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Indice
- Ambientalisti affetti da PIPOR (Patologia da Innamoramento del Proprio Oggetto di Ricerca)
-
L’era «antropozoica»
-
Natura e artefatti secondo Monod
- Naturalmente artificiale
S&F_n. 02_2009
- Ambientalisti affetti da PIPOR (Patologia da Innamoramento del Proprio Oggetto di Ricerca)
La scienza è meravigliosa e gli scienziati, quelli grandi davvero, sono persone in grado di meravigliarsi. Su questo siamo tutti d’accordo. A volte però accade che alcuni scienziati, anche quelli grandissimi, rimangano accecati di fronte a cotanta meraviglia finendo col produrre sistematicamente il medesimo risultato: un misto tra descrizioni (scientifiche) naïve e irritanti sensazioni di stucchevolezza. A mio avviso magnifici documenti di questa sorta di Patologia da Innamoramento del Proprio Oggetto di Ricerca sono l’intera opera di James Lovelock, autore della celebre ipotesi Gaia, e gli ultimi lavori di Edward O. Wilson, probabilmente il naturalista più autorevole al mondo.
Come anche i più distratti lettori di scienza, filosofia e, nello specifico, di ecologia, ormai sapranno, secondo Lovelock la Terra consisterebbe in una sorta di «superorganismo» dotato di non meglio precisate «autonomia e vitalità». Nella sua autobiografia, rammentando la propria attività nell’ambito del programma di ricerca statunitense finalizzato alla verifica di eventuali prospettive di vita su Marte, Lovelock osserva:
Tutt’a un tratto, proprio come in un’illuminazione, mi venne in mente che se le caratteristiche dell’atmosfera della Terra, a differenza di quelle di Marte, persistevano e rimanevano stabili, doveva esserci qualcosa che la regolava conservandone costante la composizione. Se la maggior parte dei gas proveniva dall’attività degli organismi viventi, allora il fattore regolatore doveva essere proprio la vita in superficie.[1]
È così che Lovelock partorisce l’immagine che avrebbe rappresentato il Graal di tutta la sua ricerca scientifica, e cioè «l’immagine di una Terra come un organismo vivente in grado di regolare la propria temperatura e la propria chimica conservando uno stato stazionario soddisfacente»[2]. Attraverso numerose pubblicazioni su riviste specialistiche e di divulgazione, a partire dalla fine degli anni Sessanta e nel corso di tutti gli anni Settanta, Lovelock presenta così alla comunità scientifica e al vasto pubblico dei suoi lettori l’ipotesi destinata a diventare tra le prospettive più influenti dell’ecologismo degli ultimi decenni, quella secondo cui la Terra si mantiene in uno stato favorevole alla vita grazie alla presenza degli stessi organismi viventi[3]. Servendosi abilmente di concetti presi a prestito dalla cibernetica, in particolare delle nozioni di retroazione (feedback) e di omeostasi, Lovelock suggerisce di intendere la biosfera come un sistema complesso, interpretabile come un singolo gigantesco organismo, in grado di mantenere il pianeta in condizioni ottimali per la vita.
A questo punto la domanda nasce da sé: non più muto scenario delle azioni dei viventi, la Terra-Gaia deve forse essere considerata come un’entità divina, simile alla physis di Platone e Aristotele? Lui assicura che non è così, ma le sue parole dicono il contrario. Per esempio nel testo del 1988, The ages of Gaia: a biography of our living Earth, Lovelock non si limita affatto ad auspicare un ricongiungimento tra fisica e biologia, ma dichiara espressamente di aver «cercato di mostrare che Dio e Gaia, teologia e scienza» «non sono separati tra loro»[4], che «Gaia possa essere insieme spirituale e scientifica»[5], che essa «è un concetto religioso oltre che scientifico»[6], imputando, tra l’altro, al moderno urbanesimo la responsabilità di aver fatto perdere «interesse per il significato di Dio e di Gaia»[7]. Nessuno stupore se il paladino dell’ambientalismo new age arriva infine a sostenere che «L’uomo, in quanto specie, ha quasi rinunciato alla sua appartenenza a Gaia e ha conferito alle sue città e alle sue nazioni i diritti e le responsabilità di regolare l’ambiente»[8], mentre invece dovrebbe rendersi conto che le cose vanno in direzione opposta. È cioè Gaia che dispone delle città e delle nazioni, e questo per il bene del sistema nel suo complesso, non dell’uomo, tanto da non escludere che per raggiungere l’omeostasi la Terra possa, in certe condizioni, finanche eliminare la nostra specie[9].
Non è certo necessario iscriversi al partito degli umanisti nostalgici per sospettare che il chimico britannico si sia lasciato prendere la mano e sia caduto nella suddetta Patologia da Innamoramento del Proprio Oggetto di Ricerca. Se lo studioso della Terra finisce col divinizzare ciò che studia smette per ciò stesso di essere uno studioso, e da militante ecologista comincia a vestire i panni del compiaciuto profeta.
Purtroppo, la Patologia da Innamoramento del Proprio Oggetto di Ricerca è infettiva, e da un decennio a questa parte se ne è senz’altro ammalato anche Edward Wilson. Celebre entomologo di Harvard e padre della controversa Sociobiologia moderna, Wilson è ormai divenuto paladino a tempo pieno della causa ambientalista; il che, per carità, non è un rimprovero. Il problema, infatti, non è la causa sostenuta, ma piuttosto il modo in cui la si sostiene. Il problema, tanto per entrare nel merito della questione, è parlare della Natura così come Lovelock ci ha abituati a parlare della Terra, cioè come di un’entità a sé stante, a tratti come di un soggettività tale da racchiudere in sé tutto il bene che non è più attribuibile all’uomo, alla sua cultura e alle sue (perverse) tecnologie.
Nelle pagine del suo ultimo libro, Creazione (quando il titolo è tutto un programma), uomo e natura appaiono come due estremità di un incongiungibile iato, come se l’uomo non provenisse da lì, dalla natura, o come se, pur provenendo da lì, sia col tempo diventato qualche altra cosa. Comunque sia, a tal proposito Wilson è chiarissimo, affermando per esempio che la «scoperta chiave della storia dell’ecologia è che la civiltà è stata costruita sul tradimento della natura», e che «la moderna tecnologia dell’informazione ha tradito la natura per la seconda volta diffondendo la credenza che i bozzoli artificiali entro cui scorre la nostra vita materiale urbana e suburbana siano pienamente soddisfacenti per il genere umano»[10].
Lo schema concettuale di Wilson è elementare: da un lato c’è la natura, dall’altro c’è l’uomo; da un lato la bellezza di Gaia, dall’altro la bruttezza dell’uomo e dei suoi energivori artefatti. Nella visione dello scienziato americano, un po’ come nei paesaggi dell’arte rinascimentale, l’uomo e la natura sussistono come due oggetti a sé stanti, solo che a differenza dall’antropocentrismo rinascimentale, in Wilson non è l’uomo a guardare la natura ma è il contrario, è la natura che guarda l’uomo.
Ma cos’è la natura?
La risposta più semplice possibile è anche la migliore: la natura è quella parte dell’ambiente originale e delle sue forme di vita che è sopravvissuta all’impatto con l’uomo. Natura è tutto ciò che nel pianeta non ha bisogno di noi e può esistere indipendentemente da noi[11].
E che cos’è l’uomo?
Homo sapiens è una specie confinata in una nicchia ecologica estremamente piccola. [..] Le radici spirituali di Homo sapiens si estendono in profondità nel mondo naturale attraverso vie strettissime collegate al nostro sviluppo mentale e ancora in gran parte sconosciute[12].
L’uomo, quindi, nasce dalla natura ma poi vi si distacca attraverso la civiltà, compiendo un «primo passo falso» con il Neolitico e poi compiendone altri mille fino ad arrivare all’ingegneria genetica. L’unica soluzione all’imminente catastrofe, al rischio di incorrere nella sesta estinzione di massa e di inaugurare quella che potrebbe definirsi «l’Era eremozoica»[13], ovvero l’era della Solitudine, è prendere finalmente coscienza della propria origine e rimanere fedeli alla biosfera, alle sue regole e ai suoi equilibri.
Proprio come per Lovelock, anche per Wilson la scelta è in fondo obbligata; se Gaia può arrivare a eliminare la nostra specie, lo stesso può anche la natura: «Noi abbiamo bisogno degli insetti per sopravvivere, ma gli insetti non hanno bisogno di noi»[14]. Il salto dall’antropocentrismo tradizionale è qui così lungo che non solo si è superato ogni residuo antropocentrico, ma si è finiti per arrivare alla meta opposta, al «biocentrismo», o meglio alla «biofilia», come nei primi anni Ottanta proprio Wilson ha definito questa nuova percezione della natura[15].
La biosfera dentro la quale è nata l’umanità ha avuto le sue crisi, ma è sempre stata un sistema perfettamente equilibrato e funzionante. E avrebbe continuato a esserlo in assenza di Homo sapiens. Anche oggi una natura mutilata fornisce servizi, come il controllo del ciclo dell’acqua, dell’inquinamento, dell’arricchimento dei suoli, equivalenti in termini economici a tutto quello che l’umanità produce artificialmente[16].
L’uomo, per Wilson come per Lovelock, deve sopire la sua potenza artificializzante, immergersi nella biosfera e convertirsi alla biofilia. Ma è davvero possibile?
2. L’era «antropozoica»
Credo che dal punto di vista ecologico una definizione estremamente moderna dell’uomo contemporaneo sia stata quella di Antonio Stoppani, geologo italiano della seconda metà dell’Ottocento, il quale ebbe a definire l’uomo come una «nuova forza tellurica» che, come tale, avrebbe dato inizio a un’era a sua immagine e somiglianza, un’era interamente artificiale, l’«era antropozoica»[17].
Con maggiore successo del nostro Stoppani (ma si sa, anche i tempi vanno anticipati con il giusto riguardo) anche il Premio Nobel Paul J. Crutzen ha posto l’accento sul fatto che oggi come oggi è molto difficile parlare di una natura non antropizzata. Crutzen, noto per i suoi studi sulla chimica dell’atmosfera e sul buco dell’ozono, ha per questo definito la nostra epoca come l’epoca in cui ha inizio l’«Antropocene». Secondo lo scienziato olandese, a partire dalla rivoluzione industriale è addirittura possibile parlare dell’inizio di una nuova era geologica, che si distinguerebbe dalle altre, dal Pleistocene e dall’Olocene, per l’impatto determinante dell’uomo sull’ambiente. Crutzen è stato uno dei primi scienziati a mettere in evidenza come negli ultimi decenni si siano registrati i più elevati livelli di anidride carbonica e di metano degli ultimi 15 milioni di anni e come il pianeta Terra, mite e ospitale da circa 10 mila anni, stia trasformando in modo significativo i suoi equilibri strutturali in seguito a fattori interamente antropogenici, ovvero a causa dell’uso abnorme che la specie Homo sapiens sta facendo di combustibili fossili come carbone, metano e petrolio, e della combustione di biomasse, come foreste, rifiuti e materiali organici[18].
Sebbene in tempi e modi diversi, attraverso le nozioni di «Era antropozoica» e di «Antropocene», Stoppani e Crutzen ci presentano una realtà precisa, da cui cominciare a trarre alcune indicazioni, come per esempio il fatto per cui viviamo in un epoca in cui non è più così ovvio definire l’artificiale in opposizione al naturale ma, piuttosto, comincia a sembrare possibile il suo contrario. Già il continuo reclamare e parlare di agricoltura “biologica”, già l’esigenza di definire un prodotto di natura con un aggettivo naturalizzante, mi pare possa essere in questo senso considerato come un segnale assai chiaro dei tempi che stiamo attraversando. Nell’epoca in cui l’uomo si fa potenza geofisica non è poi peregrino il fatto che nella coppia concettuale natura/artificio cominci a prevalere l’artificio. Oggi, infatti, non è la natura l’elemento primario rispetto al quale diventa possibile definire per opposizione il secondo, ma è esattamente il contrario.
Di fronte a questo indiscutibile mutamento delle stesse condizioni di esistenza e di sopravvivenza del nostro pianeta, è naturale che il “naturale” venga considerato da parte del pensiero ambientalista come l’unica dimensione verso cui tendere in opposizione alla diabolica ingerenza dell’artificio, quasi si trattasse di una lotta senza quartiere tra Gaia e la Natura, da una parte, e l’uomo dall’altra. Di fronte all’atteggiamento obiettivamente eco-distruttivo dell’uomo del XIX e del XX secolo appare ovvio, cioè, trovare una possibile risposta al problema ambientale nell’estremizzazione dei due poli della diade natura/artificio: in questo gioco di opposti, sì è detto e ribadito da Lovelock e da Wilson in giù, la minaccia dell’artificio non può che essere vinta puntando tutto sull’assolutezza del naturale.
Ma è davvero possibile scindere in modo così netto i due poli del naturale e dell’artificiale? E soprattutto, è filosoficamente sensato pensare come due opposti l’uomo e la natura, l’artificio e l’incontaminato?
3. Natura e artefatti secondo Monod
Una primo livello di problematizzazione della potente dicotomia tra natura e artificio è quello trattato da Monod in alcune preziose e famose pagine de Il caso e la necessità. Monod si chiede se sia possibile distinguere, in natura, tra oggetti naturali e artificiali e da buon filosofo qual è il grande scienziato, egli rende problematico ciò che a prima vista sembra del tutto ovvio:
Tutti noi siamo convinti di saper distinguere immediatamente e senza ambiguità, tra vari oggetti, quelli naturali e quelli artificiali: una roccia, una montagna, un fiume o una nube sono oggetti naturali; un coltello, un fazzoletto, un automobile sono oggetti artificiali, sono artefatti[19].
Monod fonda l’ovvietà della divaricazione categoriale tra oggetti naturali e artefattuali sul «postulato fondamentale del metodo scientifico, secondo cui la Natura è oggettiva e non proiettiva»[20]. Ciò significa che laddove è possibile scorgere un’intenzione, uno scopo, un progetto in qualche modo incorporati in un oggetto, non si può che parlare di artefatti, mentre in caso contrario di enti di natura. Se del coltello si può dire che è stato progettato per uno scopo ben preciso, ciò non può dirsi per un fiume o per una roccia, enti entrambi «modellati dal libero gioco delle forze naturali»[21]. Ma l’oggettività e la proiettività sono davvero criteri così affidabili per distinguere tra oggetti naturali e oggetti artefattuali?
Per sciogliere il quesito il biologo francese si chiede se sia possibile creare un programma che consenta a un calcolatore di distinguere tra un artefatto e un oggetto naturale e individua nei criteri di «regolarità» e di «ripetizione» due principi generali in base ai quali programmare l’ipotetico calcolatore. Solo gli oggetti artificiali possono presentare caratteri di semplicità geometrica (superfici piane, angoli retti, simmetrie perfette) e di ripetizione (artefatti omologhi tendono a ripetere le stesse forme perché destinati allo stesso uso). Ebbene, anche sulla base di questi criteri, apparentemente così oggettivi, la dimensione artefattuale finisce col confondersi con quella naturale. Messo di fronte a due tipi di oggetti come degli irregolari sassolini e dei meravigliosi cristalli di quarzo, come potrebbe infatti il calcolatore non considerare naturali i primi e artificiali i secondi? Come potrebbe non considerare addirittura artificiale anche un favo di api selvatiche, dotato di armonie così sorprendentemente geometriche?
Noi sappiamo - avverte Monod – che il favo è “artificiale” in quanto rappresenta il prodotto dell'attività delle api, ma abbiamo anche valide ragioni per pensare che tale attività è puramente automatica, attuale ma non coscientemente proiettiva. Da buoni naturalisti, tuttavia, riteniamo le api esseri “naturali”. E non è allora una palese contraddizione considerare “artificiale” il prodotto dell'attività automatica di un essere “naturale”?[22].
Tanta ambiguità non può che nascere dai nostri giudizi. Secondo Monod dobbiamo allora spostare la nostra attenzione dai dettagli di natura strutturale e formale, quindi da considerazioni relative alla geometria e alla simmetria degli oggetti, a quella che invece dovrebbe considerarsi come il «contenuto essenziale dell’artificialità» di un oggetto, ovvero alla sua valenza progettuale. Tuttavia anche in questo caso la matassa stenta a dipanarsi. Messo, per esempio, di fronte a due tipi di oggetti, come un occhio e una macchina fotografica, come facciamo a essere certi che il calcolatore non finisca col confondere il congegno ottico naturale con quello artificiale? «Lenti, diaframma, otturatore, pigmenti fotosensibili: le stesse componenti non possono che essere state predisposte, nei due oggetti, che per fornire prestazioni simili»[23]. E, assai significativamente dal punto di vista del nostro discorso, aggiunge:
Qualunque “artefatto” è il prodotto dell’attività di un essere vivente, che esprime in tal modo, e con particolare evidenza, una delle proprietà fondamentali caratteristiche di tutti i viventi, nessuno escluso: quella di esseri oggetti dotati di un progetto, rappresentato nelle loro strutture e al tempo stesso realizzato mediante le loro prestazioni, ad esempio la creazione di “artefatti”[24].
Gli artefatti, ovvero l’artificio, suggerisce Monod, è una proprietà presente in natura e non un’invenzione dell’uomo. Come a dire che la Gaia di Lovelock e la Natura di Wilson porterebbero in seno il peccato originale.
4. Naturalmente artificiale
Un ulteriore livello di problematizzazione della dicotomia tra natura e artificio ci è suggerito dall’antropologia filosofica novecentesca. Per l’antropologia filosofica, infatti, la questione da risolvere non è la possibile rinuncia, da parte dell’uomo, del proprio potenziale “artificializzante”, quanto piuttosto la comprensione dell’origine di questo potenziale, cioè la spiegazione del perché l’uomo e soltanto l’uomo possa apparire come l’unico essere vivente che non si limita a vivere nel mondo ma che, nel farlo, costruisce strumenti adatti a dominarlo e modificarlo.
Secondo Gehlen, per esempio, è strutturalmente impossibile concepire l’uomo al di fuori dell’artificialità. Richiamandosi a Schiller e a Herder, egli ritiene che l’uomo sia un «progetto particolare della natura» nel senso che, mentre tutti gli animali godono di precisi istinti che li ragguagliano automaticamente sul da farsi per sopravvivere, l’uomo è l’animale organicamente carente[25]. Eppure, nonostante le carenze istintuali e organiche che la contraddistinguono, la specie umana è ancora viva e vegeta, anzi è fonte di minaccia per tutti gli altri animali oltre che per la Terra medesima. Come mai? Perché l’uomo, dice Gehlen, va considerato come un «novello Prometeo», la cui intraprendenza e creatività gli consentono di compensare con le stampelle offertegli dalla tecnica le proprie deficienze biologiche, per cui ogni volta è capace di sfuggire ai diktat imposti dall’ambiente “naturale” in direzione di un ambiente “artificiale” a sua immagine e somiglianza:
Egli vive, per così dire, una natura artificialmente disintossicata, manufatta e da lui modificata in senso favorevole alla vita. Si può anche dire che egli è biologicamente condannato al dominio della natura[26].
Un passo in più sulla strada della comprensione dell’naturalezza dell’artificio ci aiuta a compierlo Helmut Plessner. Ne I gradi dell’organico e l’uomo, Plessner spiega che mentre per la pianta e per l’animale risulta impossibile cogliersi nell’ambiente nel quale vivono e – nel caso dell’animale – si muovono, per l’uomo è invece possibile vedersi in questo ambiente e così distinguere tra il proprio corpo e il proprio io. In altri termini, dice Plessner, mentre l’animale coincide sempre con il proprio corpo, grazie a cui, per esempio, recepisce gli stimoli che gli provengono dall’ambiente e di conseguenza agisce in esso, l’uomo è in grado di prendere distanza dalla propria corporalità. È per questo motivo che egli è sia il proprio corpo sia nel proprio corpo: «L’animale vive a partire dal suo centro, all’interno del suo centro ma non vive come centro»[27], l’uomo invece riesce a vivere anche come centro, riesce cioè a esperire la propria posizione nell’ambiente anche al di là dalla coincidenza con i propri confini organici. Per questo motivo, suggerisce suggestivamente il filosofo tedesco, l’uomo è un «essere eccentrico», è cioè un essere capace di «porsi alle proprie spalle»[28].
Ma se l’uomo, proprio in forza di questa sua eccentricità, è sia corpo che nel corpo, è sia oggettività che soggettività, sia pura materia vivente che puro spirito, in base a quale principio o struttura potrà assumere la sua giusta posizione nella natura? Se nell’uomo agisce questa sorta di opposizione tra eccentricità e vitalità, su cosa potrà mai fondarsi il suo proprio modus vivendi? Ed eccoci alla coppia natura/artificio.
Per Plessner così come per Gehlen, l’uomo vive quindi una situazione di profonda lacerazione poiché a differenza dell’animale non coincide con sé e con il proprio ambiente ma se ne distacca. Tuttavia, a differenza di Gehlen, l’autore de I gradi dell’organico mette in luce il fatto che il contrasto caratteristico dell’esistenza umana rimane decisamente all’interno della sua naturalità: l’uomo descritto dall’antropologia filosofica di Plessner non potrà mai apparire come un essere anti-naturale perché la sua artificialità non è uno strumento di allontanamento dall’ambiente ma è il modo attraverso cui quest’essere vivente risponde al suo messaggio naturale di essere eccentrico, cioè è il modo attraverso cui l’uomo vive il proprio ambiente. L’uomo, dice Plessner, è naturalmente artificiale e questa viene da lui giudicata come la prima legge antropologica fondamentale[29]. L’artificio tecnico, in questa prospettiva, è il modo attraverso cui l’azione dell’uomo risponde alla sua natura e non è affatto il modo attraverso cui egli si allontana da essa:
Soltanto perché l’uomo è per metà natura e sta (cosa essenzialmente connessa con quest’ultima) oltre se stesso, l’artificialità costituisce il mezzo attraverso il quale mettersi in equilibrio con il mondo[30].
In base a queste parole si potrebbe dire che nell’uomo l’artificio è il nome della naturalità.
È chiaro che in questa prospettiva non ha più alcun senso pensare di scindere, nell’uomo, i due poli del naturale e dell’artificiale e quindi immaginare una sorta di moralismo ambientalista in base a cui opporre un uomo “naturale” e buono a un uomo “artificiale” e cattivo. A fronte della filosofia biologica di Monod e dell’antropologia filosofica di Gehlen e Plessner il puritanesimo ambientalista di Lovelock e Wilson paiono perdere un bel po’ di appeal. Certo, se solo i due grandi scienziati riuscissero a introiettare alcuni dei passaggi teoretici de Il caso e la necessità o de I gradi dell’organico e l’uomo sono certo che i risultati sarebbero entusiasmanti e, oltretutto, ne guadagnerebbero in salute, guarendo una volta per tutte dalla Patologia da Innamoramento del Proprio Oggetto di Ricerca.
[1] J. Lovelock, Omaggio a Gaia: la vita di uno scienziato indipendente, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 288-290.
[2] Id., Gaia: manuale di medicina planetaria, tr. it. Zanichelli, Bologna 1992, pp. 21-22.
[3] Cfr. Id., Gaia: nuove idee sull’ecologia, Bollati Boringhieri, Torino 1981, pp. 24; 180.
[4] Cfr. J. Lovelock, Le nuove età di Gaia: una biografia del nostro mondo vivente, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 214.
[5] Ibid., p. 219.
[6] Ibid., p. 209.
[7] Ibid., p. 211.
[8] Ibid., p. 229.
[9] Cfr. J. Lovelock, Omaggio a Gaia, cit., p. 421-422
[10] E. O. Wilson, Creazione, tr. it. Adelphi, Milano 2008, pp. 22-23.
[11] Ibid., p. 26-27.
[12] Ibid., p. 38; 23.
[13] Ibid., p. 111.
[14] Ibid., p. 45.
[15] Id., Biofilia, tr. it. Mondadori, Milano, 1985.
[16] Id., Creazione, cit., p. 110.
[17] Cfr. S. Pisani, L’Antropocene, in «Scienza e Società», n. 1-2/2007, pp. 6-11, in part. cit. p. 8.
[18] Cfr. P. Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene. L’uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era, tr. it. Mondadori, 2005.
[19] J. MONOD, Il caso e la necessità, Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, tr. it. Mondadori, Milano 2002, cit., p. 9.
[20] Ibid.
[21] Ibid.
[22] Ibid., p. 12.
[23] Ibid., p. 14.
[24] Ibid. Corsivo dell’autore.
[25] Cfr. A. Gehlen, L’uomo. La sua Natura e il suo posto nel mondo, tr. it. Feltrinelli, Milano 1983.
[26] Id., Prospettive antropologiche, tr. it. Il Mulino, Bologna 1987, p. 69.
[27] H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 360.
[28] Ibid., p. 419.
[29] Cfr. Ibid., pp. 334 e ss.
[30] Ibid., p. 344.