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Indice
- Vite a rischio
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I rischi della comunicazione
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Profili etici della comunicazione
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L’occhio della scienza
S&F_n. 02_2009
1. Vite a rischio
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Che un rischio ambientale vi sia, lo dimostra il diffondersi di normative, codici di comunicazione e di comportamento tesi a ridurne l’impatto. Che tale rischio rinvii a una precisa determinazione e informazione sui contesti e sui pericoli reali da esso derivanti è altrettanto certo. Ciò che fa problema è il sempre più diffuso ricorso a una questione etica nella comunicazione del rischio ambientale. La deriva tecnico-pragmatica della comunicazione – la comunicazione efficace – ha sempre più portato in primo piano la responsabilità nell’uso del mezzo divenuto messaggio in senso proprio[1]. In questa svolta i destinatari stessi hanno perso una posizione frontale, trovandosi nel mezzo, là dove il significato diverso – l’uno spaziale, l’altro strumentale - dello stesso termine rende evidente un dato: il flusso continuo e la diffusione rapida delle informazioni, che vanno al di là del più ristretto circolo della comunità scientifica. Nella forma della divulgazione e della cultura mediatica anche la ricerca tocca in maniera più evidente la sfera più propriamente politica. La diffusione e l’uso dei risultati degli studi e della sperimentazione da parte dei mezzi di informazione e di comunicazione ha effetti performativi e disciplinanti che investono emotività, sentimenti, aspettative, visioni del mondo dei destinatari del messaggio. La modalità della trasmissione, che può creare speranze di cura o allarmi di rischi imminenti, influisce sul potere stesso di una determinata indagine o scoperta nel colpire la psicologia, i comportamenti dei fruitori dell’informazione. In questo orizzonte la capacità di entrare nell’immaginario delle persone pesa sull’articolazione del messaggio quasi quanto l’evidenza dimostrativa del risultato dell’indagine o della ricerca. Concentrandosi sul tema della salute e del benessere, si può vedere come la civiltà delle immagini sposti i parametri della percezione del poter fare nel conseguimento degli obiettivi su standard in qualche modo omologanti e generalisti. Il destinatario perciò non è semplicemente il soggetto interessato e coinvolto, ma in primo luogo il prodotto della manipolazione mediatica.
Stare nel mezzo, infatti, non è il risultato di una scelta personale o collettiva, ma implica la posizione, spaziale e funzionale, di chi è catturato dalla rete delle informazioni e investito dal flusso della comunicazione. Ciò di cui siamo informati è addirittura più vero di ciò che percepiamo, perché ogni cosa che percepiamo ci arriva attraverso le informazioni. Le informazioni sono il nostro vero ambiente, nel senso di Um-Welt, il mondo che ci circonda ancora più dell’aria che respiriamo, della terra che calpestiamo. L’informazione lo traduce in una sorta di oggetto a portata di mano, che ridefinisce la percezione del confine tra noi e il mondo esterno. Siamo sempre più soggetti virtuali di mondi virtuali, nel mezzo di un processo che appare reale come un gioco interattivo. Il disporre di una maggiore quantità di informazioni non sposta però la regia del controllo delle stesse[2].
2. I rischi della comunicazione
La scienza, come tecnica, ha trasformato il mondo in cui viviamo, entrando negli equilibri atmosferici, nella distribuzione e utilizzazione delle energie, negli stessi ritmi biologici degli organismi viventi in vista del benessere e della vita degli uomini. In questo terremoto spaziale e temporale l’interrogativo etico chiama in causa la realtà più che il fare, riguarda ciò che comunemente esperiamo più che le ideologie, i progetti, le intenzioni e anche le scelte, modifica le abitudini, i comportamenti, i vissuti di soggetti virtualizzati, nel mezzo di un mondo i cui limiti e le cui caratteristiche travalicano le stesse possibilità dei nostri sensi, fino a rendere in-differente e ir-reale anche il rischio più incombente.
Il paradosso è che proprio la comunicazione ha spezzato la funzionalità tra abitudini, costumi e senso di partecipazione a un mondo comune, creando destabilizzazione nella configurazione di una realtà più vera, in nome della quale siamo messi alla prova, svestiti della nostra pelle, dei nostri abiti, di tutto ci aiuta a mediare il rapporto con quanto ci circonda, il nostro ambiente, nell’assunzione di una posizione laterale, spostata o ritardata rispetto al mondo. L’Um-Welt, perciò, ci circonda, ci abbraccia, ci sostiene, presentandosi nelle forme in cui ci diviene familiare attraverso immagini, parole, discorsi, relazioni interpersonali.
Là dove, perciò, è indubbio il progresso scientifico e la possibilità per ognuno di usufruirne, non altrettanto evidente è la possibilità per ciascuno di comprendere, di acquisire familiarità con la conoscenza scientifica, come forma più alta della relazione dell’uomo al mondo. Disporre di conoscenze scientifiche e comunicarle può sembrare un’operazione semplice. La scienza si costruisce su dati oggettivi, sulla sperimentazione, su quanto si rende immediatamente disponibile. Eppure al di là dell’utilità dei risultati, sempre di più la scienza sembra incontrare ostacoli alla sua comunicabilità. Cosa permane di incomunicabile nella scienza? Non certo un fondo per così dire oscuro per molti, non certo qualcosa che ha a che fare con la fantasia o con l’immaginario, o per lo meno molto poco. Il problema non è solo nella specializzazione dei linguaggi scientifici, piuttosto nell’impatto dei contenuti. Oggi la scienza non studia soltanto i corpi celesti o terrestri, ma entra in questi corpi, costruisce artifici, interviene su di essi. Nell’istanza pragmatica della tecnica non si mettono a disposizione solo dati sperimentali, ma si prospettano scenari futuri, altri spazi, altri tempi, altre modalità della vita umana. L’occhio della scienza sembra più vicino a uno scrutare oscuro e inquietante per l’uomo comune. Si può condividere lo spirito d’avventura delle missioni spaziali, esultare per la capacità dell’uomo di riprodurre o sanare la vita, ma tutto questo si accompagna a un senso di disorientamento. Ogni cosa sembra andare troppo veloce, costringendo gli individui a una continua accelerazione e lasciandoli con un senso di inadeguatezza, soprattutto quando il contenuto riguarda un rischio per la popolazione.
Si pensi alle pandemie, o ai recenti fenomeni della mucca pazza e dell’aviaria: non si discute il contenuto, ma il modo della trasmissione dell’informazione. In definitiva, nonostante la sempre più larga diffusione dei risultati scientifici attraverso i media specializzati, anche nella forma della divulgazione, la scienza conserva una certa estraneità per chi si avvicina a essa allorché mette in gioco un pericolo imminente. Distanza o lontananza che non produce solo un disagio passeggero, determinando piuttosto un sacro timore che, come ogni paura, rischia di creare indifferenza o addirittura panico[3].
Un esempio su tutti è la comunicazione continuata e quasi istantanea che si subisce del pericolo di epidemie, del riscaldamento della terra, dei rischi dell’effetto serra. Con questa ipertrofia di notizie non si favorisce un senso di sicurezza, talvolta addirittura si indebolisce anche la certezza dell’evidenza. Statistiche, soglie, verificabilità e test possono svolgersi su luoghi o in tempi diversi, da punti di vista e interrogativi diversi, allora il risultato, presunto incontrovertibile, potrebbe cambiare. Se la capacità previsionale può rassicurare, ciò che viene annunciato come rischio, pericolo, minaccia, ricade sulle spalle di spettatori tanto più inermi, quanto più informati. Anche la scienza sembra scontare l’effetto della globalizzazione: tutto è a portata di mano o meglio di notizia, ma ogni cosa si presenta in dimensioni e confini sempre più indefiniti per gli individui. Siamo indotti a guardare ciò che non vediamo o non vediamo ancora, come in un film carico di effetti speciali. Ma è appunto il ruolo di spettatore, tollerabile in uno spettacolo a termine, che diviene sempre meno rassicurante per la condizione umana quando la spettacolarità permea tutta l’esperienza. Non possiamo sentirci più come Lucrezio al sicuro sulla riva a guardare il mare in tempesta. Che fare? Lasciare la scienza lontana, coltivare una pacificata ignoranza? Ormai con le parole di Pascal “siamo imbarcati”, il problema a questo punto diventa etico.
3. Profili etici della comunicazione
Là dove comunicare è connaturato alla natura umana, comunicare in modo eticamente corretto può significare soltanto favorire la familiarizzazione tra uomo e scienza. Produrre una sorta di umanizzazione della scienza a fronte di una comunicazione scientifica che si colloca al di sopra, in avanti, comunque oltre l’uomo. Sono uomini quelli che procedono nella conoscenza, nella sperimentazione, nella codificazione, ma tra i laboratori e lo spazio di vita comune si ergono barriere di protezione o anche di difesa. Questa sorta di segregazione, che rasenta la secretazione, spesso ricade sulla stessa comunicazione scientifica. Riconquistare la fiducia e il legame tra scienza e uomini attraverso la comunicazione può significare soltanto lavorare sui rischi di questo strumento, ripristinando la fiducia tra gli interlocutori interessati, prima ancora di preoccuparsi dell’efficacia del messaggio. Non solo i contenuti, ma anche ciò che rimane dietro i contenuti della comunicazione scientifica e che li rende interessanti e condivisibili per tutti potrà essere messo a disposizione in una comunicazione eticamente corretta. Quella in cui, sia pure con difficoltà, ognuno può anche se con lentezza orientarsi, pur senza pretenderne la padronanza, in uno scenario comune[4]. Si tratterà allora di lavorare sul significato delle abitudini e sui limiti dell’azione umana, perché il cambiamento sia avvertito come ciò che potenzialmente è comprensibile e alla portata di tutti.
Ovviamente poco si può incidere sul senso di responsabilità di chi fornisce la prova o la notizia. La responsabilità in questo caso dovrebbe anzi essere riconsegnata al senso morale di ciascuno, per arricchire il confronto e il dialogo, unica vera garanzia di un allargamento delle prospettive. Su questa strada la scienza stessa, procedendo forse più lentamente, può trarre dei vantaggi caricandosi nel suo cammino dell’interrogativo sulla solidarietà tra progresso tecnologico e condizioni di vita umane. Se rispetto alla circolazione delle informazioni e dei dati nella comunità scientifica esistono sistemi di controllo e verifica incrociata di peer review, più complessa è la questione della informazione dei cittadini, soprattutto nei casi di pericolo imminente.
Là dove si dà informazione e comunicazione dei rischi limitandosi al rapporto tra il comunicatore e l’indistinta massa di chi riceve la comunicazione, si sorvola su due punti essenziali. Quando la diffusione di un’informazione di rischio investe la responsabilità del ricercatore in prima persona, si crea un doppio legame: il primo tra il ricercatore e l’istituzione che ha commissionato e finanziato la ricerca, il secondo tra il senso di cittadinanza del ricercatore e la comunità esposta al rischio nell’imminenza o nel futuro. La difficoltà è politica ed etica nello stesso tempo. Non sempre c’è la possibilità di definire un unico e semplice agente portatore del rischio, così la comunicazione si concentra solo sull’efficacia dell’informazione del rischio. Il destinatario, però, non riesce a fissare in un’immagine qualcosa che per sua stessa natura è virtuale, non attuale, viene così lasciato in una sorta di impotenza ad attrezzarsi rispetto a pericoli annunciati ma non verificabili direttamente. Perché i soggetti raggiungano questa capacità sarebbe necessario individuare precisamente i fattori, le provenienze e soprattutto qualità e quantità del rischio, che nel suo stretto significato è più evanescente di pericolo.
In ogni forma di espressione e di comunicazione l’uomo gioca su certezze e fiducia. La certezza è data dalla consapevolezza ed evidenza con cui noi ci muoviamo, agiamo, parliamo all’interno di contesti comuni. Ciò che è certo non può essere né fondato, né dimostrato, né spiegato, ma solo agito in un ambito di condivisione: modi prelogici, consci e inconsci, che presiedono la comunicazione[5]. Che io abbia due mani è una certezza costruita con l’esperienza nell’uso che faccio delle mani e nella constatazione di uguali comportamenti in altri individui a me simili. Queste certezze proprio perché legate al senso comune non sono esportabili altrove, in quanto la loro evidenza è data dall’uso e dal consolidarsi di abitudini comuni. La certezza è dunque strettamente, quasi territorialmente legata all’esperienza e alla cultura condivise. Là dove il mondo comune risulta costruito sulla comunicazione mediatica, più che sull’esperienza diretta, nel venir meno di qualunque certezza in caso di pericolo, si produce disorientamento che può risolversi tanto nella difesa acritica di vecchie certezze smentite dai fatti, quanto nell’accettazione acritica e totale dei contenuti dell’informazione trasmessa. Giocano a danno di reazioni avvertite, da un lato l’estensione globale del territorio a cui si fa riferimento, dall’altro l’accumulo indiscriminato di informazioni che indebolisce la solidità del senso comune. Si oscilla tra catastrofismo e negazionismo. In entrambi i casi il mezzo della comunicazione non ha più la funzione del mettere a disposizione, per configurarsi come sorta di slogan a cui si risponde con obbedienza o rifiuto. Infatti immettere informazioni senza rispetto dei destinatari – nella completezza e nella trasparenza, come nella considerazione dei contesti culturali e emotivi in cui si colloca – destabilizza, esonerando dalla responsabilità verso gli spostamenti etici o cognitivi prodotti e minando la solidarietà tra scienza e senso comune, tra individuo e individuo. Chi produce e veicola informazioni scientifiche su rischi e salute ambientale risponde sia del potere determinare disorientamento, che del togliere fiducia. In tal senso non è sufficiente informare e comunicare, al di là delle buone intenzioni di chi fa ricerca e analisi, ma è necessario tener conto di quel fondo affettivo, culturale, economico da cui emergono i mittenti e i destinatari della comunicazione, in vista di risposte attente ai contesti di rischio.
Diciamo che se il mondo è la casa degli uomini, lo stato è la casa dei cittadini e la scienza in tutte le sue declinazioni è lo strumento fondamentale per migliorare le condizioni di vita, la questione etica investe spazi e tempi non misurabili semplicemente con l’esperienza di un solo individuo o della comunità presente o di quella più prossima[6].
Rimane nella sua apparente nudità e violenza il comunicato, ciò che si mette a disposizione in cui si stabilisce la gerarchia e l’ordine del messaggio: da una parte stanno l’informazione e l’informatore, dall’altro il destinatario, allertato quando ormai il pericolo è imminente. In questo contesto è la capacità e possibilità di reagire di ognuno a essere messa a rischio, questa volta seriamente, da una sorta di ansia di prestazione rispetto alla semplicità del desiderio di benessere in un contesto di condizioni non controllabili in prima persona. Si finisce per istaurare un gioco tra predatori e prede in cui ciò che viene meno è proprio il mettere a disposizione qualcosa al fine della condivisione di un patrimonio comune. Il destinatario inteso come referente naturale della comunicazione viene catturato in una rete emotiva e cognitiva più simile a una tela di ragno che a un bagaglio di informazioni reali. In definitiva ancora una volta dal punto di vista etico il ricercatore, come le istituzioni e i mezzi di informazione dovranno rendere pubblici, una volta individuati, gli agenti responsabili del rischio e le parti interessate e coinvolte negli studi e nella divulgazione dei fattori di rischio.
4. L’occhio della scienza
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Il primo problema quando si parla di ambiente è proprio legato a questo mettere in comune, cosa significa mettere in comune rispetto a qualcosa che appartiene a tutti? Perché si richiede un supplemento di informazioni, quando il comune – ciò che essendo di tutti è a portata di mano e sotto gli occhi di tutti - è minacciato? Da che cosa nasce il bisogno di informare là dove si parli di ambiente, cosa sfugge all’esperienza comune che la scienza riesce a captare? E’ chiaro che la scienza permette di vedere e prevedere ciò che sfugge nell’esperienza di tutti, dà una sorta di possibilità in più, arrivando a ciò che è lontano, nascosto, virtuale. La scienza è perciò potere, il sapere è potere sia diagnostico, che pratico[7].
Nella vulgata che appartiene a una cultura per così dire inavvertita ancora delle conseguenze determinate dalla industrializzazione, dallo spostamento dalle campagne alle città, dall’uso di sostanze chimiche e nocive, rimane nel senso comune l’ideale di una natura familiare e risorsa inesauribile. Ma già Huxley a metà dell’800 avvertiva dei pericoli di un intervento incauto e eccessivo sulla natura, che inesauribile non è, ma talvolta oltre che matrigna, può diventare vendicativa: non solo si sottrae e rimane indifferente, ma è capace anche di reagire quando viene stimolata oltre misura, quando l’uomo predatore forza i confini e l’equilibrio di un insieme coeso e organico, determinando una sorta di disordine degli elementi[8]. Quando nella comunicazione del rischio ambientale si tace sull’agente di questo deterioramento si omette, o si rimuove, l’elemento scatenante del rischio. Non si tratta di erigere un tribunale – sarebbe del resto difficile trovare un imputato in una vicenda in atto da tanto tempo e che coinvolge una larga parte di abitanti del mondo – quanto di rendere chiaro il problema dell’economia di questo processo secondo la sua specifica articolazione. Se sapere è potere, ogni sapere è carico di una sua responsabilità intervenendo nel corso regolare delle cose. Nasce allora un problema insieme politico, morale e scientifico, quando e nella misura in cui gli effetti di questo potere si rendono visibili incidendo sulla vita di tutti.
Si pensi al caso di Cernobyl, i rischi per il territorio della presenza di una centrale nucleare erano conoscibili e prevedibili, ma sono stati resi noti al momento del disastro, quando il “rischio” dell’incidente si è fatto concreto pericolo. Non si tratta allora di mancanza di preveggenza, piuttosto di mancanza di informazione e di assenza di assunzione di responsabilità rispetto alle possibili e prevedibili ricadute su individui non sufficientemente informati, perciò resi inermi. Certamente tutto questo non è risolvibile nella costruzione di meccanismi di mediazione, consulenza, né tanto meno con riflessioni astrattamente etiche che ancora una volta propongono una sorta di paternalismo cognitivo e decisionale.
Un altro caso recente è la Campania. La valutazione scientifica degli impatti del degrado ambientale, comporta da un lato l’informazione circa l’entità del degrado e la specificazione degli effetti sulla salute pubblica e individuale, dall’altro l’orientamento in vista di una limitazione dei comportamenti rischiosi. Ma come rendere compatibile l’informazione sulle conseguenze negative con la capacità di catalizzare fiducia e incoraggiare comportamenti adeguati, là dove non si alimenti nello stesso tempo la partecipazione dei cittadini alle scelte sull’urbanizzazione, sull’ubicazione delle discariche e degli inceneritori? Come pensare a una comunità in cui prevale uguaglianza, parità di diritti, quando si apre un divario tra potere esecutivo, sapere scientifico e utenza del territorio? La stessa indagine epidemiologica potrebbe essere vissuta come una violenza, là dove non vi sia una precisa consapevolezza non del proprio immediato benessere, ma del legame tra la propria e la pubblica salute, sul quale l’informazione entra solo nell’emergenza del rischio. Ritorna ancora una volta il problema del senso del comune, che viene depotenziato in modelli di salute che insistono sul principio di prestazione, piuttosto che sul senso di equilibrio dell’organismo. Lo stesso ambiente viene vissuto senza la consapevolezza che la terra, l’acqua e il verde non sono elementi estetici, alimentari, ma conservano la memoria di tutto quanto è stato prodotto dall’uomo.
D’altra parte allertare semplicemente con la comunicazione neutrale dei danni, come si fa nel caso del fumo, dell’alcool e della droga, scarica sull’individuo una responsabilità che è sempre legata alle condizioni del mondo in cui viviamo, costruito nel tempo e condiviso da interessi diversi. Come nel caso della legge scaturita da casi di emergenza in cui la decisione è giustificata dalla stessa situazione che ha da essere normata, l’informazione di un rischio ormai costituito e accertato finisce per assolvere dalla responsabilità coloro che hanno contribuito spesso a determinare lo stato delle cose anche attraverso l’omissione o il divieto di informazione al momento dell’emergenza. L’urgenza mette fuori gioco le questioni etiche e politiche, investendo direttamente i destinatari dell’informazione, disconoscendone i diritti già precedentemente violati. Non informare anche nella buona intenzione della difesa della quiete pubblica lede il principio fondamentale della democrazia che è la pubblicità, il diritto all’informazione per tutto ciò che riguarda i membri di una comunità[9].
Vengono meno le forme dello spazio e del tempo dell’esperienza diretta, che sono a monte della comunità di cui la comunicazione è il medio stesso di consolidamento e vitalità. La pubblicità è certamente un principio di democrazia nella misura in cui sia uno strumento di continua limitazione e verifica reciproca in vista del bene generale. Là dove abbia un uso strumentale azzera il dialogo disattivando la capacità/possibilità di strategie adeguate per una vita comune.
[1] M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, tr. it. Il Saggiatore, Milano 1967.
[2] U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, tr. it. Carocci, Roma 2000.
[3] P. Fabbri, Una comunicazione arrischiata: per una semiotica dell’emergenza, in R. Bonito Oliva e A. Trucchio (a cura di), Paura e immaginazione, Mimesis, Milano 2007, pp. 61-73.
[4] Cfr. R. Bonito Oliva, Etica, in A. Valente (a cura di), Immagini di scienza e pratiche di partecipazione, Biblink editori, Roma 2009, pp. 139-141.
[5] Cfr. L. Wittgenstein, Della certezza. L’analisi filosofica del senso comune, tr. it. Einaudi, Torino 1999.
[6] Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità, tr. it. Einaudi, Torino 2002.
[7] Cfr. F. Battaglia, F. Bianchi, L. Cori, Ambiente e salute. Una relazione a rischio, Il pensiero scientifico, Roma 2009.
[8] Cfr. T. H. Huxley, Evoluzione ed etica, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1995.
[9] Cfr. I. Kant, Per la pace perpetua, tr. it. Feltrinelli, Milano 2004.
4L’occhio della scienza