lo storico delle religioni rumeno raccoglie circa le cosmogonie delle popolazioni asiatiche, africane e oceaniche, che, in quanto tali, esulano dalla presente trattazione, si può osservare che l’obiettivo dell’opera è quello di mettere in risalto le caratteristiche della relazione che l’uomo delle società premoderne ha intrattenuto con la storia, laddove per società premoderne - o tradizionali - si deve intendere sia il mondo che di solito viene chiamato primitivo sia l’insieme delle culture pregiudaiche e precristiane:

La differenza principale tra l’uomo delle società arcaiche e tradizionali e l’uomo delle società moderne, fortemente segnato dal giudeo-cristianesimo, consiste nel fatto che il primo si sente solidale con il cosmo e con i ritmi cosmici, mentre il secondo si considera solidale solamente con la storia. Certamente anche per l’uomo delle società arcaiche il cosmo ha una storia, se non altro perché il cosmo è la creazione degli dei e si ritiene sia stato organizzato da Esseri soprannaturali o eroi mitici. Ma questa storia del cosmo e della società umana è una storia sacra, conservata e trasmessa dai miti; anzi, è una storia indefinitamente ripetibile, nel senso che i miti servono da modelli a cerimonie che riattualizzano periodicamente gli avvenimenti grandiosi accaduti agli inizi del tempo[2].

Da ciò si deduce che per l’uomo arcaico le varie azioni della vita quotidiana sono scandite da veri e propri riti, aventi come obiettivo quello di far sì che ogni attività entri a pieno titolo in un tempo – e quindi in una storia – sacro e non profano. Il lavoro dei campi, la celebrazione dell’arrivo di una nuova stagione, la costruzione di una casa o di un luogo di culto, il mangiare e il bere, la sessualità e la caccia, tutto deve essere fatto in maniera scrupolosa seguendo un copione preciso, per così dire, e avendo come paradigma, come “archetipo”, quello che è stato compiuto dagli antenati, dagli dei o da eroi mitici. Solo in questo modo si può allontanare il terrore della storia e abitare un cosmo perfetto, rigidamente organizzato, caratterizzato dal meccanismo temporale dell’eterna ripetizione. Non c’è un inizio preciso del tempo, al massimo si può parlare di un “tempo originario” che è fondamentalmente un tempo mitico, un non-tempo, che spande intorno a sé l’aroma dell’eternità.

L’uomo arcaico, insomma, vive in un cosmo eterno, nel quale il tempo ha un valore tale che «viene registrato soltanto biologicamente, senza che gli si permetta di trasformarsi in “storia”, cioè senza che la sua azione corrosiva possa esercitarsi sulla coscienza per mezzo della rivelazione della irreversibilità degli avvenimenti»[3]. Il terrore della storia, dunque, è il terrore dell’irreversibilità degli eventi, il terrore di un divenire che non può ritornare ad essere: il tentativo disperato dell’uomo arcaico di ricacciare continuamente nelle tenebre questo terribile demone è la spia luminosa del fatto che, per proiettarsi nel futuro, egli abbia bisogno della rassicurazione che, anche nel futuro destinato all’interno di una concezione ciclica del tempo a diventare passato, continuerà ad essere, e che il suo operare non è fine a se stesso. Il mito dell’eterno ritorno del tempo è, per questa ragione, funzionale al conferimento di un senso – ma si potrebbe dire anche di un ordine - forte all’esistenza, un senso col quale l’uomo di quel tempo riesce a colmare quel vuoto che vede dietro e avanti a sé, che lo opprime minacciando di annegarlo nel nulla. Ma, ed è questo che interessa particolarmente, anche l’uomo arcaico non può vivere sempre e comunque nel “paradiso degli archetipi”, in una dimensione sacra fatta di rituali che curano ogni aspetto della sua quotidianità, del suo “tempo”: anch’egli, cioè, sebbene in una forma e in una intensità differenti rispetto all’uomo moderno, è costretto a registrare la storia, a considerare gli eventi passati come non più presenti e in quanto tali a vederli come fonte di inquietudine. Ragion per cui anche presso le società tradizionali si avverte il bisogno di una periodica rigenerazione catartica del tempo, la necessità, cioè, di scrollarsi di dosso l’immane peso di un passato ingombrante e ricominciare dal principio. Ciò può avvenire in modalità differenti, ma il fine è sempre lo stesso: fare in modo che l’esistenza, depuratasi dal male tramite sacrifici, riti propiziatori, possa sempre essere inscritta in un cosmo, che col tempo e la storia profani non abbia nulla a che fare. La rigenerazione del tempo o, per meglio dire, la rivelazione di un nuovo tempo comporta una dialettica particolare tra velamento e svelamento, nella misura in cui, per portare alla luce e quindi iniziare una nuova vita, bisogna preliminarmente ricacciare nelle tenebre la vita corrotta, decaduta; solo dopo aver fatto ciò, solo dopo questo processo di purificazione, si ha la rivelazione, che, in quanto ri-velazione, è, appunto, un velare di nuovo, un nascondere che solo rende possibile uno svelamento.

  1. ...The old Greek fiction

Come cambia questa situazione agli albori del pensiero occidentale, cioè a partire da quei pensatori erroneamente definiti “naturalisti”? Come cambia cioè la concezione del tempo con la nascita della filosofia, con l’emergere progressivo di un nuovo modo, non più semplicemente mitico e religioso in senso lato, di intendere la realtà e di mettere ordine in essa? Si può parlare, in qualche modo, di un nuovo “inizio”? Anzitutto va detto che si deve sgombrare il campo da quell’inveterato vizio storiografico che considera la nascita della filosofia come il frutto del passaggio meccanico dall’universo del mito a quello del logos. Se passaggio vi è, esso è certamente tale che del cosiddetto “universo mitico” restano peculiarità anche in quei pensatori, considerati maggiori come Platone, che, pur essendo considerati i principi del logos e della logicizzazione dell’ente nella sua totalità, conservano strutture di pensiero tipiche della mentalità arcaica. Con Platone, difatti, e con tutti i pensatori greci fino all’avvento del Cristianesimo, a prevalere è ancora il mito, “il racconto”, dell’eterno ritorno, una concezione circolare del tempo, che però si arricchisce di elementi teoretici particolari, vero e proprio frutto di uno sforzo intenso di lavorìo concettuale su categorie provenienti dalla tradizione. Presso i Greci, come è noto, fa la sua comparsa quella parola destinata a fecondare la tradizione filosofica successiva fino ad oggi: la parola eìnai, essere. Tramite questo potente strumento si gettano le basi per un più efficace ordinamento del mondo, che culminerà, senza ombra di dubbio, nei grandi sistemi metafisici di Platone e Aristotele e che ha come obiettivo principale quello di garantire una maggiore capacità di illuminare la realtà fin nei suoi anfratti più reconditi. Ne conseguirà per l’uomo greco la possibilità di problematizzare la questione del tempo, pur tenendone fermo, come si tenterà di illustrare il carattere essenzialmente ciclico.

Anche l’uomo greco, da buon uomo “arcaico” e “tradizionale” è più che riluttante a riconoscere e a registrare il carattere irreversibile degli avvenimenti, e perciò anch’egli è un abitatore del cosmo e non della storia. Ma presso la civiltà greca, come ha ben messo in luce la studiosa Paula Philippson in molti suoi testi, non vi è un solo termine per indicare il “tempo”, bensì è possibile individuare ben quattro parole, il cui significato è ovviamente diverso. Il tempo viene, pertanto, a distinguersi in Aion, Chronos, Kairos, Eniautos. L’Aion è il tempo inteso come durata assoluta eternità, come spazio infinito o infinita estensione, mentre Chronos costituisce il tempo che procede dal passato al futuro, un tempo rettilineo numericamente scandibile, creato e destinato un giorno a venir meno, a perire. Kairos e Eniautos, costituiscono a loro volta, rispettivamente il momento culminante nell’Aion, cioè nell’Eterno, e il tempo inteso come procedere e ritornare su di sé degli eventi. In altre parole: sfuma progressivamente tutto quell’apparato di elementi mitici legati a rituali precisi e alla questione della “ripetizione” di ciò che è accaduto nel tempo mitico delle origini, ma ciò non implica che il fenomeno religioso perda d’importanza, anzi costituisce sempre l’anima della comunità. La vera novità consiste, però, nel fatto che già a partire dai cosiddetti “presocratici” sempre con maggiore forza si impone l’idea, che tanto peso in seguito avrà, dell’infinito visto come condizione del finito. Se in precedenza gli dei “che sempre sono” costituivano la garanzia prima ed ultima del tutto del cosmo e di conseguenza la condizione necessaria e sufficiente affinché gli uomini e il mondo fossero, a partire dai presocratici è in atto un processo particolare in virtù del quale per spiegare l’infinità varietà dei fenomeni mondani non si fa più riferimento in maniera esplicita – o almeno: non si fa riferimento solo - agli dei olimpici, ma piuttosto a dei concetti, derivanti da un incontro/scontro con la tradizione. Si pensi, in quest’ottica, all’àpeiron anassimandreo, che altro non è che l’universo, eterno ed immutabile, all’interno del quale, in conseguenza di un movimento eterno, si producono infiniti péirata, cioè un’infinità di eventi e mondi limitati. Il rapporto sussistente tra àpeiron e péirata è lo stesso che si è visto caratterizzare la coppia Aion-Chronos, nella quale Aion, l’eterno, è condizione di possibilità – si potrebbe dire: possibilità di tutte le possibilità - di Chronos, tempo rettilineo e finito. Non essendo possibile seguire passo passo lo sviluppo del pensiero pre-socratico e di quello post-socratico, basti qui dire che questa struttura metafisica caratterizzerà non soltanto il pensiero greco, ma anche quello, mutatis mutandis, delle epoche successive. Inoltre, in vari pensatori greci permane l’idea di una rigenerazione del tempo e del concetto, importato dall’Oriente, della nascita e distruzione del mondo. Questo è particolarmente evidente nella scuola stoica, all’interno della quale viene elaborata la dottrina della “conflagrazione”: il mondo sarebbe soggetto a cicli periodici di vita, che si concludono in un grande incendio, in un ritorno di tutte le cose al fuoco, per iniziare di qui un nuovo ciclo di vita che ripeterà esattamente le stesse fasi del precedente. Eterno ritorno di tutte le cose, rigenerazione del tempo, alternarsi di vita e morte nel cosmo immutabile: ecco gli aspetti caratteristici delle cosmologie filosofiche greche, nelle quali il termine “apocàlupsis” non ha spazio: prima, quindi, dell’affermarsi dell’apocalittica ebraico-cristiana, il lemma greco “apocàlupsis” non ha un significato sacro, ma serve solo per indicare il rivelarsi di un qualcosa. Certo, anche presso i Greci prevale lo schema, tipicamente arcaico, di continue “rivelazioni”, cioè di un alternarsi di mondi, ma questo alternarsi non ha mai fine, perché, del resto, non ha un inizio storicamente databile. Presso le società arcaiche, compresa quella greca, non si può far riferimento ad un evento conclusivo della storia, sia perché non si ha una concezione lineare del tempo sia perché la storia in se stessa è sempre temuta e perciò tenuta a distanza, messa ai margini, disconosciuta: le generazioni, per usare un’immagine cara ai Greci, si avvicendano come le foglie degli alberi in virtù di un movimento destinato a durare in eterno, così come eterno è il cosmo abitato dall’uomo.

  1. ...Apocalypse now?

Con la letteratura apocalittica ebraico-cristiana lo scenario cambia non poco. Dio, l’Essere sommo, eterno, onnipotente e onnisciente, crea il mondo e nel crearlo crea anche il tempo. Tempo che non ritorna eternamente secondo lo schema del mito dell’eterno ritorno, ma che è destinato a finire con un’“apocàlupsis”, una rivelazione che porterà alla luce il vero senso della storia e introdurrà l’umanità in una post-storia eterna, in cui il tempo non sarà più. Questo schema, al di là delle discussioni “settarie” sulle interpretazione del momento apocalittico, rappresenta la peculiarità principale di tutte le filosofie della storia, che si succedono nell’arco di quasi duemila anni di filosofia occidentale.

Da Agostino a Marx, l’idea di un éschaton risolutivo, di un fine e di una fine della storia, è quasi sempre al centro di tutte le costruzioni metafisiche e storiolatriche, sia che il Giudizio finale riguardi gli empi sia che riguardi la borghesia che deve fronteggiare il Dio che si fa carne, cioè classe, proletaria. Quando, poi, in tempi recenti l’idea di un éschaton futuro è stata criticata, lo scenario che si presentato è risultato, a dir poco, inquietante. Basti pensare al filosofo greco, ma francese d’adozione, Kostas Axelos, che nel tentativo disperato di superare il marxismo e l’heideggerismo, ha gettato le basi per un post-libertinismo nichilistico, nel quale l’uomo, giocattolo-giocatore-posta in gioco del Gioco del Mondo, cioè dell’Essere, non può sperare nulla, condannato com’è ad un eterno presente, senza alcuna speranza futura di trasformazione. L’etica, argomenta Axelos, «affonda le sue radici nelle grandi potenze, che legano il gioco dell’uomo e il gioco del mondo, ed è intimamente legata ad esse, comandata da esse, che, a sua volta, comanda. Tutte – magia, miti, religione; poesia ed arte; politica; filosofia; scienze e tecnica – si accompagnano ad una certa morale corrente ed usuale – più usuale che proclamata – e prescrivono un’etica normativa»[4].

Ogni etica, pertanto, è magica, mitica, politica; si allea con la filosofia, tanto che quest’ultima, fin dalla sua apparizione in Platone, comporta un’etica. A partire da Platone, argomenta Axelos, il mondo è stato considerato come una costruzione di ordine morale. L’etica, sorta come strettamente legata con l’onto-teo-logia e la mistica, si è venuta svolgendo come etica ebraico-cristiana, borghese e socialista, senza mai cessare di presentarsi come un’etica della beatitudine futura, della salvezza finale, della massima felicità, «ricerca di un’alterità fondamentale al cui fascino non hanno saputo sottrarsi nemmeno pensatori come Hegel con il suo spirito assoluto, Marx con il suo comunismo integrale, Nietzsche con il suo super-uomo, Heidegger con la sua verità dell’essere»[5].

Con la fine del regno ontoteologico, del predicativo e del copulativo, viene meno ogni impalcatura, ogni posizione e giudizio, che, in qualche modo, «pretendono all’essere e ad essere»[6]. Con la realizzazione della filosofia nell’operatività tecnico-scientifica, con il venir meno delle grandi potenze, si esaurisce, dunque, ogni sistematica etica, con tutte le sue suddivisioni e articolazioni interne:

l’etica si muoveva nel cuore della pre-filosofia e della filosofia: la filosofia teorica diceva l’essere e la filosofia pratica il dover-essere, ed entrambe lo facevano concependo l’essere e il dover-essere come condizionantisi a vicenda. L’etica, figlia della metafisica, restò legata ed ancorata al sommo bene, che richiedeva di essere effettivamente realizzato. Ma che ne è del sommo bene, di questo impensabile e impraticabile, che ha brillato con la sua presenza inesplorata, inseparabile dalla sua assenza deplorata, in un’era che tenta tortuosamente di oltrepassare il regno della metafisica, la quale pone l’essere come presenza-assenza in e attraverso la rappresentazione, cioè l’idealità?[7]

Non ci sono più speranze, possibilità di un futuro riscatto o di una futura ricompensa. Si agisce senza sapere perché, inchiodati al qui ed ora della propria finitezza, accettando l’angoscia, la limitazione, la vecchiaia, la morte, la tristezza del mondo, la sua noia. L’uomo deve imparare a vivere senza pensare di poter rendere migliore l’umanità, giocando un gioco fatto di accettazione e di rinunzia, di rivendicazione e di riconciliazione, di constatazione e di contestazione, di rivoluzione e di riforme, un gioco che gli consenta di giocare nel distacco e nell’indifferenza.

Lo scenario prospettato da Axelos è terribilmente tetro, e ancor più tetra è la sua proposta etica, che, a conti fatti, invita alla rassegnazione.

Venute meno le condizioni di un “apocàlupsis”, crollate miseramente le filosofie della storia, l’uomo occidentale si ritrova disorientato e non sa più neppure porsi la domanda: che fare? Un senso di spossatezza, da impero alla fine della decadenza, tende ad invadere i corpi e le anime.

La fine forse non è alla fine della storia di cui l’uomo occidentale è protagonista, ma è dentro la storia che sta vivendo e che non ha né liberazione né redenzione:

Come racconta magistralmente Francis Ford Coppola in Apocalypse now (1979), in una situazione come la guerra del Vietnam la catastrofe non è là da venire, non la dobbiamo né attendere né temere, perché si è già compiuta interiormente e silenziosamente nell’orrore e nella perdita di qualsiasi senso di cui sono capaci le azioni umane. La risalita di quel fiume è ormai soltanto il vuoto simulacro di citazioni letterarie. Non vi è alcun esito da raggiungere, se non attraversare il caos. La catastrofe ripete sempre lo stesso ritornello di morte, diventa allucinogena e infernale. Non ha dunque alcun senso “ulteriore” da rivelarci. Il tempo della fine non è più vicino, è già qui. E il settimo sigillo è aperto da tempo[8].

Il tempo della fine, in quanto fine del tempo, sembra continuamente sul punto di giungere, eppure tarda. Forse l’ospite tanto atteso è già arrivato ma non viene riconosciuto. Ma più probabilmente è soltanto un fantasma che si sta evocando da un bel po’, che, anziché farci disperare, deve costituire sempre e soltanto un’esortazione continua all’azione e alla creatività, unico rimedio contro l’ansia apocalittica e il libertinismo massificato.


[1] È ovvio che gli autori che si sono occupati di questo problema sono molteplici, anche perché, estremizzando, si potrebbe osservare che ogni filosofia presuppone e lavora con una particolare concezione dell’Essere. Il riferimento ad Heidegger e Severino è motivato, dunque, dall’influenza che in modi differenti hanno avuto sul dibattito filosofico internazionale negli ultimi decenni e dal fatto che entrambi si sono cimentati in un costante confronto con i pensatori greci delle origini, sui quali si dirà qualcosa nel prosieguo della trattazione.

[2] M. Eliade, Il mito dell’Eterno Ritorno, tr. it. Borla, Roma 2010, p. 5.

[3] Ibid., p. 79.

[4] K. Axelos, Per un’etica problematica, tr. it. Guida, Napoli 1974, p. 24.

[5] G. Lissa, Introduzione a Per un’etica problematica, cit., p. 14.

[6] K. Axelos, Per un’etica problematica, cit., p. 25.

[7] Ibid., p. 30.

[8] T. Pievani, La fine del mondo. Guida per apocalittici perplessi, il Mulino, Bologna 2012, p. 29.

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